Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione non è un libro da leggere con distacco. È un urlo, un pugno allo stomaco, un diario febbrile scritto ai margini di tutto – della società, del corpo, della vita.
Il memoir postumo di David Wojnarowicz, pubblicato da Miraggi e tradotto per la prima volta in italiano da Chiara Correndo, riporta al centro del dibattito culturale una figura chiave dell’underground newyorkese degli anni ’80. Artista visivo, performer, scrittore e attivista, Wojnarowicz è stato tra i primi a raccontare, con una sincerità disarmante, cosa significava essere gay e sieropositivo nell’America reaganiana, dove la comunità LGBTQ+ veniva ignorata, criminalizzata e lasciata morire in silenzio. Sul filo della lama è il racconto frammentario, lirico e rabbioso di una vita vissuta tra la strada e l’arte, tra la marginalità e la bellezza. Wojnarowicz scrive di amori consumati nei porti abbandonati, di amicizie spezzate dalla droga o dall’Aids, di corpi desideranti e vulnerabili, di un’America che promette sogni e restituisce solitudine. La scrittura è ibrida, tra visione poetica e attacco frontale, tra meditazione esistenziale e denuncia politica. È un testo che fonde il personale con il collettivo, la carne con la storia. La struttura è libera, spezzata, a tratti allucinata: non segue una cronologia, ma un flusso emotivo. È un viaggio nella psiche e nella memoria di un uomo che ha trasformato la propria disintegrazione in linguaggio. L’opera è anche un potente atto d’accusa contro l’inerzia istituzionale, un documento politico sull’indifferenza e sull’urgenza della rappresentazione.
GEOGRAFIE «Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione», un memoir dell’artista e scrittore morto nel 1992 di Aids
Uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1991 e ora edito in italiano con il titolo Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione, Close to the Knives di David Wojnarowicz (Miraggi editore, pp. 364, euro 24, traduzione e prefazione di Chiara Correndo, postfazione di Jonathan Bazzi) è un mémoir sui generis in cui l’artista nato a Red Bank (New Jersey) nel 1954 e morto di Aids nel 1992, a soli 37 anni, sperimenta diverse forme di scrittura: dall’introspezione diaristica al manifesto, dai frammenti onirici al reportage, dall’intervista all’invettiva politica. Come se si misurasse con le potenzialità creative di uno strumento, l’artista statunitense pratica i diversi registri della parola alla ricerca di una forma con cui dare un senso, quanto più possibile trasformativo, al proprio vissuto.
Cresciuto in una disperata marginalità, con un padre abusante morto suicida quando lui era bambino, Wojnarowicz è stata una delle figure più originali e radicali della scena del Lower East Side newyorkese degli anni Ottanta. Fotografo, pittore, scrittore, attivista e testimone dell’epidemia di Hiv, scrive a partire da un corpo attraversato da dolore e desiderio, con una lucida visionarietà che tenta di resistere alla violenza e all’annientamento. Si era formato da autodidatta nella New York post-punk, praticando varie discipline che gli avevano permesso di combinare fotografia, collage, pittura, stencil, musica e scrittura per dare forma a un’estetica del tutto personale, con immagini-simbolo come la casa in fiamme o quei bufali che franano giù da una scarpata scelti dagli U2 per la copertina del singolo One. Animatore di numerosi progetti collettivi, dal 1983 Wojnarowicz aveva contribuito a trasformare alcuni spazi abbandonati lungo il fiume Hudson, in particolare il Pier 34, in luoghi in cui oltre a fare sesso occasionale si produceva ed esponeva arte. Attivista vicino ad Actup negli anni dell’epidemia, utilizzò ogni mezzo per denunciare la repressione del dissenso arrivando perfino a farsi fotografare con le labbra cucite per manifestare contro l’equazione silenzio=morte.
LO SGUARDO DI OPERE come la serie Arthur Rimbaud in New York, si traduce nel testo in una lingua tenera eppure tagliente: «Vivevo per strada e vendevo il mio corpo a chiunque fosse interessato. Gironzolavo in un quartiere che era così affollato di barboni che non ricordo nemmeno come fosse l’architettura dei palazzi.
Io almeno potevo distendere le gambe e rimediare un tetto sopra la testa, mentre tutte queste persone per strada avevano raggiunto il punto in cui il loro corpo e la loro anima non interessavano a nessuno se non a loro stessi».
Wojnarowicz si osserva con un occhio «fuori di sé» e uno «dentro di sé»: la sua è una scissione percettiva spesso innescata dall’uso di sostanze che diventa però strategia esistenziale. Lo si percepisce per esempio nei vagabondaggi che intraprende nel deserto dell’Arizona alla ricerca di una distanza dalla metropoli dolente, abbandonandosi a derive allucinatorie che aprono squarci di tregua e di connessione con corpi e anime di passaggio.
Come per Burroughs, che nel saggio introduttivo la traduttrice cita come riferimento estetico-poetico del libro, la droga non è tanto una via di fuga dalla realtà, ma strategia di sopravvivenza e, ancora di più, viatico per forme più profonde di conoscenza. La prosa mai pietistica si fa strada dalla soglia del baratro in cui langue un’umanità che è derelitta non per destino ma come esito di meccanismi sociali scientemente discriminatori. Nei suoi «raggi X dall’inferno», Wojnarowicz denuncia gli Usa che chiama «nazione monotribale», governata da un’ideologia cannibale che annienta tutto ciò che è altro.
LE SUE IMMAGINI apocalittiche, con quei «mucchi di carne marcia» che costellano il paesaggio urbano, portano alla luce la violenza della politica e la corruzione del linguaggio televisivo («non sottovalutare la pericolosità del politico alto trenta centimetri»), la brutalità della Chiesa, il proliferare sistematico della paura e dello stigma: «Il nemico è ovunque: nel corpo, nella razza, nella classe, nel governo, nella cultura, nel sistema giudiziario, nei media». La scrittura immaginifica delle pagine più biografiche si fa asciutta e documentata nelle analisi sociali su cui incide la volontà di lasciare una traccia oltre la morte. La denuncia delle politiche governative colpevoli nei confronti delle persone affette da Hiv/Aids risuona attuale nonostante il virus oggi non si presenti più in forma pandemica nei paesi ad alto reddito. Però, i tagli inferti ultimamente dall’amministrazione Trump ai fondi federali per la ricerca biomedica con in più il congelamento del sostegno ad agenzie di cooperazione internazionale come Usaid (United States Agency for International Development) avranno conseguenze dure. I finanziamenti statunitensi rappresentano, infatti, una parte cospicua delle risorse che in oltre cinquanta paesi del mondo permettono la diffusione delle cure antiretrovirali e della profilassi pre-esposizione da Hiv (PrEP). L’Unaids, organismo delle Nazioni Unite per il contrasto all’Hiv, ha addirittura fatto sapere che al momento è compromesso il piano che ambiva a porre fine all’infezione da Hiv entro il 2050.
