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LA TEORIA DELLA STRANEZZA – recensione di Andrea Cabassi su Giuditta legge

LA TEORIA DELLA STRANEZZA – recensione di Andrea Cabassi su Giuditta legge

La strana Praga della fisica quantistica

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Recensione al libro di Pavla Horàkovà

È indubbio che la letteratura ceca contemporanea goda di ottima salute. Ne siamo informati grazie al meritevole lavoro della casa editrice Miraggi che ha pubblicato e pubblica testi di grande valore. E, sempre grazie a Miraggi, sappiamo che, nella letteratura ceca, gode di ottima salute anche la scrittura al femminile. Basti qui citare i libri di autrici ceche usciti negli ultimi anni per la casa editrice torinese: “Il lago” (2018) e “Mona” (2020) di Bianca Bellovà; “La corsa indiana” (2017) di Tereza Bouckovà; “Bata nella giungla” (2020) di Markéta Pilàtova.

Infine “La teoria della stranezza” (2020) di Pavla Horàkovà  che prenderò, qui, in esame, tradotto da Laura Angeloni, una delle migliori traduttrici dal ceco che abbiamo in Italia.

Pavla Horàkovà è scrittrice, traduttrice, giornalista letteraria e radiofonica. Ha pubblicato una trilogia poliziesca per ragazzi; per quattro anni (dal 2014 al 2018) ha lavorato a un progetto radiofonico che ha avuto come soggetto l’esperienza dei soldati cechi al fronte durante la prima guerra mondiale, progetto da cui sono nati due libri; nel 2018 ha pubblicato la novella “Johana” insieme a Alena Scheinostovà e Zuzana Dostàlovà. Nel 2019, proprio con “La teoria della stranezza” ha vinto il prestigioso premio letterario Magnesia Litera.

Ma di cosa parla “La teoria della stranezza”? Forse è un frusto gioco di parole dire che “La teoria della stranezza” è un libro strano. Comunque non è solo un libro strano. È, soprattutto, un libro molto bello, coinvolgente, che ci induce a riflettere sui limiti della nostra razionalità.

Ada, la narratrice, è una ricercatrice dell’Istituto  di Antropologia Interdisciplinare impegnata in una “strana” ricerca che ha per titolo: “La percezione soggettiva della compatibilità visiva reciproca”. Inoltre è impegnata nell’indagine sulla misteriosa scomparsa del figlio della sua collega Valerie Hauserovà, Kaspar Hauser. È durante questa ricerca che Ada si imbatte in strani fenomeni, in strani eventi che sembrano tutti connessi tra loro e che le fanno concepire una teoria che chiamerà “teoria della stranezza”. In questa sua ricerca Ada utilizzerà la fisica quantistica, la teoria olografica dell’Universo, si interrogherà sul paradosso dei gatti di Schrodinger.

Come si può capire da queste note sulla trama, la fisica quantistica assume un ruolo centrale nel libro. Possiamo allora domandarci, per allargare il discorso, come mai in questo periodo storico escano tanto romanzi che hanno come centro la fisica quantistica e escano tanti libri di divulgazione su di essa. Forse, dopo tanti strumenti teorici che abbiamo utilizzato per decifrare il mondo in cui abitiamo e che si sono rivelati inadeguati, come per fare un esempio, una certa vulgata marxista, siamo alla ricerca di un teoria che ci spieghi il funzionamento dell’universo. Abbiamo l’illusione che la fisica quantistica sia il grimaldello che ci serve allo scopo. Basterebbe, però, leggere i bellissimi libri di divulgazione sulla fisica quantistica di Carlo Rovelli per renderci conto che, sì, la fisica ci può dare la chiave per interpretare alcuni fatti e eventi del mondo che ci circonda, ma che è proprio la fisica quantistica a farci capire come il mondo sia molto più complesso di quanto noi non lo percepiamo.   

Ada lavora nello “strano” Istituto di Antropologia insieme ad alcune colleghe e colleghi: Valerie di cui ho già parlato; Ivan Mrazek, che la intrattiene spesso con le sue “teorie edilizie”; Patrick Svàcek, conformista e arrivista; Honza Mikes che, dopo una bouffée delirante a sfondo paranoico verrà ricoverato in ospedale psichiatrico; la sorella di Mikes, Hana; Ales Drik, strano sperimentatore sul sonno che ha come cavia proprio Ada; il direttore Jirecek.

Tutti loro rappresentano una Praga che non è più quella della Primavera, che non è più quella della Rivoluzione di Velluto. È una Praga dove dominano gli arrivisti, dove domina gente senza più ideali, dove la cosa più importante è arricchirsi, fare carriera. È la Praga del neoliberismo imperante  in cui Ada fatica a trovare una sua dimensione. Non è un caso che, qua e là nel libro, ci siano riferimenti alla storia recente della Cecoslovacchia, poi Repubblica Ceca,  e alla psicologia dei cechi, un po’ come accade nel bel romanzo di Jaroslav Rudis “Grand Hotel” (Miraggi. 2019).  Ne è un esempio la riflessione della madre di Ada che Ada è andata a trovare alla radio praghese per cui lavora, sulla provincialità dei cechi:

“Secondo mia madre la provincialità riflette l’atmosfera generale del nostro paese. Quando eravamo parte dell’impero austro-ungarico l’élite ceca, spesso bilingue e forte di un’educazione internazionale conseguita nelle metropoli europee, interagiva con una grande fetta di Europa e aveva una mente aperta. Ai tempi della Cecoslovacchia, pre e post bellica, operavano ancora persone che avevano viaggiato e si sentivano a loro agio in diverse culture. E pur puntando a un pubblico che ormai spaziava soltanto dalla città di As a quella di Cierna, manteneva comunque uno sguardo periferico anche sul resto del mondo. Con lo smembramento della Cecoslovacchia l’ambito si è ulteriormente ristretto. Come se per dispetto ci fossimo raggomitolati in noi stessi. Nemmeno l’ingresso nella Comunità Europea ha cambiato questa prospettiva” (Pag. 39).

