Sul filo della lama, pubblicato per la prima volta nel 1991, è un libro bello e terribile. L’autore David Wojnarowicz – artista e attivista omosessuale per i diritti delle persone con Hiv/Aids –, è morto nel 1992 a New York per complicazioni correlate all’Aids a soli 37 anni: in quel periodo quasi nulla si sapeva di questo virus, compreso il modo di curarsi.
Nato nel 1954 a Red Bank (New Jersey), figlio di un marinaio violento e alcolizzato, David trascorse un’infanzia fatta di abusi ed espedienti, prostituendosi per pochi dollari fin dalla giovane età. È verso la fine degli anni Settanta che riesce ad affrancarsi dalla strada avvicinandosi prima alla scrittura e poi al mondo delle attività visive. La sua opera spazia dalla scrittura, alla scultura, alle installazioni e tutte le sue creazioni hanno come filo conduttore la solitudine, la diversità, una forte denuncia sociale e la difficoltà di vivere in una società antagonista.
Anche Sul filo della lama – una raccolta di saggi, un memoir disintegrato in mille frammenti, capitoli, ricordi – è un testo che denuncia la violenza, dà voce agli emarginati e alle minoranze, e mette in evidenza le colpe della politica, dei media e delle organizzazioni religiose americane. Nonostante il doloroso disfacimento del suo corpo e la sofferenza della sua cerchia di amici che, lentamente, uno per uno, muoiono decimati dal virus, il j’accuse dell’autore è energico e potente: lancia strali contro l’amministrazione Reagan che ha cercato in tutti i modi di relegare ai margini dello spazio pubblico ed estetico le persone con sindrome da Hiv/Aids e le soggettività queer. Wojnarowicz condanna apertamente chi detiene il potere perché totalmente disinteressato alle persone di cui, invece, dovrebbe occuparsi e perché tratta le minoranze come “piattelli a una gara di tiro”, potere rappresentato da gente che, per esempio, mentre si preoccupa di eliminare in Costarica alcuni giornalisti impegnati a portare alla luce la verità sull’importazione di cocaina da parte del governo e sull’utilizzo dei profitti derivanti dal narcotraffico per finanziare i contras, si presenta in uno studio televisivo o nel giardino della Casa Bianca o dal palco di una convention, parlando ipocritamente di gloriosi progetti umani che avrebbe in serbo per la società americana, se solo fosse eletto Presidente degli Stati Uniti.
Istituzioni indifferenti che invece di investire nella Sanità per garantire cure a tutti mettendo a disposizione strutture adeguate a chi contrae questa terribile malattia o in generale a tutela delle fasce più vulnerabili, alimentano lo stigma nei confronti di chi è colpito dall’Aids e la disinformazione in materia di salute sessuale. Le risorse destinate a contrastare la diffusione del virus sono il minimo indispensabile per far bella figura sui giornali e “pararsi il culo” mentre le persone, pur di salvarsi la vita, sono disposte ad assumere sostanze chimiche per il giardinaggio o a farsi inoculare un vaccino a base di escrementi umani.
Anche il Vaticano e la Chiesa cattolica non escono indenni dall’accusa di Wojnarowicz poiché hanno ignorato le evidenze scientifiche che dimostrano come i preservativi in lattice, se correttamente usati, possano prevenire la trasmissione dell’Hiv e di altre malattie; non solo da parte loro non c’è stata una corretta informazione per prevenire la diffusione del virus, ma sono state fatte affermazioni “preistoriche” secondo le quali gli unici modi per prevenire l’Aids sarebbero stati morigeratezza e astinenza, per cui a coloro che ignoravano gli insegnamenti della Chiesa cattolica e contraevano la malattia non restava altro da fare che incolpare sé stessi.
L’autore si rivolge anche contro la stampa per non avere dato conto alla società dell’ampiezza dell’epidemia, poiché da un lato chi controlla l’informazione porta avanti il suo programma conservatore con un’accurata selezione di quali notizie diffondere, e dall’altro considera le persone aggredite da questo virus come sacrificabili. L’America è descritta come una nazione di zombie dove ci sono tante tribù: “alcune si occupano di decerebrare le persone sostenendo il governo nel suo lavoro quotidiano, vendono alle masse mucchi di carne marcia, come una storia corrotta e falsa e un futuro corrotto e falso, e nonostante quella carne puzzi di decomposizione e pus e sangue questa particolare tribù celebra queste esalazioni nauseabonde come se fossero virtù costruite su gloriosi slanci”. Leggiamo anche una sorta di resoconto dei lunghi vagabondaggi in automobile di Wojnarowicz, con accurate descrizioni di paesaggi americani, riflessioni su architettura e arte, storie strazianti di amici e amanti che muoiono di una morte lenta e feroce, leggiamo di furtivi incontri clandestini con estranei in servizi igienici, cabine per camion, squallide stanze d’albergo, magazzini fatiscenti, automobili. Non mancano di conseguenza passaggi a contenuto sessuale, con descrizioni alquanto esplicite e crude; non sono, però, racconti gratuiti, scritti per scandalizzare o eccitare il lettore, ma hanno la funzione di liberare la sessualità in tutte le sue forme, normalizzare aspetti naturali come il sesso e il corpo, sottolineando il fatto che ancora oggi questi aspetti sono considerati un tabù, qualcosa da regolamentare e da nascondere se, in qualche modo, non conformi o sgraditi alla morale borghese.
