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Immediatamente di Dominique De Roux – recensione a cura di Nicola Vacca

Immediatamente di Dominique De Roux – recensione a cura di Nicola Vacca

immediatamenteMi piace definire Dominique De Roux il Karl Kraus francese. Scrittore e intellettuale fuori dal comune, cavaliere delle lettere in territorio nemico, fa parte degli irregolari e degli impresentabili del  Novecento.
Fu il creatore dei «Cahiers de l’Herne», una collana che riportò al centro della vita culturale scrittori maledetti, liberi e anticonformisti (che molto gli somigliavano) come Céline, Pound, Artaud, Lovercraft.
De Roux riuscì a presentare criticamente al grande pubblico autori del calibro di Borges, Gombrowicz, Solženicyn, Koestler e movimenti come la beat generation.
Siamo davanti a un grande scrittore controverso che decise di essere sempre un uomo libero, di non appartenere a nessuna banda letteraria. La sua penna e la sua intelligenza si schierarono apertamente contro il mondo culturale del suo tempo.
De Roux, come Kraus, nelle sue invettive non risparmiò proprio nessuno.
In Italia non è molto conosciuto e soprattutto è pubblicato poco. Grazie a Francesco Forlani da Miraggi edizioni esce Immediatamente, libro di frammenti e aforismi in cui l’irriverente scrittore francese intinge la sua penna corrosiva di provocatore e di agitatore culturale.
Immediatamente esce in Francia nel 1971 e De Roux è vittima di una violenta reazione del mondo intellettuale francese. Il primo a scagliarsi contro di lui fu Roland Barthes.
Dolo l’uscita del libro «l’impresentabile» De Roux fu costretto a lasciare la Francia.
Dominique De Roux è uno straordinario inattuale che vale la pena conoscere e approfondire. Uno scrittore irregolare che rientra a pieno titolo nella tradizione dei pensatori controcorrente.
Un uomo e un intellettuale che veste da uomo sempre libero i panni del polemista e scrive del proprio tempo sedendosi orgogliosamente dalla parte del torto, in compagnia degli spiriti scomodi e degli infrequentabili.
Immediatamente è un libro di illuminazioni che folgorano. Dominique De Roux è uno scrittore che scrive per disturbare e con i suoi aforismi taglienti ha squarciato, come sanno fare soltanto gli irregolari e gli uomini di pensiero che decidono di rispondere soltanto alla propria coscienza, tutto il marcio di un’epoca che sa solo esprimersi attraverso la rappresentazione ipocrita di se stessa.

«Viviamo il tempo degli istrioni di massa. Coloro che fanno gesti differenti non sono più originari di nessuna parte»; «Al gaullismo succederà la Germania, o peggio ancora i francesi».

Per De Roux scrivere è rinunciare al mondo. Una grande e coraggiosa lezione inattuale.
Quando le epoche si fanno torbide dobbiamo assolutamente leggere gli inattuali. Perché solo loro sanno dirci le cose come stanno.
Leggiamo assolutamente Dominique De Roux che, come Cioran, Kraus, Céline e tutti gli altri infrequentabili, ha diffamato e squartato il suo tempo.

Dominique De Roux (1935-1977) fu un letterato fine e controverso. Il primo romanzo, Mademoiselle Anicet, è del 1960; nel 1963 fonda la rivista «Cahiers de l’Herne», raccolta di numeri monografici dedicati alle figure maledette o misconosciute della letteratura europea (Céline, Gombrowicz e Pound, tra gli altri). Nel 1966 dà alle stampe il saggio La morte di Céline (Lantana), che inaugura il catalogo della casa editrice Christian Bourgois, co-fondata dallo stesso De Roux.
Immediatamente esce nel 1971 e la violenta reazione del mondo intellettuale, con Roland Barthes in prima linea, costringe De Roux ad abbandonare la Francia per diventare corrispondente giornalistico e autore televisivo. Inviato soprattutto in Portogallo, documenta le guerre nelle colonie africane e nel 1974 è l’unico inviato speciale francese a Lisbona durante la rivoluzione dei garofani, che portò alla caduta di Salazar e della dittatura portoghese.
Pubblica l’ultimo romanzo, Le Cinquième Empire, cinque giorni prima di morire improvvisamente per infarto, nel 1977; La Jeune Fille au ballon rouge e Le Livre nègre usciranno postumi.

