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La conversazione infinita. “Trittico” di Saša Sokolov.

La conversazione infinita. “Trittico” di Saša Sokolov.

di Manuel Paludi, «Andergrraund»

Saša Sokolov (Ottawa, 1943) è uno delle voci più importanti ed originali del panorama letterario dell’emigrazione russa del secondo Novecento. Esule nella vita, dal 1975, e nell’animo, è autore di tre romanzi: La scuola degli sciocchi (Škola dlja durakov, 1976; traduzione di Margherita Crepax, Salani 2007); Tra Cane e Lupo(1980); Palissandreide (Palisandrija, 1985; traduzione di Mario Caramitti, Atmosphere Libri 2019); oltre che di diversi saggi “proetici”. Trittico è l’ultimo e più maturo frutto della sua ricerca.

Sul pannello di destra del Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch – quello raffigurante “l’inferno musicale” – campeggia la misteriosa figura dell’Uomo-Albero. Il corpo di questa creatura è costituito da un guscio d’uovo schiuso sorretto da due gambe-tronchi calzati di scialuppe. Il suo volto – in cui alcuni hanno voluto vedere l’autoritratto del pittore fiammingo, altri addirittura quello dell’anticristo – è rivolto verso l’osservatore, mentre lo sguardo è diretto alla bisca ospitata all’interno del suo corpo, che osserva con aria indifferente e sorniona, come a una cosa che non lo riguardasse. Sul capo porta un disco inclinato su cui alcune figure ibride marciano tenendo per mano i corpi nudi dei dannati. A completare la scena, in alto a sinistra si trovan o, tra le altre cose, un paio di orecchie trafitte dalla lama argentea di un pugnale.

L’Uomo-Albero – atipico direttore d’orchestra nell’“inferno musicale” del trittico di Bosch – sembra una figura quanto mai adatta per parlare di un altro trittico, che, anche se meno grottesco, non è per questo meno musicale, né meno brulicante di strane creature. Si sta parlando dell’ultimo libro dello scrittore di lingua russa Saša Sokolov, Trittico (Triptich, 2011), tradotto in italiano da Martina Napolitano per i tipi di Miraggi Edizioni. Il volume, che, come gli altri della collana “janus|giano”, gode del pregio di riportare il testo originale russo a fronte, raccoglie e presenta per la prima volta al pubblico italiano tre componimenti poetici pubblicati inizialmente sulla rivista letteraria “Zerkalo” durante gli anni 2000.

I tre “pannelli” che vanno a comporre Trittico – Ragionamento (Rassuždenie), Gazibo, e Il filornita (Filornit) –  sono suddivisi in strofe numerate di lunghezza variabile non rispondenti ad alcuno schema metrico tradizionale. La scelta di adottare il cosiddetto verso libero non è casuale da parte di Sokolov e, come non manca di sottolineare la traduttrice nella prefazione al libro, sembra rispondere alla precisa volontà dell’autore di risalire alle origini prime della poesia e della lingua, che sono confuse con quelle della musica. I tre componimenti infatti abbondano di riferimenti e indicazioni musicali che conferiscono al testo un carattere quasi librettistico. Anche la struttura corale (mnogoloso p. 42), e il carattere performativo dell’opera, da leggersi espressamente “a voce non troppo alta”, “come un recitativo” (p. 37), sembrano confermare il desiderio dell’autore di ricongiungersi alle origini ancestrali della poesia, intesa prima di tutto come dialogo polifonico sul Bello (izjaščnoe) che dovrebbe trascendere la sfera dell’umano.

Prendiamo piuttosto il punto di vista dell’eternità,
allora diverrà chiaro che tutto, compresa
la sabbia dispersa del sahara
dai sette samurai,
si sistemerà, s’incollerà,
si riunirà, tornerà come prima
” (p. 49)

Se da un lato la danza linguistica” (p. 5) di Trittico si articola sul piano atemporale dell’Arte e nella dimensione ciclica dell’eterno ritorno, dall’altro il testo si pone espressamente come autentico documento umano” (p. 45), che in virtù del suo legame con la phonè, con la voce, o meglio, con le voci, acquista una portata etica. In quest’opera infatti, in modo ancora più radicale che nelle precedenti, la figura autoriale si dissolve nel respiro ritmico della scrittura e del verso, e, come il corpo dell’Uomo-Albero nel trittico di Bosch, si fa concavo per ospitare una moltitudine di personaggi e di voci, a cui guarda con un sorriso misto di malizia e rassegnazione, come se non gli appartenessero, come se provenissero, appunto, da altrove.

