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I Pellicani – Daniela Morandi intervista Sergio La Chiusa sul Corriere della Sera

I Pellicani – Daniela Morandi intervista Sergio La Chiusa sul Corriere della Sera

Padri tormentati dai figli, tra immaginazione e realtà

La scrittura è fitta. Trascina il lettore in una spirale ossessiva, a tratti claustrofobica. «I Pellicani, cronaca di un’emancipazione» di Sergio La Chiusa si consuma all’interno di un edificio decadente e disabitato. O meglio, un residente c’è: Pellicani padre, anche se l’io narrante del figlio, in visita dopo vent’anni d’assenza, ha qualche dubbio sulla reale paternità. Unica somiglianza? Un naso ingombrante. In un continuo rimando tra realtà, finzione, aspettative, vecchiaia e giovinezza, si assiste all’immobilismo di un giovane uomo alle prese con temi sociali ed esistenziali. Lo scrittore, tra i finalisti del Premio Bergamo, ne parlerà oggi alle 17 sui canali social della manifestazione, intervistato da Maria Tosca Finazzi.

Come nasce il titolo?

«Pellicani è il cognome dei protagonisti, richiama il loro naso ingombrante e ironicamente anche la simbologia cristiana del pellicano: il padre che si sacrifica per i figli, mentre nel romanzo un ipotetico padre è tormentato da un ipotetico figlio».

Il sottotitolo «cronaca di un’emancipazione» è più ironico che reale.

«Sì, gioca con il sentimento del contrario che anima il romanzo. Non si tratta di una cronaca, ma di una continua interpretazione tendenziosa e contraddittoria. Poi le emancipazioni sono parodie di un’emancipazione: il giovane vive confinato nella trappola della propria mente, il vecchio nella trappola del proprio corpo, entrambi nella trappola dell’immobile».

Nel testo si relaziona molto con gli oggetti, valigetta, pantofole, peluche, Pinocchio, mollette… Perché?

«Gli oggetti affollano il romanzo supplendo alla povertà di personaggi. Sono usati come protesi del corpo, simboli, sintomi, indizi e agenti provocatori. Formano una specie d’inconscio fisico e si presentano allo sguardo paranoico di Pellicani come maschere dietro le quali si nasconde qualcosa di minaccioso, enigmatico, ostile. Anche se il rapporto che egli v’instaura ha spesso esiti comici, risultano perturbanti e possono essere visti come fili di un’immensa ragnatela tesa intorno alle nostre esistenze dalla società dei consumi».

L’io narrante afferma che «l’ozio è la forma assoluta della ribellione», «il nullafacente il vero sovversivo dei tempi moderni». Lo crede anche lei?

«No. L’io narrante è un portatore di conflitti, contraddizioni, ambiguità. Non il portavoce dell’autore. In taluni casi però la diserzione, non l’ozio, è la sola forma possibile di ribellione».

Nel romanzo il protagonista afferma che l’inclinazione a scomparire è una prerogativa degli asociali. Lei è sociale o asociale con la tendenza a scomparire nei suoi libri?

«Mi ritengo un essere sociale. Scrivere però è intimamente contraddittorio: un lavoro di solitudine e tuttavia rivolto idealmente a una folla ignota d’individui, sconosciuti gli uni agli altri, distanti nello spazio e nel tempo».

Si ritrova una continua relazione tra realtà e finzione.

«Uno dei temi del libro è il rapporto tra immaginazione e realtà, tra la fabbricazione di un mondo fittizio e la miseria del reale e della nuda vita, con i suoi limiti biologici, e il vecchio, con le sue esigenze di semplice sopravvivenza, rappresenta per il giovane uno specchio deformante che produce ossessioni».

La storia è ambientata in un caseggiato disabitato e decadente. È reale o il labirinto della mente?

«È un caseggiato reale, ma anche metafora d’una società in rovina e soprattutto labirinto mentale, intrico di stanze, scale e corridoi immateriali nel quale si consuma il confronto tra vecchiaia e giovinezza».

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Endecascivoli – Paolo Restuccia intervista Patrizio Zurru su Genius

Endecascivoli – Paolo Restuccia intervista Patrizio Zurru su Genius

PATRIZIO ZURRU: “MOLTO DELLA FORMA RACCONTO LA DEVO AL MIO DISORDINE, CON LA FORMA LUNGA RISCHIEREI DI PERDERMI”

Patrizio Zurru ha appena pubblicato per la casa editrice Miraggi un libro di racconti di una pagina o poco più (sono 65 come il suo anno di nascita, precisa lui) dal titolo Endecascivoli, che con la sua carica ironica e surreale sembra già un racconto in sé e per sé. Io ho sempre trovato molto interessanti le storie brevi e ne scovo poche in giro tra gli autori di casa nostra (pure se sono una tradizione antica e ricca della letteratura italiana). In più mi piacciono i calembour venati di nostalgica malinconia. Inoltre l’ironia di Zurru non gli impedisce di scambiare con il lettore sguardi che vanno oltre una lettura superficiale e anzi riesce a portarlo dallo stupore al dramma e dal divertimento sottile all’apertura di impreviste finestre da cui scivolare in nuovi universi che potrebbero aprirsi appena oltre quello della nostra vita quotidiana. L’autore stesso sembra scivolare come i suoi racconti sulle onde del mare agitato dell’editoria, visto che oltre a scrivere è stato editore, libraio, agente letterario, ufficio stampa e ora si occupa della comunicazione della casa editrice Arkadia, dove cura la collana SideKar insieme a Mariela e Ivana Peritore. Così mi è sembrato giusto scambiare con lui le solite due chiacchiere domenicali (in genere sono quattro le chiacchiere, ma qui parliamo di racconti brevi e non di romanzi…).

Il lettore incontra subito una citazione da Augusto Monterroso, che fu citato da Calvino nelle sue Lezioni americane. Ti trovi a tuo agio lì, tra la rapidità e la narrazione fantastica?
Questo racconto di Monterroso apre dei mondi con poche parole, mi piacerebbe pensare fosse così anche per i miei, in realtà molto della forma racconto la devo al mio disordine, con la forma lunga rischierei di perdermi.

