fbpx
“Roma”: la recensione di Stefania Nix su la Libertà

“Roma”: la recensione di Stefania Nix su la Libertà

Stefania Nix

La labile linea che separa realtà e finzione, e la possibilità che i due piani s’intreccino e si scambino di posto, sono i temi chiave dell’ultimo romanzo di Nicola Manuppelli, milanese trapiantato a Piacenza, traduttore dall’inglese coon già due libri di narrativa alle spalle. “Roma”, pubblicato da Miraggi edizioni, è ambientato nel mondo di Cinecittà all’inizio degli anni Settanta e racconta di una sgangherata banda di giornalisti sui generis che scrivono, ma molto più spesso creano, notizie di gossip su attori famosi. Come quando Satchmo – capo e anfitrione della compagnia, un moderno Trimalcione, come lo stesso autore lo definisce, alto poco più di un metro e somigliante a Louis Armstrong -, per poter scattare una foto che documenti di una fantomatica riconciliazione tra Richard Burton e Liz Taylor, non esita a far travestire il suo eclettico collaboratore Calabria, facendogli vestire i panni dell’attrice hollywoodiana, con esiti grotteschi ed epilogo rovinoso. Protagonista del libro è Tommaso che, partito da una Milano descritta come stoica e polverosa, si ritrova travolto da una città epicurea, gaudente, dissacrante, una città stracciona e felice. Il libro attinge all’immaginario felliniano, s’inspira al regista riminese fin dal titolo, e vedrà, al suo culmine, la sguaiata cricca guidata da Satchmo sul set di “Roma”, in una scena acquatica e quasi orgiastica la cui pellicola, naturalmente, andrà persa. Se felliniano è il libro, ancor più felliniana è stata la presentazione piacentina a palazzo Ghizzoni Nasalli, organizzata dalle librerie Fahrenheit e BookBank. Infatti, insieme a Manuppelli e al giornalista di Libertà Paolo Marino, c’era l’attore americano Peter Gonzales Falcon, che nel film “Roma” impersonò un giovane Fellini che lascia la Romagna e, guarda caso, approda in una Roma fantasmagorica. Gonzales ha raccontato in maniera suggestiva la forza dello spirito felliniano e la città che visse in quegli anni magici tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo. «Tanti pensano che la Roma rappresentata da Fellni fosse tutta un’invenzione, invece era proprio come lui la racconta, un’immensa festa dove si viveva assieme e ci si divertiva. Gli americani fanno fatica a capirlo».

Il romanzo di Manuppelli è soprattutto un libro di storie che si affastellano una sull’altra, di invenzioni e di avventure bizzarre. Ed è attraverso il gioco del racconto che Tommaso trova infine se stesso. A Roma Tommaso riesce a liberarsi dalla corazza «di uno nato in un posto freddo», una corazza, dice, che «invece di difendermi, mi isolava». A Roma Tommaso scopre la vita. «Lì dentro, a Cinecittà, era come tornare bambini. Era esaltante, era gratificante. Inventare. Costruire mari di plastica, teatri di marionette, ombre cinesi. Partecipare gioiosamente a quell’attività semidivina che è la creazione. Giocare. Giocavano tutti. Io mi sentivo fortunato, mi sentivo eletto e mi sentivo Tommaso del presente che aveva fatto pace con tutti i Tommaso precedenti. E in quel giardino dell’Eden non c’era più nulla da riconciliare, non c’era più nemmeno il tempo. C’erano le infinite possibilità delle storie».

Alla ricerca dell’happy end con le poesie di Manuppelli

Alla ricerca dell’happy end con le poesie di Manuppelli

Un’opera prima, un titolo intrigante. Nicola Manuppelli nella vita è un traduttore che si definisce “talent scout”: si imbatte in un autore (rigorosamente anglofono) e lo spinge, se gli piace. Come fanno gli osservatori per le squadre di calcio, gente che trascorre il tempo a scoprire buoni calciatori sui terreni della provincia. Stavolta, però, Manuppelli è sceso in campo in prima persona. Con le poesie e con quel titolo, che non passa inosservato: “Quello che dice una cameriera”. Il motivo? Eccolo spiegato: “Ho scelto il titolo come facevano i cantautori per gli album, dandogli quello di una canzone contenuta nel disco. La cameriera è una figura che ritorna in tanti pezzi, l’ho incontrata in tante cose che traduco. Io stesso sono stato un cameriere. C’è tutta una filosofia dentro questo mestiere, un mondo che mi affascina molto”.

Per quale motivo?
Perché è un figura femminile e perché vive in un universo di cose fuggitive. Mi piacciono i luoghi di passaggio, come gli alberghi e gli aeroporti. Il cameriere è un lavoro di passaggio. Lo fai per un attimo. Però dietro c’è sempre una possibilità, nasconde altre storie. Una sospensione che mi affascina”.

Come è nato il libro?
Ho cominciato a scrivere quando avevo 18-20 anni, io sono del 1977. Oddio, chiamarle cose del secolo scorso mi fa un certo effetto. Ho iniziato dopo aver letto Yeats. Si tratta di materiale distribuito nel tempo, alla fine avevo 400 brani tra cui scegliere. Sono partito suonando a casa di Fernanda Pivano per farle leggere alcune cose. Doveva essere una cosa da una decina di minuti, si è trasformata in giorni e giorni trascorsi da lei. Un’educazione sentimentale che dura fino a Blue John, scritta poco prima di sposarmi a marzo e prima di un lungo viaggio negli Stati Uniti”.

C’è un filo conduttore?
Mi piace molto immaginare, non raccontare cose mie. E’ una ricerca della bellezza intera, della bellezza pacifica non tormentata. Con un sottofondo molto hollywoodiano, all’inseguimento del lieto fine. Mi ritrovo poco con alcune tendenze attuali, che privilegiano il cinismo. E’ un atteggiamento che non amo. Cerco la bellezza come la descrive Yeats in suo verso: Come posso distinguere la danza da chi danza?”.

Ti piace confrontarti con il pubblico?
L’obiettivo è suscitare emozioni. Avrei voluto fare il cantautore, ma non so suonare. Allora ho usato le parole. Il sogno della mia vita era leggere e scrivere, lavorare con le parole, valorizzarle come facevano le vecchia compagnie di teatro. Leggere la letteratura è la forma di espressione che amo di più: vai in giro, incontri la gente. Questi sono per me i reading, un modo per fare effetto sulle persone: colpire una donna, rendere allegro un amico, avere un pubblico”.