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AUTISMI di Giacomo Sartori citato su Il Dolomiti

AUTISMI di Giacomo Sartori citato su Il Dolomiti

Da ”Tritolo” a ”Sono Dio”, storia di un grande romanziere trentino per anni ignorato in provincia e finalmente riscoperto

Mentre lo strapaese catto-moderato nostrano non cessava di snobbarne la produzione, forse anche a causa del continuo passaggio da un editore medio-piccolo all’altro – la provincia ha sempre un debole per i riflettori altrui, il prestigio sancito, il successo di massa –, Sartori ha continuato a scandagliare le sue e nostre ferite aperte, fra storia collettiva ed esistenza individuale

Dal blog di Il Lanternino – 17 luglio 2019

 

Mi ha quasi stupito, il 26 giugno scorso, trovare una pagina del meno strapaesano fra i quotidiani cartacei locali dedicata a Giacomo Sartori. Quasi, poiché comunque, rispetto a cinque, dieci o quindici fa, quando in Trentino s’ignoravano volentieri i romanzi di Sartori che, duri e drammatici, del territorio svelavano i lati più oscuri e inconfessati, pare che finalmente anche la sua terra d’origine si sia decisa finalmente a riconoscerne la statura. Pochi giorni dopo quell’intervista a tutta pagina per la rubrica “trentini dal mondo” – Sartori vive da molti anni a Parigi e torna a Trento poche volte l’anno – Rai Radio Uno del Trentino ha inaugurato un ciclo di puntate in cui Mario Cagol legge alcuni Autismi, i racconti comici di Sartori apparsi in volume l’anno scorso per Miraggi edizioni di Torino. Molto bene.

 

 

Il fatto è che Sartori uno scrittore degno di nota lo è sempre stato, fin dall’esordio romanzesco di Tritolo nel 1999, e quando nel 2005 apparve per Sironi quel confronto senza sconti con il fascismo di un padre morente che è Anatomia della battaglia, il Seminario Internazionale sul Romanzo che con un paio di colleghi avevamo da poco fondato all’Università di Trento non esitò a invitarlo a parlare della propria poetica. Peccato fosse un pubblico di soli specialisti. Da allora, mentre lo strapaese catto-moderato nostrano non cessava di snobbarne la produzione, forse anche a causa del continuo passaggio da un editore medio-piccolo all’altro – la provincia ha sempre un debole per i riflettori altrui, il prestigio sancito, il successo di massa –, Sartori ha continuato a scandagliare le sue e nostre ferite aperte, fra storia collettiva ed esistenza individuale, saggiando temi e forme e, nel frattempo, maturando.

 

Ad oggi il punto d’arrivo e di equilibrio di questo percorso è il romanzo Sono Dio (apparso nel 2016 per NN, ne ho scritto ampiamente qui), uscito da qualche mese in traduzione inglese, recensito con approvazione dalla critica statunitense e di prossima pubblicazione anche in Germania: va da sé che, giunti a questo punto, continuare a ignorarlo sarebbe stata una miopia preoccupante. La penna di Sartori, tuttavia, non si è fermata lì e, mentre i lettori più fedeli stanno già aspettando la prossima opera narrativa, questa primavera è uscito per Arcipelago Itaca di Ancona, con postfazione dell’amica e sodale Helena Janeczek con cui Sartori condivide da anni l’esperienza on line di Nazione indiana, un piccolo gioiello in versi: s’intitola Mater amena e non è una raccolta di poesie, ma di “proesie”, come l’autore le ha battezzate.

 

Non è una boutade: Sartori sullo stile ha sempre lavorato di sottrazione e, confrontandosi con la forma lirica, deve aver capito fin da subito che la sua strada non era quella musicale e preziosista della tradizione, optando così per un dettato prosaico e quotidiano che pure riesce a trarre dalla versificazione, dalle sue pause e dai parallelismi, un’espressività compiuta. Ebbene, se in Anatomia della battaglia è con il fascismo del padre che Sartori faceva i conti, e con le sue ricadute sulla deriva ideologica del figlio progressista, questo è invece il ritratto dolente, in cui l’autore in parte e suo malgrado si rispecchia, di una madre non meno segnata da quei tratti temperamentali – anaffettività, autodisciplina, vitalismo – che già in precedenza si presentavano come i risvolti esistenziali, radicati nella personalità e nella condotta quotidiana, di un’educazione autoritaria. Bastano due distici: “aborrivi i contatti / tra i corpi” o, con le parole basiche della stessa madre: “sono così vecchia / come faccio”.

 

È brava Helena Janeczek a cogliere nella postfazione il colpo da maestro attuato da Sartori in questo libro: “L’intuizione formidabile e lancinante di Sartori sta nel far rimare ‘narcisismo’ e ‘fascismo’. […] Non la contestazione studentesca, ma la premessa nell’epoca [il ventennio, nda] che ha forgiato persino la madre nel disprezzo dell’empatia e della debolezza, ha consegnato il figlio a una mancanza originaria”. Sartori ci offre insomma, attraverso una vicenda personale, lo specchio di ciò che tutti ancora ci portiamo dentro, in latenza, tara e impulso ad un tempo: il rischio, a ogni gesto e parola, di abdicare al nostro meglio, a quella dotazione naturale dell’umano che fa bene a noi stessi e a chi amiamo.