Il titolo invece è un calembour che richiama il verso poetico, un verso che però sembra non riuscire a contenere tutto quello che vuoi dire e lo lascia scivolare giù. Questo ho pensato, è un po’ folle come lettura?
È la giusta interpretazione, fatto salvo il fatto che più che di poesia lo chiamerei ritmo (o Ritmo, come l’auto Fiat che tutto era tranne auto e tranne ritmo).

Insieme ai racconti il libro contiene delle cornicette che invitano i lettori a disegnare, a scarabocchiare, come si faceva durante le telefonate di una volta (scrivi tu), mi pare un chiaro invito alla creatività del lettore, no?
È pensata come forma di lettura interattiva, ero curioso di sapere cosa può ispirare la lettura, quindi la cornice col bianco lascia la possibilità di sfogarsi, nel bene e nel male.

La leggerezza che insegui però non esclude la malinconia e nemmeno il dramma. Si può dire proprio tutto in poche parole?
Abbiamo uno dei migliori vocabolari al mondo, per quantità di termini. Io credo che incastrati bene, come nel Tetris, ci sia la possibilità di dare densità a piccoli spazi, o almeno ci provo.
La risposta è Si può, sì, volendo si può.

Carbone, miniera, pioggia, terra e odori, che spazio ha nella tua immaginazione la materialità delle cose?
Una presenza predominante, un riappropriarsi di tutto quello che la velocità e i nuovi mezzi ci fanno trascurare, perché ritenuti pesanti o superflui. L’idea di scrivere per odori, colori, sensazioni epidermiche mi ha sempre attirato.

E la nostalgia?
La nostalgia c’è, ma non solo la mia. Racconto la nostalgia dei miei familiari, genitori, fratelli, zii e cugini, per quello che poteva essere perduto. Molti dei racconti sono scritti quasi su commissione, non esplicita ma dettata da mezze frasi riferite a episodi di quei tempi.

Mi ha colpito in uno dei racconti l’apparizione/sparizione di Gigi Riva. Ti appassiona l’epica del quotidiano?
Mi appassiona moltissimo. In quel caso si trattava di un personaggio noto a tutti, e qui si gioca facile, mi interessa come facente parte dell’epica molto di più il tipo in bicicletta con la molletta a tenere il pantalone, la brillantina e la Nazionale senza filtro, un personaggio così ho scoperto essere ben più condiviso nella memoria collettiva, (Almeno, da chi ha più o meno i miei anni).

I racconti sono in prima persona ma, insomma, quanto è vero quello che racconti? Sei sempre tu il protagonista?
Si parte da una base sì vero, ci sono sempre io, più o meno, o qualcuno a cui sono stato particolarmente legato, anche nei racconti “inventati” e alla Big Fish, come la storia del tipo che legava gli spaghi e l’uomo sui trampoli, ci sono nella misura in cui ho raccontato la verosimilità di personaggi realmente esistiti.

Hai mai immaginato un Patrizio Zurru nato in un’altra parte del mondo? Come sarebbe uno Zurru non sardo?
Ho pensato a un Zurru non sardo, e mi è mancata l’isola intorno, come sentirsi nudo senza questo vestito fatto di doppie consonanti, vento e spruzzi di acqua salata.

Lavori da anni nell’editoria, con libri e autori, come la vedi oggi?
C’è una voglia assurda di vedere il proprio libro pubblicato, come se questo potesse contribuire a renderci immortali, non considerando che invece questa quantità enorme di libri che entra in circolo non fa altro che renderci tutti più invisibili, uno sputo nel mare.

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Donne di mafia – Michele Lipori intervista Liliana Madeo su Confronti

Donne di mafia – Michele Lipori intervista Liliana Madeo su Confronti

Donne di mafia. La decostruzione di uno stereotipo

Il libro Donne di mafia aiuta a smontare un cliché delle donne che partecipano in diverso modo all’universo mafioso.

L’identikit delle donne di mafia lo fanno gli uomini, e quindi il cliché si fa portatore della visione che la mafia ha delle donne. In questa visione, la donna serve per fare i figli, per creare la famiglia e la continuità, e soprattutto per mantenere i contatti tra la famiglia di sangue e il clan. Questo però a patto che la donna non sappia niente di quello che riguarda il mondo della mafia, perché non ci si fida di lei. Si pensa infatti che la donna a causa della sua l’emotività possa essere portata a tradire. Ma come vivono le donne questo ruolo? Molti dei rapporti d’amore con gli uomini mafiosi nascono in età giovanile, sia da donne che vengono da famiglie mafiose, sia che vengono da fuori.

Nel primo caso queste donne non trovano niente di strano, perché rivedono quello che hanno visto fare in casa, il modo in cui venivano considerate le loro madri e tutte le donne della famiglia. Le donne che invece entrano in questo tipo di famiglie senza avere idea di quello che troveranno vanno a delineare lo scenario più complicato, perché alcune si adattano e vanno avanti in nome dell’amore, e altre che invece no. Per esempio la moglie di Buscetta, Maria Cristina de Almeida Guimarães, pur non condividendo e non partecipando a progetti mafiosi, non rinnega l’uomo e il padre dei suoi figli. Tuttavia sarà il trade unions con Falcone, verso il cambiamento di Buscetta e il suo diventare collaboratore.

Per esempio Rita Simoncini, la moglie di Francesco Marino Mannoia, il “chimico” della mafia, si innamora da giovanissima e rimane sempre al suo fianco, anche quando viene arrestato e inizia a collaborare. Falcone ha detto che grazie a lei ha capito come le donne possono vedere la mafia, come luogo chiuso, oscuro, di preclusione e di silenzio, e come la radiosità e la voglia di vivere di queste donne si vada a scontrare con questa realtà. Il mondo delle donne di mafia è estremamente variegato. Ci sono donne come la moglie di Leonardo Messina, che veniva da una famiglia mafiosa, e che non prende bene la decisione del marito di arrendersi, e altre come la compagna di Gaspare Mutolo, che accetta la decisione del marito di collaborare come una decisione giusta, solo perché viene da lui. Oppure Margherita Gangemi, la donna di Antonino Calderone, che pur non facendo parte di questo mondo, invita il marito a fuggire all’estero per non mettere a rischio i loro figli e lo aiuta nei suoi spostamenti, fino a che non viene arrestato e decide di parlare.

