«Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare». Così scrive la senatrice Liliana Segre, superstite dei campi di concentramento e in questa Cronaca dalla libreria non posso non ricordare una di quelle serate ai Diari più importanti e necessarie di altre.
Il 27 Gennaio, Giorno Della Memoria, abbiamo voluto presentare due libri tematici, editi dalla casa editrice torinese Miraggi, L’imperatore di Atlantide a cura di Enrico Pastore e Poesie dal campo di concentramento di Josef Čapek. Insieme a Fabio Mendolicchio, editor di Miraggi, e allo scrittore Enrico Pastore abbiamo ospitato anche il cantautore Daniele Goldoni che ci ha fatto ascoltare brani tratti dal disco Voci dal profondo inferno.
Si è partiti dal racconto de L’imperatore di Atlantide e dall’incredibile storia di un’opera d’arte unica, scritta e composta nel lager di Theresienstadt, nell’attuale Repubblica Ceca. Miraggi Edizioni ha pubblicato da pochi mesi questo libro prezioso, che presenta il testo dell’opera scritto dai due deportati, Ullmann e Kien, che collaborarono alla sua stesura nella seconda metà del 1943.
Il libro contiene l’originale in tedesco a fronte e offre, poi, la storia di Viktor Ullmann e Petr Kien attraverso la penna di Enrico Pastore, che illustra il contesto del ghetto di Terezín e analizza il valore artistico, sociale e di resistenza dell’opera, mentre a Marida Rizzuti, esperta musicologa, è affidata l’analisi della partitura musicale.
L’opera di Ullmann e Kien è uno di quei raffinati capolavori dimenticati del secolo scorso, nato in uno dei più perversi campi nazisti. Tra il 1941 e il 1945, la città-fortezza di Terezín divenne un campo di smistamento per decine di migliaia di deportati verso Auschwitz. La particolarità di questo lager fu la decisione del Terzo Reich di utilizzarlo come strumento di propaganda, parlandone addirittura come del ghetto-paradiso.
Nello spiazzo principale della cittadella venne, addirittura, eretto un palcoscenico, dove i prigionieri, al termine della giornata di lavoro, potevano dedicarsi in totale libertà alle loro attività artistiche. Molti musicisti vennero convogliati verso Terezín (dove venne addirittura girato un film-documentario dal titolo Il Führer dona una città agli ebrei, di evidente funzione propagandistica).
Grazie all’ingegno e alla passione degli artisti internati si poté ricominciare a scrivere musica, a eseguirla, magari con strumenti costruiti con materiali di recupero, e ad ascoltarla. Molti artisti non si rassegnano alla sorte di prigionieri deportati e si organizzano come possono dentro il campo per tentare di sopravvivere, ognuno con la propria arte, creando una vera e propria vita culturale all’interno di quell’inferno in terra.
Il perverso e lucido disegno dei gerarchi nazisti, però, proprio a Theresienstadt si inceppa grazie al libero pensiero dell’arte, perché dando spazio alla creatività di quei prigionieri si finisce per celebrare la vita e non la morte. Le storie che animano quel luogo sono incredibili, nella loro agghiacciante crudezza, proprio come la storia del famoso pianista e compositore Victor Ullmann che, giunto nel lager, riesce a dar vita, in un luogo di morte, a una carcassa di pianoforte in un vagone ferroviario abbandonato, tanto da giungere a tenere un concerto nel campo, che sarà il primo di una lunga serie. Molti musicisti di solida carriera come Ullmann lavorarono intensamente nei tre anni di vita artistica del campo.
Viktor Ullmann era sicuramente il più famoso di tutti: già allievo di Arnold Schönberg, Ullmann scrisse la sua opera più importante, L’imperatore di Atlantide, in cui (anche grazie al bel testo espressionista del giovane poeta Kien) riesce a denunciare l’assurda realtà del campo, della Germania e del mondo tutto. Due artisti molto diversi tra loro sia per formazione che per personalità: Viktor Ullmann è musicista, compositore, direttore d’orchestra e critico di notevole spessore, Petr Kien è un giovanissimo pittore e poeta. Uno è un artista maturo già allievo prediletto di Schönberg, di Haba e collaboratore di Zemlinsky, le cui composizioni, al momento del suo internamento a Terezín, hanno già ottenuto risonanza internazionale; l’altro è un giovane di 23 anni con un eccezionale talento ma appena uscito dall’Accademia di Belle Arti. Ciò che li lega è la profonda convinzione che l’arte sia una forma di contrasto alle forze distruttive della vita. Comporre, dipingere, scrivere sono una forma di lotta epica contro il male che assedia l’esistenza.
Se Ullmann ritrova il senso del fare artistico proprio nel ghetto di Terezín dove «tutto ciò che ha un rapporto con le Muse contrasta così straordinariamente con quello che ci circonda», per Kien l’esperienza della prigionia è il primo banco di prova dove applicare la sua straordinaria attitudine alle arti. Ullmann, paradossalmente, ritrova la sua vena creativa proprio in quel campo di concentramento e nei due anni di permanenza compone più di venti opere (7 sonate per pianoforte, 1 quartetto, 1 sinfonia, svariati lieder, e 1 opera), più di quanto avesse scritto in precedenza. Le motivazioni di questa esplosione le fornisce lui stesso: «Devo sottolineare che Terezín è servita a stimolare, non a impedire, le mie attività musicali, che in nessun modo ci siamo seduti sulle sponde dei fiumi di Babilonia a piangere; che il nostro rispetto per l’Arte era commisurato alla nostra voglia di vivere. E io sono convinto che tutti coloro, nella vita come nell’arte, che lottano per imporre un ordine al Caos, saranno d’accordo con me».
Ullmann e Kein moriranno ad Auschwitz nell’ottobre del 1944. Eppure, sull’orlo dell’abisso, questi due autori trovarono la forza di cantare la vita e la morte ma soprattutto di sfidare Hitler e il nazismo. Der Kaiser von Atlantis oder Die Tod-Verweigerung (L’imperatore di Atlantide ovvero Il rifiuto della morte) è un’opera lirica in un atto solo da cui trasudano ironia e leggerezza, in cui però sono anche iscritte le fondamenta dell’umano. Enrico Pastore ci ha spiegato che, sebbene si tennero delle prove a Terezín nel marzo del 1944 con il direttore d’orchestra Rafael Schächter, l’opera non venne mai rappresentata sul palcoscenico della Sokolhaus di Theresienstadt giacché la censura nazista ritenne che il personaggio principale, l’imperatore Overall (anglismo per Über Alles), fosse la satira di un sovrano totalitarista. Quest’opera, nata nel lager e che nel lager sembrava esser destinata alla sua prima rappresentazione, inizia ad essere studiata e provata, senza sosta.
Ma tutto questo termina il 14 ottobre 1944. Il giorno dopo, infatti, tutti gli artisti ricevono la convocazione per essere trasportati. All’alba del 16 ottobre del 1944 parte dal campo nazista di Theresienstadt alla volta di Auschwitz un unico convoglio ferroviario con 1500 deportati, quello che gli stessi nazisti definiscono un “carico speciale”; lo chiamano, infatti, il Künstlertransport, il treno degli artisti, perché costituito principalmente da poeti, musicisti, attori, pittori e scrittori rastrellati durante quattro anni a Praga e zone limitrofe e concentrati in un campo che, proprio per essere destinato a categorie “particolari” di deportati, aveva rappresentato una unicità nella moltitudine di lager del Terzo Reich.
Un’intera generazione di artisti europei viene così sterminata nella camere a gas del campo di Auschwitz-Birkenau. A salire su quel treno sono i poeti, i musicisti, i pittori, gli attori che per quattro anni hanno vissuto in quel ghetto modello, e, dopo ventiquattro ore di viaggio in treno, le loro esistenze e il loro talento sono stati sterminati andando su per un camino. Tra gli uomini, le donne, i bambini spinti a forza su quel treno ci sono alcuni degli ingegni più vivi e brillanti del tempo: oltre a Ullmann e Kien ci sono compositori come Hans Krása, Pavel Haas e James Simon, direttori d’orchestra come Raphael Schächter, pianisti come Bernard Kaff e Carlo Taube, violisti come Viktor Kohn e tantissimi altri. Giovani uomini tra i venti e i quarant’anni che avrebbero potuto conquistare un ruolo di grande rilievo nella storia dell’arte del Novecento e che invece sono stati assassinati nel pieno delle loro capacità e del loro talento.
Artisti che nonostante la mancanza di libertà, il freddo, la fame, la solitudine, le malattie, la privazione degli affetti non hanno mai potuto rinunciare all’unico strumento di salvezza rimasto nelle loro mani: la creazione.Per molti di loro, anzi, la vita del ghetto è stata, per quanto paradossale possa sembrare, una scuola d’arte.
Un altro contributo, per non perdere la Memoria, è stato fornito dalla lettura in libreria delle Poesie dal campo di concentramento di Josef Čapek, pittore, illustratore e poeta, fratello del più noto scrittore Karel.
Questo libro, con testo originale a fronte, è stato tradotto da Lara Fortunato, che ha scritto anche il testo introduttivo e la nota bibliografica.
Per via del suo orientamento politico venne arrestato nel 1939 e rinchiuso in un lager nazista e sarà qui che Josef Čapek si affiderà per la prima volta alla poesia. Durante la prigionia scrisse una raccolta di poesie, pubblicata postuma nel 1946. Prima che finisse la guerra, alcuni componimenti riuscirono a raggiungere Praga, per mano di studenti universitari che da Sachsenhausen nel 1943 fecero ritorno nella capitale boema. A questi si aggiunsero le copie delle poesie che alcuni detenuti vicini allo scrittore riportarono in patria dopo la guerra. Il 25 febbraio del 1945 Josef Čapek venne trasportato nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, dove morì, probabilmente a causa dell’epidemia di tifo che decimò i prigionieri rimasti nel lager, pochi giorni prima dell’arrivo delle truppe inglesi. Čapek scrisse la sua ultima poesia Prima del grande viaggio nel campo di concentramento di Sachsenhausen in prossimità dell’ultimo trasporto.
Un aiuto alle Librerie in difficoltà lo possono dare anche gli Autori e le Case Editrici con segnali forti: scegliendo una libreria piccola e poverella dove per presentare i loro libri. Ecco partiamo, oggi, con il ringraziare dunque Claudia Durastanti e Paolo Cioni e le case editrici La nave Di Teseo, Mattioli 1885 e Miraggi edizioni. Perché è grazie a loro che si è aperta una settimana di altissimo livello ai Diari. Da un paio di settimane si leggono commenti sgomenti circa la chiusura continua di librerie in Italia. Io ho pensato, ma se ognuno si impegnasse ad acquistare almeno un libro al mese in una libreria reale, meglio ancora se indipendente? E se gli scrittori che vendono e le case editrici scegliessero di fare gesti concreti verso librai e librerie in difficoltà? Cosa che è accaduta ai Diari, a partire da Martedì 21 gennaio in cui abbiamo ospitato la data finale del lungo Tour del libro, edito da La Nave di Teso, ” La Straniera” di Claudia Durastanti. Avevo seguito le tappe lucane di questo meraviglioso tour l’estate scorso e grazie alla Fondazione Leonardo Sinisgalli negli Orti di Merola a Montemurro avevo condotto con Giuditta Casale e Biagio Russo una serata molto piacevole e frizzante. Durante la serata di Martedì scorso, con una libreria piena fino all’inverosimile di gente, abbiamo ricordato molti aneddoti di quelle serate lucane estive. In un silenzio fatto di grande attenzione Claudia Durastanti, seduta sul mitico sgabello bianco, ha spiegato come si può raccontare una vita tracciando mappe del proprio vissuto ed esplorando i luoghi simbolici e geografici.
“La storia di una famiglia somiglia più a una cartina topografica che a un romanzo, e una biografia è la somma di tutte le ere geologiche che hai attraversato”. Come si racconta una vita se non esplorandone i luoghi simbolici e geografici, ricostruendo una mappa di sé e del mondo vissuto? Tra la Basilicata e Brooklyn, da Roma a Londra, dall’infanzia al futuro, il nuovo libro dell’autrice di “Cleopatra va in prigione” è un’avventura che unisce vecchie e nuove migrazioni. Figlia di due genitori sordi che al senso di isolamento oppongono un rapporto passionale e iroso, emigrata in un paesino lucano da New York ancora bambina per farvi ritorno periodicamente, la protagonista della Straniera vive un’infanzia febbrile, fragile eppure capace, come una pianta ostinata, di generare radici ovunque. La bambina divenuta adulta non smette di disegnare ancora nuove rotte migratorie: per studio, per emancipazione, per irrimediabile amore. Per intenzione o per destino, perlustra la memoria e ne asseconda gli smottamenti e le oscurità. Non solo memoir, non solo romanzo, in questo libro dalla definizione mobile come un paesaggio e con un linguaggio così ampio da contenere la geografia e il tempo, Claudia Durastanti indaga il sentirsi sempre stranieri e ubiqui. La straniera è il racconto di un’educazione sentimentale contemporanea, disorientata da un passato magnetico e incontenibile, dalla cognizione della diversità fisica e di distinzioni sociali irriducibili, e dimostra che la storia di una famiglia, delle sue voci e delle sue traiettorie, è prima di tutto una storia del corpo e delle parole, in cui, a un certo punto, misurare la distanza da casa diventa impossibile.
Claudia Durastanti è nata a Brooklyn nel 1984, scrittrice e traduttrice. Il suo romanzo d’esordio “Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra” (2010) ha vinto il Premio Mondello Giovani; nel 2013 ha pubblicato “A Chloe”, per le ragioni sbagliate, e nel 2016 “Cleopatra va in prigione”, in corso di traduzione in Inghilterra e in Israele. E’ stata Italian Fellow in Literature all’American Academy di Roma ed è tra i fondatori del Festival of Italian Literature in London. Collabora con “la Repubblica” e a lungo ha vissuto a Londra. Durante la serata ampio spazio è stato dato anche al libro edito da Minimum Fax nel 2016 dal titolo “Cleopatra va in prigione”. Un libro breve e intenso nelle sue 120 pagine: la trama, il linguaggio innovativo, una scrittura asciutta ed efficace e una periferia di Roma sconosciuta ai più. Non credo che avremmo la bellezza de “La Straniera” senza Cleopatra.
