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QUATTRO GIORNI – recensione di Giacomo Sartori su Nazione Indiana

QUATTRO GIORNI – recensione di Giacomo Sartori su Nazione Indiana

LIGURIA MON AMOUR

Ecco la prefazione di Dario Voltolini (illustrazioni di Marco D’Aponte e adattamento di Andrea B. Nardi; da un romanzo di Marino Magliani)

È con profonda commozione che scrivo questa nota a margine dell’ottima prova congiunta di due squisiti narratori, Marino Magliani alla tastiera e Marco D’Aponte alle matite, innanzitutto per la storia che viene narrata, ma anche per altro.
La storia che viene narrata la conosco da anni e ora me la trovo qui davanti agli occhi visualizzata con raffinata perizia da chi sa come dare corpo alle parole. Da anni non la rileggevo e rivederla così, attraverso immagini sulla pagina che vanno a mescolarsi a immagini che tenevo ancora da qualche parte nella mente, è un’esperienza piena di senso. Facile sintetizzare: tavole magnifiche per una storia potente.
Ma devo ancora una volta ricordare che la “potenza” di una storia ligure è tutta dentro la cartuccia inserita nella doppietta, ma prima della detonazione.

È una potenza che sempre sta per manifestarsi. Questa caratteristica è della terra e dei suoi migliori narratori e poeti. E io amo quella terra, con i suoi narratori e poeti. Secco, compatto, lo spirito di quella regione preme per uscire e ogni volta, anziché esplodere, vibra. Vibra in modo tale da risuonare a distanza, è un suono riconoscibile, simile ad altri (per esempio qui le Ande entrano in grandissima risonanza con i muretti a secco liguri, con la loro anima) ma in fondo unico e imparagonabile.

Ho conosciuto Marino Magliani proprio attraverso il testo qui riproposto, esemplarmente sceneggiato da Andrea B. Nardi, nelle tavole di D’Aponte. Me ne innamorai subito e la gioia per me fu grandissima quando lo vidi pubblicato. Per una volta le cose erano andate per il verso giusto e la grande qualità di uno scrittore veniva colta dall’editoria, veniva accolta e fatta vivere sulla pagina. Be’ questo è un ricordo, ed è molto dolce. Così Marino e io siamo diventati amici, come si può esserlo stando uno in Italia e uno in Olanda. Ma la qualità di un’amicizia che nasce da un testo è un qualità molto particolare. È un’amicizia in qualche modo segnata da quel testo, un’amicizia che profuma di quel testo. La chiamerei, in questo caso, un’amicizia ligure, ma non cercherò certo di spiegare cosa significa “ligure” in questo contesto. “Ligure” lo vedete subito cosa significa, leggendo quest’opera. Forse “ligure” è l’unico aggettivo topografico che invece di restringere e dettagliare il suo senso comprimendolo in un luogo (che in questo caso è di per sé stesso un luogo compresso tra montagne e mare), lo fa volare su tutto il pianeta dispiegandosi a categoria emotiva autonoma. Forse straparlo, per amore del luogo. Ma qualcosa di vero penso che lo sto dicendo. Laddove il dolore resta incapsulato in una vita che continua, laddove le occasioni perdute vivono per il fatto stesso di esserci state, laddove qualcosa per essere detto bene ha senso che sia taciuto – e molti altri “laddove” ancora – l’aggettivo “ligure” arriva a spiegare perfettamente quello che c’è da spiegare.


Marino negli anni ha scritto tante storie, tutte molto belle, solide, tanto pietrose quanto ventilate, e ogni volta è una festa (senza strepiti, eh!) leggerle. Ma per me questa è “la” storia, perché è quella tramite la quale ho conosciuto Marino. Riassumerla? Non ha senso. Solo che è struggente, questo sì che lo posso dire, fatta di uno struggimento particolare che in queste tavole, per un ulteriore gioco del destino di un incontro, risuona perfetta e risuona nelle lontananze.

NdR: il testo riportato è la prefazione di Dario Voltolini al romanzo a fumetti “Quattro giorni”, con illustrazioni di Marco D’Aponte e testo/adattamento di Andrea B. Nardi, tratto dal romanzo “Quattro giorni per non morire” (Sironi Editore, 2006), di Marino Magliani, pubblicato ora da Miraggi Edizioni, nella collana MiraggInk

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

AUTISMI di Giacomo Sartori citato su Il Dolomiti

AUTISMI di Giacomo Sartori citato su Il Dolomiti

Da ”Tritolo” a ”Sono Dio”, storia di un grande romanziere trentino per anni ignorato in provincia e finalmente riscoperto

Mentre lo strapaese catto-moderato nostrano non cessava di snobbarne la produzione, forse anche a causa del continuo passaggio da un editore medio-piccolo all’altro – la provincia ha sempre un debole per i riflettori altrui, il prestigio sancito, il successo di massa –, Sartori ha continuato a scandagliare le sue e nostre ferite aperte, fra storia collettiva ed esistenza individuale