Poi ci sono casi, come quello della moglie di Stefano Bontade, che afferma di essere orgogliosa di essere stata sposata con un grande uomo e decide di non raccontare niente. Un altro è quello della moglie di Michele Greco, chiamato “il papa”, una donna colta e una musicista, che mostrando la sua casa piena di libri ai giornalisti, chiedeva loro come potesse appartenere a un mostro. 

L’immagine delle donne di mafia è vittima di uno stereotipo. 

Si tratta certamente di stereotipi. Ci sono uomini di mafia che usano le donne come oggetti, usate per sfogare gli istinti più brutali, e altri che si affidano completamente alle loro mogli, come il caso di Giacoma Filippello, moglie di Natale Lala, che decanta una vita meravigliosa e grandi imprese, e rimane al suo fianco fino a che non viene ucciso. Quando questo accade inizia a parlare per vendetta ed entra nel servizio di protezione. Poi ci sono alcune donne che subiscono e tacciono per amore dei figli, sia per tenerli fuori da determinate situazioni, sia perché pensano ai vantaggi che traggono dal denaro, dal potere e dalla visibilità. Quando negli anni ’80 scatta il maxi processo, molti uomini di mafia chiedono il consenso delle loro donne prima di collaborare, e loro gli si rivoltano contro. Quindi anche le donne hanno il loro potere nella famiglia mafiosa.

Non è chiaro se le donne nella famiglia mafiosa siano più vittime o carnefici, perché è tutto molto più sfumato di così.

È chiaro che le donne che racconto sono una minoranza. Il vantaggio che hanno è la ricchezza, infatti una volta all’interno dei programmi di protezione si lamentano delle case dove vengono collocate. È un mondo che scompare, quindi tutto dipende dalla consapevolezza personale. Per esempio una grande differenza la fa lo studio. Poi ci sono storie tragiche come quella della mamma di Giuseppe Impastato, che quando scopre di far parte di una famiglia mafiosa inizia a ribellarsi mettendosi contro il padre. Questa donna si trova così divisa tra il figlio e il marito, che poi viene ammazzato proprio perché il fatto che il figlio fosse contro la mafia lo aveva messo in cattiva luce.

Questa immagine della donna cristallizzata in una figura che esegue senza parlare, faceva parte della cultura dell’ambiente mafioso, ma anche della cultura dell’antimafia. Basti pensare al fatto che nel maxi processo gli imputati sono 474 mentre le donne imputate sono solo 4 e per reati non molto gravi. La mafia era un problema che riguardava gli uomini e anche la magistratura non aveva capito l’importanza delle donne, fino a che Falcone e Borsellino non hanno fatto luce sul vero ruolo che le donne avevano all’interno della mafia, ben diverso da quello che la tradizione aveva raccontato.

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I Pellicani – recensione di Giorgia Gatti su Premio Comisso

I Pellicani – recensione di Giorgia Gatti su Premio Comisso

Pellicani figlio si presenta dopo 20 anni alla porta del padre. Non si vedono da quel giorno in cui lui se n’è andato sottraendo al genitore i risparmi che erano in casa.Pellicani arriva e trova un caseggiato disabitato e in rovina, l’unico appartamento ancora abitato sembra essere proprio quello di suo padre, ma al suo interno non trova il genitore, ma un vecchio paralitico, immobilizzato a letto e assistito quotidianamente da una donna, che ogni mattina lo nutre, si occupa della sua igiene e del lavaggio della biancheria.Fin qui tutto normale, tutto plausibile, tutto verosimile, vero?E invece no, non è così. Pellicani figlio racconta in prima persona ogni suo movimento e ogni suo pensiero, ed è così che ci accorgiamo che siamo all’interno di una mente allucinata, che siamo nella mente di un Don Chisciotte al contrario.Un eroico renitente, che con fierezza critica e si sottrae alla società, che non riconosce il padre in quel vecchio paralitico, che vede in ogni gesto umano, in ogni oggetto inanimato intorno a lui, un qualche messaggio diretto a lui, un giudizio, un rimprovero, che lui, da renitente, rifiuta.L’allucinazione è la realtà in cui Pellicani si muove, portando i suoi gesti al grottesco e crudele, verso se stesso e verso il padre, in nome di quel rifiuto della società che lo anima.È un romanzo esilerante, eppure scioccante e doloroso. Sergio La Chiusa è geniale e senza remore varca i limiti del verosimile e del moralmente accettabile, con una capacità narrativa e di pensiero che generano nel lettore un’empatia disturbante.

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I Pellicani – recensione di Giuseppe Di Matteo su Pane e scorpioni

I Pellicani – recensione di Giuseppe Di Matteo su Pane e scorpioni

Stando agli ultimi dati dell’AIE (associazione Italiana Editori), i libri pubblicati nel 2019 sono stati più di 78mila. Una giungla di carta all’interno della quale ci si orienta a fatica. Anche perché i colossi dell’editoria (e non solo) strizzano sempre meno l’occhio alla letteratura e preferiscono affidarsi ai prodotti editoriali, possibilmente partoriti dal personaggio di turno, la cui durata nel tempo, a dispetto del clamore socialmediatico che sono soliti suscitare, è paragonabile a un battito di ciglia.

Insomma, non è facile scovare qualcosa di interessante. Ecco perché vale la pena parlare de I Pellicani – Cronaca di un’emancipazione di Sergio La Chiusa, edito da Miraggi (186 pag., 17 euro). Un romanzo sorprendente e gustosissimo, che prevede molteplici livelli di lettura ed è intriso di quello spessore letterario che è lecito attendersi da uno scrittore. E La Chiusa lo è, non c’è dubbio: la sua parola è levigata e venata di elegante umorismo. Elementi peraltro propizi al suggestivo teatro dei paradossi da lui allestito, che rifugge da qualsiasi pretesa di linearità. A cominciare dai Pellicani, che non hanno niente a che vedere con i volatili che tutti conosciamo. Qui abbiamo invece a che fare con due uomini misteriosi (padre e figlio? forse sì, forse no, ma poco importa), che, dopo vent’anni e vecchie ruggini, si ritrovano quasi magicamente in un tempo e in un luogo indefiniti. Uno, il Pellicani-giovane, ha le fattezze di un bizzarro figuro lontano parente dei dannati di Dostoevskij; l’altro, il Pellicani-anziano, è un ottantenne paralitico bisognoso di cure che si trascina stancamente al pari del vecchio stabile in cui abita e che lo ha incatenato a una triste solitudine.