Un altro esempio lo troviamo in un altro brano del libro. Qui Ada riflette sul carattere dei cechi:

“Noi oggi non abbiamo nemici esterni, ma il nostro continuo bisogno che qualcosa accada ci porta a intraprendere guerre nei nostri rapporti personali, oppure contro noi stessi.

È una cosa che i cechi possiedono all’ennesima potenza. Sono talmente tanti anni che non combattono armi in mano contro gli occupanti, che l’impulso frustrato di salvaguardare la propria vita e i propri averi si è trasformato in una malattia autoimmune. Non potendosi più opporre a un invasore esterno, hanno rivolto i loro meccanismi difensivi contro se stessi. Informatori, collaboratori, miliziani, agenti segreti, normalizzatori, Svàcek di ogni tipo. L’energia che dovrebbe essere rivolta verso l’esterno si è riversata all’interno” (Pag. 194-95).

Ho introdotto più sopra la madre di Ada, In effetti, nel libro, ci sono altri personaggi importanti oltre a quelli che gravitano intorno all’Istituto. C’è il padre di Ada, Karel, che avrà un ruolo fondamentale nell’economia del romanzo; c’è la sorella di Ada, Sylvia, primogenita e viziata; c’è il fratello Gregor, persona fuori dagli schemi; c’è Max, amico di Gregor, che avrà una storia con Ada; c’è il cane Bubàk.

Infine c’è Kaspar Hauser. Chi è Kaspar Hauser ne “La teoria della stranezza”? È un personaggio enigmatico, figlio di Valerie, che era stata a scuola con la mamma di Ada. È un personaggio enigmatico che si volatilizza, scompare, ricompare. Incerta la sua identità, non si sa bene cosa egli voglia dalla vita, almeno questo è quanto affermano quelli che lo hanno conosciuto. Pavla Horàkovà non ha scelto questo nome a caso. Sul vero Kaspar Hauser sono stati scritti moltissimi libri e articoli, è stato girato un bellissimo film da Werner Herzog nel 1974. “L’enigma di Kaspar Hauser”. Quando leggiamo non possiamo prescindere da tutto ciò e neppure dai brevi riferimenti storici sul misterioso padre di Kaspar Hauser che la stessa Horàkovà ci dà, per ritornare, poi, al figlio di Valerie:

“Riguardo al padre del trovatello di Norimberga del 1828 furono fatti diversi nomi di nobili, compreso Napoleone Bonaparte. Con chi ha avuti Valerie quel figlio illegittimo? Aveva forse una discendenza aristocratica da parte di padre?” (Pag. 56-57).

Che rapporto intratterrà Ada con Kaspar Hauser? Al lettore scoprirlo.

Questo ulteriore riferimento ad Ada  mi permette di aprire una nuova parentesi: qual è la relazione tra autrice e narratrice? Ada narra in prima persona. A volte pare di cogliere che l’autrice sia la portavoce di Ada, altre che ci sia uno spazio in cui si differenziano e che Ada vada in piena autonomia, quell’Ada così insicura nelle relazioni d’amore, quell’Ada che va da una psicologa, Nora, anche lei un po’ “strana” e non propriamente ortodossa in quanto a setting, quell’Ada spesso depressa, quell’Ada che si scontra con fenomeni strani cha paiono tutti accadere nel distretto di Sumperk, quell’Ada che si rivolge alla fisica quantistica perché la realtà sembra sfuggirle da ogni parte. Pensando a Mikes, ricoverato in ospedale psichiatrico,  guarda un video in cui un certo Dott. Quantum parla della fisica quantistica. La conclusione a cui la ricercatrice arriva è questa:

“L’elettrone si comporta in maniera diversa solo per il fatto di essere osservato. Quando avviene l’osservazione la funzione d’onda collassa. Da ciò si potrebbe dedurre che noi creiamo la realtà attraverso l’osservazione… E così mi convinco  di aver causato io stessa le cose spiacevoli che mi sono accadute nella vita, col semplice atto di osservarle. Tutto esiste e allo stesso tempo non esiste, finché non lo guardo. E ciò dipende dalla mia convinzione pregressa sulla sua esistenza o inesistenza” (Pag. 149-50).

Nella bellissima e drammatica scena della visita al collega Mikes nell’ospedale psichiatrico di Bohnice, fatta con Valerie, confessa alla collega la sua paura di uscire di senno:

“Rifletto sulle situazioni in cui si sovrappongono due possibilità; su tutti i bivi che offrono una soluzione binaria. Dove mi avrebbe portato la vita, se quella volta avessi detto sì, o al contrario no. Al pensiero di tutte quelle biforcazioni mi si annebbia la vista. Confesso a Valerie che ho spesso la sensazione di uscire fuori di senno” (Pag. 255).

Il luogo in cui Ada cerca di chiarirsi, di dipanare i misteri, di svelare eventuali segreti di famiglia è la casa del padre. C’è una pagina in cui cita implicitamente Kant e che ha un afflato lirico che, per certi versi, è struggente. Mentre si legge risuonano in noi le pagine dell’ultimo libro di Carlo Rovelli “Helgoland” (Adelphi. 2020) sulla fisica quantistica, un libro in cui Rovelli sostiene che tutto è connesso, tutto è relazione, che la fisica quantistica è una scienza molto difficile e complessa.