“Ogni giovedì Caterina va a trovare il suo ragazzo in prigione”. Questo è l’incipit. Caterina va a trovare Aurelio, il suo ragazzo, nel carcere di Rebibbia. Sono entrambi figli dell’estrema periferia romana, e in passato hanno provato a costruire un sogno insieme: gestire un night club. Ma le cose sono andate diversamente dai loro progetti e Caterina, ex ballerina di danza classica, si è ritrovata a lavorare come spogliarellista proprio nel locale di Aurelio. Adesso lui è in prigione, ed è convinto che lo abbiano incastrato. Come reagirebbe se sapesse che, una volta uscita di lì, la sua ragazza si infila tra le lenzuola del poliziotto che lo ha arrestato? Cleopatra va in prigione è un romanzo struggente, duro, pieno di colpi di scena, ambientato in una Roma molto più vasta e sconosciuta di ciò che si potrebbe immaginare. Claudia Durastanti scatta una fotografia vivida e accorata della periferia urbana, il vero luogo dove in questi anni nascono le storie, e soprattutto racconta chi, nonostante le delusioni e i sogni infranti, continua a vivere e ad amare.
Sabato 25 Gennaio è toccato a Paolo Cioni con il suo ultimo romanzo “La verità a pagina 31”, edito da Elliot. Architetto di formazione Paolo Cioni ha tradotto romanzi di Aldous Huxley e Charles Webb, per anni ha diretto insieme a Benedetto Montefiori la rivista «Experience» e per Feltrinelli ha pubblicato il romanzo “Ovunque e al mio fianco” (2006) e, a distanza di dieci anni, sempre per Elliot, ha pubblicato “Il mio cane preferisce Tolstoj”. La penna tagliente di Gian Paolo Serino lo ha definito “Il Dave Eggers italiano” ma ha anche speso parole encomiabili per “La verità a pagina 31″, definendolo ” un romanzo solenne. Cioni nella sua delicatezza di sentimenti nella sua ritrosia ci incuriosisce sulla sua figura: è uno di quei rari scrittori che a lettura finita, vorresti cercare sull’elenco telefonico, o andare a citofonargli a casa”. Anche di Sabato, in una libreria piena in ogni ordine di posto, si è parlato di libri e letteratura e editoria. Cioni da editore e scrittore e traduttore lo ha fatto da una posizione privilegiata, avendo un orizzonte molto chiaro. Nella prima parte della serata ci si è soffermati sul suo ultimo elegante romanzo.
Una telefonata che arriva dal passato, un vecchio libro misterioso che parla di angeli e dell’idea, difficile da accettare, che ci siano persone che vegliano su altre: ecco cosa mette in moto una storia fatta di ricordi e di sogni infranti, di rimorsi e di amori smarriti, cercati, dimenticati e mai vissuti fino in fondo.È l’estate del 1993, Parma sembra una cartolina ingiallita. Ennio Fortis ha da poco compiuto trent’anni, lavora in una libreria e non ha una ragazza. Quella telefonata lo riporta indietro nel tempo, agli amici di gioventù, al Collettivo di cui ha fatto parte, alle riprese di un documentario dedicato alla via Emilia e mai finito e, soprattutto, a Raimondo. Raimondo il visionario, Raimondo che gli ha mostrato una strada e che gli ha tolto il sonno travolgendolo con le sue idee impalpabili e bellissime. È la sua voce che arriva dal passato, arrochita e stralunata, e che lo richiama in servizio, perché c’è un compito da svolgere: ritrovare Adele, la sua ex moglie fragile e silenziosa, tornata da chissà dove e che adesso vive da qualche parte in città. Ennio accetta e si mette in movimento, in un viaggio a ritroso che risveglia il suo amore segreto e mai sopito per quella donna, in cerca di una verità che prende forma pagina dopo pagina, come nei fotogrammi sbiaditi di un film dimenticato. Un romanzo sull’amicizia e sull’amore, che a volte ci abbagliano al punto di farci smettere di vedere e di ascoltare, per cominciare finalmente a sentire
Ma Paolo Cioni, appunto, non è solo un fine narratore e un abile traduttore e dagli inizi degli anni 2000 è anche editor della storica casa editrice Mattioli 1885. Mattioli 1885 è una casa editrice editrice di Fidenza, attiva appunto dal 1885 nel settore della narrativa, della storia e della scienza. E’ proprio il 1885 l’anno di fondazione e la piccola azienda sorge come editore degli stabilimenti termali di Salsomaggiore e Tabiano Terme. Si specializza in ambito medico per divulgare scientificamente i benefici delle acque termali e in pieno stile liberty per promuovere le due località già al tempo molto frequentate. Dopo diverse vicissitudini, che corrono a cavallo tra il diciannovesimo e ventesimo secolo, negli anni ’90 la proprietà passa alla famiglia Cioni che rafforza l’editoria scientifica e specialistica in ambito medico. Agli inizi del nuovo millennio assume la presidenza Paolo Cioni e ai titoli scientifici vengono affiancate collane di saggistica e di narrativa, con una produzione media di circa 50 titoli per anno. Nella serata abbiamo parlato anche di titoli recenti e meno recenti della casa editrice.