Nella vita come in Letteratura, Saša Sokolov esorta i lettori ad abbandonare le categorie prestabilite (“ci è assai di conforto che voi non siate di quei / linnei che gli insetti e gli uccelli, / sulla sola base che i secondi / sono alati sempre, e i primi talvolta, / li riducono al comune denominatore, / […]  ah, quanta ancora superficialità in loro, / quanto dogmatismo” pp. 67-69), orientandosi piuttosto verso una visione panteistica del mondo e dell’esistenza, in cui “qualunque cosa si prenda è correlata” (p. 73). Solo così si sarà in grado di pensare a folate, nello stile del vento” (p. 63), ma anche nello stile del fiume” (p. 65) e in quello del giunco; ovvero di uscire dalla monade del sé per divenire Altro.

In questo senso, Trittico rappresenta l’ultima tappa della ricerca dello scrittore, che porta alle estreme conseguenze il progetto di disgregazione della voce narrativa già iniziato nel suo romanzo d’esordio, La scuola degli sciocchi. Il risultato è una scrittura diafana e rarefatta che oscilla tra espressionismo astratto e preziosismo barocco, e in cui è talvolta impossibile stabilire con certezza quale sia l’argomento del discorso e chi stia parlando. Che sia, per esempio, la vedova di guerra trasformata in mosca in Gazibo, il compositore cinquecentesco Antonio Scandello, o ancora la signora ispanica che appare nel Filornita, personaggi e voci si accavallano e si confondono nelle pieghe del tessuto contrappuntistico dell’opera, che, nonostante gli appigli offerti dall’apparato di note che correda il volume, a un primo approccio può lasciare a dir poco disorientati.

Una possibile strategia per approcciare un testo di questo genere sarebbe forse quella di “tirare i remi in barca” e, inerti, lasciarsi trasportare dal flusso sonoro della scrittura, così come, del resto, l’autore stesso si lascia volentieri andare ad un’euforia puramente fonetica per la Parola, e per la sua capacità di generare associazioni inaspettate, personaggi ed episodi sempre nuovi. Questo entusiasmo si riflette, per esempio, nel leitmotiv dell’enumerazione e delle liste, che percorre in modo trasversale i tre “pannelli” di Trittico.

Già artificio principe del cosmo sokoloviano, liste ed elenchi vi svolgono una funzione opposta a quella che a loro viene solitamente assegnata, cioè invece di ordinare il discorso, hanno il compito di disperderlo ulteriormente, e di mostrare quindi il mondo e il linguaggio nella loro dimensione di caos e entropia. Ma poiché, si sa, i dettagli sono nella lettera” (p. 37), l’elenco particolareggiato, stilato lentamente, con cura e dovizia di particolari, diventa per esteso metafora delle Belle Lettere e, quindi, della creazione di quel Bello (izjaščnoe) che è al cuore della poetica dell’autore. Inoltre, come confermano i riferimenti ai papiri e alle antiche civiltà mesopotamiche disseminati per il testo, in Trittico cataloghi, liste, fogli contabili, registri e quant’altro si legano al tema dell’infanzia della scrittura, alle cui origini si trova appunto l’esigenza di enumerare ed elencare possedimenti e beni, e di rendere conto degli scambi commerciali.

In conclusione, non resta che augurare buona fortuna (e buon viaggio!) alle lettrici e ai lettori italiani che vogliano cimentarsi con un’opera tanto complessa e stratificata come Trittico. La traduzione della sokolovedka Martina Napolitano, fedele alla sostanza originale della lingua dell’autore, sarà di certo una guida preziosa per apprezzare a pieno la bellezza e la musicalità di questo testo fuori dal comune: un vero e proprio giardino delle delizie.

