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L’EDOnista – recensione di Laura Marzi su Il manifesto

L’EDOnista – recensione di Laura Marzi su Il manifesto

La formazione sentimentale di un «edonista»

L’Edonista è il titolo del romanzo scritto a quattro mani da Francesca Angeleri e Alessandra Contin (Miraggi Edizioni, pp. 172, euo15). Edo è il nome del ragazzo protagonista, nonché voce narrante: un giovane rampollo dell’alta borghesia torinese, che già nelle prime pagine impartisce una lezione tanto severa, quanto realistica: «nella vita contano i soldi e quelli fatti in una sola generazione non sono sufficienti. Nell’ufficio di mio padre ci sono appese lauree che risalgono agli inizi dell’Ottocento Quei titoli rappresentano una vasta rete di contatti e di benessere, nonché un laboratorio di eugenetica che ha portato al mio concepimento».

IL ROMANZO racconta il percorso che ha condotto il ragazzo, che all’inizio della storia è dominato da una tale visione del mondo, feroce e classista, a diventare un adulto. La vita di Edoardo si compone di studio – deve scrivere la tesi in giurisprudenza – uscite con amici, che appartengono alla sua stessa classe sociale, e amplessi con ragazze che hanno tutte in comune disturbi alimentari. Queste amanti non hanno un nome, ma vengono indicate con locuzioni tipo: «Disturbia Mentina», «Disturbia Cappuccino», eccetera. Le principali attività che Edoardo svolge insieme agli amici Gianmarco, Leone e Sofia sono: assumere dosi massicce di alcol e droghe sintetiche e fare delle bravate, come terrorizzare coppiette appartate sulle strade della collina torinese. Sembrerebbe quasi che la ferocia e la superficialità dei comportamenti di Edoardo siano da addebitare alla sua situazione familiare: la madre, anch’essa laureata in legge, ha abbandonato la sua carriera da giovane, mentre il padre, brillante e agguerrito avvocato torinese, che lavora per «il diavolo», cioè le grandi aziende, la tradisce regolarmente con ragazze, che non superano mai i venticinque anni.

IL TURNING POINT del testo è generato, ça va sans dire, dall’amore: Edoardo che sembra un anaffettivo, erotomane cronico, è in realtà semplicemente innamorato, senza volerlo ammettere neanche a se stesso, della sua compagna d’asilo Viola. Anche la ragazza è figlia dell’alta borghesia torinese, ma non di quella che si assume la responsabilità del classismo, bensì la fazione radical chic.
Dopo che la verità del sentimento esploderà in faccia a entrambi, Edo si recherà a Brighton, per la consueta estate a casa di sua zia Ginevra. La donna ha il ruolo della coadiuvante dell’eroe: grazie all’affetto di questa zia e al suo essere davvero irresistibile, Edoardo scoprirà alcune verità sulla sua famiglia, lasciandosi alle spalle l’insensatezza delle abitudini torinesi, il vuoto di un’esistenza dedicata alla distruzione di se stesso e al consumo di sostanze e di persone, come se fossero la stessa cosa.

Il testo di Angeleri e Contin si contraddistingue per un uso della lingua particolarmente adeguato al tema della narrazione e coerente coi personaggi, che rende la lettura agevole e contribuisce alla creazione di un mondo, composto da persone estremamente ricche, eccezion fatta solo per il personale domestico, che nel testo è decisamente riuscita e convincente.

QUI l’articolo originale:

https://ilmanifesto.it/la-formazione-sentimentale-di-un-edonista/

Più di là che di qua – recensione di Massimo De Feo su Il manifesto

Più di là che di qua – recensione di Massimo De Feo su Il manifesto

Passeggiata in bicicletta con celebrità

Inforcata una bici un monaco buddhista tibetano si inoltra nel Bardo, dimensione in cui per 49 giorni viaggia l’anima del defunto in attesa di rinascere o di raggiungere l’illuminazione. Nel suo pedalare si imbatte in Garibaldi, Fausto Coppi, Omero, Gesù, Attila, Van Gogh, Dante, Karl Marx, Freud, Hitler, Santippe, Elvis Presley, Cleopatra… per citare solo alcuni dei 49 trapassati, tutti più o meno «illustri» e tutti confusi e perplessi, di cui riporta le peripezie. Nel Bardo non valgono le leggi dello spazio-tempo dei vivi, passato presente e futuro si intrecciano, si sovrappongono, e i ricordi di quanto si è fatto in vita non mollano facilmente la presa, annebbiando la mente. È la trama di «Più di là che di qua», ultimo scritto di Paolo Morelli (Miraggi edizioni, 170 pag. 16,15 euro). Di ogni deceduto viene riportata la data, il luogo e la causa della morte, e quando è possibile anche l’ora. «’Addio Totonno, non veggo più luce’ esalato l’endecasillabo sfranto Giacomo Leopardi s’è appressato alla morte il 14 giugno del 1837, alle 21 precise in vico Piero 2 a Napoli, tra le braccia di Ranieri Antonio, appunto». Dopo varie avventure calcistiche ed endecasillabi sempre peggiori, l’ex poeta infinito «riuscirà a intrufolarsi nella signorina Clemente Anna, la quale il 15 febbraio ’98 dava alla luce Antonio Vincenzo Stefano, meglio conosciuto come Totò».