Nel suo studio appena uscito in Francia con il titolo Une histoire mondiale du sida. 1981 – 2025, Marion Aballéa aiuta a fare il punto della situazione e a comprendere le dinamiche culturali, sociali ed epidemiologiche che hanno caratterizzato dagli anni Ottanta ad oggi il fenomeno Aids. All’alba di una svolta epocale, la ricerca scientifica e la cura potrebbero subire una drammatica battuta di arresto. Ecco dunque che l’opera di figure come Wojnarowicz non permette solo di rendere patrimonio storico comune la memoria dei morti di Aids così come accade per i morti di guerre e altre catastrofi. Quell’esperienza è un monito per l’oggi: il morbo che ha annientato una generazione esiste ancora e le sue cause non possono essere ignorate fingendo che riguardino solo l’altro da sé.
ANCHE IN QUESTA prospettiva si può situare la mostra che il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato attualmente dedica a Peter Hujar Azioni e ritratti / viaggi in Italia a cura di Grace Deveney con Stefano Collicelli Cagol (fino all’11 maggio). Hujar (1934 – 1987) fu amante e mentore di Wojnarowicz (presente in mostra) e i suoi scatti restituiscono le relazioni con una certa scena artistica e intellettuale newyorkese (Merce Cunningham, John Cage, Susan Sontag) corpi in azione, retroscena di esibizioni teatrali o coreutiche, di spettacoli drag. La sezione italiana del percorso ritrae un’Italia misteriosa, teatro di volti, paesaggi e corpi animali in chiaroscuri accesi pronti a inghiottire la vita nelle tenebre.
Lo stesso Centro Pecci ospiterà dal 4 ottobre 2025 al 1 marzo 2026, la mostra Vivono. Arte e affetti, Hiv-Aids in Italia. 1982 – 1996, curata da Michele Bertolino. Un percorso tra opere visive, video, poesie, paesaggi sonori, materiali d’archivio e oggetti personali che ricostruisce una storia internazionale dell’arte italiana negli anni dell’epidemia attraverso figure come Nino Gennaro, Corrado Levi, Lovett/Codagnone, Ottavio Mai, Porpora Marcasciano, Francesco Torrini e Patrizia Vicinelli.
L’incendiario memoir dell’artista e attivista newyorkese queer e HIV+
Incastonata tra le vie acciottolate del centro di Torino, Nora book è uno degli spazi LGBTQIA+ più noti in città e venerdì scorso 28 marzo ha ospitato un evento importante non solo per il panorama culturale italiano, ma anche per quello statunitense: la presentazione in anteprima del libro “Sul filo della lama” (Close to the Knives) per Miraggi edizioni, la prima traduzione italiana dell’incendiario memoir dell’artista e attivista newyorkese queer e HIV+ David Wojnarowicz. L’interesse nei confronti della figura di questo artista non si è mai spento e, anzi, è cresciuto esponenzialmente negli ultimi tempi, grazie anche ad una serie di mostre internazionali e documentari incentrati sulla vita e la lotta di Wojnarowicz. Questa riscoperta si è accompagnata ad un nuovo slancio scientifico e mediatico verso quella incredibile fucina culturale che è stata la scena artistica avantgarde della Downtown New York e questo lo testimonia ad esempio la recente acquisizione da parte della NYPL della collezione di Leonard Abram dell’East Village Eye, storica piattaforma che ha documentato la vibrante vita dell’East Village dal 1979 al 1987. Nonostante il vivace interesse a livello internazionale per il lavoro e l’arte di Wojnarowicz, la figura dell’artista è relativamente poco conosciuta in Italia. Questo lavoro di traduzione, curato da Chiara Correndo, ricercatrice e traduttrice, è quindi qualcosa di più di una semplice pubblicazione, poiché si sta rapidamente configurando come l’occasione per far conoscere l’artista in Italia e aggregare studiosi e studiose indipendenti che in Italia lavorano su di lui. L’evento presso Nora book è stato il primo di una serie di appuntamenti nazionali dedicati alla promozione del libro e della figura dell’autore: la traduttrice, in dialogo con il ricercatore e attivista Cristian Lo Iacono, ha presentato ad un pubblico piuttosto folto i contorni dell’opera di Wojnarowicz, i suoi simboli e il suo legame con la lotta di Act Up New York. Il grazioso dehors della libreria era molto affollato, a conferma del grande interesse verso la pubblicazione e della curiosità da parte del pubblico italiano di saperne di più. Il libro verrà presentato l’11 aprile anche a Prato presso il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, polo artistico e culturale fondamentale in Italia che ospita dal 14 dicembre 2024 all’11 maggio 2025 la mostra del fotografo statunitense Peter Hujar. L’esposizione, Peter Hujar: Azioni e ritratti / viaggi in Italia, curata da Grace Deveney e Stefano Collicelli Cagol, ospita 20 scatti realizzati da Hujar durante i suoi viaggi in Italia e una selezione di 39 immagini che immortalano i protagonisti della vibrante scena della Downtown New York. Visto il rapporto di profondo affetto e amicizia che legava i due artisti, si è dunque deciso di dare spazio alla presentazione del memoir nel quadro degli eventi legati alla mostra. L’11 aprile, pertanto, la traduttrice sarà in dialogo con il critico teatrale Enrico Pastore e con l’artivista Tony Allotta, attore e attivista del collettivo Conigli Bianchi che da anni si occupa con passione di corretta divulgazione in materia di salute sessuale per combattere la sierofobia e lo stigma che circonda le persone con HIV.