L’incontro tra i due è il detonatore di una commedia dell’assurdo sapientemente congegnata dai pensieri ad alta voce del Pellicani-giovane, che si diverte con la realtà come Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila di Pirandello fa con il suo io: scompone, ricompone, trasfigura ciò che vede, quasi travolge il lettore con il suo torrenziale flusso di coscienza. E noi non possiamo far altro che star dietro ai suoi soliloqui tragicomici, ma senza illuderci di trovare le giuste corrispondenze tra ciò che è e ciò che appare. Perfino l’evidente asimmetria tra i due personaggi (l’invadenza del Pellicani-giovane fa da contraltare alla remissività del Pellicani-vecchio) si risolve lentamente in un enigmatico gioco di specchi, che si nutre di visioni degne di Sorrentino e lascia intravedere una bizzarra crociata in nome dell’emancipazione di entrambi.

Eppure, mentre ondeggiamo tra sogno e realtà, ci risulta difficile prendere le parti dell’uno o dell’altro. Forse perché i Pellicani sono solo due simpatici inetti a vivere che non si vergognano della loro condizione. O forse perché la stanza in cui si consuma tutta la storia è il palcoscenico con cui, volenti o nolenti, tutti noi dovremo prima o poi fare i conti per sbarazzarci delle nostre paure più profonde.

Il romanzo, finalista alla XXXII edizione del Premio Italo Calvino, è un bijou anche dal punto di vista tecnico, tanto da meritare la “Menzione Speciale Treccani 2019” per l’originalità linguistica e la creatività espressiva. Quello di La Chiusa, infatti, è un esempio ben riuscito di prosa poetica, che mette in vetrina un linguaggio curato nei minimi dettagli e assai distante dalle banalizzazioni con cui vengono imbanditi certi best sellers. Un piccolo poema sul senso della vita capace di trasformare l’apparente fuga dal mondo delle sue creature in un coraggioso atto di ribellione pirandelliana nei confronti della società e delle sue forme statiche.

Ma il lunghissimo monologo del giovane Pellicani, interrotto da scenografici squarci onirici e oscure presenze quasi kafkiane, è anche la cronaca di una convivenza mancata che prova disperatamente a ritrovarsi, anche se nel farlo è essa stessa una nuova impostura. Dieci e lode all’autore. Raramente infatti, per utilizzare le parole di Giulio Mozzi, “la lettura di un romanzo dà tanto piacere per la scrittura in sé”. Senza contare che qui, come del resto lo stesso critico suggerisce, c’è anche altro. Molto altro.

QUI l’articolo originale:

https://www.panescorpioni.it/referenze/77-i-pellicani-di-sergio-la-chiusa

I Pellicani – Vincenzo Guercio intervista Sergio La Chiusa su L’Eco di Bergamo

I Pellicani – Vincenzo Guercio intervista Sergio La Chiusa su L’Eco di Bergamo

«Racconto il crollo delle certezze»

Sergio La Chiusa presenta il suo libro «I Pellicani» nella cinquina dei finalisti al Premio Bergamo «I protagonisti, incapaci di emanciparsi, si dibattono in una realtà spettrale, inafferrabile, inattendibile» 

I disegni appesi alle pareti «rivelavano una precoce ansia di emancipazione. Bambini volanti, sollevati per aria da grappoli di palloncini colorati, ridevano entusiasti, come solleticati dalla mancanza di gravità, ma invece di prendere il largo e rimpicciolirsi nelle vaste lontananze del cielo, restavano a mezz’aria, tenuti saldamente per una caviglia da certi signori assennati, nerovestiti, regolarmente incravattati e radicati al suolo con smisurate scarpe aziendali».

Penultimo a presentare il suo libro, nella cinquina dei finalisti della XXXVII edizione del Premio Narrativa Bergamo, giovedì 27 maggio, alle ore 17, in streaming sui canali social dell’Associazione, Sergio La Chiusa, con «I Pellicani» (Miraggi, euro 17). Centottantasei pagine di monologo interiore del personaggio che dice Io, forse figlio di un forse padre in una forse ex casa sua.

Dopo vent’anni, e l’indebito prelievo dei suoi risparmi dal comodino, Io, o Pellicani junior, torna a casa del padre: unico, vecchio caseggiato superstite in un paesaggio da Waste Land, mucchi di macerie, detriti e piloni incompiuti, residui del vento della modernità che ha spazzato (quasi) tutto, con la sua «smania di rinnovamento».

Ma, nel letto, trova un vecchio paralitico che è/non è suo padre, glielo ricorda ma, insieme, non può essere lui.

Una straordinaria prova di fantasia-immaginazione, una torrentizia ambiguazione del senso di realtà, identità, e relativi rapporti fondativi.

Un  «parolare» inesausto che assume in sé il crollo delle certezze, per cui l’«erlebte rede», il discorso vissuto, si materia soltanto di ipotesi e contro-ipotesi.

Come si può spiegare il sottotitolo, «Cronaca di un’emancipazione»? Quella che il protagonista sembra perseguire sin dai disegni infantili, vuole rivendicare ossessivamente, quasi «ritmicamente»…?

«Cronaca di un’emancipazione un sottotitolo ironico, che gioca con il sentimento del contrario che anima il romanzo. Innanzitutto perché non si tratta di una cronaca, cioè di un resoconto impersonale di avvenimenti, ma di una continua interpretazione, peraltro tendenziosa e contraddittoria. Poi perché le emancipazioni alle quali si allude sono delle parodie di emancipazione: il giovane Pellicani vive infatti confinato nella trappola della propria mente paranoica, il vecchio nella trappola del proprio corpo paralizzato, ed entrambi nella trappola dell’immobile fatiscente, una specie di corpo sociale in rovina. L’emancipazione che il protagonista tenta di perseguire è inoltre una reazione alla società della prestazione nella quale viviamo, e quella che tenta d’imporre al vecchio l’esito paradossale della sua personale incapacità di emanciparsi».