Molto spazio, tra gli ultimi titoli, è stato dato a “La mia autografia” di Charlie Chaplin uscito per Mattioli 1885 Books il 21 Novembre scorso con traduzione di Vincenzo Mantovani e prefazione di Gian Paolo Serino. Una nuova completissima edizione, cartonata, che racconta tutto il mondo di Charlie Chaplin: “Volevo cambiare il mondo e l’ho fatto soltanto ridere”. Questo è stato il suo cruccio per tutta la vita. Non lo avevano capito, malgrado il successo. Lui che aveva fatto di tutto per conquistarlo. Lui che passava i Natale della sua infanzia nei più tristi degli orfanotrofi nella Londra più povera di fine Ottocento e morirà nel 1977 prima che potesse vedere l’alba del suo ultimo Natale. Charles Chaplin (Londra, 1889 – Corsier-sur-Vevey, 1977), è stato un attore, regista, sceneggiatore, compositore e produttore britannico, autore di oltre novanta film e tra i più importanti e influenti cineasti del XX secolo. La sua rapida ascesa cominciò nel 1914 (quando con la Keystone esordì nel mondo del cinema con il corto “Per guadagnarsi la vita”), ma già nel 1919 fondò la United Artists Corporation. Il personaggio che gli diede fama universale, fu quello del ‘vagabondo’ (The Tramp in inglese; Charlot in italiano, francese e spagnolo): l’omino dalle raffinate maniere ma vestito di stracci, con baffetti, bombetta e bastone da passeggio in bambù. Chaplin fu una delle personalità più creative e influenti del cinema. La sua vita lavorativa nel campo dello spettacolo ha attraversato oltre 75 anni.
Scritte fra il 1959 e il 1963 queste pagine sono incredibilmente dense e sentite. Fluide e avvincenti come un romanzo, raccontano la storia di un uomo venuto dal nulla che inventò il cinema. Qui ci sono gli indizi per scoprire il segreto di Chaplin e, allo stesso tempo, le storie e i pettegolezzi di un’epoca straordinaria, gli incontri con personaggi come Gandhi, Einstein, Roosevelt, Krusciov, Stravinskij, con le stelle del cinema e le bellezze di Hollywood. Ma è la magia di una narrazione lineare, sobria, mai compiaciuta, a fare di questo testo un’opera anche letteraria.
Ultimissimo titolo in ordine di tempo quello di uno scrittore che la casa editrice ha avuto il merito di tradurre e far conoscere già da alcuni anni, Andre Dubus. E’ uscito in questi giorni “Vasi rotti”, raccolta di 22 saggi scritti da Dubus tra il 1977 e il 1990, a distanza di dieci anni dalla raccolta “Non abitiamo più qui”, da cui fu tratto anche il fortunato film di John Curran, “I giochi dei grandi”, vincitore del Sundance Film Festival. Frammenti incandescenti di vita privata a rivelare la forza spirituale e la prosa lirica che hanno fatto di Andre Dubus un autore il cui talento è ormai riconosciuto in tutto il mondo. Pagine di rara profondità che permettono al lettore di scoprire soprattutto il Dubus ‘uomo’, animato da una voce intensa, commovente, che si rivela anche in tutta la sua sofferenza, il suo dolore, le sue naturali fragilità. Personale ma mai indulgente, sensibile ma mai sentimentale, Andre Dubus si racconta: la giovinezza cattolica nella Louisiana di cultura cajun, l’amore per il baseball, il terribile incidente che lo costringerà sulla sedia a rotelle, le fortune ma anche le incertezze e la precarietà di scrittore, l’amore. Andre Dubus (1936-1999) è uno dei più raffinati narratori americani del Ventesimo secolo. Amico e allievo di Richard Yates e Kurt Vonnegut, celebrato da Stephen King, John Irving, Elmore Leonard, John Updike, Dubus è stato anche saggista, biografo e sceneggiatore, aggiudicandosi svariati premi letterari. Mattioli1885, che sta tentando di pubblicarne l’opera omnia, ha già tradotto: “Non abitiamo più qui”, “Voci dalla luna”, “Il padre d’inverno”, “Ballando a notte fonda”, “I tempi non sono mai così cattivi”, “Voli separati”, “Un’ultima inutile serata”, “Adulterio e altre scelte”.
Tra i meriti della casa editrice Mattioli anche l’aver scoperto tanti scrittori americani di cui l’Italia era orfana e tradotto quindi opere letterarie monumentali come il libro di Gina Berriault “Donne nei loro letti” pubblicato nella Collana Frontiere con postfazione di Nicola Manuppelli. Gina Berriault (1926-1999) è autrice di quattro romanzi, tre raccolte di racconti e diverse sceneggiature. Il suo lavoro è stato ampiamente pubblicato da riviste quali Esquire, The Paris Review e Harper’s Bazaar. Nel 1996 un’antologia che riuniva anche i racconti qui presentati ha vinto il premio PEN / Faulkner, il National Book Critics Circle Award e il Bay Area Book Reviewers Award. Nel 1997 è stata scelta come vincitrice del Premio Rea per la Short Story. Questa è la prima traduzione in italiano. Pubblicata per la prima volta nel 1996, quando l’autrice aveva settant’anni, “Women in Their Beds” è la raccolta finale di Gina Berriault. Il volume rappresentò una svolta per Berriault, portandole finalmente l’attenzione critica che meritava. Fu ampiamente elogiato dalla stampa e vinse numerosi prestigiosi premi letterari nazionali. Lynell George del Los Angeles Times Book Review scrisse: “Gina Berriault scrive dei letti che costruiamo e in cui poi siamo costretti a stenderci.”