:: Immediatamente di Dominique De Roux (Miraggi Edizioni 2018) a cura di Nicola Vacca

“Nozioni di base”: la recensione di Violetta Giarrizzo su polonicult.com

“Nozioni di base”: la recensione di Violetta Giarrizzo su polonicult.com

di Violetta Giarrizzo

“”È la nostra cecità, cecità esistenziale, che rende il mondo che ci circonda così misterioso. Petr Král, con discrezione, ce lo svela”. Così si apre questa prima edizione italiana di Nozioni di Base, con un’introduzione di Milan Kundera che ci fa presagire un libro certamente sui generis.

Petr Král è uno scrittore e poeta ceco nato a Praga ed emigrato a Parigi nel 1968, dopo l’invasione sovietica. È stato una figura di spicco dell’editoria clandestina fiorita a Parigi nonché dell’intelligenza praghese antisovietica. Diplomato alla FAMU di Praga, ha contribuito a veicolare la cultura non ufficiale svolgendo l’attività di critico letterario e cinematografico, ma anche di interprete, traduttore e insegnante, dedicandosi alla scrittura di saggi, sceneggiature, diverse raccolte di versi in ceco e in francese tra cui Enquête sur des lieux (Flammarion, 2005). Ha contribuito anche alla traduzione e alla diffusione della letteratura ceca in Europa, curando importanti antologie come Le Surréalisme en Tchécoslovaquie (Gallimard 1983) e Anthologie de la poésie tchèque contemporaine 1945-2002 (Gallimard 2002).

Il lettore italiano può avvicinarsi a Král poeta con la raccolta di Tutto sul crepuscolo (Mimesis Edizioni 2014) e alcune poesie tradotte dal ceco e dal francese (rispettivamente da Annalisa Cosentino e da Massimo Rizzante).

Non è, invece, facile incasellare Nozioni di Base (Základní pojmy nell’edizione originale) in un genere letterario predefinito. Edito da Miraggi Edizioni nella collana Tamizdat (pubbicato ”tam” ovvero ”là”, ”altrove”) e tradotto dal ceco da Laura Angeloni, si presenta come una raccolta in prosa di 123 brevi e incisivi pensieri che riguardano svariati oggetti e situazioni della quotidianità dell’autore, che assumono all’interno del libro quasi una connotazione universale.

Definito da Milan Kundera come ”una bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana” si tratta di un collage frammentato di immagini, sensazioni fugaci, epifanie fulminee che lacerano per un istante il tessuto grigio e uniforme della nostra vita quotidiana. Král osserva il mondo, si concentra sugli elementi che appaiono semplici e comprensibili e ne distorce il significato e la funzione. La prima nozione di base riguarda il caffè, una delle immagini più familiari e senza fronzoli per eccellenza, che rappresenta per Král quasi un’improvvisa rivelazione, la coscienza improvvisa della propria esistenza:

”Lasciarsi portare verso se stessi da un sorso bollente, inaspettatamente preciso, della bevanda che ci scorre in corpo insieme ai residui del buio notturno, significa concentrarsi di colpo e affermare chiaramente la propria presenza, nonostante la momentanea indefinitezza dei nostri gesti e la sonnolenza del momento”.

Da questo risveglio scaturiscono gli altri micromondi di Nozioni di base, a partire da un’osservazione attenta degli oggetti comuni e apparentemente futili che ci circondano: ed ecco che Král scrive di una camicia pulita ma anche della zuppa di pesce (”…e la gustiamo con cura, ognuno per sé, la coccoliamo e ci attardiamo con lei come con il nostro destino”), dell’attaccapanni e del cestino per la carta che diventa d’un tratto il custode della nostra esistenza. Ma ci narra anche dei nostri luoghi: il bagno degli uomini e il bagno altrui, l’hotel, la Spagna e l’Italia, l’impellente urgenza di rifugiarsi altrove per fuggire dal qui e ora.

All’interno di queste minuscole avventure, raccontate in tre righe o in due pagine appena, affiorano sensazioni e stati d’animo universali e ben conosciuti: il vizio, l’inerzia, la solitudine, l’incompletezza, l’assenza, ma anche la ridondanza, le aspettative deluse, il desiderio e il sollievo.