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.ildolomiti.it/blog/il-lanternino/da-tritolo-a-sono-dio-storia-di-un-grande-romanziere-trentino-per-anni-ignorato-in-provincia-e-finalmente-riscoperto

“Autismi”: la recensione di Luigi Preziosi su vibrisse.wordpress.com

“Autismi”: la recensione di Luigi Preziosi su vibrisse.wordpress.com

Luigi Preziosi

Autismi di Giacomo Sartori potrebbe essere preso come esempio della non del tutto serena relazione tra pubblicazione via web e pubblicazione cartacea, oggetto di tante dissertazioni in materia che ormai da una ventina d’anni occupano i siti letterari. Sarebbe facile pensare che una raccolta di racconti in volume pubblicati in prima versione su una delle riviste on line più autorevoli tra quelle in circolazione possa incontrare un largo favore ed una altrettanto ampia diffusione. Diversa la storia di questi racconti. Usciti dal 2008 al 2010 su Nazione indiana, di cui l’autore è tra gli esponenti più autorevoli (e più appartati), sono stati antologizzati a fine 2010, quando, come si legge nella Nota dell’autore, “un microeditore ha stampato centotredici eleganti copie della versione rivista della raccolta, che non sono mai arrivate in libreria, forse perché si sentivano incomprese e sole.”
Per contro, il volume è stato finalista al premio Settembrini, e alcuni dei testi hanno trovato la fortuna che meritano in forma di monologo teatrale o grazie a traduzioni su riviste americane e francesi. Finalmente, qualche mese fa Autismi compare in libreria, per merito di Miraggi editore.
Ma che cos’è Autismi? Una raccolta, pregevole per intensità espressiva e densità concettuale, composta da sedici episodi correlati per formare altrettante tappe di un percorso di esplorazione e di descrizione del mondo di un unico personaggio, che si intuisce avere parecchio in comune con l’autore: una prova di autofiction (la lunga permanenza dell’autore in Francia può avere a che fare con questa scelta narrativa) per frammenti, che danno conto di un io coerente, per quanto strambo possa apparire.
Significativa del genere di autofiction che l’autore ha in mente è del resto la citazione da Marguerite Duras posta ad esergo del libro, in cui la scrittura è avvicinata a “un altro individuo che fa apparizione e avanza, invisibile, dotato di pensiero, di collere, e che qualche volta con i suoi maneggi si mette in pericolo, anche di morte”. Sartori oggettivizza l’altro se stesso che opera nel libro, lo rende autonomo, facendone un altro da sé, di cui però conosce i pensieri, le impressioni e le ossessioni più riposte.
L’autismo del protagonista si esprime con un desidero di inapparenza periodicamente ritornante, una tendenza al confinamento di sé, al nascondimento, come si desume dai testi iniziale e finale della raccolta. ”Il mio lavoro consiste nel fare buche nella terra. Buche grandi e profonde, in cui ci entra comodamente una persona. Poi appunto ci entro dentro. Mi ci seppellisco, si potrebbe dire”: questo l’incipit del primo racconto (Il mio lavoro), mentre si direbbe non casuale che l’ultimo testo sia Il mio testamento biologico. Il senso di chiusura che percorre almeno parte, se non tutti, i racconti genera a tratti effetti claustrofobici, già esplorati dall’autore in alcuni suoi romanzi, come Sacrificio (Italic e Pequod, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011) e Rogo (Cartacanta2015). Il campo di analisi è però qui diverso da tutti gli altri precedenti: la patologia è più esistenziale che fisica, l’inquietudine si manifesta nel martellante arrovellarsi del protagonista su questioni apparentemente minime, ma capaci di dilatarsi progressivamente sino a saturarne la coscienza.
A volte la materia dell’ossessione tende a superare i confini della ordinaria narrabilità, almeno quella misurabile in un contesto di decoro borghese (che l’autore, nonostante l’eleganza della scrittura, o forse, in deliberato contrasto con questa, non pare voler rispettare). E’ il caso delle vicende raccontate in Il mio organo di riproduzione, in cui il membro dell’io narrante pare vivere di vita propria, acquisendo lo statuto di protagonista di un particolare tipo di scissura della personalità (echi del moraviano Io e lui?). La mia cacca è altrettanto intenzionalmente anticonvenzionale. Il protagonista constata con stralunato stupore che l’umanità nel corso di millenni di evoluzione, non ha affrontato né tanto meno risolto il problema della pessima qualità dei propri escrementi, non essendo riuscita “a creare una cacca di qualità omogenea, puntuale e affidabile, e di odore sopportabile, se non proprio profumata”. Inizia uno studio meticolosamente condotto, al termine del quale ha modo di capire che l’uomo “è un lunghissimo tubo digerente, al quale l’evoluzione ha attaccato le gambe, indispensabili per la locomozione, le braccia, utilissime per procacciare il cibo e avvicinarlo alla bocca, e gli altri organi che servono a far funzionare il lungo budello digerente, assicurandogli tra le altre cose la riproducibilità nel tempo.”
L’egocentrismo che pare filtrare la percezione del mondo dell’io narrante non si limita ovviamente agli aspetti più materici dell’esistenza, ma abbraccia con eguale acribia anche le relazioni umane e si sentimenti che suscitano le diverse condizioni esistenziali. Investe così i rapporti familiari, dei quali il protagonista insiste a ricercare le crepe, anche quando si abbandona a riflessioni esistenziali depurate da quella sovrabbondanza di cinismo, che altrove si dimostra straordinariamente efficace per reggere la narrazione sul filo sottile del paradosso. E’ il caso di Mio figlio, in cui la descrizione di un figlio amato, ma in certo senso costantemente distante, sfocia in una rivelazione finale da non anticiparsi al lettore, in cui si leggono riflessioni come questa: “I figli servono ai genitori per capire se stessi. Guardandosi riflessi nelle loro pupille dove sfavillano scintille di amore ma anche di odio capiscono che non sono come hanno sempre creduto di essere, o che comunque possono essere visti in maniera radicalmente diversa. Il che apre pur sempre un deleterio varco. Si rendono soprattutto conto che il mondo è già intrinsecamente diverso da come sono abituati a pensarlo, e che in altre parole sono già vecchi. Non occorrono le frasi, bastano gli occhi. Tramite mio figlio ho avuto per la prima volta la certezza che ho fallito: una cognizione cristallina, un cancro inoperabile.”
