Mi piace definire Dominique De Roux il Karl Kraus francese. Scrittore e intellettuale fuori dal comune, cavaliere delle lettere in territorio nemico, fa parte degli irregolari e degli impresentabili del Novecento.
Fu il creatore dei «Cahiers de l’Herne», una collana che riportò al centro della vita culturale scrittori maledetti, liberi e anticonformisti (che molto gli somigliavano) come Céline, Pound, Artaud, Lovercraft.
De Roux riuscì a presentare criticamente al grande pubblico autori del calibro di Borges, Gombrowicz, Solženicyn, Koestler e movimenti come la beat generation.
Siamo davanti a un grande scrittore controverso che decise di essere sempre un uomo libero, di non appartenere a nessuna banda letteraria. La sua penna e la sua intelligenza si schierarono apertamente contro il mondo culturale del suo tempo.
De Roux, come Kraus, nelle sue invettive non risparmiò proprio nessuno.
In Italia non è molto conosciuto e soprattutto è pubblicato poco. Grazie a Francesco Forlani da Miraggi edizioni esce Immediatamente, libro di frammenti e aforismi in cui l’irriverente scrittore francese intinge la sua penna corrosiva di provocatore e di agitatore culturale. Immediatamente esce in Francia nel 1971 e De Roux è vittima di una violenta reazione del mondo intellettuale francese. Il primo a scagliarsi contro di lui fu Roland Barthes.
Dolo l’uscita del libro «l’impresentabile» De Roux fu costretto a lasciare la Francia.
Dominique De Roux è uno straordinario inattuale che vale la pena conoscere e approfondire. Uno scrittore irregolare che rientra a pieno titolo nella tradizione dei pensatori controcorrente.
Un uomo e un intellettuale che veste da uomo sempre libero i panni del polemista e scrive del proprio tempo sedendosi orgogliosamente dalla parte del torto, in compagnia degli spiriti scomodi e degli infrequentabili. Immediatamente è un libro di illuminazioni che folgorano. Dominique De Roux è uno scrittore che scrive per disturbare e con i suoi aforismi taglienti ha squarciato, come sanno fare soltanto gli irregolari e gli uomini di pensiero che decidono di rispondere soltanto alla propria coscienza, tutto il marcio di un’epoca che sa solo esprimersi attraverso la rappresentazione ipocrita di se stessa.
«Viviamo il tempo degli istrioni di massa. Coloro che fanno gesti differenti non sono più originari di nessuna parte»; «Al gaullismo succederà la Germania, o peggio ancora i francesi».
Per De Roux scrivere è rinunciare al mondo. Una grande e coraggiosa lezione inattuale.
Quando le epoche si fanno torbide dobbiamo assolutamente leggere gli inattuali. Perché solo loro sanno dirci le cose come stanno.
Leggiamo assolutamente Dominique De Roux che, come Cioran, Kraus, Céline e tutti gli altri infrequentabili, ha diffamato e squartato il suo tempo.
Dominique De Roux (1935-1977) fu un letterato fine e controverso. Il primo romanzo, Mademoiselle Anicet, è del 1960; nel 1963 fonda la rivista «Cahiers de l’Herne», raccolta di numeri monografici dedicati alle figure maledette o misconosciute della letteratura europea (Céline, Gombrowicz e Pound, tra gli altri). Nel 1966 dà alle stampe il saggio La morte di Céline (Lantana), che inaugura il catalogo della casa editrice Christian Bourgois, co-fondata dallo stesso De Roux. Immediatamente esce nel 1971 e la violenta reazione del mondo intellettuale, con Roland Barthes in prima linea, costringe De Roux ad abbandonare la Francia per diventare corrispondente giornalistico e autore televisivo. Inviato soprattutto in Portogallo, documenta le guerre nelle colonie africane e nel 1974 è l’unico inviato speciale francese a Lisbona durante la rivoluzione dei garofani, che portò alla caduta di Salazar e della dittatura portoghese.