CARI NEMICI DELL’OCCIDENTE, UNA RIFLESSIONE SULLO SPAVENTO SENZA FINE DELL’OPEN SOCIETY
“Cari jihadisti, sottovalutate parecchio gli effetti della battaglia in cui vi siete gettati a capofitto. Siete le prime vittime della nostra propaganda, credete di mettere sotto scacco la nostra civiltà. Ci dispiace, non è così. Mirate al mulino a vento sbagliato. Qui non c’è nessuna civiltà”. Tagliente, ironico, disincantato, scorretto, lucidissimo è uno dei testi più affilati di uno dei pensatori più atipici della controcultura francese: “Cari Jihadisti” di Philip Muray (Miraggi Edizioni). Il testo si presenta come una lunga e cinica epistola agli esecutori dell’attentato delle Torri gemelle alla viglia della tragedia che aveva messo in ginocchio l’intero occidente. Una lettera in cui il pensatore francese riesce a mettere in luce le debolezze, le paure, le illusioni della società globale. Per Muray l’occidente non è una civiltà, ma un grande minimarket multietnico, un bazar underground in cui gli uomini, ridotti a consumatori autoconsumanti sono il prodotto e l’acquirente di una realtà distorta e inoffensiva, repressa e inibita, che vive del suo unico vero valore: l’inconsapevolezza. L’inconsapevolezza che pone gli occidentali nella condizione di non capire, e forse nemmeno vedere, la cappa di postverità di cui si circondano. Popoli, soprattutto quelli europei, che ridotti ad una condizione di meri agglomerati umani di consumatori omologati, separati solo da lingua e posizione geografica, vivono una vita erbivora, ignorando i giochi di potenza che si affrontano nei complessi legami geopolitici tra stati, vittime più che della menzogna della fine della storia, dell’illusione della fuga dalla storia. La realtà, questo l’acerrimo nemico di questi iperborei, però è quella cosa che non svanisce nemmeno quando smetti di credergli, infatti essa si è manifestata come una calamità che ha turbato il lungo sonno dell’occidente illuso di potersi rifugiare sotto l’ombrello della Nato vita natural durante. Un sogno che dal 11.09. 2001 agli atroci sviluppi dell’evacuazione afgana e della guerra ucraina, da cui sembra non poterci essere un risveglio definitivo. Come i personaggi descritti nella lettera di Muray gli europei sono una comitiva di stati sovrastanti che galleggiano sulla storia senza farne parte, senza capirla, vivendo in una specie di asilo nido incantato, un luogo di musichette che li stordisce mentre fuori c’è la morte. Dimostrando ancora una volta come l’occidente sia una mamma marcia che ha abolito ogni forma di tragedia e di resistenza al destino, cullandosi nella duplice missione, di abolire l’umano e di lottare per la totale decostruzione e distruzione del proprio patrimonio culturale. Dalla decostruzione della storia come processo di rapporti di forza, allo smantellamento dei classici, dei sistemi, del canone, riscritti secondo un terribile moralismo nichilista nutrito dalla religione di una falsa tolleranza che non è altro che una disperazione passione, tutto cospira per creare la fiaba di una open society autosufficiente dalla realtà. Scossi dalle guerre, dalle pestilenze e dalle crisi essi si dimostrano disarmati di fronte alle sfide del futuro, marci, vuoti, divisi, interconnessi, ma dissociati. Non più decadenti, ma decaduti, vivono come il pubblico del mondo, con indifferenza e rassegnazione, nel privilegio e nella disperazione. Gli europei davanti alla guerra, alla crisi, al fato che muove i destini dei popoli, come in Ucraina ed in Afganistan, si credono innocenti quando al limite sono solo ingenui. Ingenui perché continuano ad ignorare che la legge intrinseca della vita è lotta, che le religioni delle lacrime, umanitarismo, globalismo e universalismo, non sono altro che ornamenti del suicidio occidentale di fronte all’avanzata dei barbari, gli altri, pronti a conquistare i selvaggi, noi. Una stroncatura potente e crudele che però mette in guardia i nemici di questo paese dei balocchi, in primis, poiché il globalismo, come un ellenismo postmoderno, conquisterà i suoi futuri conquistatori, in caso di loro vittoria. In secundis perché nonostante per la nuova classe precaria globale morire per la Nato equivalga a sacrificarsi per la propria compagnia telefonica, essi si sono dimostrati in tutte le occasioni che il tempo gli ha offerto pronti per lottare affinchè il loro sonno secolare non venga disturbato. “ci batteremo e vinceremo. Eccome se vinceremo. Perché i più morti siamo noi e non abbiamo nulla da perdere”. Invece di lottare per la giustizia, per la patria, per la libertà dei popoli affianco dei loro alleati, anche loro purtroppo non più in grado di essere quella Republique imperiale teorizzata da Aron, essi preferiscono lottare per il loro sonno.
Dopo una lite il protagonista del romanzo riceve una telefonata:”Chiamo dal quinto Distretto di Polizia….”
“E?”
“E c’è che abbiamo un verbale del 2008 a suo nome…Lei sa di cosa si tratta?
“Non ne ho idea “
“ Il verbale che ho qui notifica il suo decesso…qui c’è scritto che lei è morto “
Così viene comunicata la notizia della propria scomparsa. Di più: questa sua dipartita è cosa ormai datata e possiede tutta la veridicità dell’atto certificato.
Il fatto, anomalo in sé, richiede una spiegazione che sia plausibile e convincente: anche perché chi scompare, oltre a essere il protagonista del romanzo, porta anche il nome del suo autore: Joao Paulo Cuenca.
Per risolvere questo mistero il protagonista si muove attraverso Rio de Janeiro, tra le macerie di quella che la città fu, nuove costruzioni in vista delle Olimpiadi, salotti e feste di giornalisti, scrittori, teatranti, attrici di soap opera, favelas guardiane di ogni orizzonte, arroccate sulle colline, alla ricerca della donna che ha denunciato la sua morte.Procedendo nella narrazione ci si accorge che il mistero diventa sempre più fitto, ci si perde di frequente, insieme all’io narrante, che oltre a quella della sua morte ha pure l’angoscia di non riuscire a finire il suo romanzo, il blocco della pagina bianca.
Personaggio fittizio e reale, il J.P. Cuenca accompagna il lettore attraverso i cantieri aperti della metropoli carioca, è un essere vivo, diretto e feroce. Anche verso la storia del proprio Paese dal quale spesso vola via “Questo posto è un cazzo di Poltergeist. Ogni volta che c’è un cantiere qui nel Centro, e ne avete aperti un sacco a causa delle Olimpiadi, si trovano spessissimo cadaveri e ossa spezzate, come nel Cimitero dei Nuovi Neri nella zona del porto.”
Questa dichiarata morte, non porta di fatto all’esito più scontato, ossia la scelta di scrivere un thriller o un noir, nonostante l’ambientazione sia nelle atmosfere dense di una Rio de Janeiro in fermento , vivissima di voci e corpi giovani in perenne movimento – che ben si presterebbe alle vicende poliziesche e ne occupa invece giusto le prime pagine.
La comunicazione della sua scomparsa gli impone di intraprendere un viaggio in cerca di chiarezza: è solo attraverso la sua” morte” che potrà (ri)costruire la propria identità come uomo e come scrittore. Inizia quindi un suo pellegrinaggio che lo porterà attraverso corridoi di archivi metallici” polverosi antri di enti assortiti di ripetuto squallore, “Tutti quegli archivi, che circondavano tavoli e sedie lasciando poche pareti a vista, contenevano racconti il cui ingrediente comune erano i dissapori tra gli esseri umani della mia città”.