Alighieri Durante, detto Dante, cerca di capire chi sono tutti questi arrabbiati con lui che gli vengono incontro. Che gli ha fatto? Non se lo ricorda. Johann Sebastian Bach si risveglia in un canneto. Gesù «ha esalato l’anima il 7 aprile dell’anno 30 dopo sé stesso, un retrogusto acetoso in bocca…».

I primi passi nel Bardo di Blaskó Béla Ferenc Dersö, in arte Bela Lugosi, sepolto con mantello di velluto nero e rosso, sono in un campo sterminato, coltivato ad aglio. «Ah no! Io qui non ci vivo neanche morto!». Per Karl Marx c’è il deserto rosso di Marte, landa senza una capitale, per Napoleone Buonaparte ovviamente il manicomio. Cristoforo Colombo è prigioniero di una banda di vichinghi. Cervantes e Shakespeare, morti entrambi il 23 aprile 1616, si ritrovano abbracciati l’un l’altro guardandosi in cagnesco. Adolf Hitler si porta appresso le ultime ore nel suo bunker, e ossessivamente cerca invano di suicidarsi di nuovo, con coltelli, veleni, cocci di bottiglia, salti nel vuoto… «non era certo un trionfo per la logica tentare di ammazzarsi per chi è già morto». Archimede di Siracusa fu ucciso veramente il 14 marzo del 212 a.C., ossia nel giorno del pi greco?

La testimonianza del monaco a un certo punto viene interrotta da un reportage dalla Moravia, regione della repubblica Ceca, di cui discutono Alberto Moravia, Elsa, Pierpaolo ed Enzo. In chiusura prende il via il Gran Premio del Mandala, corsa ciclistica di 40 km. Garibaldi va subito in fuga, il plotone guidato da Bach e Paganini lo riprende quasi subito. Il primo gran premio della montagna se lo aggiudica Lugosi su Savonarola. La corsa continua, scatti di Van Gogh, Dante e Salomone e via pedalando con Romolo, Elvis, Cleopatra, pioggia e vento contrario, cadute, inseguimenti, fino al circuito di Quintessenza dove si taglia il filo di lana caprina dell’arrivo.

«Più di là che di qua ha un che di psichedelico, si specchia nella dimensione dei sogni, a volte assurdi e sconclusionati, a volte profetici o misteriosi. I giochi di parole e i calembour abbondano, la fantasia straripa. L’autore si è chiaramente divertito in sella a questo libro, che rimanda alla Livella del Principe de Curtis lucidando la falce del Tristo Mietitore.

QUI l’articolo originale:

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IL GIGANTE FOLLE. Com’è dionisiaco e sfolgorante il Kerenskij di Zabughin – recensione di Giorgio Fabre su Alias

IL GIGANTE FOLLE. Com’è dionisiaco e sfolgorante il Kerenskij di Zabughin – recensione di Giorgio Fabre su Alias