Troviamo tutto questo e molto altro nel libro, e quello che più colpisce è l’attualità del pensiero dell’autore: dopo oltre trent’anni le critiche al Sistema sono assolutamente replicabili alla situazione attuale. Sul filo della lama è un manifesto contro il consumismo di cui ancora siamo imbevuti; contro il silenzio e l’indifferenza della politica, della stampa e della società borghese, completamente disinteressati alle minoranze o alle problematiche dei soggetti fragili; contro l’ormai consolidata abitudine a colpevolizzare le vittime, il fenomeno oggi definito victim blaming cui spesso si fa cenno in casi di violenza ai danni delle donne.
Questo manifesto torna alla luce in un momento in cui è necessario far sentire voci, se non di ribellione, almeno di critica. Non solo, ha anche il merito di riportare a galla la questione della tossicodipendenza, piaga sociale di cui si parla sempre troppo poco rispetto alla vastità del problema, esteso sia in termini di spettro di sostanze che circolano sia per numero di generazioni coinvolte. In ultimo, va riconosciuta a Wojnarowicz la grande capacità di riuscire ad alternare descrizioni molto crude e violente a immagini di grande poesia come, per esempio, la magia evocatagli da una nuca intravista in metropolitana o come quando, nella parte finale del libro, chiude numerosi paragrafi con la frase: “Cercate il profumo dei fiori finché siete in tempo”.
Un romanzo di idee di attualità stringente: Malapace (Miraggi edizioni, 2023) di Francesca Veltri. Tra la Prima guerra mondiale e gli ultimi giorni del regime di Vichy, il romanzo segue un gruppo di amici le cui vite s’intrecciano con le vicende più ampie della Francia di quegli anni. Dalla prigione alleata in cui si trova nel 1944, perché accusato di aver collaborato con il Ministero della Propaganda di Vichy, François – protagonista e voce narrante – ripercorre in flashback vent’anni di esperienze personali e collettive. La storia narra con dolorosa lucidità la decisione di assoluto pacifismo presa da François dopo la morte del padre al fronte nella I guerra mondiale, l’incontro con Martine – figlia di un maestro ebreo socialista –, il legame con Jean-Pierre e il sogno del comunismo, fino alle disillusioni del socialismo reale sovietico. François racconta la propria scelta consapevole ma alla fine sbagliata, l’adesione al Male nel tentativo di perseguire il Bene, mentre il volto di Antoine – recluso nella stessa prigione per crimini di guerra e amico d’infanzia diventato nazista convinto – diventa lo specchio crudele che gli rimanda l’eco di una colpa che partita da fronti opposti li ha portati allo stesso punto di arrivo.
Francesca Veltri (1976) si è diplomata in Studi Filosofici alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ha studiato presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales e l’École Normale Supérieure di Parigi ed è docente presso l’Università della Calabria. Autrice di saggi, studiosa di Simone Weil, Malapace è il suo secondo romanzo.
Domanda. La pace e il pacifismo attraversano in questi tempi ogni dibattito e ogni posizione lacerando i partiti, le organizzazioni, le amicizie come non mai. Il tuo romanzo Malapace fin dal titolo va al cuore del problema…
Risposta. ‘Malapace’ è quella pace che diventa il suo contrario, ossia un oggetto di conflitto; a parte i fanatici della ‘guerra sola igiene del mondo’, è difatti quasi scontato essere a favore della pace. Ciò che invece non è scontato – soprattutto in alcuni periodi – è a favore di quale pace essere. I pacifisti europei che spinsero i loro governi, tra cui quello socialista di Léon Blum, a negare l’aiuto militare alla Repubblica spagnola attaccata dai franchisti, speravano di evitare in questo modo l’insorgere di una nuova guerra mondiale. Scelta che li separò da molti dei loro compagni, e che segnò l’inizio di una serie di dilemmi culminanti nei Patti di Monaco del 1938. Sembra strano dirlo ora, ma quando ho finito il romanzo era il 2019. Prima della pandemia, prima dell’invasione dell’Ucraina. Praticamente in un altro mondo. L’ultima volta in cui questioni simili erano arrivate a scuotere l’Europa era stato in Bosnia, negli anni Novanta. Per certi versi, mi rendo conto che proprio questo mi ha permesso di scrivere il romanzo. Se non l’avessi fatto allora, oggi sarei stata troppo coinvolta emotivamente per riuscirci. Avevo bisogno di guardare dall’esterno a quel dilemma, un dilemma tragico perché le ragioni messe in campo da un lato e dall’altro partivano paradossalmente da valori comuni, condivisi. Entrare in conflitto con chi la pensa all’opposto è naturale; farlo con chi è stato tuo compagno ed amico è molto più duro e doloroso. E, una volta che la lotta è finita, è più semplice confrontarsi con chi è stato a tutti gli effetti il nemico, che non con le persone un tempo amate e poi perdute, come accade al protagonista di Malapace.
D. Quando oggi si parla di pace e si elogia la diserzione si pensa per lo più alla Prima guerra mondiale, mentre la Seconda guerra anche per i più convinti pacifisti è invece letta all’insegna della resistenza che va da sé è armata. Il protagonista del tuo romanzo François, la cui intera vita ruota attorno alla scelta del pacifismo è stato storicamente una eccezione?
R. No, non è stato un’eccezione. Come lui ce ne sono stati tanti, ed è proprio questo che mi ha colpito e mi ha fatto venire voglia di raccontarne la storia, che ho scoperto quasi per caso, mentre studiavo per la tesi di dottorato nelle biblioteche di Parigi. L’argomento della mia tesi era il rapporto tra la sinistra francese e l’Unione Sovietica tra gli anni Venti e Trenta. Al momento di predisporre le note biografiche, mi sorprese vedere come molti militanti comunisti o socialisti, nel dopoguerra, fossero stati condannati per aver collaborato con la Repubblica di Vichy. Avevo letto i loro articoli, i loro scambi epistolari, e sapevo che avevano dei valori opposti rispetto a quelli del nazismo; com’era stata possibile una cosa del genere? Sono arrivata così a immergermi nella profonda lacerazione del pacifismo francese, diviso tra chi collaborò con Pétain e chi si schierò con De Gaulle. Parliamo della generazione che aveva visto i propri padri morire nelle trincee della Grande Guerra o tornare sfigurati e invalidi, e per la quale non c’era male peggiore che tornare a combattere. Alcuni tuttavia fecero questa scelta, altri preferirono il compromesso con il nemico, nell’idea che ciò avrebbe preservato più vite umane. C’è anche chi, come Simone Weil, fu pacifista assoluta fino al 1939, per poi aderire al governo gollista in esilio a Londra, che combatteva insieme alle forze alleate.
D. “Il Satana del nostro tempo recita la parte dell’umanista e ha un unico desiderio: salvare il mondo.” Lo scrive I. B. Singer nella sua raccolta di saggi intitolata A che cosa serve la letteratura (Adelphi, 2024). Sei d’accordo?
R. Amo molto i romanzi di Singer, ma non avendo letto il saggio mi è difficile contestualizzare la frase. Se dovessi prenderla in senso del tutto astratto, mi verrebbe da dire che Satana, se esiste, compie il male convinto che sia appunto un male, mentre gli esseri umani generalmente commettono le azioni più atroci nell’idea che esse siano necessarie a un bene superiore, e questo non solo nel nostro tempo, ma da sempre. Che ciò nasconda spesso anche interessi personali è senz’altro vero, ma di fondo anche Hitler o Himmler probabilmente erano convinti di salvare il mondo. Alessandro Manzoni diceva che è più facile fermare l’arma di un nemico che il ferro di un chirurgo: quando gli esseri umani si vedono come chirurghi, è forse allora che sono più pericolosi.
D. Infatti, la cosa che più colpisce nel tuo romanzo è che i personaggi sono mossi dalle più sincere convinzioni e non da trasformismo o dall’interesse personale. Anche Antoine, il compagno di cella di François, nazista convinto e torturatore è onesto con se stesso in relazione alle proprie convinzioni e anzi mette François dolorosamente davanti all’ipocrisia delle sue scelte.
R. Vero. Volevo capire – non giustificare, ma piuttosto, spinozianamente, capire – il punto di vista ‘dell’altra parte’ quella di chi si era trovato a collaborare con i nazisti non perché era il minore dei mali, ma per una decisione ideologica precisa. Il confronto/scontro tra François e Antoine mette in scena due persone di cui una è lacerata dai dubbi, l’altra invece resta fanaticamente attaccata alle proprie convinzioni. Antoine – il nazista – non si pente di ciò che ha fatto, soffre solo per il fatto di essere stato sconfitto. François – il pacifista – rifiuta di trovarsi dalla stessa parte di qualcuno che aderisce a un ideale per lui abietto, eppure è proprio lì che le sue scelte lo hanno portato…
D. In Malapace l’amicizia mi pare molto più importante dell’amore, è così?
R. Direi che dipende dai personaggi. In generale, penso che l’amicizia possa avere un’intensità paragonabile all’amore, pur essendo un sentimento molto diverso. In particolare, il protagonista ha bisogno di sentirsi amato, che sia da un amico o da un amante, ma anche dai compagni di lotta, dalla sua famiglia, eppure li vede allontanarsi tutti, uno per uno, a causa di scelte che la sua morale lo spinge a fare, e che lo condurranno tragicamente a risultati opposti rispetto a quelli che avrebbe voluto ottenere.
D. Al tuo protagonista non risparmi nulla, deve fare i conti anche con il privilegio che non è cosa che ci si scrolla di dosso con un puro atto di volontà…
R. Questo è qualcosa che ho in comune con lui. Spesso mi sono percepita – ed effettivamente sono stata – privilegiata per il contesto in cui sono cresciuta, a livello materiale, culturale e anche morale; quindi capisco il senso di colpa che agita François per qualcosa che non ha commesso, ma che gli è toccato per sorte, e a cui cerca inutilmente di sottrarsi.
D. Malapace è un romanzo in cui la storia delle persone si confronta con la Storia eppure i personaggi non sono dei semplici ‘portatori’ di ideologie, ma, al contrario sono molto dolorosamente lacerati. E mi pare che tu da una parte con nettezza porti fino in fondo la critica alle ideologie e le scelte conseguenti ma dall’altra non infierisci sulle persone di per sé.
R. Non potrei e non vorrei farlo. Per le mie convinzioni morali mi è facile condannare determinati atti e stigmatizzarli insieme alle terribili conseguenze che hanno avuto, ma resta il fatto che non posso sapere che scelte avrei fatto io, se mi fossi trovata nelle stesse condizioni dei personaggi. Non posso saperlo, anche se con il senno del poi è molto evidente quale fosse la parte giusta e quella sbagliata; posso solo augurarmi che avrei scelto l’una piuttosto che l’altra, ma non ne ho la certezza. C’è un’immagine che spesso mi torna in mente, la foto di una manifestazione nazista dove in mezzo a una folla di gente con il braccio alzato ce n’è uno solo che tiene le braccia strette al petto. Tutti noi oggi vorremmo essere stati quell’uno, ma chi può garantircelo?
D. Prima di Malapace hai pubblicato Edipo a Berlino (Divergenze, 2019) in cui il protagonista durante la notte dei cristalli nel 1938 a Berlino, uccide brutalmente un ebreo salvo scoprire poi di essere lui stesso di origine ebraica. Ce ne parli un po’? Perché questo titolo quando nel romanzo non c’è traccia del ‘complesso di Edipo’ freudiano che tutti conoscono?
R. Per fare una battuta, si potrebbe dire che la colpa è di Freud… la cui teoria sul complesso edipico è diventata assai più celebre della tragedia greca cui quel complesso si è ispirato. Nella tragedia di Sofocle, Edipo uccide suo padre e sposa sua madre perché non sa chi sia l’uno e chi sia l’altra; l’intera opera verte sul tema dell’inconsapevolezza umana, che può rivelarsi la peggiore delle maledizioni. Basta infatti che cambi la prospettiva, e le stesse azioni che avevano reso Edipo un uomo rispettato e addirittura un sovrano, lo trasformano in un paria, un reietto, agli occhi propri prima che degli altri. Questo è un po’ il nocciolo sia del mio primo romanzo, Edipo a Berlino, sia di Malapace; l’idea che le stesse azioni considerate giuste agli occhi di chi le ha commesse, possano per un gioco del destino venir percepite come sbagliate e riprovevoli. Edipo a Berlino non narra solo il trauma di scoprire un’identità diversa da quella che si era creduta la propria (grazie al sistema nazista di identificazione, furono in molti a ritrovarsi ebrei senza essersi mai considerati tali), ma anche il progressivo staccarsi da un sistema di norme e valori che gradualmente assumono un aspetto diverso, e addirittura opposto a quello che all’inizio gli era stato attribuito. Un dilemma simile lo vive François, che si ritrova a venir condannato come collaborazionista dei nazisti pur avendo sempre avversato quel tipo di ideologia.
D. Infine, hai una formazione filosofica e storica, sei una docente di sociologia perché hai deciso di scrivere romanzi?
R. Da sempre mi appassiona leggere saggi di storia o di filosofia e sociologia, e ne ho anche scritti, a partire da studi e ricerche; quando invece leggo o scrivo di narrativa, a incuriosirmi è un punto di vista più individualizzato, più interno alle persone che quelle storie e quelle società le hanno vissute. Un punto di vista più microscopico, forse, e anche più libero nell’analizzare le tante sfaccettature dell’esperienza umana.
Nei Vigliacchi Josef Škvorecký distilla in otto giorni e in altrettanti capitoli quelle ore sature di potenziale drammatico delle quali parla Stefan Zweig in Momenti fatali, quel progressivo addensarsi di eventi gravidi di fato dopo i quali nulla sarà più come prima. L’azione, situata in una cittadina della Boemia, copre il periodo che va dal 4 all’11 maggio del 1945, durante il quale i nazisti presenti in Cecoslovacchia stanno per essere travolti dall’Armata Rossa. In questi scenari si muove Danny Smiřický, alter ego dell’autore stesso in numerose sue opere, personaggio irriverente e anticonformista, perennemente in bilico fra la noia esistenziale e il vitalismo irrefrenabile. Come Svejk ha la capacità di resistere all’orrore della guerra, facendosi beffe del male. Meno caricaturale e grottesco del buon soldato di Hasek, Danny può ricordare l’Holden di Salinger, e non è un caso considerando che Škvorecký era imbevuto di cultura angloamericana. L’individuazione di un linguaggio perfettamente funzionale alla narrazione è tratto comune. Salinger si esprime alla maniera degli adolescenti americani, con il loro slang e i loro manierismi. La lingua è il grimaldello che scardina l’ipocrisia della società del benessere. La medesima operazione viene messa in atto da Škvorecký, veicolando nel lettore uno straordinario senso di autenticità. La sua critica è rivolta all’ambiente piccolo borghese, che è riuscito a restare a galla persino durante l’occupazione nazista. Su tutto questo si innesta l’andamento musicale della struttura narrativa, la sua ispirazione jazzistica. Non a caso l’apertura e la chiusura del romanzo mostrano Danny impegnato con la sua band. Il jazz rappresenta la rottura con qualsiasi elemento stereotipato, l’aspirazione verso una libertà di espressione totale. Il sax tenore, con il suo chiaro simbolismo sessuale, invita allo sberleffo, all’eccitazione dionisiaca. Da questo punto di vista anche i pensieri di Danny, con il loro continuo oscillare da un estremo all’altro, forniscono l’impressione di una coscienza preda di una musica selvaggia, ancora non completamente formata, alla ricerca di una propria direzione.
Siamo indubbiamente di fronte a un romanzo di formazione. Un’immagine, un ricordo precipitano il protagonista in un caleidoscopio di riflessioni dalla sostanza onirica, perché “il sogno era nella mia natura da tempo immemorabile”. Significativamente ogni capitolo, eccetto l’ultimo, termina con il protagonista che si addormenta, consegnato all’oblio in un sonno senza sogni, oppure popolato di cose che, al risveglio, dimenticherà. L’amore per Irena diviene ossessione a causa del rifiuto della ragazza a concedersi. Un sentimento incerto e illusorio in quanto legato all’apparenza estetica. Fondamentale è vivere, anche se tutto quello che è bello rivela una natura effimera. Momentanee oasi di beatitudine sono garantite dalla musica, come quando Danny si ferma ad ascoltare un’orchestrina russa, con la vibrazione profonda della balalaika che ha del miracoloso. Il piacere sparisce, rapido come è venuto, perché «stavo male per l’impotenza dell’uomo e per un mondo dove tutto era organizzato così male che ogni meraviglia, se mai capita, la si può conoscere così di rado, oppure, una volta conosciuta, si finisce per perderla subito, restando disperati e tristi e con tanta voglia di morire».
Neppure la religione è di conforto. Il dubbio riguardo l’esistenza di Dio dà vita a elucubrazioni contrastanti. Il dramma si manifesta all’improvviso, in un gruppo di ebree appena uscite da un campo di concentramento, pallide come spettri, o in una ragazza tedesca convinta della superiorità della razza ariana fino al fanatismo. Momenti cruciali nella storia europea vengono descritti in maniera peculiare, proprio perché filtrati attraverso lo sguardo disincantato e irriverente di Danny. «Qualche giorno di entusiasmo e poi di nuovo la stessa pappa, sempre uguale, appiccicosa e vischiosa». Un mondo è al tramonto, ma il nuovo appare ugualmente estraneo e ostile. Siamo distanti dalla mitizzazione di un’intera generazione operata ad esempio da Fenoglio nel Partigiano Johnny, dove la resistenza ha una forte motivazione esistenziale. Danny è un antieroe, distante da qualsiasi retorica ideologica e per questo inviso al regime comunista. I liberatori, dei quali non comprende la lingua, gli appaiono: “completamente diversi da me e incredibilmente estranei”. Sin dal titolo, ci troviamo in un sistema di valori totalmente contrario ai dettami del socialismo. L’eroismo di Danny è una posa, una finzione, come dimostra l’episodio della foto con il mitra usata unicamente come esca per le ragazze. Una strana sensazione di vuoto e di inutilità lo minaccia. “Tutti eravamo dei morti viventi”, dice. Con il suo anelito libertario e le sue contraddizioni insolubili, con il suo vitalismo e i suoi ripiegamenti malinconici, Danny è il simbolo dell’irrequieta indole giovanile, della ribellione desiderata e mai del tutto compiuta; in quanto testimone di un’età irripetibile, ci commuove con la sua profonda e imperfetta umanità.
Con il nome che si ritrova, Ulisse Corsini non può che essere il degno erede di quella tradizione modernista che comprende il Leopold Bloom dello Ulysses joyciano e lo Zeno Cosini della Coscienza di Zeno di Italo Svevo. Nel Cimitero delle macchine di Sergio La Chiusa, tuttavia, si sente anche il peso del secolo che ormai ci separa da questi testi canonici del primo Novecento europeo, cui bisogna perlomeno aggiungere il riferimento kafkiano contenuto nel nome di un altro personaggio, il dottor Klammermann (dal Klamm del Castello). Nel frattempo sono intervenuti, tra gli altri, Buzzati e soprattutto Bianciardi – per la Vita agra, rispetto all’ambientazione milanese del romanzo, dove Milano non è “capitale morale” del Paese, bensì il luogo fantasmagorico e al tempo stesso crudo del titolo: un “cimitero delle macchine” –, come ha notato, tra gli altri Gianni Barone, parlando di un testo che, effettivamente, «gronda letterarietà da ogni pagina».
Questo non significa, d’altra parte, che la scrittura di Sergio La Chiusa manifesti strette affiliazioni epigoniche ai suoi modelli, risultando invece libera dagli stilemi più marcati del modernismo e risolvendosi, anzi, in una pagina che è spesso molto nitida, per quanto costantemente attraversata da potenti tensioni linguistiche. Si tratta, infatti, di una scrittura che tende verso l’orizzonte del nuovo Grande Romanzo Italiano, ma all’interno di una torsione della lingua che rifugge le banalità formali di molta altra prosa, per così dire, “mainstream”, per assestarsi in una zona superficialmente pacificata e in realtà foriera di continue deviazioni, trasgressioni, illuminazioni. Si sta dicendo, in altre parole, di un disegno e di un controllo autoriale già visibile nelle ultime pubblicazioni di La Chiusa – I Pellicani (Miraggi, 2020) e Madre nel cassetto (Industria & Letteratura, 2023) – e che di certo attiene a un progetto autoriale di lunga data, visto che l’ideazione dell’opera viene ricondotta, nelle note finali, al biennio 2003/2005.
Rispetto al precedente libro per Miraggi, Giorgio Mascitelli ha poi osservato, nella sua recensione apparsa su “Nazione Indiana”, che «se ne I Pellicani ci troviamo in una generica periferia urbana, in questo romanzo l’azione si svolge a Milano, che nell’immaginario mediatico nazionale è la città patinata e nuova di zecca per eccellenza». Anche di Milano, in realtà, sono esplorate zone periferiche e marginali – quasi mai rintracciabili con certezza a livello topografico, o sociologico, nella realtà della città lombarda – che finiscono per intaccare la patinatura di capitale “morale”, “degli affari” o “della moda”.
Una di queste è il cimitero delle macchine che dà il titolo al libro e che compare con espressionistica forza in apertura della seconda parte del romanzo come una corte dei miracoli anarcoide e incendiaria nella quale spicca il personaggio di Lazzaro Lanza – figura borderline (e dunque delirante e al tempo stesso umanissima, per nulla caricaturale) del militante rivoluzionario. È sul medesimo livello che resta una possibile interpretazione della politica rappresentata e agita nel testo, con implicazioni più vicine a una sorta di pessimismo umanista che a un vero e proprio nichilismo. Le traiettorie di Ulisse e Lazzaro si sovrappongono per buona parte della seconda sezione, con almeno una scena che si imprime vividamente nell’immaginazione, almeno nella nostra lettura, ovvero con la riproposizione milanese di un novello Cristo a dorso d’asino che replica l’Entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889 di James Ensor.
Capolavoro pre-espressionista, quest’ultimo, la cui presenza para-ecfrastica rinforza le torsioni espressionistiche del linguaggio che si agitano sotto la superficie della pagina, assai ripulita, di La Chiusa. Non è questa, tuttavia, la sola immagine che si può consegnare, in chiusura, del libro: di Ulisse Corsini restano memorabili le disavventure condominiali, sessuali e sanitarie, a completare la figura di un personaggio che a un certo punto, in un passaggio carico non solo di letterarietà ma anche di metaletteratura, viene definito “posticcio e inattendibile”, ma che mostra, proprio per questo, mille sfaccettature (spesso molto materiali, e anche triviali). Ulisse Corsini è senza dubbio un “fuggiasco assoluto”, come ha giustamente osservato Mascitelli, ma sempre umano, umanissimo, al punto da contagiare chi legge con l’insopprimibile desolazione che è tanto sua quanto del cimitero delle macchine che, oggi, si nasconde in ogni nostra città.
ignificati inaccessibili solcano le pagine di Ore di piombo, colossale, coraggiosa e inesorabile opera di Radka Denemarková. Un libro con un destino, intessuto di simboli, visionario, complesso e affascinante, intriso di rara purezza. “È possibile vivere e scrivere allo stesso tempo?” si chiede l’autrice. Un contrasto apparentemente insanabile. “Scrivere, l’incessante attività della sua mente, è una stretta passerella sopra la voragine”. Per farlo, forse, occorre vivere “in un duplice tempo, in un duplice mondo”. Dicotomia simboleggiata dal grido lacerante della gazza azzurra, condannata a soffrire per ciò che è destinata a vedere, e dalla cecità della cornacchia nera, alla quale hanno fatto il lavaggio del cervello. Denemarková si muove in equilibrio su un abisso. Da un lato Praga, dall’altro Pechino. Nel mezzo un filo sottilissimo e periglioso. La sua scrittura assume forme inconsuete nel tentativo, perfettamente riuscito a nostro avviso, di fornire al testo pregnanza polisemica.
Entrare in un’altra cultura è quanto di più arduo si possa immaginare. Forte di un universo interiore di inconsueta profondità e di un’esperienza diretta sul campo, Denemarková – Scrittrice nel libro – indaga le dinamiche che muovono la società cinese per riflettere sul mondo contemporaneo. L’ambientazione “esotica” intride di fascino la narrazione, dietro l’atmosfera fiabesca il libro è ben radicato nel reale. L’autrice ha vissuto in prima persona il totalitarismo. La Cina di oggi, come la Cecoslovacchia sovietica, è un luogo nel quale nessuno esprime la propria opinione e, quando si azzarda a farlo, ne paga le conseguenze con il sangue, come è accaduto in Piazza Tienanmen; un Paese dove le intercettazioni sono sempre più sofisticate, dove “il sistema legale difende solo coloro i cui profitti lievitano”. “La Cina è un campo di concentramento dai confini impermeabili”. Denemarková ricorda la primavera di Praga, soffocata dai carri sovietici, eppure c’è ancora chi pensa di aver assistito a una liberazione, e non a un’occupazione. Riflessioni che possono applicarsi all’attuale invasione dell’Ucraina da parte della Russia. “La propaganda è una menzogna collettiva e le calunnie collettive non c’è modo di estirparle”.
A tal punto arriva la manipolazione delle menti. In una realtà in cui l’unica virtù è l’obbedienza, l’accettazione acritica, le persone non rieducabili vengono estromesse e annientate con il sospetto e la calunnia. Il controllo delle menti è anche manipolazione dei corpi. Ai condannati vengono espiantati gli organi. “Una voce legge davanti al corpo mutilato la sentenza”. Il sistema indirizza la vita privata. Il governo cinese detta il numero dei figli, e quindi le dinamiche familiari. Di tutto questo la donna è vittima, schiacciata da un modello patriarcale che non le lascia spazio, né le riconosce dignità.
L’incapacità dell’uomo di imparare dai propri errori è un fardello arduo da sopportare, in quanto mortifica qualsiasi speranza. Il libro non resta confinato a un singolo angolo geografico, per quanto immenso, ma è caratterizzato da una continua erranza, anche temporale, che ci trasporta dalle lande del lontano oriente ai paesaggi dell’Europa dell’est, dal passato al presente. Gli anni Novanta appaiono come un’orgia di potere, dominata dall’ossessione del comando e del denaro. Città elefantiache e impersonali, coperte da una perenne coltre di smog, racchiudono esseri sbiaditi, privi di personalità. Le tecnologie moderne, sempre più sofisticate, intossicano gli uomini finché questi non riescono più a distinguere fra gioco e realtà.
Stilisticamente il linguaggio ricchissimo, potente e visionario, così come le prospettive illimitate, possono ricordare gli universi barocchi creati da Vollmann. Il libro è un romanzo con derive saggistiche, pregno di riflessioni sulla politica, sulla natura del linguaggio e sulla calligrafia, un mondo di enorme vastità nel quale perdersi. La Cina è uno specchio dove vediamo riflesse le nostre paure, i nostri dubbi, le contraddizioni che lacerano la realtà in cui viviamo. Le tematiche della modernità si addensano in un affresco di enorme complessità. L’architettura stratificata, labirintica della narrazione addita le lacerazioni e i mutamenti che scuotono il nostro pianeta. Quali saranno gli esiti e le conseguenze, quando passeranno le ore di piombo evocate dal titolo, è l’interrogativo principale del libro. “La letteratura è la chiave per arrivare alle vite degli altri”. La parola è un’arma potente. Per questo i libri considerati nocivi vengono tratti al rogo, per questo libraie appassionate vengono torturate e offese, per mortificare ogni anelito libertario.