Pubblica l’ultimo romanzo, Le Cinquième Empire, cinque giorni prima di morire improvvisamente per infarto, nel 1977; La Jeune Fille au ballon rouge e Le Livre nègre usciranno postumi.
Recensisco un altro “Tamizdat” di cui a questo punto vale la pena spiegare il significato o perlomeno cosa si intende: “Tamizdat” era il termine che indicava le opere occidentali (provenienti da “tam”, cioè da “là”) in circolazione clandestina tra Trieste, Gorizia e Berlino, nei deprimenti anni della Guerra Fredda.
“Viaggiare senza smettere, tra le curve, di scrivere il proprio romanzo” potrebbe essere un epitaffio oppure una sinossi ben strizzata della destrutturata enciclopedia proposta da Petr Kral, intelligenza ceca esule per questioni politiche, surrealista antisovietico che offre il titolo “Nozioni di base” Miraggi edizioni, al flusso di coscienza su cui struttura il suo lavoro.
Mi sembra utile pensare alle curve che armonizzano un percorso che spazia tra natura e artificio, fulmini e giochi pirotecnici come espedienti che rendano l’idea di qualcosa che brilla nella penombra cosmica e individuale, nella quale si fluttua o si fluttuava (se vogliamo contestualizzare) quotidianamente al cospetto dell’incessante buio che tuttavia può sempre essere esorcizzato.
Che legame si instauri tra i vari paragrafi è il vero studio da cui partire a mio parere, l’autore abbandona come Svevo la cronologia poco fertile e ci sbatte davanti ad un “cancello” da aprire; se riuscissimo a scardinarlo troveremmo però un ostacolante “muro” da abbattere o guardare, a discrezione personale.
Cosa si prova realmente nel tuffarsi nella porta girevole di un hotel per scomparire vorticosamente in un qualunque senso di precarietà che rifugge nell’illusione dell’attesa di un nuovo giro? Attendo pure io. Ho aspettato fino all’ultima goccia di carta scritta per trovare una bottiglia semipiena di un epilogo che non si leggerà mai.
Petr incita ad attraversare la strada o a salire su un tram per valicare quel confine ostico e avvilente che separa il mondo dalla vita e la vita da sé stessi. C’è uno studio quasi paranoico degli spazi e della dislocazione degli oggetti con una immediata smania metodica di trincerazione degli stessi, come a volerli appendere in una parete verticale, ben visibile dall’osservatore.
Elenca nomi comuni di cosa destinati ad essere dipinti o a diventare icone metaforiche di una realtà immobile in cui le pedine animate si muovono stando attente a non inciampare. Il tema del viaggio è la colata di cemento più volte versata, bacino in cui si muovono i paragrafi imperniati sulla resistenza delle “cose”.
Sostiene Milan Kundera che questa raccolta di scritti brevi del poeta Petr Král sia una “bella e strana ‘enciclopedia esistenziale della vita quotidiana’”, la incornicia come “lezione di modestia impartita al nostro individualismo”. Secondo Yves Hersant, siamo di fronte a una raccolta che restituisce “l’antica potenza delle forme brevi”: “dinamitardo delicato, Petr Král apre brecce nel quotidiano […] da grande educatore dello sguardo”.
Persino Topinambur è un titolo scelto.
Nozioni di base è un quaderno di 123 capitoli brevi, che comincia da un caffè che ci unisce ai vivi “un po’ di sbieco”, “osservando incuranti la strada e il suo sfuocato viavai”, per restituire con chiarezza la propria presenza.
Král parla di starnuto, riso, luce, buio, cipolla, macchie, vento, sud, madri e figli, colori, nudità, e più delicatamente di cosa significhino verbi come “spaventare”, “unire e separare”, “attaccare”, “sfiorare”; analizza le parole “solitudine”, “assenza” e si concentra sulla “settimana” per azzardare un parallelismo tra domenica ed esistenza.
“la bianca trappola in cui la domenica ci attirava, dopo il promettente grigio del sabato, si apriva a perdita d’occhio verso l’interno, verso l’immagine del deserto staliniano in cui siamo cresciuti, e di quella guerra fredda che per noi era l’esistenza stessa”
È un piccolo breviario di meditazione in cui non risparmia riflessioni insoddisfacenti che corazzano la pelle da emozioni malriuscite.
“Anche quando siamo davvero presi dal momento e la sensazione perdura, quando ci lasciamo andare al sonno, o all’amore, o da un luogo freddo entriamo in una stanza riscaldata e il calore ci invade dentro e fuori, proviamo un senso di benessere totale, ma non completo”.
Si serve del sorriso per scontrare l’insoddisfazione, un sorriso comunque amaro per ingannare l’esistenza che sguscia per poi rintanarsi e nascondere le chiavi di lettura di una vita che non vuole essere letta ma interpretata.
E’ proposto un obiettivo durante la gara con se stessi, riuscire a prendere il treno.. “Dover correre per prendere un treno è sempre umiliante, perderlo è fatale: su quel treno non saliremo mai più. Quando invece il treno riusciamo a raggiungerlo non è mai solo un colpo di fortuna; entriamo nel vagone e riponiamo la valigia sulla cappelliera come se niente fosse, cercando di nascondere l’affanno, ma sappiamo che la corsa ha dato al nostro viaggio una possibilità in più. Anche rispetto a coloro che, puntuali, hanno occupato i loro posti”.
Mentre ricopio mi accorgo di come possa divenire un “credo” collettivo subito dopo esser divenuto il mio.
Rappresentante del caos e del postmodernismo d’Oltrecortina, Venedikt Erofeev è una delle più rappresentative incarnazioni della letteratura russa del secondo Novecento. Condusse una vita dissestata, dedita all’alcolismo e all’accattonaggio, segnata da un continuo vagabondaggio di città in città. Scrisse la sua opera più importante, Mosca-Petuškì, nel 1970 (pubblicata inizialmente solo in Israele), in cui l’alter ego di Erofeev vaga per la città come un ubriacone, scoprendo infine la propria dimensione esistenziale.
Da poco è uscita, per la prima volta in Italia, Memorie di uno psicopatico (traduzione di Lidia Perri) per i tipi di Miraggi edizioni, nella collana Tamizdat (mai termine è stato più appropriato, in quanto nel blocco sovietico si indicavano con questo termine le opere, per lo più straniere, fatte circolare clandestinamente, destino che tutti i lavori di Erofeev hanno subito fino alla caduta del Muro).
Memorie di uno psicopatico è una raccolta di diari giovanili che mette in luce i temi dell’autodistruzione e dei mali della società contemporanea. Mischiando esperienze autobiografiche con riflessioni filosofiche e grottesche, talvolta assurde e comiche, l’autore riesce a dare un ritratto onesto e impietoso della Russia destalinizzata. Tutto passa attraverso l’alcol. Bere e scrivere sono collegati: una via di fuga dalla pochezza quotidiana ed estasi della libertà emotiva, il lirismo e il cinismo. Una testimonianza indimenticabile di un grande scrittore che già da giovane non faceva sconti a nessuno, a partire da se stesso.
Sempre per Miraggi edizioni sono usciti altri testi interessanti, molto diversi tra loro. Si tratta del nuovo, brevissimo romanzo di Roberto Saporito, Respira, viaggio letterario sulla morte, legato idealmente al crollo delle Torri gemelle, da cui prende spunto il plot, e che investiga, supportato da una miriade di consigli letterari e di citazioni, sull’evasione e sulla libertà spirituale e intellettuale. Non disturbare, di Claudio Marinaccio, dialoghi e riflessioni (più taglienti le seconde) di vita quotidiana. Intoppi di comunicazione che assillano tutti: telefonate con offerte commerciali, i testimoni di Geova, incontri in metropolitana, spalle su cui piangere dopo una delusione d’amore. Quello che dice una cameriera, di Nicola Manuppelli, raccolta poetica incisiva e ritmata che deve molto a scrittori americani contemporanei, di cui l’autore è un importante traduttore e biografo.
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