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Vit[amor]te – Paolo Polvani intervista Valeria Bianchi Mian su A tentoni nel buio (Versante Ripido)

Vit[amor]te – Paolo Polvani intervista Valeria Bianchi Mian su A tentoni nel buio (Versante Ripido)

Una danza interiore tra il carpe diem e il memento mori

Valeria ci spieghi cosa sono gli arcani maggiori?

Gli Arcani Maggiori sono conosciuti dal grande pubblico con il nome di Tarocchi, termine che rimanda al disordine, al caos della carta Matto, alla psiche di ognuno di noi quando ci lasciamo sconvolgere, quando permettiamo all’inconscio di spettinare l’Io (1). Non è la stessa sfumatura del concetto di Arcano e nemmeno parola che richiama gli antichi Trionfi. Con Jodorowsky, i Tarocchi diventano ‘il Tarot’, ovvero un essere vivo, una creatura fatta di immagini che hanno attraversato i secoli senza mai disperdersi, anzi acquistando nel tempo sempre più forza e splendore. Mi trovo bene, io, nella dinamica del mezzo: vedo i ventidue Arcani come un elemento poliedrico che si cristallizza in una forma e lo fa solo transitoriamente. Sono loro, i Tarocchi, il grande Mercurio alchemico, materiale divino multi-verso, corpo anima e spirito raccolti in una sola Pietra Filosofale, figlio/figlia dei filosofi ermetici. I Tarocchi respirano, parlano, raccontano, abitano il mondo, spuntano come fiori in ogni angolo del nostro quotidiano, a partire dal ‘400 fino al 2021. Mi viene in mente una farfalla arcobaleno ferma in posa per un istante, pronta a ripartire di fiore in fiore, di mazzo in mazzo in mazzo di ogni colore e foggia: ecco l’anima arcana. 

Gli storici italiani più noti – Giordano Berti in primis, per citare il critico a me più vicino – non hanno dubbi nel situare l’origine di queste splendide icone nel mondo cortese del Rinascimento. Le nozze di Bianca Maria Visconti, la Milano degli Sforza, gli Estensi a Ferrara e dintorni, velluti e gioielli, banchetti, i fasti e il gioco elegante dei Trionfi come contraltare alla dilagante piaga del gioco d’azzardo; è Berti a scrivere che le prime Lame, icone lavorate a mano e incise in oro a bulino, erano così care, ma così care, che un mazzo costava praticamente come un palazzo.

Ludus triomphorum è il modo in cui le figure operano, prendendo spunto dal petrarchesco poema. Chi vince su chi? La Morte, si sa, batte ogni ruolo e trascina nella danza finale il Folle, così come l’artigiano-prestigiatore Bagatto, la bella Imperatrice con l’Imperatore, il Papa… Non c’è scampo, è vero, ma chissà se l’Innamorato avrà più Forza rispetto alla Senza Nome, scheletro disincarnato che non può mancare dal mazzo. E che dire del Diavolo? Se c’è una carta che ha stimolato la censura della Chiesa, e paura e tremore nel popolo, è di certo il Satanasso androgino che abita il cartoncino numero XV, tanto che l’attribuirgli oggi un ruolo creativo e vitalizzante ha richiesto il superamento di molti pregiudizi. Nel mazzo di Tarocchi, il Diavolo coesiste con l’angelo della Temperanza e con le altre venti Lame, in armonica danza da più di sei secoli. Vincitore assoluto del gioco? Forse il Mondo? Fortunello! 

I giovani cortigiani e le dame si sono sbizzarriti inventando motti e poesie a ogni estrazione di carte. Li troviamo immortalati nell’affresco di Palazzo Borromeo a Milano: che cosa sta sussurrando la dama al centro della rappresentazione? Dedicherà un verso improvvisato ai compagni raccolti intorno al medesimo tavolo? Questo era il modello, il modus operandi dei Tarocchi: un gioco culturale, un gioco per divertimento, un gioco per fare relazione nel gruppo, un gioco di società, un gioco educativo.

Di professione sei psicoterapeuta. Esiste una connessione tra il tuo lavoro e gli arcani? E, se sì, in che si sostanzia?  