La storia che dà il titolo alla raccolta è ambientata a San Francisco alla fine degli anni ’60 e descrive le esperienze di una giovane attrice, Angela Anson, che ha un lavoro come assistente sociale all’ospedale della contea. Qui svolge il compito di assegnare le pazienti del reparto femminile ad altri istituti, ma si oppone al suo ruolo di ingranaggio della burocrazia, identificandosi fortemente con le donne oppresse. Angela collega così i destini che le donne condividono, formando una teoria secondo cui le donne sono “inseparabili dai loro letti.” Donne nei loro letti ha una logica onirica che offusca i confini tra sé e gli altri, i fatti e i sentimenti, il dramma e la realtà. Ecco i punti di forza di Gina Berriault come scrittore: la precisa bellezza del suo linguaggio, i vividi confronti che disegna tra percezione e realtà, e l’enorme compassione con cui rappresenta i suoi personaggi.
Tra gli ultimi titoli di narrativa americana pubblicati da Mattioli 1885 è obbligatorio segnalare anche l’esordio di Reynolds Price con un romanzo memorabile “Una lunga vita felice” nella traduzione di Livio Crescenzi pubblicato nella Collana Frontiere. Reynolds Price (1933-2011) è stato un romanziere, poeta, autore di racconti, drammaturgo, saggista. Nato a Macon, North Carolina, Reynolds si è laureato presso la Duke University di Durham, dove ha poi insegnato per oltre cinquant’anni. Nel 1962, Price ottenne un notevole riconoscimento in seguito alla pubblicazione del suo primo romanzo, “Una lunga vita felice”, che gli valse il William Faulkner Award. Nel 1986 ottenne il National Book Critics Award. Da tempo paralizzato dalla vita in giù, Price ha continuato a scrivere fino alla sua morte, nel gennaio del 2011.
Ambientato in una regione del profondo Sud degli Stati Uniti, dove il paesaggio è descritto con una precisione tale per cui strade, alberi e uccelli hanno la forza espressiva degli stessi personaggi, Una lunga vita felice è la storia dell’amore tormentato tra Rosacoke Mustian e Wesley Beavers – perché l’amore non è come la ragazza se l’immaginava né come l’intende Wesley. In un momento d’abbandono, Rosacoke compie un gesto che segna la fine di un’adolescenza prolungata, popolata di personaggi che rimangono scolpiti nella memoria del lettore.
Da poco è uscita per Mattioli 1885 nella Collana Frontiere la ristampa, dopo 10 anni, di un magnifico libro di Joe Cottonwood dal titolo “Le famose patate” nella traduzione di Francesco Franconeri.
Joe Cottonwood ha studiato alla Washington University di St. Louis. Con un passato da hippy e attivista contro la guerra in Vietnam, si è stabilito a La Honda, una piccola cittadina sulle Santa Cruz Mountains, dove scrive romanzi, poesie e libri per bambini. Erede della grande tradizione on the road americana, Joe Cottonwood è una delle voci più interessanti della nuova narrativa statunitense. “Famous Potatoes” è stato tradotto in sette lingue.
Reduce del Vietnam ed esperto di computer, Willy Middlebrook, alias Willy Crusoe, si ritrova coinvolto in un regolamento di conti e ingiustamente braccato dalla polizia: inizia così la sua corsa sfrenata sulle strade della grande America, dalle verdi montagne del West Virginia agli squallori di Philadelphia alla violenza di St. Louis, fino alle cime rocciose dell’Idaho. Incontrerà gente assurda e vera, persone che si nascondono come patate negli anfratti di una terra immensa, “sepolte lì dove i giornali e la televisione non le troveranno mai”. E cercando la via di casa, finirà per trovare se stesso.