QUI l’articolo originale: https://www.andergraundrivista.com/2024/05/31/la-conversazione-infinita-trittico-di-sasa-sokolov/

Esercizi di sconcerto in versi volanti

Esercizi di sconcerto in versi volanti

di Mario Caramitti – ALIAS DOMENICA 5 MAGGIO 2024

Quanto è superata la forma mentis del Novecento? Quanto sono distanti da noi relativismo, disintegrazione e disseminazione del senso, panestetismo elitario? Può essere letto come un test in merito il quarto libro (in ottanta anni) del più raffinato e celebrato scrittore russo vivente, Saša Sokolov, Trittico (Triptich, 2011), edito in italiano da Miraggi (traduzione di Martina Napolitano, pp. 240, € 21,00) summa e consuntivo di una intensa parabola creativa della quale, dopo due decenni di silenzio, lo scrittore russo torna a riallacciare i fili, sospesi tra il modernismo faulkneriano (Scuola di scemi), lo sperimentalismo neoavanguardistico (Inter canem et lupum) e il postmodernismo (Palissandreide). 

Trittico si interroga e interroga anche noi su quale sia stata e sia oggi la strada dell’arte, su chi ancora è disposto a credere alla costruzione del bello in sé, svincolato da ogni fazione e mozione. In una Russia già affetta dal putinismo la risposta è stata desolante. Ma anche altrove il ritorno di uno scrittore un tempo leggendario ha avuto flebile eco, tanto che quella di Martina Napolitano, promotrice a livello internazionale del verbo sokoloviano, è la prima traduzione in assoluto. 

Tra prosa e poesia 

Il dubbio esito del test non è comunque ascrivibile al nuovo Sokolov, che non è mai epigono di se stesso e propone una chiave espressiva, fluida, sintetica, resa aerea dal ritmo. Perché, in primo luogo, Trittico è una sfida a cancellare definitivamente i confini tra prosa e poesia: dopo avere messo in tensione, in tutti i suoi libri, la prosa fino a un grado di densità fonico-espressiva così estremo da rallentarne la fruizione ben più che in poesia, lo scrittore russo opta ora per versi liberi meno compressi e esasperati della sua prosa; l’attrito si sposta tra semantica – vaga, astratta, eterea – e ritmo, che avanza a spire, in un afflato pressoché ininterrotto (mai un punto fermo) eppure placido, sobrio, non riconducibile a nessuna tipologia metrica (men che meno al sillabotonico della tradizione russa) ma intenso e trascinante, sacrale per la sacralità intrinseca che ha la parola in Russia e, al tempo stesso, ludico per ineffabile leggerezza.

Trino e uno, quasi a evocare un intrinseco agnosticismo cosmico, il libro è la sommatoria di tre poemetti, uniti e distinti secondo criteri imperscrutabili: il ritmo connotante non cambia, ma nel primo i versi molto lunghi tendono a avvilupparsi, a scorrere gli uni sugli altri, mentre nel secondo sono altrettanto lunghi ma dinamici, quasi volanti, e nel terzo si passa a versi brevi e scanditi. 

Il tessuto poetico è però inconfondibile e omogeneo, contraddistinto da catene allitterative che divengono autentiche macchie d’omofonia estese a più versi: per darne un’idea senza ricorrere alle pur eccellenti doti mimetiche della traduttrice, prendiamo «nelle trattorie di Rimini e Taormina», che è praticamente in italiano nel testo. Allo stesso modo, in assenza quasi totale di personaggi in qualche modo definiti (non ci sono neppure le maiuscole), gli argomenti di un poema sono presenti in misura ridotta negli altri, molti motivi sono trasversali a tutti e tre (e a tutta l’arte di Sokolov, salvo quello del catalogo, elenco, registro, fin tassonomia linneana, che è distintivo di Trittico). 

Il polilinguismo verte prima più sul latino e il greco, poi sul tedesco, infine sullo spagnolo e il sanscrito (sempre per flash, per isole, senza invadenza). Insomma, data la dominante musicale nell’immaginario e nella terminologia, si potrebbero intendere come tre pezzi, tre brani, suscettibili o meno di assemblarsi in sinfonia.