Tanto più cha la ricerca del sé dipartito deve tener presente la vita che va avanti, con gli impegni del presente.
All’epoca di questa morte presunta lui era in Italia a presentare la traduzione italiana del suo libro “Un giorno Mastroianni”.
È un rompicapo che lo perseguita e dal quale tenta di fuggire smodatamente.
È c’è pure un romanzo che deve finire.
Una scrittura avvincente e molto interessante quella di Cuenca, una storia intrigante che fa tenere l’attenzione fino alla fine.
Irriverente, corrosivo, tra anarchia e aristocrazia. Libero dalle etichette del suo tempo, irregolare, acido e corrosivo. È Domenique De Roux, uno dei più atipici ed iperattivi intellettuali del dopoguerra francese. Animatore di atmosfere culturali, polemista irrevocabile, voce critica del suo tempo. tagliente e cinico come Kraus, iperattivo e “sott’odio” come Longanesi, di cui è stato l’equivalente nella cultura francese, per l’attività editoriale ed il genio aforistico. Che con il suo Immediatamente (MIRAGGI), ha saputo scioccare la critica ufficiale ed egemone. Raccolta di aforismi, subconscio in frammenti, diario degli orrori, immediatamente è stato tutto questo. Dall’acuto registro degli incontri e delle apparizioni del meglio della cultura del secondo novecento, a valvola di sfogo di una ferocia acuta e profondissima. In cui sono tratteggiati gli incontri con gli amici e i miti di De roux, da Pound a Gombrowicz, da Artaud a Celine. Un libro maledetto che condannò il suo autore all’esilio volontario e necessario in Portogallo, attirandosi gli odi del governo, di Pompidou, dei maggiori intellettuali ed accademici francesi, Barthes sopra a tutti, diventando un autoritratto contro della cultura francese del dopoguerra. Ricco di giudizi taglienti sul languore della religione(“tra poco il cattolicesimo come il protestantesimo servirà solo a seppellire i morti”), sugli intellettuali (che “non hanno mai smesso di attraversare le gerarchie”), sul sessantotto, che come nella Cina di Mao confonde la guerra civile con la rivoluzione culturale. Controcorrente, con uno spirito corrosivo e metafisico, quindi “per natura reazionario”, che nonostante l’adesione al gollismo restò sempre un vinto nello spirito e nell’indole. Alternativo ai suoi contemporanei in quanto “la crisi dell’intelligenza deriva dal fatto di definirsi con le parole quando ci si può definire solo con le azioni”. Grande agitatore culturale, diffuse e approfondì l’opera di Pound, nella cui Venezia tutto portava il suo sguardo, i capolavori di Gombrowicz, gli enigmi e i labirinti di Borges. Scrivendo uno dei più bei saggi su Celine alla vigilia della sua morte, difendendo una idea di cultura e letteratura lontana dall’engagement ufficiale. In continuità con una visione antimoderna, perché “essere moderni vuol dire cedere alle circostanze”, che guardando all’euforia del progresso per lo sbarco sulla luna, pensa che tutto sommato la chiesa più reazionaria non avesse tutti i torti sulle illusioni degli uomini. Notando che l’America, che “sta alla biosfera come il cancro al corpo umano”, è il simbolo non della crisi della civiltà, ma “della crisi della barbarie, che prima mettevano a ferro e fuoco Roma o Bisanzio ed ora sono i malnutriti del mondo moderno”. Che per il suo pensiero irriverente fu accusato di fascismo ingiustamente e decise provocatoriamente di presentarsi come “Domenique de Roux, già impiccato a Norimberga”. Il quale di fronte al lutto per la morte di Celan ha convenuto rispetto all’ipocrisia generale, che Celan si è suicidato nella Senna perché ignorava da sciocco che fosse una “fogna e non un fiume”, ma proprio per questo è tanto autore e poeta, poiché “solo i poeti possono ancora credere che nel mondo ci siano ancora fiumi”. Con uno sguardo magnetico sulle cose e sulla storia, per cui la “rivoluzione francese è stata lo Shakespeare della Storia, ma scritto da Dio”. Un autore irriverente ed unico, stroncato a poco più di quaranta anni da un malattia cardiaca, che ha pagato per quello che ha pensato ed ha pensato per quello che doveva scontare. Che coltivava il piacere “aristocratico di non piacere a tutti” inginocchiandosi solo a se stesso come ci si inginocchia ai santi. Esiliato in Portogallo dove fu l’unico testimone francese della rivoluzione dei garofani, che sognava una cultura alternativa e ribelle, mostrando il fascino crudele della schiettezza e l’acume delicato della profondità. Che molto spesso ha preso congedo, ma non va congedato da un pantheon che molte volte perdona la cattiva scrittura in nome della cattiva politica e che ora non dovrebbe indugiare nel riconoscere immediatamente il genio di un autore samizdat, proibito, imperdonabile.