L’avvicendarsi dei pensieri di Král ricorda e immagini multiformi di un caleidoscopio: l’autore gioca con le gli oggetti in modo imprevedibile, assembla svariati frammenti di vita, osserva le cose da una prospettiva differente, vaga con la fantasia e l’immaginazione. E così l’ordinario si fa straordinario. Scorgere una sagoma dal finestrino di un treno e pensare all’improvviso a tutte le le vite che non saranno mai le nostre, attraversare una strada e rendersi conto delle possibili scelte che ci lasciamo dietro, l’incontro fugace con una donna sconosciuta con la quale avremmo potuto trascorrere tutta una vita, le inevitabili delusioni (”la cavità in cui precipitano senza scopo le nostre mentine rinsecchite non è solo una trappola misteriosa nella stretta di due fianchi, ma è lo sbadiglio dell’intero deserto cosmo”)

Tutto ciò con cui ci scontriamo ogni giorno sembra avere un’essenza nascosta che Král cerca di rivelare e di interpretare attraverso l’introspezione. Ogni cosa ha la potenzialità, quindi, di rivelarci qualcosa di profondo sulla nostra esistenza, di ”svelare il vero bagliore delle cose nella loro usura”, se solo la osserviamo attentamente. E così una giornata passata a languire nella quiete domestica può portarci a delle conclusioni inaspettate sulla nostra vita.

Ho amato molto questa raccolta, un vero e proprio compendio della vita, con la sua struttura frammentaria, il linguaggio asciutto e a tratti corrosivo, in cui ognuno può perdersi e ritrovarsi. Un approccio molto singolare a questo autore di certo da riscoprire.

trovi la recensione di Violetta Giarrizzo anche qui
https://polonicult.com/nozioni-di-base-di-petr-kral/

 

“Essere Boris Vian”: la recensione di Giorgio Biferali per minimaetmoralia.it

“Essere Boris Vian”: la recensione di Giorgio Biferali per minimaetmoralia.it

Di Giorgio Biferali

Chissà com’era vivere come Boris Vian. Essere Boris Vian, scrivere romanzi, racconti, poesie, testi teatrali, tradurre autori come Chandler e Strindberg, e soprattutto suonare la tromba, nonostante il fiato e il cuore non andassero troppo d’accordo. Era tutta una musica, la sua vita, sicuramente jazz, quello che suonavano nei locali di Saint-Germain-des-Prés negli anni Cinquanta. Una musica che è durata poco, però, trentanove anni, il tempo di laurearsi in ingegneria, diventare amico di Queneau e nemico di Sartre (Jean Sol Partre ne La schiuma dei giorni), sposarsi due volte, frequentare Duke Ellington, Miles Davis, Orson Welles, pubblicare romanzi con uno pseudonimo, inventare cose come la ruota elastica e immaginarne altre come il piano cocktail, un pianoforte in grado di fare cocktail a seconda dei tasti suonati.

Dopo una vita passata a rincorrere il suo destino, a cercarsi sempre in nuove vite, post mortem, finalmente, è arrivata la fortuna che avrebbe sempre meritato, i suoi libri sono stati tradotti, le sue canzoni hanno cominciato a girare, a essere raccolte nei vinili e nei cd, alcuni cantanti, da Gainsbourg a Tenco, si sono ispirati a lui, e registi come Michel Gondry hanno pensato che le sue storie fossero perfette per diventare film. Recentemente, marcos y marcos, che ha avuto il merito di riportare Vian in Italia, ha ripubblicato il suo romanzo E tutti i mostri saranno uccisi (traduzione di Giulia Colace, pp. 224, 17 euro), uno di quei romanzi definiti “thriller hardboiled”, mentre per Miraggi Edizioni è uscita una bellissima biografia scritta da Giangilberto Monti, intitolata Boris Vian. Il principe di Saint-Germain-des-Prés (pp. 192, 16 euro).

Nel romanzo, pubblicato nel 1948 con lo pseudonimo di Vernon Sullivan (Vernon per Paul Vernon, Sullivan per il fumettista australiano PatSullivan e il compositore americano Joe Sullivan), il protagonista si chiama Rock, un nome che ci offre già un’idea di quello che ci aspetta, un romanzo musicale, come tutti i romanzi di Vian, che si potrebbe raccontare con una battuta di uno dei personaggi grotteschi che ci capitano sotto gli occhi: “Le parole sono completamente inutili in circostanze così strane”.

Rock è alto, bello, pieno di ragazze che vorrebbero fare l’amore con lui, ma ha promesso a se stesso che rimarrà vergine fino al giorno in cui compirà vent’anni. Viene drogato, rapito e portato nella clinica di un certo dottor Schutz per farlo accoppiare con una ragazza “di una bellezza sorprendente, un po’ troppo perfetta”, e intanto allo ZootySlammer, nel locale di Lem Hamilton che Rock frequenta spesso, viene trovato un cadavere.