Ancora una volta Ada arriva alla conclusione che tutto è connesso, che tutto è relazione, che noi vediamo le cose partendo dallo spazio e dal tempo in cui osserviamo. E struggente è il riferimento al cane Bubak e a quale potrebbe essere il suo punto di vista in questo mondo fatto di connessioni e relazionalità. Mi si scusi la lunga citazione, ma ne vale la pena:

“Guardo le stelle, poi un camion che passa, e per quanto ci pensi non riesco a decidere quale dei due sia il miracolo più grande. Quale dei due è il più assurdo, il meno probabile, quello che contrasta maggiormente il senso comune, quello che si oppone di più alla logica, qual è la sfrontatezza e impudenza più sfacciata? Il cielo stellato sopra di me, o il Mercedes di fianco a me? Assurda è l’esistenza in quanto tale. Dal punto di vista energetico sarebbe molto meno impegnativo se non esistesse niente. E questo rende la vita ancora più assurda. Tanto inverosimile è l’esistenza di Bubàk, un ammasso di amminoacidi, tanto lo è la mia, un raggruppamento degli stessi composti organici, e in più dotata di coscienza. Gli elementi che sono nei nostri corpi, come quelli utilizzati per la produzione e la trazione dei camion, derivano dall’esplosione delle stesse stelle che baluginano sopra di noi, solo molto più vecchie. Ogni fredda pietra porta con sé un potenziale di rinascita e in fin dei conti di autoconsapevolezza. La materia dispersa torna a unirsi, a ridisporsi, a prendere coscienza di sé, l’universo osserva se stesso  con quadrilioni di occhi, medita su se stesso con miliardi di menti, denomina la realtà in migliaia di lingue, si contempla, inghiotte e rigurgita. Cosa sarà in gradi di vedere Bubàk, seduto accanto a me a osservare concentrato la strada, col suo sguardo bianco e nero? Quali angoli dell’esistenza percepisce, a me invisibili, con quelle orecchie perennemente tese, le narici che vibrano e soffiano? Esistono sincronicamente tantissimi mondi, quelli che ciascuna creatura vede, ognuna per suo conto. E’ questo che si intende per realtà parallele, o universi paralleli? Tutti gli universi che esistono in contemporanea nella consapevolezza degli esseri in grado di percepirli? E cosa risulterebbe se da tutte queste immagini se ne formasse una sola? Quale grandiosa composizione? Forse nessuna, forse tutto collasserebbe sotto il suo peso” (Pag. 285-86).

Qui l’articolo originale:

GRAND HOTEL – recensione di Andrea Cabassi su Giudittalegge

GRAND HOTEL – recensione di Andrea Cabassi su Giudittalegge

L’anima e l’esattezza delle nuvole

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“Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere. La temperatura dell’aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo, e con l’oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi della luna, di Venere, dell’anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell’aria aveva la tensione massima, e l’umidità atmosferica era scarsa. Insomma, con una frase che quantunque un po’ antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d’agosto dell’anno 1913”.

Questo il noto incipit de “L’uomo senza qualità” di Robert Musil (Einaudi 1996. Trad. it.   Anita Rho, Gabriella Benedetti e Laura Castoldi). In questo incipit così preciso e puntuale possiamo  cogliere in filigrana quello che sarà uno dei temi fondamentali dell’opera di Musil: il rapporto tra anima e esattezza. E, a proposito di questo tema, Musil stesso afferma:

“Ogni cosa ha mille lati, ogni lato ha cento rapporti, e a ciascuno di essi sono legati sentimenti diversi. Il cervello umano ha poi fortunatamente diviso le cose, ma le cose hanno diviso il cuore umano” (Op. Cit. Pag. 87).

Come conciliare l’anima con l’esattezza, la poesia con le scienze rigorose, l’umanesimo con la scienza? Può essere conciliabile un ossimoro? Non sarà forse la meteorologia che riuscirà a risolvere la questione? Interrogativi che si sono affollati nelle ma mente alla lettura dell’originale e bel libro di Jaroslav Rudis “Grand Hotel. Un romanzo fra le nuvole”, ottimamente tradotto da Yvonne Raymann e pubblicato da Miraggi nell’ottobre 2019 nella collana dedicata alla letteratura ceca NovàVlna.  Il romanzo era uscito nella Repubblica Ceca nel 2006. Va dato grande  merito a Miraggi di aver dato la possibilità di conoscere questo piccolo gioiello ai lettori italiani. 

Ma chi è Jaroslav Rudis? E’ nato a Turnov nella Repubblica Ceca, distretto di Liberec  nei Sudeti tedeschi. E’ scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, musicista. Ha scritto romanzi, racconti e, insieme al musicista e performer Jaromìr 99, ha dato vita a una popolare trilogia di fumetti, Alois Nebel; ha, inoltre, fondato il gruppo musicale Kafka Band. Scrive sia in ceco sia in tedesco. Ha ricevuto numerosi premi. Nel 2018, alla Fiera del libro di Lipsia, ha ricevuto il Premio delle Case Editrici con la seguente motivazione. “Con ironia e sensibilità per le piccole preoccupazioni quotidiane della gente Jaroslav Rudis ci restituisce una società composta di personaggi eccentrici, spesso vittime di aneddoti tragicomici. Così sono i suoi libri: divertenti, critici, politici, poetici, in poche parole un rock’n’ roll letterario”.

A questo punto il lettore si domanderà cosa c’entri l’incipit di Musil con Rudis. Lo vedremo, ma prima la trama in breve: Fleischmann, di cui si conoscerà il nome di battesimo solo nelle ultime pagine del romanzo, è un giovane trentenne eccentrico, spostato e che ha la passione per la meteorologia. Va periodicamente da una dottoressa per parlare dei suoi problemi. E’ stato rocambolescamente adottato da un lontano cugino, Jégr, dopo che i suoi hanno avuto un grave incidente in auto dove lui era uno dei passeggeri. A causa dell’incidente ha avuto un ricovero in una struttura per “svitati” dove ha sviluppato una sindrome post-traumatica da stress accompagnata da istinti suicidi, insicurezze, malinconie, desiderio di solitudine e difficoltà con le donne. Fleischmann è, come si diceva più sopra, un appassionato di meteorologia. Ascolta le previsioni del tempo quotidianamente, osserva il cielo e le nuvole dal suo osservatorio privilegiato: l’Hotel che si erge verso il cielo in cui lui vive e lavora. Vi vive e lavora insieme al cugino che lo adottato con cui parla di donne e calcio e dal quale viene ritenuto un giovane con molte difficoltà, anche di comprensione. Viene ritenuto incapace di avere relazioni con le donne e incapace di praticare qualsiasi attività sportiva. Quasi l’intero romanzo si svolge nel Grandhotel di Liberec, città della Repubblica Ceca, capoluogo della regione omonima, collocata nei Sudeti tedeschi. E’ lì che Fleischmann incontra lo stravagante Franz, forse un nostalgico del nazismo, incontra Ciuffo ex compagno di scuola, Zuzana,  la cameriera Ilja, una ragazza snella e dai capelli corti che sarà decisiva per lo sviluppo della storia.  Sarà nel Grandhotel che l’anelito di libertà di Fleischmann si farà sempre più forte fino alla conclusione finale che lascio al lettore il piacere di scoprire. Tutti i personaggi del romanzo sono  strambi, fuori dagli schemi, indimenticabili. Anche se richiamano alla memoria alcuni personaggi dei racconti e romanzi di Hrabal, questi personaggi  sono assolutamente originali. Su di essi Rudis ha fatto un lavoro di scavo psicologico molto approfondito.