Louis Berenstein è contento che la stanza che ha preso in affitto nel Lower East Side sia buia: almeno questo è quello che ha detto al suo padrone di casa, Zed Palver, quando si sono visti per la consegna delle chiavi. A Zed ha detto anche che sta vagando in cerca una sistemazione fissa per via della crisi del Ventinove, ma a Zed non importa molto, a lui importa solo di piazzare le sue proprietà. Una volta rimasto solo, Louis è libero di guardare la sua stanza in tutta la sua umidità, come di un seminterrato all’ottavo piano, piena di mosche, con l’unico lascito del precedente inquilino che consiste in una scatola di biscotti, quegli stantii Girl Scout Cookies che qualche mese prima erano stati rifilati pure a lui a Philadelphia. Eppure non gli basta quella prima occhiata per far caso all’enorme neon a forma di fenicottero che dal palazzo di fronte manda una luce rosa. Louis dorme, beve, si dimentica di mangiare e conosce Theodore, la trapezista col nome da uomo che sta nell’appartamento a fianco al suo, insieme bevono e si addormentano. Poi c’è Bertha, che aspetta l’ascensore sul pianerottolo per andare a fare la cameriera all’ultimo piano del palazzo di fronte, quello col fenicottero rosa, anche detto Il Paradiso. Louis ci andrà a trovare Bertha a lavoro, ma certo non sarà facile salire all’ultimo piano perché pure lì non mancano le anime in pena che interrompono la salita, e non ne mancano neppure di labirinti e guardiani balordi sulle porte e sugli ascensori, messi lì per ostacolare l’ascesa di Louis, non un uomo probo, forse nemmeno un peccatore, ma certamente un disperso…
“Uno dei più grandi scrittori sconosciuti d’America”, così Hedda Hopper definì Aaron Klopstein in un articolo che Miraggi Edizioni propone come prefazione all’edizione italiana de I perdenti. Sempre leggendo quello che la Hopper scrisse di Klopstein si viene a sapere che fu amico di Hemingway e Fitzgerald, e che con loro passava le nottate nel Lower East Side, a volte raccontando a voce le sue storie, come un bardo che avesse ricevuto il dono della poesia. Poi ci fu il litigio con Hemingway e il rifiuto in blocco degli editori, i tentativi di diventare attore e i racconti sotto pseudonimo scritti per le riviste pulp, che per molto tempo furono l’unica fonte di reddito di Klopstein. E in effetti a leggere questo romanzo, specialmente nelle prime pagine, con le metafore che immettono qualcosa di disgustoso e squallido nella realtà, si ha la sensazione di leggere un romanzo hard-boiled in cui però manca il detective, la vittima, il ricattatore. Nei dialoghi sempre tesissimi c’è un conflitto onnipresente, che non è solo quello tra i personaggi, ma anche quello interiore in cui emerge la sofferenza esistenziale del disperso. Viene quasi da chiedersi come sarebbe la letteratura americana di oggi se al fianco di nomi influenti come quelli di Hemingway e Faulkner, si potesse aggiungere quello di Klopstein, che non poté mai godere della fama che meritava nonostante l’incredibile forza narrativa. Infatti, leggere I perdenti è come fare più esperienze in una: c’è il piacere di abbandonarsi al racconto perfetto; la voglia di scendere in profondità nel testo che solo i grandi classici sanno suscitare; e poi c’è quella sensazione di stare leggendo qualcosa di unico, un romanzo che mentre propone una storia indica anche un nuovo modo di fare letteratura.
Nella vita spesso le cose non succedono a caso. Louis, il protagonista del romanzo, per dare una svolta alla sua vita sofferente si trasferisce a New York nel quartiere di Lower East Side. Prende in affitto un appuntamento in un condominio, di proprietà del “ boss “ del quartiere, tipo losco. Louis è un’anima solitaria e in pena, affonda nell’alcol la sua fatica di vivere, motivo per cui è stato lasciato dal suo grande amore. Man mano che conosce alcuni condomini: la trapezista, che si presenta alla sua porta per conoscerlo, la donna ferma all’ascensore, il pittore. Tutte persone con le quali con grande fatica proverà a fare conoscenza, perché tutti hanno voglia di parlare. Si rende conto che quello è un condominio di anime solitarie, come lui, per i motivi più diversi.
Il palazzo di fronte al suo, chiamato Paradiso, dello stesso proprietario del condominio, è una sorta di centro di divertimento le cui luci riflettono nella sua stanza. Lì c’è sempre caos ed è pieno di gente, ci lavora come cameriera la signora dell’ascensore. Louis pur volendo evitarlo ci finisce, si perde in quel labirinto di piani ed anche in questo posto dove tutto brilla, riesce ad incontrare altre anime solitarie e perse, che lavorano alla mercé del boss.
Li attrae tutti Louis pur non volendolo. E sono incontri di bevute, grandi bevute, durante le quali racconta le storie più incredibili, di cui non ricorderà più nulla. Sì intratterrà con le due coinquiline per poi pentirsene subito e scappare, non vuole legami, si farà coinvolgere dalle storie dei solitari che incontra ma mai fino in fondo. Sembra che ognuno che incontri sia lo specchio di se stesso, quello da cui fugge. Sono i fumi dell’alcol a portarlo via e a farsi cacciare via.
E quando è sobrio fatica a capire se quello che è successo è realtà o sono gli scherzi della mente. Fino a fargli dire “questo palazzo e quello di fronte, sono un’impalcatura, una finzione, qualcosa di costruito da un romanziere in crisi di identità.” È con i suoi fantasmi che Louis deve fare i conti , farci pace.
Aaron Klopstein, nato all’inizio del 1900, l’autore del romanzo, potrebbe essere Louis. È stato uno scrittore di grande talento, pur non avendo mai raggiunto la fama. Amico di R Chandler, Hemingway, John Houston , Hedda Hopper. Ed è grazie al ritrovamento del profilo di Klopstein, dell’amica H. Hopper che si hanno notizie più dettagliate dello scrittore. L’introduzione del libro è proprio quello che ha scritto l’amica che gli rende trasparenza e giustizia, quella che non ha avuto durante la sua vita.
È interessante leggere di questo scrittore che prima di scrivere recitava i suoi romanzi, tanto che litigò con Hemingway perché scrisse un racconto che aveva sentito recitato da lui e fatto suo. E come Louis, protagonista del I perdenti, Aaron era un grande bevitore, spesso in profanda prostrazione. Geniale, molto, ma tormentato. Tanto da non riuscire mai a raggiungere la notorietà che gli spettava. Scriveva racconti per mantenersi usando pseudonimi. I suoi romanzi furono scoperti dal suo amico e grande ammiratore R.Chandler, usciti in poche copie. Fu completamente dimenticato nel dopoguerra ed i suoi libri diventati cimeli per collezionisti. Una bella scoperta questo libro pubblicato da Miraggi, è un romanzo molto profondo, molto interessante, dove davvero la fantasia del raccontare scrivendo è di una ricchezza particolare.
È una bella lettura, scorrevole, tra personaggi in cui è facile entrare in empatia, i perdenti, ma i più profondi.
Di lui si è detto molto. E letto molto poco. Quel poco che ha scagliato come bordi di lametta lungo vent’anni di letteratura. Contenuti a stento nell’astuccio dei suoi quarantacinque. Osvaldo Lamborghini, scrittore argentino morto appena adulto nel 1985, ha generato brevi libri di brevi pagine. Che sono stati sufficienti per imbalsamare una leggenda pronta non solo a sopravvivergli, ma a guardarci ancora oggi con occhi saettanti, con quel lampo che sfugge alla caccia e che resta bestiale. La casa editrice Miraggi Edizioni, in un’epica avventura chiamata traduzione, ci ha di recente restituito una raccolta dei suoi testi migliori intitolata La Pianura degli scherzi (2019).
E la nota dei traduttori Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montalto ha da subito puntualizzato il rischio. Quello di affastellare dizionari, note biografiche, aneddoti e spunti come pietre insofferenti all’incastro. E restare tramortiti da cocci che s’ignorano. È possibile documentarsi, apprendere ciò che asseriva di lui César Aira, che lo ha conosciuto senza mai riuscire a circumnavigarlo, accettando il fatto che esistessero coste aliene e intemerate sepolte sotto le lenzuola dove Osvaldo mangiava, scriveva e stemperava le sue notti.