Il fatto che il padre forse non sia padre, il figlio forse non figlio, la camera dei giochi forse di qualcun altro,   un’iperbole del discorso sull’incertezza identitaria, l’incertezza sulla sostanza reale dei rapporti, anche i più importanti, sull’incertezza, persino, della cosiddetta «realtà»?

«Sì, la realtà nel romanzo risulta incerta, inafferrabile. In parte perché è filtrata dalla parola inattendibile e dallo sguardo allucinato del protagonista, cui la realtà visibile appare come il travestimento di una seconda realtà, enigmatica e minacciosa, e tutte le cose gli si presentano dietro un velo d’impostura, epifenomeni di un più vasto e impenetrabile complotto ordito ai suoi danni. In parte perché la realtà non solo è trasformata dagli occhi di chi guarda, ma ha anche una sua intima natura spettrale. Basta voltarsi indietro: cosa rimane della realtà del nostro passato? Le esperienze più importanti e i rapporti più solidi non risultano a un certo punto come svaporati, illusori, equivoci abbracci di spettri?».

Come nel Pirandello di «Uno, nessuno e centomila», il discorso sulla dissoluzione del senso «solido», granitico, univoco dell’identità, si concentra sul naso (è il naso di mio padre? Di un Pellicani?). Ha elevato a potenza un tema del girgentino?

«La radicalizzazione di un tema pirandelliano che però s’intreccia con molti altri temi: per esempio, per citarne uno particolarmente rilevante, il rapporto tra immaginazione e realtà, che è il tema della letteratura stessa, che viene dal Don Chisciotte e sta alle origini del romanzo moderno. Il protagonista, infatti,   perennemente intento a fabbricarsi una sua realtà immaginaria, alternativa, abitabile, la realtà verbale del romanzo appunto, e in ciò è uno dei molti discendenti del cavaliere errante e dei personaggi creati da quegli autori che hanno saputo trasportare lo spirito di Cervantes nel Novecento; e quindi più ancora che di Moscarda, Pellicani mi pare un parente “povero” dei personagginarratori di Gombrowicz, e di Kien, il protagonista di “Auto da fé”, l’uomo dei libri uscito dall’intelligenza di Canetti».

Il naso è un po’ anche il becco del pellicano in copertina…

«Sì, il becco del teschio di pellicano in copertina richiama il naso particolarmente pronunciato dei due Pellicani e, anche, il Pinocchio di legno che compare allusivo in più parti del romanzo».

Se la «Cognizione del dolore» di Gadda è una lunghissima (auto-) analisi, incentrata sul tema del rapporto con la madre, qui sembra valere qualcosa di simile per il rapporto con il padre…

«La figura del padre rappresenta per il figlio una specie di specchio deformante, e infatti nel vecchio padre paralizzato, il figlio rivede sé stesso proiettato nell’avvenire: è insomma la personificazione della malattia e dell’incombenza della morte. Inoltre, il padre rappresenta anche l’autorità su cui riversare il proprio risentimento di persona incompleta, inadeguata, impotente: una specie di parodico simulacro della società  che regola, pretende, giudica».

Entrambi i «protagonisti» sono due «renitenti-resistenti», alle lusinghe e seduzioni del mercato, agli stili di vita dettati dal mainstream, all’essere solo «consumatori», ecc.: come si intreccia questo tema sociale con quello dell’identità e del senso di irrealtà che sembra promanare dal rapporto fra ospite e ospitato: lontani, incomunicanti, eppure simili in questa loro resistenza/renitenza…?

«Il mercato contamina i rapporti interpersonali e condiziona le nostre identità suggerendoci insistentemente come comportarci, come vestirci, cosa comprare, quali applicazioni scaricare per stare al passo con i tempi, svalutando così le nostre esperienze, facendoci sentire sempre in ritardo, in difetto, insinuandoci un sottile, persecutorio senso di colpa. Le due dimensioni, quella sociale e quella esistenziale, procedono naturalmente insieme, nel romanzo come nella vita reale, perché una condiziona l’altra, e il senso d’irrealtà che sembra promanare dai rapporti tra ospite e ospitato proviene, in parte, dall’esterno. I protagonisti inoltre non sono dei veri “resistenti”, ma delle scorie prodotte dalla società dei consumi, e proprio per questa loro comune natura di scarto sociale si ritrovano, e anche il risentimento del figlio che si trasforma in sadismo nei confronti del padre è in certa misura un prodotto della società».

A proposito: la «modernità» ha distrutto tutto quanto era attorno al condominio dove vivevano i Pellicani. Cittadella superstite perché soprattutto reperto memoriale, sopravvivenza di un passato?

«Un reperto spettrale, sì. Il vecchio Pellicani è il passato, inservibile, e persino molesto, che s’attarda tra le macerie e, maceria anch’egli, intralcia con la sua timida ma cocciuta presenza i piani speculativi della modernità».

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Poesie con katana – finalista del VI Premio Letterario Internazionale “Franco Fortini”

Poesie con katana – finalista del VI Premio Letterario Internazionale “Franco Fortini”

cinque poeti finalisti sono stati ascoltati lo scorso 24 giugno a Fano durante le giornate di Passaggi Festival (https://www.passaggifestival.it/), mentre la Cerimonia di Premiazione del vincitore si svolgerà a Milano a settembre.