Si diceva di Musil, della sua ricerca di conciliare anima e esattezza. Fleischmann cerca di farlo  utilizzando la meteorologia, il che rimanda all’incipit de “L’uomo senza qualità”, e una vera e propria fenomenologia delle nuvole:

“L’uragano è un ciclone tropicale. Un vortice di bassa pressione. Venti devastanti. In Giappone lo chiamano tifone. In Australia, invece, willy-willy. Nei Caraibi, uragano. Per formarsi ha bisogno di tre elementi: il calore dell’acqua, aria umida e venti equatoriali convergenti. Ma magari è sufficiente che da qualche parte una mosca batta le ali. O una farfalla. O una zanzara. Oppure che qualcuno saluti con la mano per la strada. Sarà per questo che non saluto mai così, per non provocare una catastrofe con il movimento della mia mano.

Un uragano è una gigantesca lavatrice dell’aria, un’aspirapolvere così potente che forse a volte potrebbe servire a ognuno di noi. Un uragano, però, è forse anch’esso uno stato dell’anima, lo stato dell’anima del clima” (Pag. 16).

E le nuvole assumono anche un aspetto poetico:

“All’inizio di ogni storia e di ogni film c’è il cielo azzurro, l’avete mai notato? Poi, ad un tratto, da chissà dove spuntano le nuvole. Io lo so da dove giungono. Ho fiuto per le nuvole” (Pag.21).

Le nuvole, che possono darci indicazioni precise sul tempo atmosferico, che sono poetiche, possono dare la tranquillità. Fleischmann ricorda i tempi della scuola e quel giorno in cui i suoi compagni di scuola lo legarono ad un albero:

“Ero sul punto di crollare, ma dominai la situazione, come si suol dire. Guardai le nuvole che scorrevano basse sopra la via. Le nuvole che portavano la pioggia del Mare del Nord e a un tratto capii. Intendo dire che capii tutto delle nuvole e anche di me stesso. Mi tranquillizzai. Sapevo che presto  sarebbe cominciato  a  piovere e i ragazzi sarebbero corsi a casa” (Pag. 24-25).

Le nuvole sono indispensabili pre prevedere il tempo, sono poetiche, tranquillizzano e salvano, ma hanno anche un aspetto metafisico:

“Le nuvole mi tranquillizzavano. Le nuvole mi avevano insegnato a perdonare. Le nuvole che stavano lì prima di me, prima di voi, prima dell’hotel a punta sulla nostra collina, prima dei comunisti, prima dei nazisti, prima dei calciatori e dei giocatori di hockey, prima dei ferrovieri, dei dottori e dei becchini, prima dei cantanti. delle attrici e dei robot, prima di tutta la nostra storia. Le nuvole che saranno lì anche quando finirà la storia. E finirà. Lo hanno detto alla televisione” (Pag.26).

 Fleischmann non è mai diventato meteorologo ma:

“Le nuvole però non mi hanno lasciato. Ricordo tutti gli eventi in base alle nuvole, in base al clima, perché dal clima dipende proprio tutto. E quindi registro tutto quanto. La temperatura. La pressione atmosferica.  La direzione e la forza del vento. Le forme e i tipi di nuvole. Le precipitazioni. Proprio tutto ciò che è importante se si vuole conoscere il clima, se si vuole capire da che parte va il mondo. Sulle pareti della mia stanza c’è un enorme grafico, delle linee azzurre, nere e rosse, degli appunti. Questo è il mio mondo. Il mio diario. La mia tabella di marcia” (Pag. 31).

Al lettore può venire il dubbio che il tempo atmosferico sia un surrogato, sia qualcosa che riempie i vuoti dell’anima di Fleischmann. Il lettore condivide  con la dottoressa di Fleischmann questo dubbio:

“La dottoressa dice che tutte le mie nuvole, i venti, le nevi, le piogge, i cicloni, le mappe e i grafici suppliscono a qualcosa di molto più importante, a qualcosa che desidero nel profondo del mio personale infinito, ma che forse non conosco neppure. O che forse conosco già. Ma ho paura di farlo” (Pag.89).

Questo è un aspetto molto importante sul quale tornerò dopo. Qui mi preme sottolineare come nel romanzo sia presente anche la Storia, anche la politica. Ci troviamo davanti alla dimensione politica quando Fleischmann evoca il padre e il  nonno, quando ci narra di quello strambo personaggio che è Franz, che forse è stato nazista, che si è dato la missione – quasi come in un film-  di spargere le ceneri di amici morti nelle loro case d’origine a Liberec.