Altrove, come in Mia sorella, il racconto della relazione familiare si fa più duro, svela quasi subito una ferocia che solo il più vieto senso del rispetto borghese delle forme riesce a contenere, salvo deflagrare all’improvviso, senza una causa proporzionata alla violenza dell’esplosione. Un alternarsi sapiente di registri tonali caratterizza un altro ritratto familiare, Mio suocero, arguta descrizione della veglia funebre del padre della moglie, in cui in poche pagine si concentrano compiute descrizioni di diverse figure, colte nei loro tratti caratteriali più significativi, dal cognato, sospettoso e preoccupato per dover dividere l’eredità con un estraneo, al miglior amico del morto, “persona con importanti responsabilità a livello nazionale”, ad un altro amico, ex terrorista, alle due sorelle del morto, che portano un contributo di autenticità alla situazione proprio perché dolenti (“non avevano bisogno di mostrarsi tristi, visto che erano tristi davvero. Dicevano quello che avevano voglia di dire, trasformando la veglia funebre in un allegro e toccante chiacchiericcio”) ed anche per via di una certa vena di anticonformismo latente sotto le apparenze perbeniste. Il finale si modula su una tonalità ancora diversa, laddove il protagonista scopre di conoscere il defunto “tramite la figlia, tramite gli atomi della figlia che ritrovavo nella sorella omosessuale, tramite i geni indomiti che vorticavano in quel ramo della famiglia, e che erano sciamati anche in mia moglie. Quei barlumi di follia che amavo. Il fatto che lui fosse morto e io fossi ancora vivo non mi appariva più la differenza così fondamentale che mi era sembrata quel mattino.” Diversa modulazione rivela, invece, Il mio migliore amico, ritratto appassionato e tragico di un’amicizia duratura, nata sui banchi del liceo e alle svolte della vita riaffiorante in forme diverse ma con un’intensità che, per una volta tra tutti gli altri autismi, mette la sordina all’ironia e consente lo sfogo al racconto di emozioni.
Alla moglie (presente in più racconti), l’autore dedica il ritratto più definito in Terapia di copulazione, raffinata satira delle terapie (e dei terapeuti) per coppie in crisi, in cui la soluzione per la riconquista di una moglie diffidente e prevenuta (a dire del marito) si trova in una sana raffica di risate, di cui il racconto comprova effetti miracolosi nella ricostituzione di una complicità perduta. Anche del rapporto con la madre il protagonista evidenzia le zone d’ombra, con debiti per i quali non è facile ottenere risarcimenti: “Come ogni angioletto che si rispetti amavo di amore corrisposto mia madre. Insomma, abbastanza corrisposto. Prima di me venivano pur sempre gli amici ricchi, la pelliccia, le sue sorelle, la sua asma, l’anello con il diamante, l’anello con lo smeraldo, la batteria di scarpe con i tacchi, le vacanze, l’organizzazione delle vacanze, il suo amico omosessuale, l’estetista, i costosissimi lavori nella casa di famiglia, la pedicure, la pettinatrice, i problemi con le donne di servizio, l’antiquario, le fatture del telefono, le altre fatture, il preside della scuola dove insegnava, la sanguinosa guerra con mio padre, gli esami per diventare di ruolo, i nervosismi ingiustificati, la guerra di posizione con mia sorella, le visite mediche per capire se mio fratello era o non era pazzo. Ma insomma vivevo pur sempre un grande amore abbastanza corrisposto.”
Ben più di un’ ironia irriverente Sartori spende nella descrizione feroce della sua città d’origine (La mia città), dove “ogni misfatto locale – a patto beninteso che venga perpetrato da criminali autoctoni – viene travestito con un eufemismo appropriato, e archiviato” e “l’adesione incondizionata al fascismo … viene definita fredda accoglienza, la zelante collaborazione con i nazisti viene chiamata Resistenza, il giogo della religione viene chiamato tradizione cattolica, gli affaristi e i governanti colpevoli di ogni sorta di corruzioni e furti vengono chiamati Egregio Direttore ed Egregio Presidente, i luna park sciistici vengono definiti parchi naturali, i preti pedofili colti in flagrante Padre Tale o Padre Tal Altro, il genocidio delle specie animali e vegetali sviluppo della viabilità e delle infrastrutture, i vigneti e i frutteti avvelenati per l’eternità dai pesticidi zone rurali di pregio, e via dicendo.”
L’oltranza della satira deborda a volte in episodi di autentica crudeltà, espressa sempre con forme di rara eleganza. Il nitore della scrittura lascia trasparire sia le meschinità dei singoli sia il degrado dei rapporti umani generato dalla somma di queste meschinità nelle comunità (famiglia, amicizie, cittadina) che il protagonista frequenta. E da un punto di vista in apparenza orientato su vicende personali, lo sguardo dell’autore si allarga verso prospettive più ampie, fino a scrutare con inesorabile lucidità la progressiva disgregazione di un impianto di valori sempre meno socialmente condivisi. Ma la pars destruens della critica sociale che l’autore riesce sorprendentemente ad accennare in via implicita, raccontando casi così squisitamente privati, non trova compensazione nell’invenzione di alternative. Gli Autisminon inclinano affatto a particolari compiacimenti verso costumi e assetti sociali che il conformismo dell’anticonformismo propone come nuovo. Piuttosto, l’auscultazione di sé in essi ampiamente praticata ci immette nel cuore della contemporaneità, e tutto ciò che di essa appare consunto dall’uso, banale, ordinario, nella vita e nei rapporti umani per Sartori non solo nasconde una vena di bizzarria, ma segnala, nel suo piccolo, il senso del limite che affligge il nostro tempo.

