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ARCHEOLOGIA DEL PRESENTE, NEL GHETTO DI TEREZÍN – Recensione di Michele Pascarella su Gagarin-Magazine

ARCHEOLOGIA DEL PRESENTE, NEL GHETTO DI TEREZÍN – Recensione di Michele Pascarella su Gagarin-Magazine

Brevi note su L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien di Enrico Pastore.

Libro chiama libro. Vien da pensare a Ernst Bloch, al suo Lo spirito dell’utopia, a una idea di arte (e in particolar modo di musica) che non realizza l’utopia, ma la preannuncia: la musica, per Bloch, è forma che prelude all’espressione, lingua non ancora formata, «balbettio di bimbo» che tende alla condizione di linguaggio.

Libro chiama libro. Come non ricordare la raccolta poetica di Andrea Zanzotto, La beltà? Siamo nel 1968, a far rivoluzioni dentro e attraverso la lingua. Parola come istanza di liberazione dalla repressione e dalla scontata omogeneità dell’idioma ufficiale, alla ricerca del dire primordiale: il balbettio del petèl è l’incarnazione linguistica del desiderio.

Libro chiama libro. Desiderio e morte si agitano nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, nell’incessante lavorìo volto a identificare le manifestazioni (la “scienza di ciò che appare”: fenomenologia, appunto) attraverso le quali lo spirito si innalza dalle forme più semplici di conoscenza a quelle più generali.

Si potrebbe a lungo continuare, tanto è feconda di stimoli e sviluppi rizomatici quest’opera minuscola e monumentale di Enrico Pastore, intellettuale piemontese che con rigorosa attitudine da «storico immediato del reale» racconta la vicenda del «ghetto modello» di Terezín attraverso la lente de L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien, «una di quelle rare opere che hanno il potere di portare alla luce un frammento di verità abbagliante», come lo stesso autore annuncia in Premessa (p. 7).

 

 

Il libro di Pastore parla di Terezín, «il ghetto modello voluto da Eichmann per ingannare il mondo» (p.9), e lo si fa con solida attitudine scientifica, affondando con precisione analitica nel «campo nelle menzogne», nelle biografie degli autori, nelle paradossali condizioni produttive, per poi analizzare da molteplici punti di vista l’opera e riportarne, infine, il libretto.

Vien da pensare a Foucault, alla sua Archeologia del sapere, a un’idea e una prassi di cultura che mette al centro le conoscenze imperfette, le lingue fluttuanti.

Il grande merito di questo saggio, si può forse sintetizzare, è quello di aprire una quantità di fonde domande sull’oggi e sul nostro essere attraversati dal (e costituiti di) linguaggio, mediante il rigoroso affondo in una vicenda storica e dunque, a rigore, affatto altra da noi.

Come non istituire un feroce parallelo tra «l’illusione messa in scena per raggirare il mondo» (p. 17) e la manipolazione della quale tutti oggi siamo oggetto nella «società dello spettacolo» (Debord docet), anche se con mezzi più suadenti e sottili?

Come non accorgersi che i modi di reagire all’infida, bipolare, sbandierata opportunità di praticare le arti nel Campo di Concentramento Theresienstadt, tra coloro che «dimenticarono il ghetto e si gettarono nell’attività artistica come se si trovassero sui palcoscenici di Praga o Berlino prima dell’avvento del nazismo» (p.17) e quelli che «continuarono a utilizzare l’arte come forma di diniego e resistenza all’orrore nazista a rischio della propria incolumità» (ibidem), rispecchia esattamente le analoghe, opposte attitudini degli uomini e delle donne di scena d’oggi?

«Gli strumenti musicali furono da principio vietati e il loro solo possesso passibile di pena capitale» si legge a p. 56 «Solo in un secondo momento, quando i nazisti realizzarono di poter sfruttare le attività spettacolari per i loro fini di propaganda essi furono resi disponibili, anche se spesso erano di cattiva, se non pessima, qualità»: come non pensare alle dinamiche familistiche, se non di smaccata convenienza, che regolano le scelte di coloro i quali, nelle odierne posizioni di potere, hanno la possibilità di decretare la (s)fortuna, se non addirittura la sopravvivenza, di questo o quel soggetto artistico?

Detto altrimenti: questo affondo su L’imperatore di Atlantide dà la possibilità di «rovesciare il piano estetico della composizione e dell’esecuzione su quello etico», come efficacemente sintetizza Marida Rizzuti nella densa Guida all’ascolto (p. 120).

Un libro che ci sentiamo di consigliare con calore a tutti: per conoscere meglio una vicenda non abbastanza nota e, attraverso di essa, porsi molteplici, salutari domande sul nostro sghembo, smemorato presente.

Chapeau. 

MICHELE PASCARELLA

 

Enrico Pastore, L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien, Miraggi edizioni, Torino, 2019, 208 pagine, € 18

Articolo originale qui: https://www.gagarin-magazine.it/2019/06/libri/archeologia-del-presente-nel-ghetto-di-terezin-brevi-note-su-limperatore-di-atlantide-di-enrico-pastore