Liberec è nei Sudeti tedeschi. Dopo l’invasione nazista della Cecoslovacchia quella zona divenne una Gau, unità amministrativa della Germania nazista, e Liberec, che assunse il nome di Reincheberg, ne divenne il capoluogo. Quando la Germania nazista venne sconfitta, il Territorio dei Sudeti venne restituito alla Cecoslovacchia e i tedeschi espulsi. Oggi gli ex territori di lingua tedesca dei Sudeti fanno parte della Repubblica Ceca. Il capoluogo è tornato a chiamarsi Liberec. Nel libro sono adombrati vari riferimenti a queste vicende e non solo quando Fleischmann si associa a Franz nelle sue avventure picaresche e deliranti. Spesso Rudis fornisce il significato in tedesco e in ceco di un nome, sottolinea che in quella zona si parlano il tedesco e il ceco. Un esempio, fra i tanti,  quando Fleischmann parla della cameriera Zuzana:

“Il suo cognome è SladkàDolce in tedesco si dice suss o zuckrigSuss wie Honig vuol dire dolce come il miele dolce riposo si dice eine susse Rast. Ve lo dico perché i nomi non mentono e Zuzana sembra fatta di zucchero, Ma ve lo dico anche perché la nostra è una città ceco-tedesca. O tedesco-ceca, Per questo traduco sempre tutto” (Pag. 90).    

Per quanto concerne il padre, Fleischmann paragona le riunioni a cui partecipava (ma anche su questo punto Rudis riserverà sorprese al lettore) alla sua passione per il tempo atmosferico:

“Spesso prima delle riunioni si chiudeva in bagno dove c’era uno specchio grande. La mamma diceva che davanti allo specchio provava i discorsi, ma secondo me chiacchierava normalmente tra sé e sé, come capita a tutti quando si è soli, anche a me.

Può darsi che la solitudine sia l’unica qualità che ho ereditato da lui. Sempre che la solitudine possa essere una qualità, ma io penso di sì, anche la mia dottoressa si limita a scuotere la testa: non ci vedo niente di male se a qualcuno nella vita bastano le riunioni. A me basta il tempo atmosferico. Alla fin fine anche il tempo atmosferico è simile a una riunione, a volte tranquillo, a volte burrascoso, e una riunione importante è un incessante incontro di nuvole, lampi, pioggia, venti, pressioni, temperature, tutto ciò che influenza, rovina e salva la vita. La vostra e la mia” (Pag. 35-36).

Per quanto concerne il nonno, Fleischmann racconta alla dottoressa che il 21 agosto 1968, giorno dell’invasione russa della Cecoslovacchia, il nonno e la nonna erano andati a vedere i carri armati “con le righe bianche”. Il nonno aveva acceso una sigaretta “Partyzàn” e minacciato i carri armati a pugni chiuso e aveva ridotto in pezzi il suo libretto Rosso. Mentre la nonna lo portava via lui era scivolato ed era finito sotto un carro armato. Racconta  ancora Fleischmann alla dottoressa:

“Raccontai alla mia dottoressa  che mio papà mi aveva vietato di parlare di carri armati a strisce, di libretti rossi fatti a pezzi e del nonno, che era arrabbiato con la mamma e con la nonna per avermelo raccontato e che in ogni caso era stato un errore del nonno, mettersi davanti ai carri armati, non sarebbe venuto in mente a nessuna persona normale, le raccontai che il nonno non era affatto un partigiano sebbene fumasse le Partyzàn, era un provocatore e un sabotatore, e da quello non prende il nome nessuna sigaretta perché i sabotatori non sono mai molto popolari” (Pag. 129-30).

Dai brani riportati più sopra si può ben capire come siano molto presenti a Jaroslav Rudis le tematiche riguardanti i Sudeti e quelle concernenti la Primavera di Praga e la normalizzazione. Un contesto da non dimenticare mentre si legge.

Si diceva più sopra che le nuvole hanno un significato metaforico. C’è uno slittamento progressivo di senso: le nuvole sono poesia, sono l’esattezza con cui si può prevedere il tempo, sono la metafisica perché esse erano prima di noi, infine diventano la metafora della libertà. Le nuvole sono la leggerezza, la navigazione verso l’Altrove, rappresentano il superamento di ogni confine. E questo è molto importante perché una delle difficoltà di Fleischmann, forse la più grande, è quella di non riuscire a superare il confine, un confine il cui passaggio sembra interdetto, malgrado l’aiuto della dottoressa che lo accompagna fino la cartello che indica la fine della città:

“Ma all’improvviso cambiò tutto, ci avvicinammo al cartello che indicava la fine della nostra città e l’inizio del mondo e cominciò a palpitarmi il cuore, mi si strinse la gola e sulla lingua avvertii il gusto piccante del mio personale infinito, tutte le mie paure. Cominciai a sudare e a soffocare e dovetti uscire perché, mi era chiaro che se l’avessi oltrepassato non sarei più tornato indietro. Mi sarei perso. Sarei morto.

Il conducente lo fece appena in tempo. Aprì le porte, io saltai fuori e mi buttai sulla strada proprio sotto al cartello con la scritta barrata della nostra città, i passeggeri uscirono in massa, si chinarono verso di me, volevano prendersi un pezzo della mia paura, come in modo indolore ne strappano ogni giorno dagli incidenti alla televisione, ma la dottoressa li tranquillizzò, disse loro che non stavo morendo, che era tutto a posto, che non mi era successo niente, che avevo avuto solo un attacco di panico, una normalissima crisi d’ansia e niente di più, ma come me, anche lei sapeva bene che non si trattava solo di questo, che era molto di più” (Pag. 162).

E’ molto di più perché si tratta di emancipazione e di libertà. Ce la farà Fleischmann, dopo questa esperienza, a superare quella linea di confine che gli sembra interdetta? Riuscirà a essere come le nuvole, a essere come il vento?

A conclusione mi si conceda un ricordo personale. Anni fa ero in vacanza con alcuni amici in quella che era ancora la Cecoslovacchia. Uno di loro mi confidò che aveva avuto, in alcuni momenti della nostra permanenza là, dei veri e propri attacchi di claustrofobia. Aggiunse che, a suo avviso, uno dei grossi problemi dell’Europa Centrale era che non c’era il mare che l’avrebbe ossigenata come avrebbe ossigenato lui. Che se ci fosse stato il mare l’ anelito alla libertà di quei popoli sarebbe stato molto più grande.