 

“Autismi”: la recensione di Luigi Preziosi su vibrisse.wordpress.com

“Autismi”: l’intervista a Giacomo Sartori su satisfiction.se

di Gianluca Garrapa

G.G.: Perché Marguerite Duras, un cui passo riporti in esergo, dovrebbe essere, se lo è, il punto di riferimento per comprendere la scrittura degli Autismi?

G.S.: Mi toccano assai queste frasi sull’essenza non razionale della scrittura, come del resto tutto il magnifico testo dal quale le ho tratte e tradotte, Ecrire. E poi amo moltissimo questa autrice, e mi sembra che non si colga appieno la sua importanza fondamentale su tantissime scritture dell’intimità, per chiamarle così, che sono venute dopo di lei.

G.G.: Il mio lavoro consiste nel fare buche nella terra. Buche grandi e profonde, in cui ci entra comodamente una persona. Straniante è la tua scrittura perché, appunto, crea i buchi nel quotidiano e crea degli impossibili. Tragitti che ruotano attorno al dato autobiografico che non diventa mai autoreferenza, a dispetto del titolo del lavoro: Autismi. Autoironia, autoconsapevolezza. Le auto. Le macchine che prendono vita e, quasi, da oggetti inanimati s’innalzano a soggetti di memorie… scrivi: Nel mio sguardo sfilano le automobili parcheggiate. Le vie addormentate del mio quartiere sono stipate di macchine, perché poverine non sanno dove altro andare a dormire, mentre i proprietari ronfano placidamente nei loro letti, o anche si dedicano a indiavolati atti sessuali.

Gli oggetti pungono lo sguardo, anche del lettore. Non mi era mai capitato di provare questa forma di animismo nei confronti delle cose. E le cose, qui, gli oggetti sistemati spesso in elenchi, sono strappi all’anonimato quotidiano e diventano cause degne di attenzione. Penso alle bottiglie di Morandi, a Duchamp, al ready-made, all’operazione di rendere strano un oggetto comune, sottrarlo all’inorganico robotico, non è tanto la poetica dell’oggetto umile, ma l’etica di uno sguardo che tutto abbraccia. Alcuni elenchi: Arrivano gravati di sci, tavole da surf, biciclette, pattini, racchette, mazze da golf, creme solari, macchine fotografiche, paracaduti, corde, ramponi, pinne, aquiloni, canne da pesca, salvagenti, archi, balestre, attrezzature di ogni genere. Un elenco che, nel quarto elenco… volevo scrivere ‘episodio’ (il lapsus che ha trasformato episodio in elenco, non è fuorviante: ogni episodio può essere visto come individuo a sé stante e come elemento di una classe più vasta e l’errore in sé, in questo libro, quella mancanza che trascina tutto il racconto, è proprio spinta del soggetto a, da un lato, identificarsi con il mondo, dall’altro a ritrovare in sé la propria radicale diversità dal mondo, e la scrittura di Sartori, nello humour e nella non casuale semplicità, lo è); nell’episodio La mia città, l’elenco, mi pare, serve meno a ossessionare una pratica nevrotica di accumulazione di oggetti, sempre feticci e ombre del grande oggetto materno, che a delineare i caratteri dei loro possibili possessori maschi o femmine, di ogni genere. Oppure, parlando della madre, in Il mio organo della riproduzione, viene stilato un elenco degli ‘ostacoli’ che si pongono tra lui-bambino e la mamma. Quel desiderio di essere desiderato dalla madre, classico groviglio di narcisismo e disperazione: non c’è scrittura sincera che non sia generata dal Desiderio, dal vuoto incolmabile. Ma l’elenco: Prima di me venivano pur sempre gli amici ricchi, la pelliccia, le sue sorelle, la sua asma, l’anello con il diamante, l’anello con lo smeraldo, la batteria di scarpe con i tacchi, le vacanze, l’organizzazione delle vacanze, il suo amico omosessuale, l’estetista, i costosissimi lavori nella casa di famiglia, la pedicure, la pettinatrice, i problemi con le donne di servizio, l’antiquario, le fatture del telefono, le altre fatture, il preside della scuola dove insegnava, la sanguinosa guerra con mio padre, gli esami per diventare di ruolo, i nervosismi ingiustificati, la guerra di posizione con mia sorella, le visite mediche per capire se mio fratello era o non era pazzo, l’elenco è pur sempre un girare attorno, un torno e ritorno, un investigare, e la madre diventa tutte quelle cose che impediscono a lui-bambino di essere il privilegiato, l’unico e insostituibile… direbbe lo psicoanalista, o la terapeuta di Terapia di copulazione. In realtà Sartori non si sta lamentando, non sta scrivendo il suo male oscuro… anzi! Lui se la ride, ironizza sul luogo comune che vuole tutti i problemi generati dall’irrisolto Edipo. Ma traduce in chiave quasi umoristica il proprio disagio, supposto che davvero Sartori stia facendo, magari inconsciamente, di questa scrittura una terapia. Insomma, se il racconto di Autismi sia autobiografico o meno, non saprei dirlo, ma di certo non è questo, credo, che vuol evidenziare l’autore, quanto l’architettura di ogni episodio, legato al successivo proprio da un principio di elencazione: intorno alla propria esistenza ruotano i quadri che raffigurano momenti quotidiani: il lavoro, la malattia, la città, la famiglia, i ricordi, gli amici, la morte, la cacca. La mia cacca è un episodio assurdo: Cominciavo a percepire me stesso in una maniera completamente diversa: mi guardavo nello specchio, e vedevo il tubo digerente che ero. È un momento centrale, l’epifania di tutta la scrittura di Sartori: il vuoto che ci abita e che genera non solo la possibilità di ospitare l’altro ma soprattutto di mettere da parte quel narcisismo che apparentemente tradisce il titolo del libro. Siamo costruiti intorno a un vuoto, sembra dirci la prosa di Sartori: c’è sempre per tutto il libro un sottile senso di disagio come impossibilità intrinseca di poter andare oltre, e sempre, la situazione più comune e quotidiana, diventa di più profondo significato sociale e politico.