Dal blog di Il Lanternino – 17 luglio 2019

 

Mi ha quasi stupito, il 26 giugno scorso, trovare una pagina del meno strapaesano fra i quotidiani cartacei locali dedicata a Giacomo Sartori. Quasi, poiché comunque, rispetto a cinque, dieci o quindici fa, quando in Trentino s’ignoravano volentieri i romanzi di Sartori che, duri e drammatici, del territorio svelavano i lati più oscuri e inconfessati, pare che finalmente anche la sua terra d’origine si sia decisa finalmente a riconoscerne la statura. Pochi giorni dopo quell’intervista a tutta pagina per la rubrica “trentini dal mondo” – Sartori vive da molti anni a Parigi e torna a Trento poche volte l’anno – Rai Radio Uno del Trentino ha inaugurato un ciclo di puntate in cui Mario Cagol legge alcuni Autismi, i racconti comici di Sartori apparsi in volume l’anno scorso per Miraggi edizioni di Torino. Molto bene.

 

 

Il fatto è che Sartori uno scrittore degno di nota lo è sempre stato, fin dall’esordio romanzesco di Tritolo nel 1999, e quando nel 2005 apparve per Sironi quel confronto senza sconti con il fascismo di un padre morente che è Anatomia della battaglia, il Seminario Internazionale sul Romanzo che con un paio di colleghi avevamo da poco fondato all’Università di Trento non esitò a invitarlo a parlare della propria poetica. Peccato fosse un pubblico di soli specialisti. Da allora, mentre lo strapaese catto-moderato nostrano non cessava di snobbarne la produzione, forse anche a causa del continuo passaggio da un editore medio-piccolo all’altro – la provincia ha sempre un debole per i riflettori altrui, il prestigio sancito, il successo di massa –, Sartori ha continuato a scandagliare le sue e nostre ferite aperte, fra storia collettiva ed esistenza individuale, saggiando temi e forme e, nel frattempo, maturando.

 

Ad oggi il punto d’arrivo e di equilibrio di questo percorso è il romanzo Sono Dio (apparso nel 2016 per NN, ne ho scritto ampiamente qui), uscito da qualche mese in traduzione inglese, recensito con approvazione dalla critica statunitense e di prossima pubblicazione anche in Germania: va da sé che, giunti a questo punto, continuare a ignorarlo sarebbe stata una miopia preoccupante. La penna di Sartori, tuttavia, non si è fermata lì e, mentre i lettori più fedeli stanno già aspettando la prossima opera narrativa, questa primavera è uscito per Arcipelago Itaca di Ancona, con postfazione dell’amica e sodale Helena Janeczek con cui Sartori condivide da anni l’esperienza on line di Nazione indiana, un piccolo gioiello in versi: s’intitola Mater amena e non è una raccolta di poesie, ma di “proesie”, come l’autore le ha battezzate.

 

Non è una boutade: Sartori sullo stile ha sempre lavorato di sottrazione e, confrontandosi con la forma lirica, deve aver capito fin da subito che la sua strada non era quella musicale e preziosista della tradizione, optando così per un dettato prosaico e quotidiano che pure riesce a trarre dalla versificazione, dalle sue pause e dai parallelismi, un’espressività compiuta. Ebbene, se in Anatomia della battaglia è con il fascismo del padre che Sartori faceva i conti, e con le sue ricadute sulla deriva ideologica del figlio progressista, questo è invece il ritratto dolente, in cui l’autore in parte e suo malgrado si rispecchia, di una madre non meno segnata da quei tratti temperamentali – anaffettività, autodisciplina, vitalismo – che già in precedenza si presentavano come i risvolti esistenziali, radicati nella personalità e nella condotta quotidiana, di un’educazione autoritaria. Bastano due distici: “aborrivi i contatti / tra i corpi” o, con le parole basiche della stessa madre: “sono così vecchia / come faccio”.

 

È brava Helena Janeczek a cogliere nella postfazione il colpo da maestro attuato da Sartori in questo libro: “L’intuizione formidabile e lancinante di Sartori sta nel far rimare ‘narcisismo’ e ‘fascismo’. […] Non la contestazione studentesca, ma la premessa nell’epoca [il ventennio, nda] che ha forgiato persino la madre nel disprezzo dell’empatia e della debolezza, ha consegnato il figlio a una mancanza originaria”. Sartori ci offre insomma, attraverso una vicenda personale, lo specchio di ciò che tutti ancora ci portiamo dentro, in latenza, tara e impulso ad un tempo: il rischio, a ogni gesto e parola, di abdicare al nostro meglio, a quella dotazione naturale dell’umano che fa bene a noi stessi e a chi amiamo.

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.ildolomiti.it/blog/il-lanternino/da-tritolo-a-sono-dio-storia-di-un-grande-romanziere-trentino-per-anni-ignorato-in-provincia-e-finalmente-riscoperto