E il ricordo personale si mischia, oggi, a quello che la dottoressa dice a Fleischmann:

“(La dottoressa) dice che il nostro popolo non fa male a nessuno, ma che in fin dei conti non ci importa se qualcuno fa del male a noi. La mia dottoressa pensa che a noi manchi il mare e l’aria fresca. Oppure delle vere montagne con dei bei panorami. Che noi siamo bloccati in una conca, dove di noi si possono vedere solo i capelli. E che per questo siamo un popolo così introverso. E chiuso in stesso. E angosciato” (Pag. 158).

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

L’IMPERATORE DI ATLANTIDE – recensione di Andrea Cabassi su Giuditta legge

L’IMPERATORE DI ATLANTIDE – recensione di Andrea Cabassi su Giuditta legge

di Andrea Cabassi

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SOLO SOPITO È IL FUOCO, NON ESTINTO!

Recensione al libro di Victor Ullmann e Petr Kien

con la cura di Enrico Pastore

L’imperatore di Atlantide (Miraggi)

Jacques Austerlitz, il protagonista del romanzo di Sebald “Austerlitz” (Adelphi. 2002) e uomo alla ricerca delle sue origine parla al suo interlocutore in questo modo del  viaggio che lo ha portato a Theresienstadt (Terezin) e delle sue impressioni:

“La cosa più sorprendente in quel luogo, e di cui a tutt’oggi non riesco a capacitarmi, disse Austerlitz, fu per me sin dall’inizio il suo vuoto. Sapevo da Vera che, ormai da parecchi anni, Terezin era di nuovo un comune a tutti gli effetti, e nondimeno passò quasi un quarto d’ora prima che, giunto dall’altra parte dell’isolato, vedessi finalmente una persona, una figura curva in avanti, la quale procedeva con infinita lentezza appoggiandosi a un bastone, e tuttavia mi bastò distoglierne per un attimo lo sguardo perché svanisse all’istante. Per il resto, nel corso dell’intera mattinata, non incontrai nessuno lungo le strade diritte e deserte di Terezin, tranne uno squilibrato con l’abito lacero, nel quale mi imbattei sotto i tigli nel parco della fontana; in preda a grande agitazione, questi mi raccontò non so che storia in una specie di tedesco farfugliato, prima di sparire anche lui come inghiottito dal terreno, mentre si allontanava a balzelloni con in mano la banconota da cento corone che gli avevo dato” (Pag. 204).

Terezin, una città fantasma e con presenze spettrali. Continua Austerlitz:

“Non riuscivo a immaginare, disse Austerlitz, chi – o se in generale qualcuno – potesse mai vivere in quei desolati edifici, benché, d’altra parte, mi fosse balzato all’occhio, che nei cortili interni c’era un gran numero di bidoni per la cenere, numerati in rosso alla bell’e meglio e disposti lungo un muro, Particolarmente inquietanti mi parvero però le porte e i portoni di Terezin, che sbarravano tutti l’accesso, come credetti di avvertire, a una oscurità non ancora violata, nella quale – così pensai, disse Austerlitz – nulla più si muoveva tranne l’intonaco che si sfalda dalle pareti e i ragni che secernono i loro fili, corrono sulle assi con le loro zampette veloci veloci o restano sospesi alle tele in fiduciosa attesa” (Pag.204-207).

Il testo, come accade sempre nei libri di Sebald, è accompagnato da foto inquietanti e che rendono bene lo spaesamento del protagonista che prosegue nel suo percorso fino ad arrivare al Museo dove trova la custode di età indefinibile che lavora all’uncinetto:

“Alla mia domanda, se quel giorno fossi l’unico visitatore, rispose che il museo era stato aperto di recente e perciò da fuori venivano in pochi, soprattutto in quella stagione e con quel tempo. Quanto agli abitanti di Theresienstadt, non ci vengono comunque, disse, e riprese in mano il fazzoletto bianco che stava orlando con degli occhielli a forma di petalo” (Pag. 213).

Austerlitz, poi, si sofferma  davanti ai vari pannelli:

“… ho fissato le riproduzioni fotografiche, ma non volevo credere ai miei occhi e ripetutamente ho dovuto distogliere lo sguardo e volgerlo, attraverso una delle finestre, al giardino retrostante – per la prima volta messo di fronte alla storia della persecuzione che il mio sistema difensivo aveva così a lungo tenuto lontano da me, storia che ora, in quella casa, mi circondava da ogni parte” (Pag. 213-14).

Ed è qui, in questo luogo, che le storie tragiche delle persone si incontrano con la tragicità della Storia.

La ricerca di Austerlitz non si ferma qui:

“ … l’età media di coloro che erano stati trasferiti nel ghetto dal territorio del Reich superava i settant’anni e, per di più, a queste persone, prima di deportarle, si era fatto credere che sarebbero andate a soggiornare in una piacevole stazione climatica boema di nome Theresienbad, con bei giardini, passeggiate, pensioni  ville, in molti casi, poi, costringendole o convincendole, con l’inganno a firmare contratti per l’acquisto in ricoveri per anziani, di alloggi dal valore nominale di anche ottantamila marchi: a seguito di queste illusioni, subdolamente fatte sorgere in loro, tali persone erano giunte a Theresienstadt con un corredo assolutamente inadeguato, con indosso gli abiti migliori e, come bagaglio, ogni sorta di oggetti e ricordi inutilizzabili nel lager…” (Pag. 255-256).