G.G.: Che rapporto hai, se ce l’hai, con la letteratura psicoanalitica e quali sono stati i tuoi riferimenti letterari nella stesura dei tuoi Autismi?E che rapporto hai con la politica e con l’ideologia politica?

G.S.: Io non sono un teorico, insisto sempre su questo punto, per il semplice fatto che guardandomi attorno vedo che moltissime persone, professionisti del pensiero ma anche semplicemente individui molto intelligenti, sono molto più dotati di me per il pensiero astratto e filosofico. Ciò detto che dietro a tutti i miei testi ci sono tantissime letture teoriche, anche appunto di psicoanalisi, perché non vedo come uno scrittore contemporaneo, qualsiasi cosa scriva, possa ignorare il suo apporto. Checché si possa dire di questa, e sui suoi limiti, mi sembra che solo lei riesca a scavare nei comportamenti e nei funzionamenti intimi delle persone. A me in ogni caso ha apportato moltissimo. Ma ripeto, il mio interesse non è cerebrale, a me preme capire le persone, e riportare questo mio sapere nei testi che scrivo, che è quello che so fare bene. E lo stesso si può dire della politica, nei miei testi c’è tantissima politica, e mi fa piacere che la persona che mi traduce in inglese, Frederika Randall, lo abbia sottolineato nelle sue considerazioni su questa raccolta di racconti, che potrebbe essere considerata agli antipodi della politica. Perché anche l’intimità delle persone, l’intimità più abissale e nascosta, che è quello che più mi interessa, è – lo dici molto bene tu stesso – rapporto con gli altri, con la società in cui si vive, con le forze economiche e politiche che la reggono, con i fondamenti ideologici espliciti e impliciti. Però anche qui le piste nei miei testi sono nascoste e mescolate, non ci sono mai dei messaggi univoci e facilmente riassumibili.

Perché il tema politico torna sempre nella rievocazione del padre fascista e del paese bigotto e cattolico e si riflette in queste alte montagne, ostacolo della percezione e della riflessione: L’unica soluzione sarebbe spianare le montagne, in modo da permettere finalmente allo sguardo di spaziare, all’aria di circolare, al sole di tramontare sulla linea dell’orizzonte, alle idee di maturare serenamente: la soluzione sarebbe di spianare gli ostacoli, e di colmare il vuoto del desiderio. Intendimento irrealizzabile che bloccherebbe non solo la scrittura di Sartori ma la scrittura tout court: La mia volontà di attraversare mi appare ormai come un invincibile despota, un tiranno al quale non mi resta che arrendermi. Adesso vado!, mi dico, irrigidendo le spalle.

Poi però rimango sul solito marciapiede, quello di sinistra: scrive nel penultimo episodi Le mie passeggiate, un episodio che non può rievocare, credo, una psicogeografia fatta di ossessioni e ricordi simil-nevrotici, ma anche da un’ansia del territorio per cui il soggetto non si decide a passare dall’altra parte o a lasciare la sua terra (tentennamento che dissolve in malinconia quel disprezzo che dichiarato per la sua città e le montagne al momento del dipartire:,Mi dico che le vedo per l’ultima volta e ne provo quasi un malinconico struggimento; oppure in maniera più incisiva in La mia patria fuggitiva: Allora ho capito che ero un italiano, lo sarei sempre stato).

E che rapporto hai con il tuo territorio nella vita di tutti i giorni quando non fai lo scrittore?

G.S.: Io sono cresciuto in Trentino, e anche se poi a diciotto anni lo ho lasciato, ci sono sempre ritornato, e tra le altre cose lo ho battuto palmo a palmo per il mio lavoro. Quindi lo considero la mia terra, e se penso all’Italia mi viene naturale di pensare in primo luogo alla mia regione, e anche molti miei scritti hanno a che fare con essa. E è un territorio con il quale ho un rapporto complesso, appunto. Ci sono molte cose che detesto, ma la psicanalisi – visto che abbiamo parlato di psicanalisi – e anche la spiritualità, ci insegnano che non c’è avversione e rancore senza vicinanza, senza incarnare noi stessi quegli attributi che ci danno noia.