I poeti finalisti del VI Premio Letterario Internazionale “Franco Fortini” divisi per editore

Amos Edizioni
Laura Pugno, Noi

Arcipelago itaca edizioni
Luciano Cecchinel, Da sponda a sponda
Roberto Minardi, Concerto per l’inizio del secolo

Miraggi Edizioni
Alessandra Carnaroli, Poesie con katana

Oèdipus
Lorenzo Mari, Querencia

QUI l’articolo originale:

Endecascivoli – Emanuela Chiriacò intervista Patrizio Zurru su LECCEPRIMA

Endecascivoli – Emanuela Chiriacò intervista Patrizio Zurru su LECCEPRIMA

Patrizio Zurru ha lavorato come libraio (riconoscimento miglior libraio d’Italia nel 2012, n.d.c.), editore, scrittore, ufficio stampa, curatore di collana, consulente editoriale e agente letterario, e a ventinove anni dalla sua prima pubblicazione (13 racconti, 3B+Z), torna con Endecascivoli (Miraggi Edizioni, collana Golem), una raccolta di sessantacinque piccoli racconti in endecasillabi.

Endecascivoli perché spiega come lo stesso autore dopo aver salito gli scalini si butta(no) in discesa liberamente. E mentre cadono e si imprimono sulla carta, sprigionano odori e afrori di un mondo che appare lontano; il latte bollito e scremato dalla nonna per fare il burro, e la polvere di carbone sottile sulla pelle del padre minatore. Un mondo in bianco e nero che sembra lontano, e invece non sono passati più di cinquant’anni. Archeologia dei sentimenti, conservazione dei beni relazionali.

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Endecascivoli o della vita scandita dalla famiglia, dai parenti, dalla scuola, dagli amici, e dalle cose concrete. Dalle voci, dai gesti, dai viaggi con lo zaino in spalla, dai corpi che si spostano nello spazio, fendendolo e modellandolo per favorire naturalmente l’arte dell’incontro. Dalle foto non fatte, fatte e mai sviluppate, sviluppate e mai trovate, eppure non dimenticate. E forse non è un caso che ogni racconto sia aperto da uno spazio vuoto delimitato da una sottile cornice quadrata dove l’autore ha apposto l’immagine trasparente di quel ricordo. E donato a chi legge lo spazio per un disegno o un appunto.

Gli Endecascivoli di Patrizio Zurru sono frammenti di prosa poetica densi come la vita, che lasciano spazio alla nostalgia felice di tempi vissuti, custoditi, e ora generosamente condivisi.

Il frammento numero 52 è un omaggio al maschile della famiglia, ci sono suo nonno, suo padre, i suoi zii e parla della miniera, un intreccio di cunicoli che a suo padre faceva mancare l’aria da masticare. […] Rivedo mio padre, i suoi fratelli. In campagna riuniti nei giorni di festa. Parlavano poco […] Mangiavano l’aria che avevano intorno. Mangiavano l’aria almeno quel giorno, invece il n. 59 è la storia di un viaggio con suo padre e contiene passaggi tratti da I quarantanove racconti (Mondadori, Traduzione di Vincenzo Mantovani) di Ernest Hemingway, maestro assoluto della prosa breve. Ha voluto far incontrare il padre biologico con quello letterario?

P.Z.: In questo racconto parlo della prima volta che ho veramente trascorso del tempo con mio padre, per molto tempo assente ma per il nostro bene, e il caso ha voluto che ci siamo incontrati anche attraverso le pagine di Hemingway, quindi ho avuto questo privilegio.

Nella prefazione a I quarantanove racconti, l’autore americano scrive: «Andando dove devi andare, e facendo quello che devi fare, e vedendo quello che devi vedere, smussi e ottundi lo strumento con cui scrivi. Ma io preferisco averlo storto e spuntato, e sapere che ho dovuto affilarlo di nuovo sulla mola e ridargli la forma a martellate e renderlo tagliente con la pietra, e sapere che avevo qualcosa da scrivere, piuttosto che averlo lucido e splendente e non avere niente da dire […]» Qual è la sua modalità di scrittura?  

P.Z.: Scrivo mentre cucino, solitamente, quindi non è un caso se qualcuno dice che si sentono gli odori, il richiamo forte c’è. Il racconto finisce quando il piatto è pronto. Poi magari smusso, ma è come quando in cucina si corregge il sale e si aggiungono degli aromi.

Per concludere, nella lista dei suoi classici preferiti quale occupa il primo posto?Ce lo racconta in un tweet?

P.Z.: Opere complete e altri racconti di Augusto Monterroso (Zanzibar editore); un concentrato di sintesi e colpi di scena in racconti che quasi prevedevano i tweet. Il suo “Al suo risveglio il dinosauro era ancora lì” ti apre un mondo, anzi, parecchi.

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https://www.lecceprima.it/attualita/lecce-terza-pagina-patrizio-zurru-endecascivoli-21-maggio-2021.html

I perdenti – recensione di Alessandro Eric Russo su Mangialibri

I perdenti – recensione di Alessandro Eric Russo su Mangialibri

Louis Berenstein è contento che la stanza che ha preso in affitto nel Lower East Side sia buia: almeno questo è quello che ha detto al suo padrone di casa, Zed Palver, quando si sono visti per la consegna delle chiavi. A Zed ha detto anche che sta vagando in cerca una sistemazione fissa per via della crisi del Ventinove, ma a Zed non importa molto, a lui importa solo di piazzare le sue proprietà. Una volta rimasto solo, Louis è libero di guardare la sua stanza in tutta la sua umidità, come di un seminterrato all’ottavo piano, piena di mosche, con l’unico lascito del precedente inquilino che consiste in una scatola di biscotti, quegli stantii Girl Scout Cookies che qualche mese prima erano stati rifilati pure a lui a Philadelphia. Eppure non gli basta quella prima occhiata per far caso all’enorme neon a forma di fenicottero che dal palazzo di fronte manda una luce rosa. Louis dorme, beve, si dimentica di mangiare e conosce Theodore, la trapezista col nome da uomo che sta nell’appartamento a fianco al suo, insieme bevono e si addormentano. Poi c’è Bertha, che aspetta l’ascensore sul pianerottolo per andare a fare la cameriera all’ultimo piano del palazzo di fronte, quello col fenicottero rosa, anche detto Il Paradiso. Louis ci andrà a trovare Bertha a lavoro, ma certo non sarà facile salire all’ultimo piano perché pure lì non mancano le anime in pena che interrompono la salita, e non ne mancano neppure di labirinti e guardiani balordi sulle porte e sugli ascensori, messi lì per ostacolare l’ascesa di Louis, non un uomo probo, forse nemmeno un peccatore, ma certamente un disperso…

