Su certi autori, attraverso lenti procedimenti, si formano aureole di mitologia. Inizialmente accade per cortocircuito. Un titolo azzeccato. Una contingenza temporale. Ma poi subentra il passaparola fra i lettori, con la voglia di ricostruire, libro dopo libro, l’architettura totalizzante. Cosa che riguarda, fra i più recenti, Roberto Bolaño. Scrittore cileno cosmopolita, eppure radicato in un Sudamerica antico e violento di cui ha raccontato misfatti e solitudini, Bolaño è autore di culto di cui, in questi ultimi anni, sono stati pubblicati valanghe di libri. Il suo esaltante iter postumo (è morto a soli cinquant’anni) non è prodotto di un’operazione editoriale. Ma di un talento capace di attrarre il consenso di chi ama la letteratura vissuta in toto. Destino dei sognatori e dei costruttori di mondi. Bolaño non spiega, racconta. Un universo, il suo, che da Cile e Messico si espande all’Europa. Esule solitario e narratore incontinente, ha costruito trame autobiografiche che si rincorrono tra gioventù, bar, circoli artistici, avanguardie e fallimenti, biografie strambe e disperate, in una sorta di sconfinato labirinto di parole.
Recentemente l’editore Miraggi di Torino ha pubblicato – con la traduzione di Marino Magliani e Giovanni Agnoloni – un monumento postumo, strumento indispensabile per gli amanti di Bolaño. Operazione congrua e coraggiosa, proporre in Italia una serie di studi di matrice ispanica come quelli raccolti in «Bolaño selvaggio» (pag. 427, 24 euro), spaccato di una letteratura sudamericana impura, imbevuta di radici europee (come non pensare a certo Perec?). Perfetta radiografia di un anti-maestro, di un inventore di mondi che si inabissano, tra tunnel narrativi e fantasmi apocalittici, affrescando quello che inoppugnabilmente Alessandro Raveggi ha definito, nella prefazione, come un irripetibile «realismo confidenziale».
Biagio Cepollaro nella nota critica alla raccolta poetica di Francesco Forlani «Penultimi» edita da Miraggi, osserva che il mondo che emerge da queste pagine «non è più quello dell’alienazione operaia, ma quello dell’apartheid prodotta dalle nuove oligarchie finanziarie. La società tende a dividersi in caste non più in classi come nel Novecento. Le persone sempre in movimento pendolare restano immobili. L’Occidente sembra tutto retrodatato al vecchio regime, a prima della rivoluzione borghese. È un mondo neofeudale, appunto».
L’osservazione pertinentissima ci introduce alla lettura di questa poesia di efficacia illuminante e severa, tutta trattenuta sull’oggi, sui «penultimi» e il loro viaggio dentro una realtà che si manifesta nel grigiore delle somiglianze e nella rassegnata dimensione esistenziale di un giorno lunghissimo, quasi senz’alba e senza tramonto.
Forlani è uno scrittore che si getta anima e corpo sul paesaggio disadorno e infelice di quel presente che la poesia – ma anche il romanzo e le interpretazioni teatrali contemporanee – tende a considerare quale «preghiera dei penultimi, la trasparenza». Una trasparenza ossessiva a tratti, e a tratti invece dolce e magicamente corrosiva. Con le pagine dei suoi «Penultimi», Forlani traccia davvero l’arte di una sottile disperazione, cioè la sua condizione umana, il suo gesto, il suo guardarsi intorno, il suo procedere o sostare. Si ha l’impressione in certi momenti di scontrarsi con quella pungente situazione d’inciampo che il poeta narra così: «Non pensavo potessero le cose / essere penultime, possedere un tempo, / non la semplice durata proprio / l’estensione immisurabile di un corpo». Francesco Forlani scrive e insegna, c’è nella sua poesia questo doppio sentimento delle cose come lo ritrovi in certa poesia del Novecento, nella sua misura di «cosa», «persona», «voce» e luogo.
I temi, infatti, si rincorrono e descrivono «l’incessante ritmo delle correnti» che per tutto il secolo scorso hanno alimentato sia il gesto salvifico tentato dalla poesia, sia il suo abbandonarsi al fatalismo e alla crisi del mondo. «Penultimi» […] è poesia ora della natura, ora delle metafore più audaci, ora di una serena stagione che le immagini raccolte nel volume aiutano a concepire come quadri istantanei dei nostri desideri e delle solitudini che le condizionano.
Forlani, poeta traduttore, cabarettista, scrittore e «agitatore culturale» vive a Parigi e da Parigi, ancora centro di un mondo d’arte che non perde mai di attrazione e di fascino, manda il proprio messaggio in un intenso complesso poetico e narrativo che investe la memoria dell’oggi – con tenerezza e crudeltà – precisa Cepollaro, dove la sua tenerezza è intrisa di limpido lirismo e la sua crudeltà è in fondo una pietas, un amore si potrebbe dire, la vera onda della poesia che in lui si fonde dentro una umanità consapevole ed eticamente alta.
Ecco l’immagine perfetta, allora: «Ora colato dal marciapiede, / cascata di calore la coperta / in cerca di un corpo»; un corpo che custodisca in sé il calore e il sangue della parola che, da breve cronaca, diventa storia e destino di un’epoca, la nostra, così infelice e tuttavia così orgogliosa dei propri passi che in questa raccolta si esprimono letteralmente in doppia lingua, il francese di Christian Abel elegante e aderente al sentimento di Forlani, e il passo del nostro poeta cuore e mente di una metafora esaltante della vita che si offre quale esempio di una lunga e appassionata familiarità come nei versi indimenticabili della lirica 29: «Ed il voltarsi della faccia di mio padre / verso la mia, che da parte a parte scarta lo specchio / mi fa ricordare giovane lui e ora me più vecchio».
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