G.G.: Gli episodi sono stratificati, è vero, ma è come se, scivolando verso la fine, si risalisse in superficie, o viceversa, e l’andamento, spesso, è una scalata: si arriva in vetta e si ridiscende e il dato di fatto iniziale muta sguardo, un’anamorfosi, trasformazione, come se il tragitto, per avercelo fatto attraversare, modificasse il territorio, e l’ipotesi iniziale contraddice la spinta propulsiva del racconto e si converte nel suo contrario o complementare: quel che credevamo un esistente si fa allucinazione, quel che viene a galla come un distacco è una liberazione e la liberazione a sua volta sprofonda lentamente nel rimpianto, nell’inquietudine kafkiana dell’assurdo esistere, sembrava prossimo alla morte e invece è solo un disagio del corpo, sembrava merda e invece è oro. La scrittura di Sartori scava, scala, scavalca, si muove in direzioni opposte, è profonda e superficiale, anima gli oggetti e individua l’automatismo dei soggetti, concede un’anima alle macchine ma denuncia la morte-in-vita dei suoi paesani umani, accusa gli altri di essere fatti male per poi giungere alla conclusione amara e ironica di essere lui stesso fatto male, proprio come succede con la sorella che descrive nell’episodio Mia sorella. Punti di vista differenti, una prospettiva che non si accontenta del proprio sguardo e chiama a testimone lo sguardo altrui.

Perché è un istigatore Andrea Raos?

G.S.: Il poeta Andrea Raos, che avevo conosciuto a Parigi, all’epoca anche lui viveva lì, nel 2005 mi aveva chiesto ripetutamente se volevo collaborare con Nazione Indiana, e se volevo entrare nel blog come redattore. Io per un po’ ho nicchiato, perché all’epoca ero molto lontano dalle cose del web, poi invece ho cominciato a scrivere questi racconti, che lui postava mano a mano, e per me è stata una esperienza bella e ricca. A differenza dei romanzi i racconti hanno bisogno di essere desiderati, o insomma di avere una loro possibile destinazione, e per molti versi si portano dietro l’energia della contingenza dalla quale nascono. A me almeno succede così. In ogni caso senza Nazione Indiana questi testi non avrebbero mai visto la luce. E poi ho finito per entrarci a tutti gli effetti, nel blog, e anche questa per me è stata un’esperienza importante.

G.G.: Ingannevole quel ripetitivo mio mia nel titolo della maggior parte dei capitoli-episodi: proprio perché non v’è nulla di ‘mio’ ci si può permettere di dichiararlo tale, è proprio perché non v’è niente di autoreferenziale che l’autore può chiamare Autismi questa raccolta di episodi apparentemente a sé stanti. Ma raccontaci qualcos’altro degli Autismi pubblicati sul blog collettivo Nazione Indiana.

G.S.: La cosa bella è che i lettori commentavano i racconti, anche in modo molto critico, o al contrario esprimendo la propria ammirazione. Dieci anni fa si era in un’epoca differente, i blog letterari erano ancora pochi, e i lettori erano forse più attenti, o insomma avevano più tempo a disposizione. La mia impressione è che oggi l’offerta sia così grande, tra blog, social eccetera eccetera, che le persone facciano fatica a stargli dietro, e lo facciano in modo compulsivo, e senza quella reale attenzione e quel coinvolgimento che mi sembrano essere la specificità e la bellezza della fruizione dei testi letterati. In queste condizioni non si potrebbe ripetere l’esperienza degli Autismi, non avrebbe senso, mi pare.

G.G.: L’ultimo episodio si intitola Il mio testamento biologico e mi sembra che concluda egregiamente il circolo intorno al vuoto del desiderio con un commiato esistenziale, sociale e politico sui diritti umani, che è pure un ritorno alla terra-madre, terra nel suo significato ancestrale e ontologico opposto o complementare a quello assunto dallo stesso termine nel primo episodio Il mio lavoro in cui la voce narrante racconta il mestiere dell’agronomo: la voce narrante di Autismi possiede un corpo ben piantato nella terra e la sua scrittura, come suo doppio sulla carta, s’innalza quasi-albero. Non passa inosservato il contrappunto tra le parole del primo episodio: O forse giacerò anch’io già nella terra, e le parole dell’ultimo: Per parte mia avrei continuato a vegetare, perché proprio questo è sempre stato il mio traguardo.

E per parte mia vi auguro una buona esplorazione dell’animale terrestre che dunque siamo e che Sartori rappresenta con una tecnica estremamente originale.

Leggi l’intervista di Gianluca Garrapa anche qui
http://www.satisfiction.se/autismi-intervista-a-giacomo-sartori/

“Autismi”: la recensione di Luigi Preziosi su vibrisse.wordpress.com

“Autismi”: la recensione di Luca Ricci su altrianimali.it

Alla maniera dei grandi moralisti francesi, Giacomo Sartori anziché fare i pistolotti dimostra di avere una coscienza. Questa esibizione, non disgiunta da un certo narcisismo indispensabile all’atto letterario, è ora un libro intitolato Autismi, già celebre perché pubblicato a puntate nel corso di svariati anni sul lit-blog Nazione indiana. Anche se la sua collocazione naturale sarebbe la Piccola Biblioteca Adelphi, ad occuparsene stavolta sono i tipi di Miraggi Edizioni. Come in Montaigne o in La Rochefoucauld, Sartori compone uno zibaldone di pensieri e piccole storielle, procedendo per balzi e strappi, ribadendo nei titoli dei pezzetti l’uso del pronome possessivo mio: Il mio lavoro, Il mio primo infarto, Il mio attuale editore… L’io di Sartori, micragnoso nell’arte dello storytelling (per fortuna), non lesina spietatezze e illuminazioni. Si occupa di quello di cui si può occupare una coscienza, cioè di tutto, dalla patria alla cacca.