La Cina appare come un disumano meccanismo kafkiano, oppressivo e avido, mentre gli individui svaporano in un nulla colmo di apatia. Anche l’Europa si sta sgretolando, aggredita dalla paura. Le persone sono terrorizzate, i cuori anestetizzati dal capitalismo sfrenato. La divisione fra noi e loro impedisce qualsiasi forma di comunicazione con l’altro. “Si ripete un modello che ha funzionato nel corso di tutta la storia umana. La disumanizzazione”. Con grande coraggio Denemarková vuole dire tutto, desidera attingere alla verità, è stanca di tacere, perché anche il silenzio è menzogna. La cornacchia nera cava gli occhi alla gazza azzurra, incarnazione dell’anima inquieta dei defunti. Esiste la vita ed esiste la morte, e poi c’è la non vita a minacciare il nostro tormentato presente.
Martin è uno studente, un brigádnik, ovvero un ragazzo obbligato a sperimentare il lavoro in fabbrica durante gli studi. Si muove in una città mineraria, Ostrava, dalle coordinate oscure, costruita su lande contaminate: “Nemmeno lo sa, di cosa esattamente sente la mancanza”. La sua gioventù è già consegnata alla sconfitta, piegata da un peccato originale che non sa di aver commesso. Non a caso la sua compagna, con la quale coltiva un sentimento impossibile, si chiama Eva. Quando la incontra a Londra nuovamente a distanza di tanti anni, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, è come se fossero gli unici due esseri viventi in un mondo morto. Jan Balabán è maestro nel delineare individualità smarrite, perse in atmosfere colme di abbandono. Dove è passato l’angelo, datato 2003, è il suo primo romanzo, oggi riconosciuto come un classico della letteratura ceca.
La perenne minaccia della guerra atomica, che modella il mondo sovietico, è destinata a non concretizzarsi: “non verrà alla luce nemmeno la guerra, di cui il mondo è gravido, sarà abortita dietro lo scudo atomico delle superpotenze, e tutti non faremo che invecchiare senza combattere”. L’immobilismo è la più grande tragedia. Nulla accade, mentre tutto si decompone lentamente: “La spinta delle cose morte, dei pensieri e dei sentimenti morti. Come abbiamo fatto a morire così, e allo stesso tempo a restare in movimento?” La vita trascorsa appare come una misera cosa appassita fra le mani. Le assurdità del mondo socialista, le assemblee pubbliche volontarie, in realtà obbligatorie, perché la mancata partecipazione basta a segnare il colpevole di fronte alla massa, l’individualità occupata da una società estranea, colma di menzogne, la vita trascorsa in una sorta di colonia penale dalla quale Petr, il fratello di Martin, decide di fuggire. I televisori accesi nei palazzoni tutti uguali, per non dover pensare a niente; eppure la testa di Martin seguita a pensare, anche se le parole non servono più a comunicare, ma salpano “come involucri vuoti sulla superficie di un fiume profondo”.
Strutturalmente il romanzo procede per brevi blocchi narrativi, a volte apparentemente eterogenei ma connessi da fili sottili che alla fine vanno a ricongiungersi. Dettagli sul protagonista emergono dalle parole di altri personaggi che nel passato hanno raccolto le sue confessioni. Vite si intersecano come tasselli di un puzzle, al quale mancherà sempre qualche elemento per essere completo. Balabán ha la capacità di evocare atmosfere claustrofobiche, facendo al contempo percepire la vastità dell’universo. È come se i suoi personaggi fossero giunti ai confini del tempo, senza riuscire a varcarli. Sono invecchiati inutilmente mentre i loro sogni, esalati verso il cielo, non torneranno più. Anelano l’eternità, ma è un desiderio vano. Misteriose origini dell’umanità che, secondo Martin, potrebbe benissimo discendere da una spedizione approdata sulla terra centinaia di migliaia di anni fa. Forse il mondo, dopo un’immane catastrofe, tornerà a essere popolato di belve feroci, avvinto da una giungla impenetrabile.
Il desiderio di lasciare il nostro spazio balena in una semplice corsa vista alla televisione, dove le atlete sembrano aver spiccato il volo verso un’altra dimensione. Il mondo attorno a loro scompare, e quelle figure appaiono come esseri puri, percepiti al limitare del mondo materiale prima di svanire chissà dove. Inquietante Balabán, quando pone il limite dell’esistenza fra i quaranta e i cinquant’anni, quasi profetizzando la propria morte improvvisa all’età di quarantanove anni. Le persone si crepano a poco a poco, come gli edifici fatiscenti nei quali sono costrette a vivere, come i paesaggi esausti che sono costrette ad abitare. Stordirsi con la vodka serve a poco, chi beve in solitudine, poi, beve con il diavolo che lo trascinerà nei più neri abissi. Eppure c’era stato un momento in cui la paura, l’ansia di essere ascoltati, interrogati, spiati continuamente, il terrore di sentire bussare alla porta i propri persecutori, era svanita all’improvviso. Aveva lasciato il posto a un vuoto, forse foriero di speranza, più probabilmente vacuo come un effimero sollievo.
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