Io lavoro con le persone, con i gruppi, con la differenza – le differenze – individuali, con quel teatro che ognuno di noi è dentro l’anima. Potrei spingermi a dire che io, tu, voi, loro… tutti siamo sempre i ventidue Tarocchi. Abbiamo in dotazione le carte del caso, le figure archetipiche più adatte a rappresentare il simbolo del momento, la fase di vita, il periodo che attraversiamo, l’attimo dell’esperienza tra Kronos e Kairos. Alcune immagini le conosciamo bene, e sono i ruoli che indossiamo più spesso, gli abiti mentali che più ci piacciono. Altri li disprezziamo, li evitiamo, proiettandone la potenza sul nemico di turno. Come psicodrammatista, oltretutto, opero attraverso il teatro che cura. Approfondendo lo studio della simbologia arcana, negli anni mi è sembrato il minimo lasciare che questi livelli archetipici si intrecciassero all’esperienza nel quotidiano. Oggi il Tarotdramma è un brand depositato, un metodo che unisce la drammatizzazione alle tecniche di scrittura creativa e al lavoro sulle competenze trasversali. Mi occupo di comunicazione in ambito formativo e mi piace lavorare anche a scuola con le immagini dei Tarocchi… ma non solo. Pensa che negli anni in cui facevo la tutor in Università conducevo laboratori di drammatizzazione sulle opere visive nella Storia dell’Arte. Inoltre, il Tarot si presta a raccontare la strada dell’individuazione: è un ottimo strumento anche per lo storytelling in psicoterapia.

Oggi, grazie ad Alejandro Jodorowsky, la visione evolutiva è diventata la via principale nell’approccio ai Tarocchi, uniti già alla fine del Quattrocento agli Arcani Minori, ovvero alle classiche carte da gioco, quelle con i ‘semi’ tipici del periodo e della regione di appartenenza.

Alejandro Jodorowsky ha acceso una nuova luce sui Tarocchi marsigliesi, i più popolari e anche i più complessi nella loro apparente semplicità. Sono proprio i marsigliesi a mostrare gli archetipi dell’inconscio collettivo più chiaramente, senza troppi fronzoli dati dai vezzi o dalla creatività degli artisti, per arrivare all’anima in modo diretto, profondo, trasformativo. 

Agli artisti e ai poeti resta aperta la possibilità dell’amplificazione. Così come ho fatto io stessa creando il mio mazzo.

I tarocchi per esprimere il disagio di vivere in una società sempre più votata al consumo?  

O per curare questo disagio.

Per andare oltre, offrendo ipotesi di trasmutazione, a patto che si possieda un Io-alambicco, un contenitore psichico per la trasformazione attiva dei contenuti. Per ottenere l’oro dalla feccia ci vuole un contenitore senza buchi, occorre curare lo spazio di accoglienza, la stanza dei simboli, la casa delle cose, altrimenti siamo parte del caos, siamo solo la carta numero zero, siamo il Matto perennemente in partenza ma sempre fermo sulla casella Start… o poco oltre. Perché le immagini sacre e profane che sono i Tarocchi ci possano dire qualcosa che sia utile per la nostra vita, occorre avere occhi e orecchie interiori, i sensi accesi e una porta solida, capace di aprirsi ma anche di chiudersi alle ipotesi di dipendenza.

La funzione delle tue illustrazioni credo che non sia solamente decorativa, giusto?  

Ho un rapporto particolare con il disegno. Nel libro, le immagini che ho disegnato si sposano alle poesie, ma questo è un processo che avviene in quasi tutte le mie produzioni letterarie. “Favolesvelte”, per esempio (Golem Edizioni). Per un anno ho intrecciato parole e tracce. Con il progetto Medicamenta – lingua di donna e altre scritture, insieme a Silvia Rosa, ho lavorato sullo stesso livello per illustrare l’antologia “Maternità marina”, ricamo di figure e versi, sketches e parole. Non concepisco un cervello split-brain: il cervello destro e il sinistro sono il mio stesso cervello. Sono mancina quando scrivo ma uso la mano destra per tutto il resto. Tendo a unire gli opposti in androginia e questo concetto vale un po’ per tutte le possibilità esistenziali, a più livelli. 

Uno stile poetico improntato a un certo rude pragmatismo, è la tua cifra stilistica personale o ti è stata ispirata dai Tarocchi? 

Sei per ora il primo poeta, scrittore e critico letterario a definire rude pragmatismo il mio stile; lo ammetto, questo concetto mi piace moltissimo. È vero, sono dura, e qualcuno potrebbe dire mascolina nel mio sguardo sul mondo, impietosa, ma al contempo non escludo possibilità di coscienza per la collettività, divento materna e accogliente di fronte alle debolezze della nostra specie. Per ora sinceramente curo la mia stessa individuale coscienza e collaboro alla cura di chi si rivolge a me – una visione ippocratica direi – sperando che ognuno nel collettivo possa avere modo di nutrire la propria vita in ottica evolutiva, ecologista, differenziata.

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