“Uno dei più grandi scrittori sconosciuti d’America”, così Hedda Hopper definì Aaron Klopstein in un articolo che Miraggi Edizioni propone come prefazione all’edizione italiana de I perdenti. Sempre leggendo quello che la Hopper scrisse di Klopstein si viene a sapere che fu amico di Hemingway e Fitzgerald, e che con loro passava le nottate nel Lower East Side, a volte raccontando a voce le sue storie, come un bardo che avesse ricevuto il dono della poesia. Poi ci fu il litigio con Hemingway e il rifiuto in blocco degli editori, i tentativi di diventare attore e i racconti sotto pseudonimo scritti per le riviste pulp, che per molto tempo furono l’unica fonte di reddito di Klopstein. E in effetti a leggere questo romanzo, specialmente nelle prime pagine, con le metafore che immettono qualcosa di disgustoso e squallido nella realtà, si ha la sensazione di leggere un romanzo hard-boiled in cui però manca il detective, la vittima, il ricattatore. Nei dialoghi sempre tesissimi c’è un conflitto onnipresente, che non è solo quello tra i personaggi, ma anche quello interiore in cui emerge la sofferenza esistenziale del disperso. Viene quasi da chiedersi come sarebbe la letteratura americana di oggi se al fianco di nomi influenti come quelli di Hemingway e Faulkner, si potesse aggiungere quello di Klopstein, che non poté mai godere della fama che meritava nonostante l’incredibile forza narrativa. Infatti, leggere I perdenti è come fare più esperienze in una: c’è il piacere di abbandonarsi al racconto perfetto; la voglia di scendere in profondità nel testo che solo i grandi classici sanno suscitare; e poi c’è quella sensazione di stare leggendo qualcosa di unico, un romanzo che mentre propone una storia indica anche un nuovo modo di fare letteratura.

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https://www.mangialibri.com/i-perdenti

Il bambino intermittente – recensione di Anna Cavestri su LoScrivodaMe

Il bambino intermittente – recensione di Anna Cavestri su LoScrivodaMe

Quando la potenza della scrittura e la fantasia si coniugano nascono questi gioielli.
Il libro inizia con una sorta di vademecum che è preambolo ai capitoli e un elenco di nomi -Cerca di ricordarti.

Conosciamo Berg che è un bambino che va alla scuola materna, non va affatto volentieri.
Lui non è un bambino e basta è: goffo, distratto, impreciso, stupido, bambino parentesi, maldestro incompreso, intermittente e ha tanti nomi tutti inventati così come inventata è la sorella con la quale discute come fosse sempre con lui, assumendo le forme di oggetti vari a lui preziosi, ed ha le sue “copertine “ come Linus ma non sono copertine.

“Ho tre anni e la vita sta diventando difficile……”

E a tre anni trova la radio noiosa e comincia il suo ritornello “ mamma, comprami GIRADICCHI! Io DICCHI…..”
Comincia da piccolo ad amare la musica che insieme alla fantasia e ai tratti della sua personalità non l’abbandoneranno mai.

E con questo bagaglio già così pieno fin da piccolo affronterà la vita, con delle difficoltà ogni volta diverse e uguali con cui fare i conti.
La madre insegnante, il padre con un maggiolino giallo a pois rosa.
I nonni di mare e quelli di città.
Con ognuno crea un rapporto unico, con qualcuno anche speciale e sarà la nonna di mare quella con la quale vivrà esperienze di complicità e amorevolezza e che lo porterà un giorno anche a crescere più in fretta e a scoprire l’inutilità del dolore.

Lo troviamo tra i ragazzi dell’orario alla scoperta di se e degli altri, a volte impacciato o timido, “la prima ombra di barba … la barba fu un piccolo trama “, a 16 anni Amanda “ era come arrivare impreparati ad una interrogazione”.

Con “ gli amici della panchina “ a parlare della passione comune: LA MUSICA , forse l’amore suo più grande, quello che non è mai svanito.
La musica diversa da quella che ascoltavano gli altri “stavo sviluppando una curiosità maniacale e bulimica “.
Sopra un treno per andare a pranzo dalla nonna di mare durante il periodo del servizio militare, vicino casa di nonna, che buttava la pasta quando vedeva il treno passare dal balcone.

E in crescendo a fare per un periodo il commesso in un negozio di dischi e poi in un’altra città e un’altro amore e…
Con salti temporali tra un capitolo e l’altro e tanti rimandi in cui la vita del bambino, ragazzo, adulto è un vortice che assorbe tra fantasia e realtà e tanta tanta umanità.

È un racconto ironico, pieno di tenerezza di malinconia di una vita unica e speciale che appassiona dalla prima pagina.

E non finisce con l’ultima pagina del libro ( pag 665), perché c’è una playlist di tre pagine da sentire

“ per chi ha paura della fine, del silenzio, ovvero l’inutilità del dolore ……………..Se vuoi farne parte ti serve un suono “.

Non è facile recensire questo libro perché c’è tanto da dire, può essere solo letto.
E merita di essere letto, si cresce insieme al bambino intermittente e a volte ci si scopre intermittenti , quasi come lui.

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Vit[amor]te – recensione di Deborah Mega su Limina Mundi

Vit[amor]te – recensione di Deborah Mega su Limina Mundi

Era gennaio quando nella posta di Limina è giunta una silloge che ho custodito con cura, con il proposito di sfogliarla, allettata da allegati inconsueti, una copertina bipartita su cui è rappresentato il contrasto Vita-Morte, anticipato dallo stesso titolo, con il gioco ambiguo delle parentesi che attivano più livelli di comprensione, e l’immagine del XXI tarocco, quello che illustra il Mondo, “mai fisso, mai immoto”, come è definito in prefazione. A distanza di mesi la riprendo, spinta dalla curiosità di cogliere il connubio parola-immagine che ho intuito ci fosse. In effetti, si tratta, nell’intenzione dell’autrice, Valeria Bianchi Mian, psicoterapeuta junghiana, di Poesie per arcani maggiori, come recita il sottotitolo. La silloge raccoglie poesie giovanili e quelle scritte tra il 2014 e il 2019, accostate alle figure degli arcani illustrati dalla stessa Bianchi Mian. “È una Totentanz che punta alla rinascita, è un cerchio che si fa spirale attraverso ventidue disegni” mentre il fil rouge pare sia la natura viva in un processo in divenire continuo, ciclico, che fa ritorno a se stesso.

