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Jan Balabán / Sull’orlo dell’abisso

Martin è uno studente, un brigádnik, ovvero un ragazzo obbligato a sperimentare il lavoro in fabbrica durante gli studi. Si muove in una città mineraria, Ostrava, dalle coordinate oscure, costruita su lande contaminate: “Nemmeno lo sa, di cosa esattamente sente la mancanza”. La sua gioventù è già consegnata alla sconfitta, piegata da un peccato originale che non sa di aver commesso. Non a caso la sua compagna, con la quale coltiva un sentimento impossibile, si chiama Eva. Quando la incontra a Londra nuovamente a distanza di tanti anni, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, è come se fossero gli unici due esseri viventi in un mondo morto. Jan Balabán è maestro nel delineare individualità smarrite, perse in atmosfere colme di abbandono. Dove è passato l’angelo, datato 2003, è il suo primo romanzo, oggi riconosciuto come un classico della letteratura ceca.

La perenne minaccia della guerra atomica, che modella il mondo sovietico, è destinata a non concretizzarsi: “non verrà alla luce nemmeno la guerra, di cui il mondo è gravido, sarà abortita dietro lo scudo atomico delle superpotenze, e tutti non faremo che invecchiare senza combattere”. L’immobilismo è la più grande tragedia. Nulla accade, mentre tutto si decompone lentamente: “La spinta delle cose morte, dei pensieri e dei sentimenti morti. Come abbiamo fatto a morire così, e allo stesso tempo a restare in movimento?” La vita trascorsa appare come una misera cosa appassita fra le mani. Le assurdità del mondo socialista, le assemblee pubbliche volontarie, in realtà obbligatorie, perché la mancata partecipazione basta a segnare il colpevole di fronte alla massa, l’individualità occupata da una società estranea, colma di menzogne, la vita trascorsa in una sorta di colonia penale dalla quale Petr, il fratello di Martin, decide di fuggire. I televisori accesi nei palazzoni tutti uguali, per non dover pensare a niente; eppure la testa di Martin seguita a pensare, anche se le parole non servono più a comunicare, ma salpano “come involucri vuoti sulla superficie di un fiume profondo”.

Strutturalmente il romanzo procede per brevi blocchi narrativi, a volte apparentemente eterogenei ma connessi da fili sottili che alla fine vanno a ricongiungersi. Dettagli sul protagonista emergono dalle parole di altri personaggi che nel passato hanno raccolto le sue confessioni. Vite si intersecano come tasselli di un puzzle, al quale mancherà sempre qualche elemento per essere completo. Balabán ha la capacità di evocare atmosfere claustrofobiche, facendo al contempo percepire la vastità dell’universo. È come se i suoi personaggi fossero giunti ai confini del tempo, senza riuscire a varcarli. Sono invecchiati inutilmente mentre i loro sogni, esalati verso il cielo, non torneranno più. Anelano l’eternità, ma è un desiderio vano. Misteriose origini dell’umanità che, secondo Martin, potrebbe benissimo discendere da una spedizione approdata sulla terra centinaia di migliaia di anni fa. Forse il mondo, dopo un’immane catastrofe, tornerà a essere popolato di belve feroci, avvinto da una giungla impenetrabile.

Il desiderio di lasciare il nostro spazio balena in una semplice corsa vista alla televisione, dove le atlete sembrano aver spiccato il volo verso un’altra dimensione. Il mondo attorno a loro scompare, e quelle figure appaiono come esseri puri, percepiti al limitare del mondo materiale prima di svanire chissà dove. Inquietante Balabán, quando pone il limite dell’esistenza fra i quaranta e i cinquant’anni, quasi profetizzando la propria morte improvvisa all’età di quarantanove anni. Le persone si crepano a poco a poco, come gli edifici fatiscenti nei quali sono costrette a vivere, come i paesaggi esausti che sono costrette ad abitare. Stordirsi con la vodka serve a poco, chi beve in solitudine, poi, beve con il diavolo che lo trascinerà nei più neri abissi. Eppure c’era stato un momento in cui la paura, l’ansia di essere ascoltati, interrogati, spiati continuamente, il terrore di sentire bussare alla porta i propri persecutori, era svanita all’improvviso. Aveva lasciato il posto a un vuoto, forse foriero di speranza, più probabilmente vacuo come un effimero sollievo.

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