Austerlitz cita poi, sempre narrando al suo interlocutore, la terribile “Opera di abbellimento” del lager:

“… all’inizio del nuovo anno fu intrapresa in prospettiva della visita di una commissione della Croce rossa, prevista per l’inizio dell’estate del 1944 e considerata dalle alte gerarchie del Reich come un’ottima chance per dissimulare la realtà delle deportazioni – la cosiddetta Opera di abbellimento, nel corso della quale gli abitanti del ghetto dovettero porre mano a un grandioso programma di restauro sotto il comando delle SS: si crearono spazi erbosi, viottoli adatti al passaggio e, nel cimitero, un settore destinato alle urne e un colombario; si collocarono panchine per la sosta, segnavia abbelliti alla maniera tedesca con divertenti intagli e ornati floreali, si piantarono oltre mille rosai, si attrezzarono un asilo nido e una scuola materna dalle gradevoli decorazioni, provvista di spazi  in cui giocare con la sabbia, di una piccola piscina e di giostre; … e adesso c’erano perfino una biblioteca circolante, una palestra, un ufficio postale, una banca in cui la stanza del direttore era dotata di una specie di scrivania da stratega… e – dopo che si era pensato bene di spedire verso est settemilacinquecento persone tra le meno presentabili con lo scopo per così dire di sfrondare le presenze – Theresienstadt si trasformò in un Eldorado di cartapesta, che forse riuscì a persino a incantare qualcuno dei suoi abitanti o addirittura a infondergli qualche speranza”. (Pag. 259-60).

Sostiene Austerlitz che perfino la commissione della Croce Rossa, composta da due danesi e uno svizzero fu ingannata. Fu girato anche un film di cui Austerlitz cerca le tracce. Si tratta del film noto come “Il Führer regala una città agli ebrei” di  Kurt Gerron le cui bobine sono andate quasi interamente perdute, ne esiste solo qualche stralcio. Kurt Gerron fu  l’artista autore di Karoussel, un’ opera di cabaret scritta mentre era internato a Terezin. Girò “Il Führer regala una città agli ebrei” sperando, forse, di aver salva la vita. Disperato e inutile tentativo perché morì ad Auschwitz il 15 novembre 1944.

“Per mesi, così disse Austerlitz, ho cercato qualche traccia di questo film all’Imperial Museum e anche altrove… “ (Pag.261).

Una volta trovato il film, Austerlitz descrive quello che vede, quello che crede di vedere, quello che immagina di vedere tra cui l’esecuzione di veri e propri concerti sinfonici.

La descrizione di Sebald, uno dei più grandi scrittori europei del secondo novecento, del lager di Terezin è una descrizione emozionata, partecipata, impregnata di una grande tensione etica. Limperatore-di-AtlantideIl riferimento ai concerti sinfonici mi dà lo spunto per introdurre il libro che qui si vuole presentare. Si tratta di un documento di grande importanza e di un libro straordinario: “L’imperatore di Atlantide” edito da Miraggi (Miraggi 2019) che ha già pubblicato autori in lingua ceca e significativi narratori italiani. Nel libro possiamo trovare il libretto dell’opera “L’imperatore di Atlantide” composto a Terezin da un musicista e un poeta di origini ebraiche: Victor Ullmann e Petr Kien. Con testo a fronte e ottimamente tradotto da Isabella Amico di Meane. Possiamo trovare un’ampia e approfondita premessa di Enrico Pastore che ha curato il testo. Enrico Pastore è regista teatrale e direttore della compagnia DAF, fondata nel 1998 ed è stato direttore operativo degli Incontri Cinematografici di Stresa dal 2006 al 2011. Nel libro possiamo trovare, ancora, una guida all’ascolto, in realtà un prezioso saggio, di  Marida Rizzuti, musicologa che ha pubblicato testi sui musical di Kurt Weill, sulla musica nel cinema e nel teatro yiddish e che collabora con l’Università IULM di Milano e l’Università di Torino.

Come è citato da Sebald e come si può ritrovare nella bella premessa di Pastore, le rappresentazioni teatrali, i concerti erano parte integrante dell’Opera di abbellimento a cui avevano posto mano i nazisti ai fini di propaganda.

Ma chi erano Victor Ullmann e Petr Kien? Scrive Enrico Pastore:

“Victor Ullmann fu musicista, compositore, direttore d’orchestra e critico musicale di notevole spessore; Petr Kien pittore, poeta e drammaturgo” (Pag. 37).

Ullmann era nato in Slesia nel 1898, era uno degli allievi prediletti di Arnold Schonberg. Al momento del suo internamento, avvenuto l’8 settembre 1942, con la moglie, era già un compositore di discreta fama internazionale.

Petr Kien era nato a Vansdorf,  in Boemia, nel 1919, aveva studiato all’Accademia delle Belle Arti di Praga, ma aveva dovuto interrompere gli studi a causa delle leggi razziali. Fu internato il 5 dicembre 1942.

Musica e libretto furono composti nel ghetto e la prova generale dell’opera avvenne tra il 12 e il 18 settembre 1944. Ci sono voci discordanti se sia mai stata rappresentata a Terezin. Di sicuro dovette esserci un qualche intervento della censura nazista visto il significato di libertà che trapela ad ogni riga del libretto.

Si tratta di un atto unico, quattro quadri, sette personaggi: il Kaiser, l’Altoparlante, Arlecchino, la Morte, il Soldato, Bubikof, il Tamburo e con un organico che prevedeva, secondo quanto scrive nella sua bella e utilissima guida all’ascolto Marida Rizzuti:

“nei fiati: flauto (anche piccolo), un oboe e un clarinetto in Si bemolle, un sassofono alto in Mi bemolle, una tromba in Do; un banjo tenore, che raddoppia la chitarra, un cembalo che raddoppia il pianoforte; nelle percussioni: triangolo, tamtam, tamburino, i cimbali, un quartetto d’archi e un contrabbasso”(Pag. 122).

Come sottolinea Marida Rizzuti la struttura dell’opera ricorda da una parte la Zeitopera (opera di attualità) e dall’altra il Lehrstuck (dramma didattico) molto caro a Bertolt Brecht e a Kurt Weill, forma teatrale e artistica  molto in voga durante la Repubblica di Weimar.