Il primo, Ragionamento, è una scansione pressoché ininterrotta del procedimento del catalogo, in primo luogo di riflessioni, di discorsi, e poi via via di lingue, forme d’arte, errori, o semplicemente fogli e documenti contabili. Superato lo sconcerto iniziale, ci si rende conto di essere entrati in un universo nel quale la comunicazione avviene principalmente in seconda persona, sia singolare che plurale (cui si aggiunge il «voi» russo di rispetto): da un lato il narratario è il soggetto, il «tu» eterno della poesia si autoflette, parla in realtà dell’«io», dall’altro si avvicenda un numero non identificabile né definibile di personaggi, che si chiamano, s’interrompono, si sovrappongono di continuo.

Ragionamenti differiti

La narrazione è straordinariamente fratta, si ha l’impressione di essere in qualche luogo imprecisato assieme a un numero sterminato di persone che dialogano. Il tempo, invece, è quello canonico di Sokolov, del tutto indistintamente presente, passato o futuro, un tempo in cui «la sabbia dispersa nel sahara/ dai sette samurai,/ si sistemerà, si incollerà/si riunirà, tornerà come prima». Al «ragionamento» principale, come prevedibile, mai si arriverà, anche se potremmo inferire che in qualche modo lo sono gli altri due testi. 

Nel secondo poemetto, Gazibo, il luogo è all’apparenza ben definito, il padiglione da giardino del titolo, con grafia modellata sulla pronuncia del termine inglese (che non esiste in russo); altrettanto lo è il tempo, dalle prime stelle al crepuscolo del mattino, durante il quale le voci alle quali siamo ormai abituati, e che in queste circostanze assumono da subito una connotazione ultraterrena, quasi vampiresca, discutono del bello in arte. 

L’intercambiabilità cronotopica assoluta è perciò accompagnata qui da alcune specifiche concrezioni: da una riunione di trovatori del 1111, alla Germania rinascimentale a una cornice tardo ottocentesca. C’è anche un abbozzo di personaggio, il musicista cinquecentesco Antonio Scandello, girovago per le corti tedesche, accostato o assommato all’Ebreo errante, proiettati entrambi sul destino esule del creatore, in termini assoluti e specifici (Sokolov è in emigrazione dal 1975). 

Solo qui troviamo una parvenza di intreccio, plurimo e mutevole, ma estremamente dinamico e coinvolgente: il racconto in prima persona di una vedova di guerra («io» è però ora lei, ora il marito) che dal bacio rituale in chiesa con uno sconosciuto passa senza soluzione di continuità a una maratona erotica quasi ininterrotta, alla quale il partner zoologo e/o musicista aggiunge continui tradimenti con le femmine di bonobo che ha messo a disposizione delle sue ricerche; alla crisi coniugale segue l’ospedale psichiatrico, l’arruolamento in un reggimento musicale e la morte mentre si esibisce in trincea.

La chiusa è un evidente climax, e il terzo testo, Il filornita, riparte da atmosfere più rarefatte, fondamentalmente una rappresentazione teatrale in un museo zoologico nel quale avvengono misteriose apparizioni, in primis di una «secca señora» ispanofona che è la dama-morte visitatrice comune a tutti i testi di Sokolov: l’addio non potrà perciò arrivare se non da un cicerone in gondola che salpa dall’isola di San Michele a Venezia, sacrario degli artisti del Novecento.

In italiano tanto incoercibile fantasia linguistica resta sorprendentemente viva grazie alla molto efficace e raffinata traduzione di Martina Napolitano, capace di reinventare con lecito arbitrio porzioni del tessuto paronimico e di innescare con raffinata sensibilità musicale la fascinazione sommersa del ritmo, che continua, come nell’originale, a trasmettere scosse e vibrazioni: «un contesto, un carattere, un tratto del continuum,/ un arto perso in corsa, un pezzo, volendo, di destino».

QUI l’articolo originale: https://ilmanifesto.it/sasha-sokolov-esercizi-di-sconcerto-per-versi-volanti