Sappiamo che si autodefiniva una “donna con il pene”, che verniciava di rossetto la sua etero-bocca con cui ingollava psicofarmaci e alcol per fornire al suo stomaco una trama di altri appetiti. E comunque non basta a tracciarne un contorno. Non rimane che affogarci nell’acquario dei suoi scritti. Sfiorare l’ipossia a poi tornare a prendere aria. E comunque non afferrarlo mai. Ricominciare all’infinito e stordirsi di magia.
Sì, perché Lamborghini è un autore molto poco “incantevole”, ma capace di sortilegi. Le sue frasi sono emissioni proteiformi, immediate e virulente, come reazioni organiche.
Un altro elemento raccontato di lui era che non correggesse mai quello che componeva, che la forma primigenia fosse soltanto la migliore possibile, la sola pensata e rovesciata sulla carta. Tradurlo ha significato avere a che fare con detonazioni continue. Materia piroclastica e non maneggiabile. E leggerlo vuol dire altrettanta fatica. Vuol dire scontrarsi con le schegge della sua lingua classica e infernale, in grado di attingere ad ogni tipo di registro per poi sbrecciarlo e vederlo tremare. Lamborghini erode le forme espressive, le intacca, le consuma, le lascia esplodere e si diverte a giocare con i suoi residui. Imbratta ogni stanza del dire con la mattanza della sua creazione.
Alcune parole vengono invertite, rivoltate, altre coniate, altre segate a metà per rendere autonome entrambe le parti. Per tranciare la coda alla lucertola e sapere che si muoverà ancora. Per questo non è affatto semplice offrire una sinossi dei suoi testi. A bordo dei quali ci si lascia fluttuare, perché non c’è quasi nulla che sia addomesticabile, che rientri nell’involucro di un riassunto lineare.
Si inizia con La causa giusta, forse quello con l’impianto narrativo più evidente da poter agganciare. La storia tragicomica, cruenta a paradossale di un povero impiegato condannato dalle sue enormi natiche a subire umiliazioni di ogni tipo. Ma è anche la storia assurda e disturbante di una partita di calcio tra colleghi d’azienda che si converte in disastro e omicidio, tutto a causa di uno scambio dialettico preso alla lettera.
Due dei giocatori si provocano in termini espliciti, promettendosi “scherzosamente” prestazioni sessuali omoerotiche e un terzo di loro, il giapponese Tokuro, non può comprendere che si pronunci un impegno e poi non lo si assolva, perché l’onore di un uomo passa attraverso la lealtà del suo fiato. Bisogna tenere fede a quanto affermato, una volta per tutte, altrimenti Tokuro, campione conclamato di karate, sarà costretto a ucciderli. E così si scatena il grottesco, lo sconcio, l’orrido e il meschino. Ma sotto un mantello di liquame e detriti, oltre il cencio oleoso di un paesaggio molesto, si nasconde un barlume superstite, un fondo d’amore irrisolto che resta protetto fino al sacrificio. Per non permettere che sia sacrificato.
Si prosegue poi con Il fiordo, narrazione indigeribile di un’orgia ostetrica. Una partoriente viene violentata dal Signore Padrone Rodriguez mentre gli altri partecipanti sprofondano nei corpi altrui con veemenza da guerriglieri. In questo caso, come anche in altri per Lamborghini, il sesso, ingrediente possente, mostruoso, indagato ed esposto ben oltre il turpe, viene impiegato come allegoria del potere. Ogni attante di questo baccanale (e su questo lemma Lamborghini si sarebbe divertito a inframettere un trattino) rappresenta un protagonista della compagine politica di quei suoi ultimi anni. Da cui è infattibile prescindere. Di cui le immagini s’impregnano come spugne a digiuno.
I riferimenti a Perón (di cui l’autore si professava sostenitore convinto), al sindacalista assassinato Vandor, alla base di militanza delusa che non riesce a godere dalla carne orbitante, diventano la filigrana con cui approcciarsi alla scena e assaggiare il potenziale della sua rivoluzione. La sua strattonata paradossale Argentina, la sua capitale con l’«aria buona» sono sempre lì, a scalciare sugli angoli. Come si evince in ogni passo di questa raccolta. Rimanendo costantemente sul filo tra il fastidio e lo sgomento. Tra l’oltraggio e la delizia.
Il bambino proletario è un’altra perla tagliente di questa collana. Vicenda devastante di un devastato. Un perenne sconfitto dalla sua povertà. Cavia eccellente per i fervori borghesi. Bersaglio da spogliare all’altare, eletto dal mondo alla sottomissione. Tre ragazzi si avventano su di lui, lo stuprano e lo massacrano frementi dell’estasi di chi sa che avrà sempre ragione, che è così che accade il destino.
Si schiude (perché non si apre mai) lo scrigno di Sebregondi retrocede. Personaggio inquietante e luciferino, brutalmente slegato da una logica sequenza dei fatti. Marchese cocainomane e affamato di uomini («pazienza, culo e terrore non mi sono mai mancati, dice»), con un membro «falangineo» e una mano ortopedica, è protagonista di un poema in prosa, altro intrepido atto di traduzione. Fu l’editore di Lamborghini a bandire la sua originaria forma poetica, a imbracarlo in una scatola che la sua lingua anguiforme rifugge e offende. Per quasi tutta la sua produzione si può dire che fiutarlo e assorbirlo come poeta permette non solo di aggirare l’illeggibile, ma di inalarlo come un vapore e assuefarsi alla sua suggestione.
«Questo cane che beve acqua dal mio bicchiere ha sulla faccia uno stupore che assomiglia alla mia faccia. Forse è un lampo del cane della mia faccia, un altro stupore del mio specchio in cui appare l’acqua (bevuta) e il cane cancellato per miracolo». Oppure «Io ero una donna giovane anche se con le tette un po’ mature. I miei capelli neri s’impigliavano nei miei capezzoli. La mia bocca maschile li succhiava. Si nutriva con tepore e lentezza. Anche se con un certo, un certo tocco di disperazione: il balenio rosso delle gengive e certe, certe finte come per conficcare i denti nelle terminazioni, capezzoli dei seni. Io, donna giovane, mi allattavo traboccando di tenerezza: non tanto riferita a me stessa, quanto al sogno che stavo sognando dall’età in cui il sogno mi aveva invaso».
Basterà questa manciata di righe per addentare una delle sue briciole? Basterà la polveriera di autori che lo hanno designato maestro o da cui lui stesso è stato influenzato, come per esempio Rodolfo Fogwill, Adolfo Bioy Casares o Horacio Quiroga?