Lunedi 27 Gennaio in occasione del Giorno della Memoria il cantautore Daniele Goldoni ha presentato in libreria alcuni brani dell’album “Voci dal profondo Inferno, storie e canti di deportati”. Durante la serata è stato anche presentato un libro/saggio, “L’imperatore di Atlantide”, scritto intorno a un’opera composta nel campo di concentramento di Terezin. Il libro “L’imperatore di Atlantide”di Viktor Ullmann e Petr Kien, con un contributo di Marida Rizzuti, edito da Miraggi è a cura di Enrico Pastore e con la traduzione del libretto di Isabella Amico di Meane. “Der Kaiser von Atlantis oder Die Tod-Verweigerung” (L’imperatore di Atlantide ovvero Il rifiuto della morte) è un’opera lirica in un atto di Viktor Ullmann su libretto di Peter Kien. Ullmann e Kien, internati nel ghetto di Theresienstadt (Terezín), collaborarono alla stesura dell’opera nella seconda metà del 1943. Sebbene si tennero delle prove a Terezín nel marzo del 1944 con il direttore d’orchestra Rafael Schächter, l’opera non venne mai rappresentata sul palcoscenico della Sokolhaus di Theresienstadt giacché la censura nazista ritenne che il personaggio principale, l’imperatore Overall (anglismo per Über Alles), fosse la satira di un sovrano totalitarista.
Un libricino su L’imperatore di Atlantide, opera di Viktor Ullmann e Petr Kien, composta tra il 1943/44 nel ghetto nazista di Theresienstadt. L’opera di Ullmann e Kien è uno dei capolavori dimenticati del secolo scorso, nato in uno dei più perversi campi nazisti. Soll’orlo dell’abisso questi due autori hanno trovato la forza di cantare la vita e la morte ma soprattutto di sfidare Hitler e il nazismo. L’incredibile storia di un’opera d’arte unica, scritta e composta nel lager di Theresienstadt. Perché l’uomo ha in sé l’abominio, e la capacità di abbatterlo, anche per mezzo dell’arte. Questo volume, che presenta il testo dell’opera scritto dai due deportati con l’originale in tedesco a fronte, offre la storia di Ullmann e Kien attraverso la penna di Enrico Pastore, che illustra il contesto del ghetto di Terezín e analizza il valore artistico, sociale e di resistenza dell’opera, mentre a Marida Rizzuti, esperta musicologa, è affidata l’analisi della partitura musicale. Questo volume, che presenta il testo dell’opera scritto dai due deportati con l’originale in tedesco a fronte, offre la storia di Ullmann e Kien attraverso la penna di Enrico Pastore, che illustra il contesto del ghetto di Terezín e analizza il valore artistico, sociale e di resistenza dell’opera, mentre a Marida Rizzuti, esperta musicologa, è affidata l’analisi della partitura musicale. La storia di un’opera artistica eccezionale per le circostanze in cui è stata creata, il Lager nazista, e ritrovata e riportata a nuova vita.La musica e il testo dell’Imperatore di Atlantide, opera lirica composta durante la prigionia nel ghetto di Terezín, risorgono dal fondo dell’abisso in cui furono creati e giungono fino a noi come altissima testimonianza della forza politica ed etica dell’arte.
E insieme all’Imperatore di Atlantide abbiamo ricordato un altro contributo per non perdere la Memoria. Le “Poesie dal campo di concentramento” di Josef ?apek, pittore, illustratore e poeta (nonché l’inventore della parola “robot”, fratello del più noto scrittore Karel). La traduzione è di Lara Fortunato, che ha scritto anche il testo introduttivo e la nota bibliografica. Capolavoro letterario di una memoria che non va dimenticata ma tenuta sempre viva e grazie alla traduzione di Lara Fortunato qui è contenuta l’anima di un grande poeta, custodita in un libro-scrigno con testo originale a fronte.
L’ascesa della Germania nazional-socialista non lo colse impreparato, il suo impegno civile contro il dilagare del fascismo si fece caricatura per le testate giornalistiche dell’epoca. Per via del suo orientamento politico venne arrestato nel 1939 e rinchiuso in un lager nazista. Sarà qui che Josef ?apek si affiderà per la prima volta alla poesia. Prima che finisse la guerra, alcuni componimenti riuscirono a raggiungere Praga, per mano di studenti universitari che da Sachsenhausen nel 1943 fecero ritorno nella capitale boema. A questi si aggiunsero le copie delle poesie che alcuni detenuti vicini allo scrittore riportarono in patria dopo la guerra. Il 25 febbraio del 1945 Josef ?apek venne trasportato nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, dove morì, probabilmente a causa dell’epidemia di tifo che decimò i prigionieri rimasti nel lager, pochi giorni prima dell’arrivo delle truppe inglesi. ?apek scrisse la sua ultima poesia “Prima del grande viaggio” nel campo di concentramento di Sachsenhausen in prossimità dell’ultimo trasporto.
Chiudiamo con un un bellissimo libro dal titolo “Le età dei giochi” dello scrittore rumeno Claudiu Florian, il romanzo vincitore del European Union Prize for Literature nel 2016 e pubblicato da Voland nella bella traduzione di Mauro Barindi. Il romanzo è stato scritto originariamente in tedesco ma Mauro Barindi, traduttore editoriale dal romeno dal 2008, lo ha tradotto per Voland dalla lingua madre dell’Autore. L’edizione italiana di Voland ha in copertina un particolare di un famoso quadro del 1825 Ludwig Richter dal titolo Heimkehrender Harfner. Claudiu M.Florian è nato nel 1969 nel distretto di Brason a Rupea in Transilvania. Dopo la laurea in Germanistica ha vissuto a Bucarest, Berna e Berlino dove oggi è il direttore dell’Istituto culturale romeno.