Leggere contemporaneamente un romanzo e la biografia di chi l’ha scritto potrebbe confondere un po’ le idee, ma poi no, piano piano le schiarisce, e conferma il fatto che tutto quello che uno scrive, in fondo, è sempre autobiografico. Monti si fa contagiare da Vian e procede per lampi, immagini, pellegrinaggi, dialoghi surreali con ex mogli intenerite dai ricordi e dal tempo che passa. Ogni capitolo della sua biografia, che è una biografia musicale, si chiude con una canzone scritta da Boris Vian. Da Che snob (“che snob, son snob, è l’unico difetto che ho”) al Valzer del sole (“Che sole in strada che c’è, io amo quel sole ma la gente no”), da Berrò (“Berrò, sistematicamente, mi scorderò gli amanti di mia moglie”) alla famosissima Il disertore (“La legge violerò, lo dica ai suoi gendarmi, così potran spararmi, di armi non ne ho”).

Scopriamo che nel 1937, nonostante i suoi problemi cardiaci, Vian scelse di suonare la tromba; che nel salotto di casa sua ci fu una lite tra Camus e Merleau-Ponty e che la sua prima moglie Michelle una notte aveva preparato le patatine fritte per Duke Ellington; che era stato Queneau a convincere Gallimard a pubblicare il primo romanzo di Boris; che sempre Queneau l’aveva fatto entrare nel giro dei patafisici, dove Vian una volta aveva anche scritto un’opera musicale sul codice della strada; che ci metteva pochissimo a scrivere, ma prima doveva immaginare tutto dall’inizio alla fine; che Vian era appassionato di auto d’epoca e la prima macchina con cui scorrazzava per tutta la città era una Bmw sei cilindri; che Sartre aveva una storia con la sua prima moglie e lui lo vedeva come un padre che l’aveva tradito.

Nella lettura di entrambi, del romanzo e della biografia, si ritrovano la dolcezza di Vian, il suo sguardo folle, a tratti infantile, mille personaggi che somigliano ad altri già incontrati prima, mille strade, possibilità, e il lettore, come Rock, come Vian, in fondo non ha paura di percorrerle tutte. E alla fine ci sembra quasi di aver bevuto il cocktail di cui avevamo bisogno.

 

Difendersi dal pensiero dominante con l’ironia: Sartori ci racconta “Autismi”

Difendersi dal pensiero dominante con l’ironia: Sartori ci racconta “Autismi”

Giacomo Sartori si divide tra Parigi e l’Italia, Trento nello specifico. Di mestiere fa l’agronomo e, soprattutto, scrive. È membro di Nazione Indiana, blog letterario collettivo, il luogo in cui è nato “Autismi”: “Sono sedici racconti che erano usciti su Nazione Indiana con questo titolo. Allora erano stati molto seguiti e molto commentati, ma erano altri tempi per i blog. Li ho rivisti, li ho corretti, ne ho cambiato l’ordine ed è nato un libro da non confondere con quello del 2011: erano pochissime copie. Questo è realmente un’altra cosa”.

Perché “Autismi”?
“Per un gioco tra la mia autobiografia e la componente autistica che c’è in ognuno di noi: le difficoltà a relazionarsi con le persone e un linguaggio ripetuto, fino a divenire ossessivo. Parlo di intimità, soprattutto: i rapporti con le donne, con il lavoro, con chi incontri durante un viaggio”.

Una difficoltà a interfacciarsi che è diventata il segno dei nostri tempi.
“Oggi l’autismo ha raggiunto livelli patologici con i social: non sappiamo più parlare, sorridere, relazionarci. Non sappiamo più fare niente che esca dallo schermo. Ci mettiamo una maschera perfino nei corteggiamenti quando la vita reale, invece, è un’altra cosa. Ognuno di noi ha una componente autistica e fa di tutto per nasconderla. Ci sono zone in cui siamo completamente soli e a me piace esplorare queste zone d’ombra utilizzando lo humor”.

Un esempio?
“In “Le mie passeggiate” racconto di uno che fa sempre lo stesso percorso, alla stessa ora, con gli stessi pensieri e che, alla fine, è contentissimo quando la realtà introduce invece piccole variazioni. Ci sono tanti livelli nascosti e tutto è molto ironico. Noi ci appoggiamo sempre al “già conosciuto” ma, in fondo, abbiamo il bisogno di essere stupiti, abbiamo dentro di noi il desiderio di una novità”.

Viviamo tempi duri da questo punto di vista.
“Quello che manca oggi è l’ironia, tutti si prendono tremendamente sul serio. Il contesto italiano è sempre stato molto conformista, ma è allucinante quanto capita oggi. Ogni pensiero trasgressivo o controcorrente è bandito. Peggio: non viene capito”.

 

 

“Essere Boris Vian”: la recensione di Giorgio Biferali per minimaetmoralia.it

Boris Vian, chi era costui? La recensione di Stefano Fornaro per sulromanzo.it

In una miscela narrativa giornalistica e radiofonica il cantautore, comico e scrittore rivitalizza uno dei geni più antitradizionalisti e anarcoidi della Francia del secondo dopo guerra.

Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés (Miraggi edizioni, 2018) è l’ultimo romanzo di Giangilberto Monti, cantautore italiano e poliedrico artista milanese: dalle recitazioni con Dario Fo e Franca Rame alle collaborazioni con i comici di Zelig, passando per le incisioni discografiche (Opinioni da clown – 2015 Egea/Warner) e concludendo una vasta attività con molti romanzi concentrati sulla storia della musica. D’altronde una passione centrale lui ce l’ha: la canzone francese del secondo dopo guerra, ovvero gli chansonnier parigini. Così come conserva perfettamente intatta da quel 1995 (Boris Vian-Le Canzoni – Marcos y Marcos edizioni) la sua ossessione: Boris Vian. Per l’appunto. Ma chi era Boris Vian?

Come ammette nelle ultime righe del libro lo stesso Giangilberto, Boris Vian è uno dei più grandi talenti artistici incompresi o stroncati dalla critica letteraria e musicale transalpina.

Questo libro si carica sulle spalle l’enfasi di una passione energica per far riscoprire e per riattualizzare la figura di questo scrittore e cantautore parigino (Saint-Germain-des Prés è un quartiere della capitale) che stravolse le radici culturali della Francia novecentesca.

Copertina, quarta di copertina, impaginazione e testo scritto. Formalmente siamo davanti a un libro, ma in realtà siamo di fronte a un genere ibrido, originale e multidimensionale. Ispirato un po’ alle prestigiose firme della biografia latina (il pathos di Tito Livio e la profondità psicologica di Tacito), un po’ alla tecnica cinematografica di Orson Welles (alcuni aneddoti narrati dai conoscenti di Boris Vian ricordano le interviste sul miliardario Charles Forster Kane di Quarto Potere) e in parte all’intervista giornalistica odierna (più quella da rotocalco che di stampo politico), Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-dés-Pres è in tutto e per tutto un radiodramma (Non saprei… forse un radiodramma, così lo etichetta lo stesso giornalista reporter che indaga sul passato del poeta francese). Non sembra di leggere un libro, ma la partitura scritta di un programma radiofonico e in particolare un approfondimento culturale notturno. Fra interviste spezzate, dettagliati atti cronachistici (del narratore onnisciente in terza persona) e la presenza di testi originali e tradotti della canzone francese si crea una miscela narrativa ibrida e travolgente.

Giangilberto Monti presenta in toto il suo artista: i romanzi flop e quelli più conosciuti (su tutti L’Écume des Jours,1947); i testi teatrali sarcastici meno noti e il capolavoro Les bâtisseurs d’empire; le traduzioni dei romanzi inglesi; le sue poesie musicali e quelle più liriche; i racconti e i saggi sulla musica moderna; infine più di metà libro dedicato alla canzone antimilitarista e anticonformista sviluppata dal jazz francese in fusione con lo swing e il primo rock ’n’ roll.

Non bastano queste poche righe per disegnare l’immagine di un artista eclettico, anarcoide, pazzoide e dinamico, che rappresentava la briosità creativa dei jazzisti degli anni Cinquanta (quelli il cui background culturale era di essere stati degli zazou durante la seconda guerra mondiale) con i loro ritmi swing, jazz, animati e strampalati. Il fascino narrativo di questo libro è soprattutto nella prima parte, quando Boris Vian diventa a Parigi l’icona di un musicista, letterato e poeta (apprezzato e lodato da Jacques Prevert) capace di vivere fra il suo matrimonio, le belle donne, la musica nei locali e le nottate a base di alcol fino all’alba. Il perfetto ritratto di un moderno simbolista o surrealista e se il paragone non è dileggiante un archetipo di quello che diventeranno Jim Morrison, Janis Joplin e Jimmy Hendrix due decenni dopo.