È già certo, non sarà mai abbastanza. Ma pulseranno ancora queste gemme estreme, insopportabili e sfiancanti. Questo «romanzo che comincia qui o non comincia» mai, questa «musichetta» che scuote le ossa alla sua brevità. Questo lucido sventrare il senso delle cose. Che ci allena all’eccesso e alla sua strage. Per lasciarci sfiniti, sedotti e abusati, con il marchio sprezzante di una folgorazione.
L’uomo ha un lavoro normale, una vita ordinaria e tranquilla. Vive a Buenos Aires, ha una famiglia che mantiene dignitosamente. Ma la sua normalità non riesce a cancellare la vergogna che prova da sempre per la forma delle sue natiche eccessivamente polpose, quasi femminili. Superando a fatica tale vergogna, l’uomo partecipa ogni tanto alle partite di calcio tra Scapoli e Ammogliati organizzate dai suoi colleghi di lavoro. Gioca come portiere, gioca “per pura consuetudine, per stringere legami, per aumentare il livello d comunicazione”, come suggerisce di fare il vicedirettore delle Relazioni Pubbliche Interne. Anche questa volta (come tutte le sante volte) terminata la partita iniziano le freddure e gli scherzi di cattivo gusto nello spogliatoio. Heredia, volendo fare il simpatico, dice al collega Mancini: “Ti voglio così tanto bene che, te lo giuro su mia madre, ti succhierei il cazzo se fossi frocio” e Mancini, per non essere da meno, risponde al collega Heredia: “E tu sai che io sarei a tua disposizione: la prima cosa che farei la mattina sarebbe ficcartelo in bocca”. Allo scambio di complimenti segue una discussione da ubriachi sulla omosessualità di uno o dell’altro che degenera presto in una specie di rissa che il nostro mite chiappone di cui sopra cerca di sedare, suscitando l’ira funesta di un ingegnere elettronico giapponese presente nello spogliatoio. Costui inizia a demolire tutte le panche di legno a colpi di karate perché “Chi viene meno alla parola viene meno all’onore” e pretende che Heredia adesso succhi l’uccello di Mancini come promesso, o in nome dell’Imperatore lui lo ucciderà. Tutti cercano di farlo ragionare ma finiscono per farlo infuriare ancora di più, soprattutto lui, il culone, reo secondo il fanatico giapponese di eccitare gli animi dei suoi colleghi con le sue forme femminili. Il Direttore Generale Mariano Soria, convocato per dirimere la questione, se la prende anche lui con l’incolpevole portiere e decreta che sia lui a sostituire Heredia nella fellatio, tanto con quel culo che si ritrova deve per forza essere gay. Ma il giapponese non è d’accordo…
Un incubo fantozziano che si dipana tra i vapori di uno spogliatoio maschile (La causa giusta, 1983), un’orgia splatter di sesso e sangue che infuria negli ambienti del sindacalismo rivoluzionario argentino (Il fiordo, 1967), una galleria onirica di personaggi incredibili nell’ambiente omosessuale di Buenos Aires (Sebregondi retrocede, 1973) e una ballata appassionata e visionaria che celebra alcune donne le cui esistenze in qualche modo si intrecciano alla storia argentina (Le figlie di Hegel, 1982). Quattro racconti (due editi e due postumi) per celebrare il talento anticonformista di Osvaldo Lamborghini, poeta e scrittore porteño di grande importanza a dir poco trascurato in Italia, dove finora era apparsa solo una raccolta di poesie curata da Massimo Rizzante, Il ritorno di Hartz (Scheiwiller, 2012). Proprio Rizzante nella sua prefazione a quella silloge raccontava: “Lamborghini era ontologicamente incapace di assicurarsi le più elementari condizioni di sopravvivenza. Per questo non riuscì mai a trovare un impiego per più di qualche mese – nel sindacato, in una redazione di giornale, in un’agenzia pubblicitaria. Per questo tutta la sua vita fu un errare di casa in casa – genitori, sorella, amanti, amici – e di hotel in hotel, tra Buenos Aires, Mar de Plata, Pringles e, infine, Barcellona. E odiava star solo. In ragione forse del suo antico e disperso lignaggio, non si capacitava del perché qualcuno non dovesse prendersi cura della sua persona, visto che egli era completamente assorbito dal suo destino di scrittore”. I testi qui raccolti dai curatori Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montalto – che nella loro introduzione cercano (probabilmente invano) di far capire ai lettori quanto è stato arduo tradurre Lamborghini e la sua scrittura tanto disinteressata al punto di vista del lettore da essere insieme sublime e irritante – travolgono, scandalizzano, commuovono, indignano, disgustano, eccitano, esaltano e disperano a pagine alterne. Ma in nessun momento leggendo La pianura degli scherzi – che ovviamente è l’Argentina, e la definizione è fulminante a ben pensarci – si ha finanche il mero sospetto di una mancanza di talento, di una scrittura di maniera o di mestiere, di una pigrizia, di una fatica. È lo spontaneismo armato del talento, la rivolta del vero anticonformismo, il masochismo della sincerità. Di Lamborghini, scrisse César Aira: “(…) Aveva un che di signore antiquato, con qualche tratto di scaltrezza da gaucho, occultato sotto una severa cortesia. Inoltre, aveva letto tutto, e aveva un’intelligenza meravigliosa, soggiogante. Venerato dagli amici, amato – con una costanza che pare ormai non esistere più – dalle donne, è stato universalmente rispettato come il più grande scrittore argentino. Ha vissuto circondato di ammirazione, affetto, stima e buoni libri – una delle cose che non gli sono mai mancate. Non è stato oggetto di ripudio né di esclusioni: semplicemente si è sempre mantenuto ai margini della cultura ufficiale, e con ciò non ha perso granché”.
Scritto da Roger Salloch nel 2019 e pubblicato dalla Miraggi Edizioni, nella collana tamizdat, nel 2020,Vanilla Ice Dreamè un romanzo distopico sull’America di un ipotetico 2021.
Uno scenario abbastanza immaginario eppure contrassegnato, al suo interno, da dettagli che fanno presagire le discontinuità di un presente portate allo stremo.
Protagonista della vicenda è Carter Hollmann, uno scrittore di viaggio che rientra in America dopo anni all’estero.
“Non era trascorso nemmeno un mese dal suo rientro a casa e Carter aveva già la sensazione che l’attuale regime avesse trasformato l’America in un guscio…”, un guscio che aveva le sembianze di una terra “antica e sconosciuta” in cui notava di perdere le parole fino a non riconoscersi quasi più.
Il Paese che ritrova, infatti, pare essere stato trasformato dalla presidenza di un uomo bianco “con una messa in piega arancione”; in cui il razzismo, che conosceva anche indirettamente essendo stato sposato con Meredith, una donna di colore, è diventato qualcosa di accuratamente organizzato.