Significativo il titolo che riprende il mito di Atlantide. Quel mito che si ritrova nei dialoghi di Platone Crizia e Timeo: Atlantide è un’isola oltre le Colonne d’Ercole. La stirpe reale di origine divina che regna si fa corrompere dalla natura umana La brama di possesso avvelena la vita degli atlantidei e la punizione degli dei non tarda ad arrivare: una terribile catastrofe si abbatte sull’isola che viene inghiottita dal mare. Si è voluto vedere nelle popolazioni germaniche una discendenza diretta da Atlantide e questa credenza aveva attecchito e messo radici profonde nel Partito Nazista tanto da diventare uno dei miti fondativi dell’ideologia nazista. Anche un altro autore, lontano dall’estrema destra razzista, si era molto interessato ad Atlantide: Rudolf Steiner, fondatore della Società Antroposofica e di cui furono seguaci sia Schonberg, sia Ullmann. E, forse, Steiner, è una delle fonti di Ullmann. Nel libretto il mito ritorna alle origini platoniche: il Kaiser Overall domina una società prima virtuosa, poi corrotta e la guerra di tutti contro tutti porta alla rovina. Perfino la Morte si ribella e non vuole più essere manipolata dal Kaiser. Scrive Pastore:

“Ullmann e Kien hanno voluto opporre alla visione nazista di un impero millenario generato dai discendenti ariani e atlantidei, una visione più vicina a quella di Platone, di un regno corrotto, snaturato, destinato a cadere e inabissarsi in una notte e un giorno” (Pag. 77).

Perfino la Morte, in questa versione del mito, si ribella e non vuole più essere manipolata dal Kaiser. I duetti tra Arlecchino e la Morte, la loro presenza sulla scena non possono non farci tornare alla mente l’allegoria medievale e quella barocca, quell’allegoria a cui dedicò molte ricerche Walter Benjamin che confluirono nella sua opera “Le origini del dramma barocco tedesco”  (Carocci. 2018).

Esistono due versioni del finale. Scrive Pastore:

“Una prima versione presenta il testo di Petr Kien che inizia con le parole ‘Das Krieg is aus’ (‘la guerra è finita’). Le parole di Kien, benché cantino la fine della guerra, lasciano intendere che il ciclo di distruzione tornerà un giorno. ‘Solo sopito è il fuoco, non estinto!’ dice Overall, prima di abbandonarsi al potere della Morte’.

La seconda versione, datata 13 gennaio 1944, benché sia quasi identica a livello musicale, presenta un testo poetico tratto da Tantalos di Felix Baum ed è titolata Des Kaisers Abschied (L’Addio dell’Imperatore). Il testo fu utilizzato in precedenza da Ullmann in una perduta Symphonischen Phantasie risalente al 1925. I toni sono più sereni e ottimistici rispetto a quelli più cupi e negativi di Kien. Anche la versione  dattiloscritta del libretto presenta questa seconda versione” (Pag. 97).

E poco più avanti:

“I due finali possono segnalare che i due autori avessero concezioni differenti. Ullmann, da antroposofo, tendeva ad avere una visione più ottimistica della vita e del futuro della storia umana rispetto a Kien, che, a quanto dato sapere, non aveva orientamenti religiosi o filosofici predominanti” (Pag.  97-98),

Consiglio di ascoltare l’opera  e di seguire contemporaneamente il libretto. Consiglio di ascoltare l’esecuzione della Gewandhausorchester di Lipsia diretta da Lothar Zagrosek e pubblicata dalla Decca dove si possono ascoltare e apprezzare entrambi i finali, esecuzione reperibile anche su Youtube.

Mentre si ascolta l’opera si pensa immediatamente e costantemente alle condizioni e al luogo in cui essa fu composta. Un’impressione che non ci abbandona fino alla fine.

Se entriamo nel dettaglio affiorano le influenze di altri musicisti. In primis Schonberg di cui Ullmann fu allievo. Sia per i riferimenti alla luna che non possono non farci ricordare il Pierrot Lunaire, sia per le reminiscenze atonali e seriali che compaiono già dalle prime battute. In secondo luogo Mahler con una citazione, come fa giustamente notare Enrico Pastore, dal Das Lied  von der Erde. Su Mahler vorrei soffermarmi un istante. Non si tratta solo di citazioni, ma anche della struttura dell’opera. Mahler si trovò, ad un certo punto della sua vita artistica, in difficoltà con la forma sinfonica della sua epoca. Era come se gli stesse stretta. Per allargarne le maglie inserì marcette, musica popolare, accordi che apriranno la strada alla dodecafonia. Nella stessa epoca Robert Musil fece quasi la stessa cosa in campo letterario, erodendo dall’interno la forma romanzo con “L’uomo senza qualità” che divenne, non a caso un romanzo interminabile.

Ritornando a Ullmann, anche nel “L’ Imperatore di Atlantide” ci sono citazioni, ci sono riprese da motivi popolari, c’è Suk, c’è Dvorak, c’è il canto corale luterano, c’è  il Jazz, c’è tutta quella musica che fu definita dai nazisti “degenerata” perché, come fa notare giustamente Pastore:

“L’Imperatore di Atlantide venne concepito fin dall’inizio come un atto politico di resistenza e tale intento si esplica in ogni fase della creazione a partire dalla scelta delle parti e dei collaboratori provenienti dalle diverse comunità nazionali presenti nel ghetto. Un messaggio di unità nella diversità, un superamento delle divisioni alimentate dalla politica nazista nella gestione del ghetto” (Pag. 109).

Prima di partire per Auschwitz Ullmann lasciò le sue partiture a Emil Utitz, direttore della Biblioteca di Terezin perché le consegnasse al professor Hans Gunther Adler. Sia Utitz sia Adler sopravvissero ai campi di sterminio e così le partiture sono arrivate sino a noi. Ed è stata una grande fortuna perché se, come scrive con angoscia Paul Celan in “Aureola di cenere”,

“Nessuno/Testimonia per il/Testimone” ci troveremmo avvolti dalle nebbie dell’oblio e le tenebre di una Storia inabissata.

Utitz e Adler hanno testimoniato per il testimone. Tocca a noi adesso perché “solo sopito è il fuoco, non estinto!” Monito di cui dobbiamo fare tesoro in un’epoca che tende all’oblio, in un epoca in cui i valori di umanità, solidarietà fratellanza sono messi costantemente a repentaglio e, troppo spesso, negati.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Lo Scaffale di Andrea: L’imperatore di Atlantide