Sono i ricordi agrodolci delle battute piccanti dell’ex moglie Michelle Leglise o le risposte seccanti delle collaboratrici passate della casa musicale del produttore Jacques Canetti a creare un quadro stratificato e pulsante: le notti passate alla macchina da scrivere; i litigi con gli editori; le polemiche dissennate fra artisti e imprenditori musicali; le feste e le esibizioni canore. Non solo del protagonista, ma di tutti gli amici e i colleghi che hanno creato il mito degli chansonnier e della loro vita artisticamente spumeggiante.

Nel corso del romanzo o meglio docu-romanzo, talvolta, può capitare che il dilungarsi su esordi amatoriali o gestazioni narrative/teatrali di secondo piano avviluppi il lettore in una noiosa “storiografia”, perfino pedante, ma il tono serioso, documentaristico e imparziale del giornalista che vaga per le rue parigine spesso cela l’animo da appassionato di Giangilberto Monti. La tecnica narrativa (l’uso in particolare della terza persona) non nasconde l’attrazione artistica smisurata dello scrittore. Lo si percepisce nel recupero dei giudizi positivi riportati su Boris Vian e nella conclusione appena velata che riconosce ben più di un merito alla sua figura musicale e letteraria.

Il libro è ben suddiviso in sequenze tematiche definite, ovvero per ogni genere ci sono uno o più capitoli, accompagnati da parti di interviste, ricordi vissuti e documentazioni biografiche. È questa una struttura narrativa che fa da contraltare a un difficile controllo della materia. Infatti spesso le alternanze fra interviste, narrazione e attualità (l’iter di ricerca del giornalista protagonista) non sono ben chiare e distinte, così come può un po’ confondere il bombardamento di informazioni sulle numerosissime figure attive del periodo in cui visse Boris Vian.

Alla fine da questa combinazione di generi emerge una scrittura lucida, ma non razionale, dettagliata, quasi chirurgica a tratti, che dà parola alle emozioni attraverso gli intervistati.

Pur senza le tecniche di sovraimpressione cinematografica, Giangilberto Monti con la sua scrittura riattualizza un mito internazionale (dice bene quando in fase conclusiva si afferma che Boris Vian non è a oggi molto conosciuto in Italia), a darne un’immagine simpatica e sfaccettata e infine a evidenziare la grandezza culturale, musicale, artistica e umana di un genio assoluto della scrittura provocatoria, esorbitante, parodica, umoristica e dissacrante.

Come il jazz anche questo romanzo è in grado di restare in uno stato melodico piano, lento e cadenzato e a un tratto di modificare il ritmo con un tempo di scrittura frenetico e saltellante.

Non si può non confrontare la personalità di Boris Vian con quella del cantautore italiano e nel dinamismo culturale di cui è protagonista quest’ultimo nei nostri decenni forse si lascia intravedere il desiderio di assomigliare alla personalità creativa dello chansonnier parigino.

Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés è l’apice di una costante e lodevole indagine e documentazione da parte del cantautore italiano. Personalità come quelle di Vian stregano, affascinano e non possono passare sotto traccia nella storia della cultura novecentesca. Se le scuole con i loro programmi troppo standardizzati non sono in grado di farlo, è una gran fortuna che ci siano scrittori odierni che si dispensino in questa attività di recupero del passato meno recente.

P.S.: è consigliabile accompagnare la lettura di questo libro con un ascolto coinvolto dei testi musicali proposti e adattati da Giangilberto Monti, perché solo in questo modo si coglie la parola geniale, intellettualmente ironica e musicalmente jazz di Boris Vian.

 

I bestseller Miraggi 2017 su Vita de editor

I bestseller Miraggi 2017 su Vita de editor

Vita da editor ha chiesto alle case editrice quali siano stati i loro bestseller del 2017. Ecco l’intervento di Miraggi

Miraggi (Alessandro De Vito, direttore editoriale)
Il libro più venduto del 2017 è stato Parigi XXI, di Iacopo Melio. Ne sono particolarmente fiero perché la sua poesia (eh sì, i primi 6 libri più venduti sono poesia, chi lo direbbe?) ha una forza tenera e dirompente, ma implacabile, che unita al peperino toscano che è lui fa capire molto bene perché sia così seguito (ed è un segnale molto positivo di questi tempi, che in molti seguano e sostengano il suo cuore e le sue sacrosante battaglie). Per il resto, dato che Miraggi ha diverse anime, siamo molto contenti del successo di tutta la collana di traduzioni Tamizdat, il cui bestseller è Memorie di uno psicopatico di Venedikt Erofeev, nome di culto.