Ciò che sconvolge Carter è la cupa e profonda indifferenza nella quale il Paese è precipitato; un’indifferenza che all’inizio del romanzo notiamo tutta nel racconto della morte di un ragazzo nero investito da un furgone dopo, forse, essere stato sorpreso a rubare in un negozio e cacciato via dal titolare. Un avvenimento tragico che, tuttavia, pare non coinvolgere e sconvolgere nessuno.
“L’autista del furgoncino suonò il clacson. Il suono era quello di un basso cupo in una scala musicale. Ma la sua voce era stanca. Già successo, già fatto, già investito ragazzini neri, le anime oppresse hanno a malapena un corpo all’inizio.”
È proprio la visione di questa scena a inaugurare l’intera vicenda: un’azione quotidiana ma, al contempo, l’esemplificazione, tragica, di una condizione umana ben più ampia.
Le rivolte razziali e la connivenza nei confronti di azioni come questa minano e marcano, altresì, il contesto sociologico col quale Carter Hollmann si confronta.
Spinto da due amici, Rachel e Bob, piuttosto indifferenti ai problemi sociali, Carter inizia a lavorare in una scuola di scrittura dove tra gli allievi conosce e stringe amicizia con Julio Orijniak.
Portoricano per metà di nascita e con alle spalle un’infanzia burrascosa, caratterizzata da quello che egli chiama mal de ojo, Julio si guadagna da vivere lavorando per una compagnia di traslochi impegnata ad aiutare le famiglie nere a trasferirsi in insediamenti protetti.
Tutto questo fa anche parte di un progetto sviluppato da Mandy Lemmour, datore di lavoro di Julio, un vecchio uomo benestante costretto a letto.
I fotografi lavorano con Julio scattando immagini di questi insediamenti protetti destinati agli uomini di colore per fornire materiale visivo a un videogioco. Tra di loro c’è anche Meredith, l’ex moglie di Carter, dalla quale lo stesso divorziò dopo un violento litigio che causò all’uomo l’allontanamento dalla figlia.
Il videogioco, basato su quello che viene chiamato l’incidente del Lago Michigan, mette in luce il lato oscuro del Sogno Americano dove capitalismo e razzismo congiurano a un inquietante esperimento di ingegneria sociale. Una nuova dimensione si aggiunge quando alcuni personaggi governativi vengono coinvolti, usando il gioco per iniziare un registro nazionale di famiglie nere.
Domande, riflessioni, visioni, si concatenano così nella mente di Carter, descritto come “il miglior commentatore della realtà in circolazione” che, pertanto, dovrà fare i conti con ciò che vive e con l’amore: da un lato quello naufragato per Meredith, dall’altro quello per Catherine che conosce da sempre.
Un racconto che alterna immagini presenti e passate e che rivive scostante, discontinuo nella descrizione delle stesse, proprio come fossero tutte fotografie, protesi cognitive di quanto giornalmente vediamo o vogliamo vedere.
In tal senso, viene quasi naturale un parallelo tra il personaggio di Carter Hollmann e quello di Thomas, protagonista del film di Michelangelo Antonioni Blow Up.
All’inquietudine di Thomas, caratterizzato dal regista padre del concetto di alienazione sul grande schermo come l’emblema di un personaggio che non si accontenta di riprendere cose straordinarie ma vuole indagare la realtà quotidiana spiandola quasi come da un buco della serratura per poterne così cogliere l’intimità più nascosta, fa da contrappunto il personaggio di Carter, anch’egli assetato di verità. Una verità che cela tutta nella scrittura, vista come lo strumento utile per “portare alla luce l’essenza di ciò che contava” davvero.
Uomini attivi eppur spesso distratti, disfunzionali nelle proprie emozioni e, al contempo, frenetici.
Nel Carter di Roger Salloch si evince tutta l’incapacità di rassegnarsi a un silenzio passivo e compromesso e di rimando, la volontà di osservare, raccontare il tutto da un altro, e nuovo, punto di vista per poter finalmente scoprire cosa “realmente sta succedendo qui”.
Emblematico il tal senso lo scambio di battute con Catherine:
“Catherine strinse la mano di Carter. Pensi che potrei arrivarci? Le chiese. Dove? A essere di nuovo me stesso. Come il cuore di questo Paese. Come la canzone. Nonostante il Presidente. Il nostro mal de ojo. È possibile?”
Con uno stile controllato, asciutto, incisivo e una sintassi paratattica e fulminante quasi come scatti fotografici ripetuti, Vanilla Ice Dream, vuole porre le basi per un atto deliberato di resistenza, necessario a superare le pulsioni razziste di un Paese descritto in tutte le sue ombre e chiaroscuri, quasi a esorcizzare anche quella paura che attanaglia oggi la maggior parte delle persone.
Una paura incontrollata e che assume il volto di ciò che è diverso e ignoto: di un colore, di un credo religioso diverso, di diversi modi di descrivere lo stesso mondo.
A ricorrere più volte nel romanzo è il riferimento al capitolo quarantadue di Moby Dick, assegnato da Carter ai suoi studenti e assunto come spunto di riflessione da adottare nel quotidiano. In queste pagine Melville fa riferimento alla bianchezza della balena simbolo di tutto quello che può considerarsi oscuro e maligno.
“Guardavano alle cose come se fossero state scolpite nella pietra. Voleva che sapessero che c’è sempre un altro modo di percepirle, magati da una prospettiva completamente opposta. Le offese che si possono rivolgere a un uomo nero che si odia sono le stesse per un uomo bianco. Non c’è differenza tra negro bastardo e bastardo muso pallido. In pratica, voleva parlare loro dalla prospettiva opposta, opposta a quella da cui parlavano all’autorità del momento.”
Pienamente inserito nelle recenti rivolte razziali in America, Vanilla Ice Dream, nel suo intento profondo, sembra porsi parallelamente ai cori e agli striscioni del movimento Black Lives Matter, introducendo vicende che, seppur immaginare, sanno cogliere la più intima e spiazzante attualità.
Spiccata è la capacità analitica di un artista poliedrico come Salloch: narratore, sceneggiatore, fotografo e commediografo statunitense che vive e lavora a Parigi, autore già di Una storia tedesca (Miraggi, tamizdat, 2016) capace di fotografare e concatenare con maestria e rigore avvenimenti per creare storie che raccontano contrasti, implosioni, rimandi che parlano al presente ma anche alle nostre speranze e alle nostre più taciute fragilità.
Un romanzo importante e necessario.
Perché è arrivato il momento di non avere più paura.
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