La silloge si presenta come un viaggio esoterico, ricco di riferimenti al mondo dei tarocchi e alla loro simbologia. Ogni testo, infatti, è introdotto dalla figura di uno degli arcani maggiori presentati dal numero 0 al 21. Il testo di apertura appare una sorta di presentazione dell’autrice, il suo procedere per tentativi come se fosse un lupo di Chernobyl o o la gazza che si spinge dal bosco alla periferia. Si vorrebbe però una sopravvivenza dal ticchettio nucleare, un rifugio per scongiurare la follia diffusa. Non a caso la poesia è introdotta dalla figura del Matto che rappresenta lo spirito libero e geniale, l’energia originaria del caos, l’imprevedibilità e allo stesso tempo l’innocenza e la follia. È il viandante che avanza verso l’ignoto senza paura.

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Endecascivoli – recensione di Giorgio Bona su Lavoro e Salute

Endecascivoli – recensione di Giorgio Bona su Lavoro e Salute

Sessantacinque racconti come messaggi in bottiglia lanciati nello splendido mare della Sardegna in balìa delle onde, messaggi che arriveranno a qualcuno e saprà farne buon uso.
Qualcuno? Chi? Saranno i lettori appassionati che scopriranno i volti, i sorrisi, i paesaggi di una Sardegna magica e anche di una Sardegna che si porta addosso la croce di quella sofferenza con una dignità che non ha eguali, aspra e vera come la sua terra.
Un libro di piccoli frammenti con una metrica perfetta come una partitura di Alban Berg, un album di ricordi che hanno rifugio nell’anima e trovano spazio sulla pagina.
Ogni frammento è un bozzetto con una prosa poetica che lascia spazio a finali, a volte anche a discrezione del lettore, come in un gioco di scatole cinesi. All’apparenza malinconici ma con toni forti, con una scrittura che è un fendente in diagonale come un rasoterra di Gigi Riva.

C’è un filo rosso che tiene insieme questi racconti, queste piccole gemme incastonate: la memoria. Perché i ricordi sono quelli dell’infanzia e della gioventù, relazioni familiari forti, quelle che riempiono la vita, sacrifici, sofferenze, la felicità di stare insieme, esistenze fatte di piccoli gesti e di grandi valori, felicità, anche tragedie.

L’appartenenza a questa terra che soltanto chi è nato può comprendere nei suoi aspetti più intimi, accarezzare le croste delle sue ferite, amarle, eppure ci sono momenti in cui bisogna renderle visibili per farne capire il valore e soltanto la dignità e la grandezza della letteratura può rivelare.
Diverse volte è capitato di vederlo arrivare ancora sporco e con il carbone attaccato addosso, non c’era stato tempo per una doccia, non c’era stato perché c’era qualcuno da tirare fuori dai pozzi crollati, qualcuno vivo, altri no.

Questo libro non l’ho trovato soltanto originale nella sua composizione. L’ho trovato straordinario perché sovvertiva tutti quelli che sono i canoni della narrativa tradizionale, dando un ritmo e un linguaggio nuovo, quello di una narrazione dell’anima, una scrittura ribollente fino all’inverosimile.
Racconti che paiono oscuri e che sono illuminati sulla pagina da uno spirito vero.

Si sa che c’è una grande tradizione sarda nella letteratura, mi par opportuno citare scrittori del calibro di Sergio Atzeni e Salvatore Niffoi, senza dimenticare altri importantissimi, legati a una realtà culturale che non ha bisogno di lente di ingrandimento.
Ecco: Patrizio Zurru è legato a questa cultura, ha radici forti. Con poche righe, essenziali, ci racconta una Sardegna fuori dal folklore, quella più amata, dai sardi e dai suoi lettori nel “Continente” che non sono soltanto i sardi trapiantati in altre realtà.
L’ebbrezza linguistica è una grande avventura che sa inerpicarsi per quelle strade scoscese dell’isola tenendo salde le redini, stando dentro un reale e vissuto che si protrae nel ricordo.

Racconti brevi, come un flash istantaneo che vengono dalle radici più profonde di questa terra con una lingua capace di avvolgere gli oggetti e di aspirarne l’essenza, una sintassi sempre lucida con concessioni ad immagini di una poetica intensa.
Piccoli bozzetti di vincenti e di perdenti già passati o forse che saranno anche in futuro. Storie senza paraventi, ammiccamenti, a tratti con una sottile ironia, quella che non fa ridere ma sorridere, emblema di una felicità nascosta.

Dire che sono soltanto bozzetti è una bestemmia. È Letteratura. E con tutte le carte in regola. Poi c’è il fascino della scrittura. Una voce dell’anima. Credo che sia una prerogativa o, lasciatemelo dire, un dono, che ogni autore dovrebbe avere. Ma anche in una società consumistica, dove le regole del libro sono soggette al mercato, questo è appunto un dono e non è dato per scontato.

Bene. Qui, con passo felpato, attento a non fare rumore, Patrizio Zurru ci svela il suo volto in ombra, quello di un poeta autentico. Per questo è impegnativo e bellissimo nello stesso tempo affrontare la lettura di questo libro, proprio perché non è semplice imbattersi in un narratore con questa potenzialità così profonda dell’anima e con la capacità di trasmetterla.

Non ho mai visto di persona Patrizio Zurru. Ho parlato con lui qualche volta al telefono. Quei pochi dialoghi, rapidi, essenziali, me lo hanno presentato nello stesso modo in cui ho affrontato la lettura del suo libro.
Nell’attesa di incontrarlo e di stringergli la mano ve lo presento così. Credo di non sbagliare. Io ormai lo conosco. Lui forse conosceva me.

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