Un racconto corale e plurilingue, fatto di odori e sapori, principi azzurri, dittatori ed eroi. Siamo in Transilvania, nella prima metà degli anni ’70. La piccola comunità che vive nel villaggio ai piedi della fortezza medievale non lontano da Bra?ov è un crocevia di lingue e civiltà, antiche e moderne. Un bambino di sei anni vi trascorre l’infanzia insieme ai nonni. Curioso e ingenuo, tenta di capire quello che lo circonda a partire dalle parole, oggetti spesso strani e sfuggenti che in qualche modo danno forma alla realtà. Lo sguardo spensierato del bambino cerca e trova la vita segreta delle cose e attraverso la favola interpreta un tempo segnato da tragedie e lacerazioni.
Josef Čapek appartiene alla stessa generazione di Franz Kafka. È morto da poeta e da combattente antifascista e antinazista in un lager. Durante la sua detenzione nel campo di concentramento scrisse poesie.
Questi versi rappresentano una testimonianza e un paradosso. Il poeta – intellettuale – prigioniero scrive dal terribile baratro dell’universo concentrazionario con l’intenzione di scavare nell’impossibilità della parola e allo stesso tempo è vigile e presente davanti al terrore dei suoi aguzzini.
L’editore Miraggi pubblica una scelta delle poesie dello scrittore boemo. Poesie dal campo di concentramento (traduzione di Lara Fortunato) è un viaggio nel calvario di un uomo privato della sua libertà. La poesia di Čapeck affonda i suoi artigli nella rappresentazione più feroce che il male ha raggiunto nel secolo breve.
Dall’inferno del campo di concentramento il poeta scrive del baratro senza fine, perde il sonno per scrivere poesie come tracce di bene davanti all’orrore del sangue.
La poesia per Čapek è l’unica istanza di verità. Nella poesia la parola rimane viva e sveglia. È proprio grazie alla sua lucidità che il poeta è in grado nei suoi versi di catturare nell’essenzialità l’inferno mortale del campo di concentramento.
«A tratti i componimenti – scrive Laura Fortunato nella prefazione – si fanno cronache condensate dello sterminio in atto, riuscendo a ignorare del tutto la miseria degli aguzzini, per porre invece al centro la condizione dei prigionieri».
Josef Čapek prese apertamente posizione contro l’avanzata del nazismo, nel 1939 fu arrestato e deportato in un campo di concentramento.
Qui scelse la poesia per cantare la disgrazia, il lutto e il dolore dei giorni infernali trascorsi nell’orrore terribile del campo di concentramento dove «le cose umane si sgretolano» e l’angelo della morte arriva in volo per oscurare con le ali il palpito della vita.
Nel campo di concentramento, dove il nulla fiorisce e gli uccelli non cantano e primavera e inverno sono una catena di giorni di pena continua e tristezza, Josef Čapek scrive poesie chiedendo alla parola di donargli tutto il suo impeto per descrivere dal vivo e nel vero tutto il turbamento dell’orrore.
Il 25 febbraio del 1945 Čapek venne trasportato nel campo di concentramento di Bergen –Belsen, dove morì qualche mese dopo.
Consapevole di andare incontro alla morte scrisse la sua ultima struggente poesia.
Si congedò dal mondo con Prima del grande viaggio:
«Difficili momenti, giorni difficili / non vi è scelta, decisione, / ultimi giorni scuri, / siete giorni di vita o di morte? / Indietro alla vita o nelle fauci della morte / – cosa vi sarà alla fine del viaggio? / A migliaia vanno, non sei solo… / Avrai, non avrai fortuna? / Sorto è il giorno del grande viaggio / – da tempo vi sei preparato: / messe di vita o di morte / – tanto vai verso casa – tu torni a casa!».
Poesie dal campo di concentramento è un libro da leggere. Solo un poeta poteva lasciarci in eredità la testimonianza straziante e viva dell’orrore di cui sono capaci gli esseri umani.
Josef Capek (Hronov, 23 marzo 1887 – Bergen Belsen, aprile 1945) è stato un pittore e scrittore ceco, e appartiene alla stessa generazione di Franz Kafka.
Fratello di Karel Capek, fu autore di varie opere in collaborazione col fratello (tra cui Della vita degli insetti, 1925), ma ne scrisse anche altre autonomamente. Tra queste Lelio (1917) e La terra dei molti nomi(1923). Fu l’inventore della parola “Robot”.
Morì nell’aprile del 1945 nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, in Germania, dove venne deportato a causa del suo atteggiamento ostile nei confronti della politica di Hitler e del Führer stesso. Durante la prigionia scrisse Básne z koncentracního tabora, una raccolta di poesie, pubblicata postuma nel 1946.
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