Luca Ricci

 

Leggi la recensione di Luca Ricci anche qui
http://www.altrianimali.it/2018/07/19/cosa-leggi-questa-estate-i-consigli-dalluniverso-altri-animali-2018/

 

 

 

“Autismi”: la recensione di Luigi Preziosi su vibrisse.wordpress.com

Gli “Autismi” di Sartori tra ironia e autobiografia: la recensione di Silvia Vernaccini su il Corriere del Trentino

Non è un libro “facile” quest’ultima opera letteraria di Giacomo Sartori, Autismi (Miraggi, pp. 224, euro 16), ma di certo sa affascinare e coinvolgere gli affezionati lettori dello scrittore trentino/parigino. Sedici episodi, distinti, ma comunque interconnessi, che trovano riferimenti con l’autore in una sorta di autobiografia. “La mia città è il posto dove è impossibile essere felici … Per non parlare delle idee, che appena nate sbattono contro le pareti di roccia”. Lo stile è ironico, definisce sua madre “fanatica delle apparenze altoborghesi e criminalmente anticonformista”, attraversato da una sottile vena comica, contraltare a una scrittura con riflessi scientifici, quasi volesse ancorarla alla terra alludendo alla sua professione di agronomo: “Il mio lavoro consiste nel fare buche nella terra … Mi ci seppellisco, si potrebbe dire. Però a differenza di un altro seppellimento, nessuno poi aggiunge altra terra tra me e lo scavo … Posso guardare un rettangolo di cielo”.
Silvia Vernaccini

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Difendersi dal pensiero dominante con l’ironia: Sartori ci racconta “Autismi”

Giacomo Sartori si divide tra Parigi e l’Italia, Trento nello specifico. Di mestiere fa l’agronomo e, soprattutto, scrive. È membro di Nazione Indiana, blog letterario collettivo, il luogo in cui è nato “Autismi”: “Sono sedici racconti che erano usciti su Nazione Indiana con questo titolo. Allora erano stati molto seguiti e molto commentati, ma erano altri tempi per i blog. Li ho rivisti, li ho corretti, ne ho cambiato l’ordine ed è nato un libro da non confondere con quello del 2011: erano pochissime copie. Questo è realmente un’altra cosa”.

Perché “Autismi”?
“Per un gioco tra la mia autobiografia e la componente autistica che c’è in ognuno di noi: le difficoltà a relazionarsi con le persone e un linguaggio ripetuto, fino a divenire ossessivo. Parlo di intimità, soprattutto: i rapporti con le donne, con il lavoro, con chi incontri durante un viaggio”.

Una difficoltà a interfacciarsi che è diventata il segno dei nostri tempi.
“Oggi l’autismo ha raggiunto livelli patologici con i social: non sappiamo più parlare, sorridere, relazionarci. Non sappiamo più fare niente che esca dallo schermo. Ci mettiamo una maschera perfino nei corteggiamenti quando la vita reale, invece, è un’altra cosa. Ognuno di noi ha una componente autistica e fa di tutto per nasconderla. Ci sono zone in cui siamo completamente soli e a me piace esplorare queste zone d’ombra utilizzando lo humor”.

Un esempio?
“In “Le mie passeggiate” racconto di uno che fa sempre lo stesso percorso, alla stessa ora, con gli stessi pensieri e che, alla fine, è contentissimo quando la realtà introduce invece piccole variazioni. Ci sono tanti livelli nascosti e tutto è molto ironico. Noi ci appoggiamo sempre al “già conosciuto” ma, in fondo, abbiamo il bisogno di essere stupiti, abbiamo dentro di noi il desiderio di una novità”.

Viviamo tempi duri da questo punto di vista.
“Quello che manca oggi è l’ironia, tutti si prendono tremendamente sul serio. Il contesto italiano è sempre stato molto conformista, ma è allucinante quanto capita oggi. Ogni pensiero trasgressivo o controcorrente è bandito. Peggio: non viene capito”.

 

 

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“Autismi”: la recensione su frederikarandall.wordpress.com

Autismi, just published in an elegant new edition by Miraggi, is one of Giacomo Sartori’s most original and successful novelistic experiments. In sixteen distinct but interwoven episodes (or recitativi d’autore-chants d’auteur as the publisher defines them), the unnamed narrator paints a tragicomic portrait of an awkward, marginal man, a creature frequently at odds with his late capitalist world, perpetually puzzled by the rules of the game that govern family, work and society. The narrative voice is painfully candid and naively poetic. Apparently unstudied, it can bring to mind Samuel Beckett’s savage absurdity or the monstrous hilarity of a Kafka.

The volume opens with perhaps the most perfect of these episodes, the brief, haunting Il mio lavoro, (My job) about a strange profession that in fact is pretty much the author’s own: Sartori trained as an agronomist and soil specialist (a surprisingly lively scientific topic these days). “My job consists of digging holes in the ground. Large deep holes a person can easily get into. And in fact I do get in. Inter myself, you might say. But unlike a genuine interment, there is no one to shovel soil between myself and the pit. Unlike a real burial, I can move my arms, breathe at will, come out when I’m done. I can see a rectangle of sky, I can speak, I can howl out my joy, always supposing I have a surplus of joy. Mine is a temporary, reversible interment. When I’m done, I come out and go home.” And the book closes with a rant on end-of-life instructions, Il mio testamento biologico (My health proxy): “If, despite the above dispassionate suggestions of mine, you are unable to wake me, then terminate me. Joyously, as you would lift a carrot from the earth, already thinking about the taste in your mouth. Do it knowing you have my full support. Tell yourself I would  do exactly the same in your place.”

Death is a guest here, invited or not, whether in the sarcastic Il mio primo infarto (My first heart attack) or in the masterful Mio suocero (My father-in-law), a stark portrait of the man, only briefly met and now already laid out in his bedroom for the wake, observed in part through the friends and acquaintances who have come to pay respects, in part through the disenchanted eyes of one of his non-conformist sisters. Épater le bourgeois is the order of things: the naughty vicissitudes of Il mio organo di riproduzione (My reproductive organ; a fiercely independent member, always getting into trouble) come right before the angry, chastening tale of Mia sorella (My sister), a woman whose conformist tendencies are enforced by her upper crust husband, dispenser of an appalling conservatism. But, says the narrator, he’s often told there’s a family resemblance. “At times even my wife accuses me of being the double of my sister, only a more easy-going version, more democratic if you will.”

In l pesci pescati (The fish fished), a boy finds a community of strangers, who like him, enjoy fishing. “I liked waiting for a fish to bite, just as even today I like waiting for something to happen. Certainly this pleasure is by no means real enjoyment, and even less celebration; rather it has to do with privation, and perhaps even with suffering.”

Among the most savage sketches are two devoted to the publishing industry, Il mio attuale editore and Il mio primo editore: mocking portraits of two figures, one from a major publishing firm, one from a small house, who are tremendously bourgeois and much wealthier than their writers will ever be, successful men who like the sound of their own voices and are evidently annoyed and embarrassed by this hapless author. Fascinated by the trophy-like “chair upholstered in famous writer skin” that decorates his publisher’s office, our hero is appalled, impatient and at the same time eager to please. Here and elsewhere, Sartori achieves a quiet, subversive pathos that always comes as a surprise.

Some of this material overlaps with that of another, earlier novel, Anatomy of the Battle, of 2005, composed of brief bursts of non-chronological narrative each one paragraph long. The account, of a boy growing up in a Trentino family led by an unrepentant fascist father, moves back and forth in time and mood with ease, culminating in a reflection on the cult of heroism and political violence in both Fascism and the extraparliamentary left of the 1970s. Although he doesn’t write conventional political novels, Sartori measures the worlds he describes politically, sometimes in historical terms (when he confesses the sins of the Fascist males in his line, or describes the extremist pied noir father-in-law of Mio suocero, mentioned above). And sometimes in class terms (Anatomy’s painful depiction of a snobby, bourgeois, would-be aristocrat mother, once much loved, of whom traces are found in Autismi too). In other novels (Tritolo (TNT), Rogo (At the stake), Cielo Nero (Blackshirt heavens) readers are led inside the uneasy consciences of a Sud Tyrol bomber, three female infanticides, and a Nazi woman spy in love with Fascist Count Galeazzo Ciano.

None of ten books of fiction and poetry that Sartori has published to date is as well-known as it ought to be. His prose is eccentric and his writing has few of those qualities traditionally considered literary; they are stories without the self-conscious intellectual thread running through them that characterizes a sizeable part of what passes as “Italian literature” today. In Autismi, instead, we find no thoughtful premises, no meta-observations and no hint of a thinking author or any figure voicing superior authorial insights. The deep autobiographical vein to Autismi and the first-person voice-intimate, colloquial but never flat, at times baroque-are at quite at odds with mainstream, realist Italian fiction today.

Sartori, a native of Trentino, has made his home in Paris for many years, and permanence in France has shaped his style in more ways than one. Autofiction had its origins there, and the novel has evolved into shapes still mostly unfamiliar in Italy. In France, it’s easier to recognize what Sartori’s up to. There’s a comic vein running through everything he writes, although he is not a comic writer, nor does he deal in autobiography per se, although he draws deeply on the political and social elements of his family and his class-mixed, both bourgeois and renegade, abrasive fascist. An epigraph from Marguerite Duras points to the method: “One writes what one doesn’t know of oneself, of one’s mind and one’s body. This is not a reflective act but a sort of faculty that exists to one side, parallel to one’s person. Another individual that appears and comes forward, invisibly.”

Alas, neither humor or autobiography is very highly considered in Italian literary criticism. One could go further and say that humor is usually suspect, considered cheap and often found disturbing.

But as the exhilarating Il mio lavoro suggests, Sartori is one of those odd birds who comes to writing novels from a foreign country:  a background in science. Scientific and technical matters worm their way into his fiction, and his prose is marked by a scientific habit of preferring the concrete and the measurable. His standards of invention and knowledge are not quite those of the artist. In an interview with an American literary journal he said this:

“Even the humblest researcher knows the thrill of grappling with problems still in process, of entering untrodden territory. And such work tends to be undertaken with humility, from an awareness of one’s own limitations, and of the limits of one’s own knowledge. You always need others, since even Einstein wouldn’t have become Einstein without the help of other highly skilled mathematicians. And you never forget that your own discoveries will quickly be surpassed.”