Strano ma ricco questo libro, Il gigante folle (Miraggi edizioni, pp. 316, euro 20,00); e con un titolo misterioso. E ancora più strano – davvero molteplice e affascinante – l’autore, Vladimir Zabughin: un russo nato a Pietrogrado, quella che poi è diventata Leningrado e San Pietroburgo, figlio di un alto funzionario del ministero delle Finanze dell’impero zarista; ma fin da giovane grande appassionato della cultura italiana e latina, in particolare umanistica e rinascimentale. A Pietrogrado si laureò in storia e filologia e ottenne un premio prestigioso, un viaggio di perfezionamento a Roma, dove già nel 1911, all’età di 31 anni, conseguì la libera docenza alla Sapienza in Letteratura umanistica. Intanto, aveva sviluppato il suo percorso religioso. Convertito al cattolicesimo di rito orientale, a Roma si legò all’abbazia di San Nilo a Grottaferrata, che ancora oggi esiste ed è completamente dipendente dalla Santa Sede: era ed è la sede principale dei cosiddetti «basiliani» in Italia. A San Nilo andò a dirigere la rivista «Roma e l’Oriente», per creare già allora quella forte liaison religiosa, ma anche politica, tra cattolici e ortodossi, che avrebbe avuto un vero profilo solo col Concilio Vaticano II.
Intanto Zabughin all’Università si era occupato della cultura latina nell’Umanesimo e nel Rinascimento, e incominciava a produrre saggi e libri (anche ponderosi) che sarebbero diventati importanti: a partire dai tre volumi (tradotti anche in russo) dedicati a Giulio Pomponio Leto, umanista del Quattrocento, studioso e cultore di storia romana e bizantina; per continuare col Vergilio nel Rinascimento italiano (Zanichelli 1921-’23; ristampa anastatica a cura dell’Università di Trento nel 2001), fino alla Storia del Rinascimento cristiano in Italia uscito postumo nel 1924. Perché, come se non bastassero le altre singolarità, Zabughin morì giovane in Alto Adige, caduto il 13 settembre 1922 in un ghiacciaio del monte Cevedale (venti giorni prima, il 25 agosto, il Corriere della Sera aveva dato notizia di un suo record alpinistico!).
Ma non è finita. Zabughin era un vulcano di iniziative che riguardavano vari ambiti, compresi i rapporti con la diplomazia. E veniamo a questo Il gigante folle: si tratta della ristampa, accompagnata da un ricco saggio biografico di Gian Paolo Castelli e altri contributi, di un libro che lo storico russo pubblicò nel 1918 da Bemporad. E il sottotitolo spiega l’arcano del titolo: Istantanee della Rivoluzione russa. Proprio così, «istantanee», perché il libro racconta il viaggio che Zabughin fece in Russia tra il giugno e il novembre 1917, i mesi in cui ebbe e si sviluppò la «Rivoluzione russa».
Il viaggio era stato progettato da Vittorio Scialoja, ministro senza portafoglio per la Propaganda durante la prima guerra mondiale, quando il primo ministro era Paolo Boselli. Dalla relazione per Scialoja, scritta giorno per giorno e consegnata al Ministero degli Esteri dopo il viaggio, nacque appunto Il gigante folle, e un saggio di Scialoja ne è la prefazione. Un libro «che può dar la misura della sua virtù di non tiepido osservatore della realtà e delle sue doti di scrittore spedito, efficace, spesso anche arguto»: così lo commentò a ragione, in un necrologio di Zabughin, il famoso «Giornale storico della letteratura italiana». È vero. Le «istantanee», scritte in mille modi, sono centinaia, stese via via durante il lunghissimo attraversamento della Russia, che in quel momento era in guerra con i tedeschi: passando da Pietrogrado fino al monte Ararat, attraverso le linee del fronte, a Riga, in Polonia, in Romania e in Ucraina; e ritorno.
Ma ovviamente il cuore è Pietrogrado, dove Zabughin seguì con precisione i durissimi e lunghi conflitti che si aprirono tra le varie forze politiche nate dopo la cacciata dello zar. La «rivoluzione russa» del titolo non è quella bolscevica e di Lenin, che si avviò a luglio, ma esplose veramente per «ventisei ore, dall’una antelucana del 25 ottobre alle tre del 26» (e fu un testimone, come ora sappiamo, a raccontarlo). Erano gli scontri riguardanti in particolare Alexander Kerenskij, che nella «rivoluzione di febbraio» era stato ministro di Giustizia come membro del Partito socialista rivoluzionario e poi primo ministro, vero leader in quella rivoluzione. Un uomo che Zabughin adorava: «dionisiaco, sfolgorante, alto di mente e di cuore» (così lo descrive a pagina 247). Invece per lui Lenin diventa un «Dalai Lama» (p. 85) e il «ciarlatano più servizievole» (p. 275); mentre definì la più celebre delle bolsceviche, Alexandra Kollontaj, «la Marfisa della rivoluzione» (p. 147) tanto per ricordare che l’autore sapeva anche di Ariosto.
Sono pagine e pagine che descrivono gli scontri, la corruzione, gli affarismi che si intravvedono attraverso i conflitti del 1917 e però lasciano anche emergere le tendenze e l’atteggiamento del giovane intellettuale russo nel proprio paese: odiava i contadini (erano riusciti a guadagnare di più nell’esercito come soldati) e gli operai, che «andavano in giro, vestiti con inaudita eleganza» (p. 133); per questo considerava invece i borghesi i veri perseguitati da quella rivoluzione («borghesi affamati e grassi proletari», p. 165). Quanto all’ufficiale dell’esercito, era convinto che quello russo (a differenza degli italiani e dei francesi) «è di tempra alquanto femminea» (p. 162). Zabughin vede ogni cosa, anche lo zar decaduto e la famiglia e i suoi appartamenti, e tratta tutto con un certo disprezzo: perfino il «sottotenente russo che esortava gli amici a non dare elemosina a un lazzaroncello stracciato che la chiedeva in tedesco»
Quello a cui si assiste nel lungo racconto è un «immenso carnevale» che contiene di tutto: i «cadetti» – il partito liberale che prese il potere, «liberaloni con comica gravità» (p. 102) e con una «rassegnata cretinaggine collettiva» (p. 164); ma anche la «microcefala mentalità socialista» (p. 127) dei rivoluzionari che appoggiavano Kerenskij (e un po’ anche quella dei bolscevichi). Due pagine vengono dedicate perfino a Trotzki, che l’intellettuale incontrò il primo novembre 1917, quando la rivoluzione vera e propria, quella bolscevica, era partita e Zabughin voleva ormai «infilare l’uscio del colossale manicomio russo». A Trotzki chiese il passaporto per scappare, e lo ottenne. Lo descrive così: «È chiomato, barbuto e molto brizzolato». Ma il viaggiatore è anche feroce: «ha l’aria annoiata di colui che aspetta un mondo d’affari, senza che ne venga neppure uno».
Si può capire perché un libro così complicato fu più o meno ignorato dalla cultura, dai giornalisti e dai comunisti dell’epoca. Per contro fu esaltato da Giovanni Gentile, che nel novembre del 1918 ne scrisse una recensione favorevole sul giornale di Bologna Il Resto del Carlino. Anche questo è un dato di rilievo, che ci dice qualcosa di questo intellettuale complesso e interessante: come spiega Gabriele Turi nella biografia del filosofo, l’anno dopo, nel 1919, proprio quell’entusiasmo permise a Gentile di imporlo come nuovo incaricato di Letteratura umanistica all’Università di Roma. Ma anche per questo Zabughin ebbe dei problemi con la cultura italiana (ne ha parlato di recente con grandi dettagli uno studioso bolognese, Francesco Sberlati): troppo «religiosa» la sua lettura della storia dell’umanesimo, in un periodo in cui Gentile stava cercando di far penetrare il cattolicesimo nella cultura italiana. Non stupisce che, in proposito, non fosse piaciuto a Croce e neanche molto a Gramsci, che nei Quaderni del carcere ne respinse (come Croce) il «rinascimento cristiano». Ai laici veri non piaceva proprio.

L’ARTICOLO ORGINALE:

L’ossessione degli amori impossibili – recensione di Angelo Mastrandrea su Il Manifesto

L’ossessione degli amori impossibili – recensione di Angelo Mastrandrea su Il Manifesto

Narrativa. «La realtà pura», il romanzo di Riccardo De Gennaro per Miraggi Edizioni

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La realtà pura dell’omonimo romanzo di Riccardo de Gennaro (Miraggi edizioni, pp. 125, euro 12) è una stanza completamente bianca, inondata di una luce abbacinante, nella quale il protagonista Carlo Gozzini, un economista dai ragionamenti molto razionali, viene a trovarsi in un finale che ribalta il punto di vista sul quale è costruito il libro.

È IL PUNTO D’ARRIVO di una storia che si costruisce tutta attraverso il filtro della finestra di un’abitazione affacciata sul Tevere capitolino, attraverso la quale si snoda una spy story tutta immaginaria, fatta di pedinamenti e controlli ad opera di un’Organizzazione misteriosa che ha sede in una fantomatica «Casa al di là del fiume» che vuole impedirgli l’amore per una donna di vent’anni più giovane, attrice di bella presenza ma senza talento.
Il romanzo è la storia di un amore impossibile, il racconto lucido di un’ossessione che sfocia nel delirio, dove il protagonista arriva a determinare ogni situazione attraverso il suo immaginario, finendo per ritrovarsi invischiato in una prigione mentale simboleggiata dalla casa sul Tevere dalla quale osserva il mondo così come crede di vederlo.
Gozzini, in un gioco di proiezioni estreme, ne attribuisce la costruzione all’Organizzazione, si mette in testa che Blandine – questo il nome della ragazza oggetto dei suoi turbamenti – è stata ricoverata in una clinica psichiatrica, arrivando ad attribuire a lei, che non corrisponde ai suoi sentimenti, i propri disturbi mentali. Il protagonista del romanzo, che ricorda il Joseph K. de Il processo di Kafka, in un disperato tentativo di razionalizzare il proprio malessere interiore, finisce per costruirsi un mondo immaginario che dà forma al suo stato mentale.

DE GENNARO – firma nota ai lettori di Alias domenica e del manifesto, autore di una biografia dello scrittore Lucio Mastronardi (La rivolta impossibile, uscita per Ediesse) e fondatore del trimestrale Il Reportage – costruisce un congegno narrativo che non è altro che una metafora dell’impedimento, di quelle forze interne che bloccano ogni spinta a realizzare i propri desideri e, in fin dei conti, ci impediscono di trasformarci in quello che vogliamo essere.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE: https://ilmanifesto.it/lossessione-degli-amori-impossibili/