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Dove è passato l’angelo – recensione di Riccardo Cenci su PulpMagazine

Dove è passato l’angelo – recensione di Riccardo Cenci su PulpMagazine

Jan Balabán / Sull’orlo dell’abisso

Martin è uno studente, un brigádnik, ovvero un ragazzo obbligato a sperimentare il lavoro in fabbrica durante gli studi. Si muove in una città mineraria, Ostrava, dalle coordinate oscure, costruita su lande contaminate: “Nemmeno lo sa, di cosa esattamente sente la mancanza”. La sua gioventù è già consegnata alla sconfitta, piegata da un peccato originale che non sa di aver commesso. Non a caso la sua compagna, con la quale coltiva un sentimento impossibile, si chiama Eva. Quando la incontra a Londra nuovamente a distanza di tanti anni, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, è come se fossero gli unici due esseri viventi in un mondo morto. Jan Balabán è maestro nel delineare individualità smarrite, perse in atmosfere colme di abbandono. Dove è passato l’angelo, datato 2003, è il suo primo romanzo, oggi riconosciuto come un classico della letteratura ceca.

La perenne minaccia della guerra atomica, che modella il mondo sovietico, è destinata a non concretizzarsi: “non verrà alla luce nemmeno la guerra, di cui il mondo è gravido, sarà abortita dietro lo scudo atomico delle superpotenze, e tutti non faremo che invecchiare senza combattere”. L’immobilismo è la più grande tragedia. Nulla accade, mentre tutto si decompone lentamente: “La spinta delle cose morte, dei pensieri e dei sentimenti morti. Come abbiamo fatto a morire così, e allo stesso tempo a restare in movimento?” La vita trascorsa appare come una misera cosa appassita fra le mani. Le assurdità del mondo socialista, le assemblee pubbliche volontarie, in realtà obbligatorie, perché la mancata partecipazione basta a segnare il colpevole di fronte alla massa, l’individualità occupata da una società estranea, colma di menzogne, la vita trascorsa in una sorta di colonia penale dalla quale Petr, il fratello di Martin, decide di fuggire. I televisori accesi nei palazzoni tutti uguali, per non dover pensare a niente; eppure la testa di Martin seguita a pensare, anche se le parole non servono più a comunicare, ma salpano “come involucri vuoti sulla superficie di un fiume profondo”.

Strutturalmente il romanzo procede per brevi blocchi narrativi, a volte apparentemente eterogenei ma connessi da fili sottili che alla fine vanno a ricongiungersi. Dettagli sul protagonista emergono dalle parole di altri personaggi che nel passato hanno raccolto le sue confessioni. Vite si intersecano come tasselli di un puzzle, al quale mancherà sempre qualche elemento per essere completo. Balabán ha la capacità di evocare atmosfere claustrofobiche, facendo al contempo percepire la vastità dell’universo. È come se i suoi personaggi fossero giunti ai confini del tempo, senza riuscire a varcarli. Sono invecchiati inutilmente mentre i loro sogni, esalati verso il cielo, non torneranno più. Anelano l’eternità, ma è un desiderio vano. Misteriose origini dell’umanità che, secondo Martin, potrebbe benissimo discendere da una spedizione approdata sulla terra centinaia di migliaia di anni fa. Forse il mondo, dopo un’immane catastrofe, tornerà a essere popolato di belve feroci, avvinto da una giungla impenetrabile.

Il desiderio di lasciare il nostro spazio balena in una semplice corsa vista alla televisione, dove le atlete sembrano aver spiccato il volo verso un’altra dimensione. Il mondo attorno a loro scompare, e quelle figure appaiono come esseri puri, percepiti al limitare del mondo materiale prima di svanire chissà dove. Inquietante Balabán, quando pone il limite dell’esistenza fra i quaranta e i cinquant’anni, quasi profetizzando la propria morte improvvisa all’età di quarantanove anni. Le persone si crepano a poco a poco, come gli edifici fatiscenti nei quali sono costrette a vivere, come i paesaggi esausti che sono costrette ad abitare. Stordirsi con la vodka serve a poco, chi beve in solitudine, poi, beve con il diavolo che lo trascinerà nei più neri abissi. Eppure c’era stato un momento in cui la paura, l’ansia di essere ascoltati, interrogati, spiati continuamente, il terrore di sentire bussare alla porta i propri persecutori, era svanita all’improvviso. Aveva lasciato il posto a un vuoto, forse foriero di speranza, più probabilmente vacuo come un effimero sollievo.

QUI l’articolo originale:

Chiedi a papà – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Chiedi a papà – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Esce la traduzione italiana del libro “Chiedi a papà” di Jan Balabán. Dal titolo traspare un’amara ironia perché “chiedere a papà come siano andate realmente le cose non è più possibile”. Dopo la morte del medico Jan Nedoma, letteralmente tradotto “senza casa”, i figli Hans, Emil e Katerina insieme alla madre devono far fronte non solo al lutto, ma anche alle accuse inflitte di presunta complicità con le autorità comuniste e di corruzione mosse contro il padre da quello che un tempo era il suo migliore amico. “Chiedi a papà” è un libro che affronta temi sul senso, sulla qualità e sul percorso della vita umana, sui rapporti familiari, sulla malattia e sulla morte, ma anche su quello che si incontra dopo. Balabán riesce a descrivere in modo estremamente preciso l’aspetto tragico del destino individuale che inevitabilmente tende al suo punto finale. L’autore si pone diverse domande: non è forse vero che è dalla nascita che si comincia a morire? Chi siamo e che cosa facciamo nel frattempo?

QUI l’articolo originale:

http://www.progetto.cz/chiedi-a-papa/?lang=it

Chiedi a papà – recensione di Lorenzo Marotta su La Sicilia

Chiedi a papà – recensione di Lorenzo Marotta su La Sicilia

“Chiedi a papà”, un bellissimo romanzo sull’enigma di ogni singola esistenza

Un romanzo intenso e coinvolgente “Chiedi a papà” del ceco Jan Balabán, edito da Miraggi 2020 nella bella traduzione di Alessandro De Vito. Pubblicato nel 2011, un anno dopo l’improvvisa morte dell’autore, con una Nota dell’amico e poeta Petr Hruška al quale aveva consegnato il manoscritto nella versione definitiva. Al centro della narrazione la morte dell’anziano medico Jan Nedoma nello stesso ospedale dove aveva lavorato. Con lui i suoi tre figli, Hans, Emil, Katerina, e la moglie Marta, alle prese non solo con l’evento luttuoso, ma anche con le accuse contro di lui di corruzione e di complicità con il regime comunista da parte di uno dei suoi migliori amici. Un’ombra sulla condotta del padre e del marito che mette in moto il flusso dei pensieri dei parenti, ciascuno a vivere la perdita attraverso l’intreccio di ricordi, di dialoghi, di monologhi interiori, di riflessioni, sul tema della vita e della morte, la sua unicità e irrimediabilità. Un’immersione dello scrittore nelle pieghe indecifrate dell’animo umano dinnanzi al mistero della morte, di quella morte. Il venir meno, in quell’istante, della luce, anche quando, come per Jan Nedoma ed altri malati, attaccati ad una macchina per dialisi. Luogo della narrazione la città mineraria di Ostrava, tra veleni di fumi, vodka, divorzi, menzogne, solitudini. Singole esistenze che si trascinano tra lavoro, delazioni, corruzione e privilegi della nomenclatura comunista.  Un romanzo che non ha una trama lineare, per il dispiegarsi del tumulto di pensieri e di visioni oniriche dei protagonisti, resi con grande bravura immaginativa da parte dell’autore. L’incipit è dato da un canile affollato di randagi malridotti, il cui grido è sopraffatto dallo stridore acuto di un treno in corsa. Emil è lì con la moglie Jeny in cerca del cane da portare a casa. Ma a prevalere è “la porca memoria”, la stessa di cui un tempo andava orgoglioso. Un rincorrersi e accavallarsi di ricordi, di visioni, che attraversano la mente e agitano i sogni anche degli altri fratelli. Dettagli di vita nel ricordo del padre, tante sequenze di episodi accaduti, di atti mancati. Un racconto che procede per immagini, evocate attraverso poetiche descrizioni sulla luce all’inizio del crepuscolo, di percorsi nei boschi, di gigli nei campi che nessuno vede, di notti buie come l’impotenza della malattia che prelude alla fine. “E così avevo caracollato fino a casa dall’ospedale dove mio padre non poteva più alzarsi, tantomeno riprendere il suo letto”. Un bellissimo romanzo sull’enigma di ogni singola esistenza, nei suoi legami famigliari, sospesa fin dall’inizio nella sua unicità, tra luce e ombra, con la paura del distaccarsi progressivo della vita.

Ecco l’articolo originale: