“E lucevan le stelle”: l’intervista a Elisa Occhipinti su anajustana.com

“E lucevan le stelle”: l’intervista a Elisa Occhipinti su anajustana.com

LA BLOGGER

In questi ultimi mesi mi sono dedicata molto alla ricerca di blog letterari, soprattutto perché cercavo libri interessanti da leggere in italiano e informazioni sul mondo dell’editoria in Italia. Come tutte le ricerche che si fanno su internet, non sai bene da dove parti e non sai mai dove finisci.

Mi sono imbattuta nel blog di Elisa mesi fa, seguendo il suo profilo di Caporedattrice della rubrica letteraria sul Club del Libro. La cosa che più mi ha colpita? È una mamma che si è trasferita in Germania e ha un figlio maschio con lo stesso nome del mio.

Ho letto il suo blog marginaliae mi è piaciuto molto lo stile delle recensioni e la sua storia. Quando ho visto il suo profilo, mi son detta che sarebbe stata perfetta da intervistare per la rubrica del mio blog “Meet another working mom”. L’ho contattata, le ho spiegato il mio progetto ed eccomi qui.

Elisa mi sorprende per la sua determinazione e positività. Vivendo anche io in un paese di lingua tedesca, so per certo quanto sia difficile integrarsi nella cultura nordica e imparare la lingua. Lei invece è andata alla ricerca di questi elementi. Mi ha raccontato di aver studiato economia e tedesco all’università appassionandosi alla lingua e alla cultura.

LA MAMMA

L’arrivo del figlio cambia gli equilibri di Elisa, che a quel tempo lavorava in uno studio legale a Torino. Noi mamme sappiamo come l’arrivo di un figlio sia sempre uno sconvolgimento nelle nostre vite. Le priorità cambiano, le dinamiche di coppia evolvono e di colpo la nostra esistenza gravita attorno ad un esserino di pochi chili.  Elisa si rende conto che il tempo dedicato al figlio è poco e il suo lavoro poco appassionate le porta via tempo prezioso. Capisce presto di voler un ritmo di lavoro più compatibile con la sua famiglia e una vita più interessante. Queste, ed altre ragioni, l’hanno spinta a voler cambiare vita. Con suo marito decide di trasferirsi in Germania.

Sono molto colpita dal suo racconto: molte persone ci mettono anni, o addirittura decenni, a capire cosa vogliono davvero e rimangono a lungo intrappolate in una vita di frustrazioni. Elisa invece dimostra molto presto maturità e autodeterminazione, caratteristiche rare in una ragazza che non ha ancora compiuto 30 anni.

Elisa: “Ho sempre lavorato” dice Elisa“e anche da mamma in Italia ero molto attiva professionalmente ed avevo molti hobby. Quando sono arrivata in Germania mi sono ritrovata a casa con mio figlio per un anno fino a che non ha iniziato l’asilo. In quel periodo mi sono resa conto di quanto il lavoro fosse importante per me. Lavorare mi fa sentire viva e attiva!”.

Anche Elisa, come molte altre madri, dice che la maternità non è che una parte di lei. Siamo donne con interessi e una vita professionale da sviluppare, oltre ad essere compagne, mogli e madri. I figli sono la nostra priorità, ma non posso essere l’unica cosa a cui ci dedichiamo.

E: “È importante crearsi delle oasi senza figli dove potersi ricaricare. Non siamo solo mamme!” dice lei con foga, dopo avermi raccontato che ogni tanto si ritaglia del tempo per sé stessa.

E cosa ne pensa il figlio di questa mamma piena di passioni?

E: “Sto educando mio figlio alla parità uomo-donna. Lui cresce con l’idea che sia normale che la sua mamma lavori e che abbia anche attività al di fuori della famiglia e del lavoro. Per me è importante che capisca che io sono anche molto altro, oltre ad essere la sua mamma. E lui non solo lo accetta, ne è anche contento”.

Non posso che essere d’accordo con lei. Dare il buon esempio ai figli è sempre la scelta giusta.

SCRITTRICE E…

La vita da freelance si adatta bene ai tempi e ai ritmi dei bambini, specialmente se piccoli. Chiaro che ci sono anche dei contro. Si è da soli e si tende ad accettare molti piccoli mandati, non tutti molto soddisfacenti, ma per ora va bene così. Ho provato a riprendere un lavoro d’ufficio per qualche settimana, pochi mesi fa, ma non mi sentivo soddisfatta ed equilibrata. Per cui ho smesso e sono tornata ai miei progetti da freelance”.

Elisa però non si ferma alla sua attività di editor, redattrice e traduttrice. Cura un blog letterario, è caporedattrice del Club del libro, sta completando una formazione in Comparatistica e Italianistica alla Facoltà di Filologia della Ruhr-Universität Bochum, si dedica all’insegnamento dell’italiano e coordina il progetto per bambini “Nati per Leggere Deutschland”.

Si capisce dalla luce nei suoi occhi come tutto quello che riguarda i libri e l’insegnamento l’appassioni. Non sono molto sorpresa quando alla fine dell’intervista scopro che ha anche scritto un libro, che è stato appena pubblicato in Italia da Miraggi Edizioni.

Decido di leggere il suo romanzo, “E lucevan le stelle”, e lo leggo in un fiato. Bellissimo. Non sono molto stupita che la storia si svolga in Germania, ma sono molto colpita dalla maturità del racconto e dalla scorrevolezza della narrazione, nonostante i temi trattati siano molto seri. Il libro è un lungo racconto della vita di una donna tedesca come tante, delle sue tragedie familiari e del suo sviluppo di donna adulta. Raccontato in prima persona, Elisa, tramite la voce di Ulrike, ci fa scoprire l’impatto che hanno avuto il nazismo e la Seconda guerra mondiale nella vita dei tedeschi e percorre i decenni che seguono raccontando vicende familiari all’apparenza normalissime, ma che nascondo mondi di solitudine.

E lucevan le stelle” è un romanzo bellissimo, poetico, pieno di riflessioni e molto ben scritto. Una lettura che non lascia indifferenti.

Leggendo il primo romanzo di Elisa sono ancora una volta colpita dalla maturità e determinazione di questa donna, ora anche scrittrice.

Un’altra madre che lavora come noi, una vita normale ma allo stesso tempo incredibile, un altro esempio da seguire.

Leggi l’intervista di anajustana.com anche qui

Meet another working mom: Elisa Occhipinti

 

“E lucevan le stelle”: l’intervista a Elisa Occhipinti su anajustana.com

Elisa Occhipinti: “Io, Brigitte, Ulrike e le stelle”

Elisa Occhipinti, da dove è partita per scrivere “E lucevan le stelle”?
Da diversi anni mi sono trasferita in Germania, appena sono arrivata ho subito stretto un rapporto
con Brigitte: era una signora anziana che viveva in una struttura, appena sei mesi dopo il mio
trasferimento lei è venuta a mancare. Io ho iniziato la mia vita tedesca nell’aprile del 2013, a
dicembre dovevo già darle l’ultimo saluto. E’ stata una figura fondamentale per me, anche se ho
iniziato a conoscerla meglio dopo il suo funerale. La sua era stata una vita particolarmente difficile
e non ne aveva mai voluto parlare, ma io ho iniziato a indagare e ho trovato tanti spunti
interessanti.
Chi è l’Ulrike del libro?
E’ proprio Brigitte stessa, perché sono partita da una storia vera e ci ho costruito sopra qualcosa.
Però è molto romanzato, ci sono tanti elementi di fantasia. Tutto, però, inizia appunto dal mio
incontro con Brigitte: la sua vita mi ha suscitato grande interesse e ho deciso di scrivere un libro.
L’ho iniziato nella primavera del 2014, pochi mesi dopo la sua scomparsa.
Germania e Italia sono i suoi luoghi del cuore?
La vicenda si svolge proprio tra questi due paesi, sono legatissima ad entrambe le terre. L’Italia è il
mio paese, sono nata e cresciuta a Torino e tutti i miei parenti mi aspettano sempre a casa, perciò
non potrò mai dimenticare la mia terra d’origine. Dall’altra parte, però, ho sempre sentito mia la
Germania: ho studiato tedesco a scuola, il mio desiderio di trasferirmi in Germania si è realizzato
cinque anni fa e ora sono felice qui.
Da chi si è ispirata per il titolo?
In qualche modo richiama Dante, sono una sua grande ammiratrice, ma in realtà è tratto dalla
Tosca di Giacomo Puccini: sono proprio le stelle e questa romanza a fare da filo conduttore. E sono
anche le due più grandi passioni di Ulrike, che in qualche modo richiamano quelle di Brigitte.

Eva Clesis: “Un equivoco ti cambia la vita”

Eva Clesis: “Un equivoco ti cambia la vita”

Eva Clesis, da dove nasce l’idea di “Amor”?
Ho iniziato a scrivere di una telefonata, poi il romanzo è continuato senza seguire un filone ben preciso: a differenza degli altri libri, quando avevo una trama fissa e organizzata nella mia mente, non sapevo bene dove sarei arrivata. Però mi piaceva l’idea di questo equivoco, di questo scambio di persone tra un uomo che è convinto di parlare con la sua amata e di una donna che, dialogo dopo dialogo, fa finta di essere chi non è. Perché anche nella vita di tutti giorni, consapevolmente o inconsciamente, ognuno di noi tende a manipolare il prossimo.

Chi è Lucia, la protagonista del romanzo?
E’ una donna che sta convivendo con il dramma di un brutto incidente, di un marito che l’ha abbandonata, di una persona che sta vivendo una fase di stallo della propria vita. E che, scoprendo tanti segreti dell’uomo con cui parla al telefono, trova il coraggio di affrontare situazioni che aveva sempre rimandato per paura: capendo che chi sta dall’altra parte della cornetta è un tipo violento e con la paura che la possa trovare, va in giro per Roma per risolvere tante questioni in sospeso. Il suo obiettivo è uscire dalla campana di vetro che si era costruita attorno a sé perché si rende conto di non poter vivere per sempre facendo la vittima.

C’è qualche elemento autobiografico?
Io stessa ho subito un gravissimo incidente, proprio come la protagonista, ma non ho mai voluto parlarne sui social, me lo sono tenuta per me. Perciò si può dire che è autobiografico dal punto di vista emotivo del personaggio principale. Non è stato facile scrivere questo romanzo, è stato mio marito a convincermi a portarlo a termine. Mi sono interrotta tante volte, ci ho impiegato quasi tre anni e nel frattempo ho scritto anche altri libri, un qualcosa per me impensabile dal momento che sono una persona particolarmente organizzata. Ma alla fine ce l’ho fatta.

Cosa significa il titolo?
Innanzitutto è un’espressione di un passaggio del libro, quando la protagonista interrompe il suo interlocutore che vorrebbe chiamarla “amore”. Ma il vero significato è Roma scritto al contrario, è una parola palindroma: ed è “amor” verso il corpo che dopo l’incidente mostra tutte le sue trasformazioni, oltre al sentimento verso la città. Perché per Roma provi amore e odio, una città bellissima ma allo stesso tempo difficile da vivere.

Matthias Martelli: “Sono un giullare che gioca (anche) a scrivere poesie”

Matthias Martelli: “Sono un giullare che gioca (anche) a scrivere poesie”

Matthias Martelli, partiamo dall’amore o partiamo dal contraccolpo?
Partiamo dall’amore, si deve partire sempre dall’amore. Ma subito dopo arriva proprio lui, inaspettato: il contraccolpo, l’onda d’urto riculatoria. Gli effetti indesiderati dell’amore. Piernasi, l’autore-personaggio del libro, si innamora spessissimo, di decine di donne diverse, ma è un amore goffo, strambo, malriuscito, strampalato. Un amore desiderato ma che difficilmente si avvera, e quando sembra avverarsi, eccolo, sempre lui: il contraccolpo!

Oppure saremmo potuti partire anche da Pruno Piernasi: chi era costui?
Pruno Piernasi è il più grande poeta contemporaneo. Un uomo difficile, duro, facilmente irritabile e pieno di sé. È un po’ la parodia del grande poeta contemporaneo. Si esprime con un linguaggio fintamente aulico, che alla fine si rivela inevitabilmente comico. Perché il Piernasi non parla e scrive come tutti noi: il suo lessico è pieno di parole storpiate, spesso inventate di sana pianta, che vanno a costruire una poesia nuova, spesso buffa, sicuramente originale. Piernasi, infine, è un personaggio inventato da me, ma ultimamente non ne sono più così sicuro: forse esiste realmente.

La poesia, oggi: più luci o più ombre?
Ci sono grandi poeti sia popolari sia di nicchia. Il rischio ogni tanto è cadere da una parte nella banalità del “sole, cuore, amore” e dall’altra parte nell’eccessiva ricercatezza e aulicità, che poi è quello che prendo in giro in questo libro.

Amore di nicchia o amore popolare? Quale buttiamo dalla torre?
Non buttiamo nessun amore dalla torre, per carità! Butterei piuttosto la pedanteria, la spocchia e l’eccessiva autocritica, che distruggono creatività e originalità. Mentre dai discorsi sull’amore toglierei quella vena di banalità che rischia di affogare il sentimento e di renderlo insulso.

La comicità nella poesia: ce la spieghi?
La poesia comica è un genere antico, che risale fino al XIII secolo: basta pensare alla comicità giullaresca di Cielo (o Ciullo) D’Alcamo in “Rosa Fresca Aulentissima”. Si pensa che la comicità sia qualcosa di inferiore rispetto al tragico, di più semplice, io credo invece che scrivere poesie comiche sia un’arte raffinata. Fra i poeti di oggi stimo particolarmente Guido Catalano, che ha inaugurato un genere, con Catalano spesso si ride, ma non solo, è davvero geniale. Tuttavia la mia comicità in “T’amo aspettando il contraccolpo” è molto diversa: sono un giullare che prende in giro i poeti tronfi, quelli così seri che perdono credibilità. E nella parodia, alla fine, il finto poeta rischia di diventar poeta per davvero.

Ci racconti la tua infanzia, che certamente ha avuto un ruolo importante anche in questo libro?
Tutto dipende da dove sei nato”, diceva Dario Fo. Io sono nato a Urbino, un luogo così meraviglioso da non sembrare vero. Faccio parte dell’ultima generazione che giocava per i vicoli e nei cortili. In quelle vie si incontravano i personaggi di Urbino: studenti, artisti, professori, poeti, scrittori, e anche pazzi, pazzi buoni ovviamente, con cui chiacchieravamo e facevamo amicizia. Dentro i miei personaggi ci sono i matti buoni d’Urbino.

T’amo aspettando il contraccolpo lo vedremo a teatro o lo troveremo solo in libreria?
Lo vedremo dappertutto, per le strade, nel teatri, nelle librerie, nelle case. Una vera persecuzione. A parte gli scherzi: sì, credo sia un testo legato anche alla performance.

A proposito di teatro: ormai i tuoi spettacoli valicano i confini italici. Com’è stata l’esperienza di Londra?
È stata un’esperienza entusiasmante. Non voglio fare il solito discorso sulla superiorità di certi paesi europei rispetto all’Italia, ma l’impressione purtroppo è quella: dobbiamo puntare con forza sulla cultura in questo Paese, altrimenti il futuro è impensabile. Gli altri Paesi lo stanno facendo. Con la cultura si mangia. Si fanno dei gustosi banchetti di follia, allegria, riflessioni e meraviglia.

C’è un romanzo nel futuro di Matthias Martelli? Un altro libro di poesie? O cos’altro?
Teatro, poesie, romanzi … Tutto quello che uscirà dalla mia testa. Ma non mi sento né un attore, né un poeta né uno scrittore: sono un giullare, che viene da joculator, da jocus = gioco, quindi gioco a esserlo.

Il 1968 vissuto a Torino: Bruno Boveri racconta “Il gioco della verità”

Il 1968 vissuto a Torino: Bruno Boveri racconta “Il gioco della verità”

Cinquanta anni dal 1968, quando Torino si ritrova al centro del mondo della contestazione nata in università. Tutto prende il via nell’autunno 1967 a Palazzo Campana, all’epoca sede delle facoltà umanistiche. Qui si affaccia la matricola Bruno Boveri e qui incontra Ermanno Gallo, gli autori di Il gioco della verità. Un libro scritto allora e rimasto inedito per mezzo secolo, oggi proposto da Miraggi. Gallo non c’è più, Boveri – dopo quei giorni e la laurea con Gianni Vattimo – ha insegnato, ha fatto il deejay, ha fondato radio libere, ha aperto (e chiuso nel 2007) la libreria Agorà a Torino, è stato dirigente di Slow Food dalla nascita fino a poco tempo fa (“E senza prendere un euro”).

Come nasce Il gioco della verità?
“Sono arrivato in università a novembre 1967, a Palazzo Campana, iscritto a Filosofia. Tre lezioni e, a fine mese, scatta l’occupazione contro lo spostamento della sede della facoltà: si parlava di un trasferimento alla tenuta della Mandria. In quei giorni ho conosciuto una ragazza, che mi ha presentato a Ermanno. Fino a quel momento avevo scritto solo poesie, con un passaggio di gloria personale quando mia mamma le spedì alla trasmissione Rai del professor Cutolo. Si faceva un primo tentativo di divulgazione culturale, venne letta una mio componimento. Ermanno aveva già scritto un romanzo. In quei giorni vivevamo insieme ogni momento e lui mi disse: “Perché non scriviamo qualcosa?”. Il giorno dopo è arrivato con due pagine e abbiamo continuato, sempre insieme ma mai assieme”.

Che cosa significa?
“Che non abbiamo mai scritto a quattro mani. Siamo andati avanti così, un pezzo a testa e raccontando il periodo che va da aprile 1968 all’inizio del 1969. Ancora adesso non so chi abbia composto certe parti”.

Che libro è?
“Un guazzabuglio: parti vere e parti inventate, autobiografia e romanzo. Non c’è una trama. C’è piuttosto un clima, il racconto di quello che capitava. Avevo 19 anni quando è scoppiato il movimento, ho subito aderito. Da lì è nulla è stato come prima, cominciando dal sesso. Si scopava come non mai… Si parla di un cambiamento, a iniziare da quello della persona, per poi raccontare quello della società. Si capiva che non sarebbe più stato possibile innestare la marcia indietro, con tutte le conseguenze del caso”.

Che tipo di conseguenze?
“Soprattutto che si sarebbe finiti nella lotta armata: Ermanno si fece un po’ di galera, io venni inquisito per costituzione di banda armata e poi prosciolto, anche se questo secondo aspetto difficilmente viene riportato oggi su internet. Ero vagamente di sinistra quando arrivai a Torino dalla provincia di Alessandria, mi ritrovai comunista duro e puro: l’attacco ai parrucconi accademici, il Vietnam, l’Internazionale. È stato un punto di rottura, soprattutto la presa di coscienza da parte di quei giovani che non si erano mai schierati fino ad allora. Volevamo tutto e subito, come cantavano i Doors. È andata poi male, ma era giusto farlo anche se lo sbocco del ’68, a livello teorico, era appunto la lotta armata: si partiva per fare la rivoluzione. Qualcuno è finito così; altri, e io tra questi, hanno fatto un passo indietro”.

Si parla del ’68 come di un unico movimento studentesco, in realtà non era così.
“C’era una grande frammentazione. Io facevo parte di Avanguardia proletaria maoista, eravamo 120 in tutta Italia, a Torino in 9. Al primo congresso, a Milano, siamo riusciti a spaccarci in due. Si arrivava fino ad assurdità come quelle di altri maoisti, tipo l’Unione marxisti leninisti. In una riunione sull’etica proletaria se ne uscirono con un documento vincolante che teorizzava il sesso simultaneo, ovvero che si dovesse raggiungere l’orgasmo tutti insieme, con vari corollari. Una posizione che sembrava inarrivabile ma che venne superata quando fu bollata come “trotzkista e tardoborghese” da quelli del Partito comunista d’Italia marxista leninista, altri maoisti…”.

A livello personale che cosa ha significato il ’68?
“Per me è stata la svolta della vita, da quel momento non sono stato più lo stesso. Avevo fatto il liceo classico tra Tortona e Voghera, pensavo solo a studiare, a costruirmi una carriera, a mettere su famiglia. È cambiato tutto: al primo posto c’era solo la politica”.

A chi è indirizzato il libro?
“Vorrei che lo prendessero in mano i ragazzi, anche se non è semplice da leggere. Però, se cominci, è un vortice, per capire che cosa era e che cosa siamo. Per capire che bisogna muoversi in prima persona, parlare e fare. E vorrei che gli ex del ’68 potessero ricordare quei giorni”.

Come mai sono passati 50 anni prima di vederlo pubblicato?
“A inizio 1970 io e Ermanno diamo il romanzo a Giorgio Barberi Squarotti, che insegnava Letteratura italiana. Ci dice: “È bello, lo mando a Einaudi”. Lì c’è Guido Davico Bonino, che lo boccia: “Troppo pornografico per Einaudi”. Ne parliamo a Barberi, la sua espressione dice tutto, lui manda il libro a Rizzoli. Due mesi di silenzio, Barberi dice che è positivo, che ci stanno lavorando su. Ci convocano a Milano, incontriamo uno che ci dice: “Ci è piaciuto, ci interessa ma così non è pubblicabile. Bisogna fare un lavoro di editing”. Ci siamo alzati dandogli del fascista, del cretino. Due coglioni”.

Domenico Mungo: «I miei racconti su Torino madre ingrata»

Domenico Mungo: «I miei racconti su Torino madre ingrata»

Come ha scritto sul Fatto Quotidiano Lorenzo Mazzoni, Il suono di Torino «è una bellissima e originale raccolta che narra il capoluogo piemontese attraverso un’operazione totale. Lo stile a puzzle di John Dos Passos e quello ermetico senza fiato di Nanni Balestrini si incontrano davanti a Mirafiori e si mischiano, con il gergo volgo-forbito di Vittorio Giacopini». Una scelta stilistica forte e per certi versi controcorrente, così come molti contenuti del libro scritto da Domenico Mungo, che in questa intervista ci svela i segreti del suo lavoro.

Il suono di Torino è indubbiamente un libro eterogeneo. Come lo definiresti?
«Oggi è quasi impossibile scrivere un romanzo classico, a mio parere, poi c’è che lo fa egregiamente, con intrecci e caratterizzazioni psicologiche congrue e coerenti. La contemporaneità è imprevedibile, così come la ricostruzione sistematica di un passato più o meno distante, come quella che sottende la narrazione di una storia altra di Torino. Ho così raccolto eventi importanti, simbolici, fondamentali, ma anche personali, ironici, tragici. Veri, verosimili o fantastici che hanno influenzato, sfiorato, intersecato la mia biografia e ho cercato di costruirne un romanzo contemporaneo, o meglio un anti-romanzo. Un esercizio stilistico ma anche di contenuti sperimentali. Con una trama sottesa che riaffiora carsicamente legando luoghi, vicende, personaggi. Confondendo i livelli della storia, certificata attraverso una rigorosa ricerca di fonti e testimonianze- essendo fondamentalmente io uno storico, un docente di letteratura e storia ed un ricercatore – e la fiction, cut-up sonori e visivi, brandelli di documentari e sceneggiature mutanti, epitaffi e visioni mistiche. Imbevute in un maleodorante tentativo di noir urbano postpunk. Questo in virtù del fatto che anche la mia esistenza è stata molto frammentaria, un romanzo a racconti ne è lo specchio più fedele. Io sono un artigiano della scrittura. Parto da una massa informe di informazioni, documenti, appunti, bozze, scritti che ho lasciato scivolare nel retrobottega della memoria o pubblicato altrove sotto forma di articoli, recensioni, appunti, epigrammi ed epitaffi e poi lavoro di cesello. Scavo. Sostituisco. Taglio migliaia di parole, paragrafi, capoversi, fino a raggiungere ad una forma più essenziale, agile e, mi auguro, organica per il lettore. Per me lo diventa, eccome! Torino rappresenta il paradigma della città globale, non intesa dal punto di vista delle dimensioni e dell’esorbitante numero di abitanti, bensì per l’eterogeneità talvolta schizofrenica del suo tessuto etno-sociale e culturale. Una città storicamente multilivello e contraddittoria. Città imperiale e plebea, monarchica e rivoluzionaria, operaia e capitalista, avanguardia delle emancipazioni e roccaforte del conservatorismo, allevata dalla cultura istituzionale, editoriale, einaudiana, rigenerata ed innervata dalle contro-sottoculture di fine millennio, nobilitata dalle lotte operaie e studentesche e genuflessa alle logiche del neobusiness globale dalla riqualificazione ambientale, culturale e politica posteriore alla crisi dell’industrialismo novecentesco. Laboratorio di rivolta e repressione. Capitale dei buoni sentimenti di De Amicis e Fogazzaro, dell’ipocrisia piemontarda del Bicerin e Fiorio, ma anche dell’esoterismo nero, del razzismo scientifico di Lombroso, del taylorismo esasperato, della follia visionaria edesotica di Salgari, del pessimismo suicida di Pavese, della rabbia dei quartieri e dei vernissage internazionali del libro, dell’auto, dell’arte e della repressione. Del monopolio delle risorse pubbliche per cultura ed entertainment appanaggio dei soliti noti, degli spazi sociali autogestiti strappati all’asfalto, al degrado e all’ottusità del demanio al prezzo di arresti, denunce, torture, assassini di Stato e fiere occupazioni ancora r-esistenti. Era pertanto difficile rendere omogenea una matassa geneticamente incoerente. Era difficile raccontare una sola Torino. Era necessario osare una formula ibrida, urticante, uggiosa, palesemente devota alla letteratura classica e oscenamente debitrice delle avanguardie letterarie internazionali. Bisognava osare, infarcire le parole di suoni ed i suoni di parole. Un mosaico presente e chiaro nella mia mente, ma arduo da dipanare organicamente all’uso del lettore prosaico e diffidente. Il suono può essere pertanto considerato un romanzo sperimentale, multilivello, fraudolento in quanto spaccia per raccolta di racconti quello che la mia inerzia indolente non ha voluto trasformare in un romanzo composito e coerente».

I racconti nella letteratura italiana hanno spesso faticato a trovare spazio tra i lettori: perché hai scelto questa forma?
«Ritengo che nell’epoca della sovraesposizione iper-cinetica della comunicazione, laddove i tempi di reazione all’istantaneità sono ridotti a pochi frammenti di tempo e la soglia di attenzione, soprattutto dei più giovani, è ridotta a brandelli infinitesimali, il racconto – che può essere letto per intero senza interruzioni, compreso e analizzato anche in un tempo limitato – rappresenta un’opportunità usufruibile facilmente e positivamente. Brevità ed intensità caratterizzano il racconto, congeniale pertanto ai nostri tempi convulsi e frammentati. Nel Novecento, peraltro, tutti i grandi autori della letteratura italiana e straniera si sono confrontati con la misura del racconto attraverso storie di fatti concreti e coinvolgenti soprattutto alla portata dei lettori più giovani. Leggere, i racconti in particolare, significa incontrare dei personaggi, farsi imbrigliare ed affascinare subito da una storia, da un intreccio e da un epilogo abbastanza rapido ma anche dal modo di raccontare di chi scrive e narra. Attraverso il racconto, talvolta, è più agevole comprendere i contenuti di una storia, ma anche i pregi estetici, le caratteristiche stilistiche, la delicata poesia e/o la sottile ironia che li pervadono». Tutti i maggiori autori del Novecento sono riusciti efficacemente attraverso il racconto, talvolta anche più che con il romanzo lungo, a lambire ed approfondire – sembra una contraddizione in termini data l’essenzialità del racconto –  efficacemente il nostro paese e ci danno il senso della ricchezza lessicale e delle vivacità creativa e spesso sperimentale della nostra lingua. Pertanto la mia risposta a questa domanda ribalta i termini: sono io che chiedo a voi “non è il racconto ad essere entrato in crisi, ma piuttosto non è forse vero che l’industria editoriale non è più disposta a riempire cataloghi, scaffali, distribuzione e visibilità con raccolta di racconti, antologie o racconti singoli?”. Bisogna vendere prodotti, che giustifichino costi di copertina adeguati, e non che abbiano l’esigenza primaria di raccontare e basta. Ecco, ritengo che non sia il racconto ad aver perso la sua forza narrativa, speculativa e divulgativa, bensì il correre forsennato dei tempi che assembla e omologa tutto al maggior consumo possibile per il maggior numero di pagine possibile».

Il libro è anche un duro atto di accusa nei confronti di Torino…
«Torino è una madre ingrata. Torino da secoli fagocita tutto ciò che raggiunge le sponde del Po. Partorisce, accoglie, nutre, alleva, fortifica, deprime, reprime, sbrana e sputa via. Un Conte Ugolino sopraffatto dalla storia, un Abramo che non viene fermato da Dio un attimo prima che il sacrificio abbia luogo. L’aspetto gotico, soffusamente noir e seriale, che sottende la sciarada di racconti vuole perorare la tesi che il vero responsabile di questa ecatombe è la stessa Torino transgender: un uomo-donna nero, con un cappellaccio ed un coltello a serramanico nascosto sotto il mantello. Si aggira tra Villarbasse dove compie un efferato eccidio rurale e Porta Susa a traino delle squadracce fasciste di Brandimarte inviate da Mussolini nel 1922 ad impartire una dura lezione a quella porca Torino avanguardia del Biennio Rosso, facendo capolino tra i Murazzi e Piazza Vittorio. E i suoi sotterranei. Si accanisce sulla Val Susa sotto forma di treno ad alta velocità e mortalità. Incendia il Cinema Statuto e fugge tra i mortaretti di un carnevale tragico e spolverato di neve fangosa. Deporta milioni di meridionali nella fabbrica sottratta ai nazisti dagli scioperi di guerra del ’44 con l’illusione del boom economico per incatenarli alla catena di montaggio di corso Agnelli e lasciarli senza lavoro, quindi condannarli alla morte sociale, dopo le occupazioni del 1980 ed il tradimento dei 40mila crumiri. Dal suo sottosuolo emergono artisti, musicisti, assassini, scrittori, ribelli, infami, venduti, eroi, tossici, tatuatori mistici, ultras, anarchici, pezzenti, santi e filosofi, puttane e spacciatori. E tutti muoiono a Torino oppure sopravvivono morituri, oppure incidono con il loro sangue la lapide del muro di suono digrignante che viene prodotta negli altoforni della sua civiltà industriale sepolta da un piano regolatore di riqualificazione urbana eppure disumana. Gli esempi sono decine disseminati in quasi tutti i 31 racconti, ma in realtà a me serviva un capro espiatorio, un assassino seriale, un’antropizzazione di un concetto allegorico, politico e storico per delineare organicamente il corpus tradizionale di un romanzo che, tradizionale, non lo è per niente. Pertanto la metafora che domina l’incedere del volume è caratterizzata dalla duplice icona della Torino omicida seriale che perpetra un’ecatombe lunga un secolo. Imprendibile e responsabile di lutti e sciagure come il Solito Sconosciuto che conclude, tragicamente, l’epopea rurale di Fontamara. È comunque questo un lavoro ancora nella sua fase iniziale ed incompiuta, poiché prevedo Il Suono come la prima parte di una trilogia torinese, il cui sequel è già in cantiere con il titolo del L’Altro Suono di Torino, una raccolta dei racconti in negativo di quelli comparsi nel primo volume, in grado di incastrarsi nelle zone d’ombra volutamente lasciate sospese e finalmente completare la cornice spazio-temporale e di causa effetto dei racconti».

Quanto c’è di autobiografico e quanta parte ha la fiction nella tua opera?
«La maggior parte dei racconti sono veri o verosimili. Lo spazio per la fiction è relegato al connettore delle diverse storie, costruito attraverso il grezzo canovaccio dell’eccidio di Villarbasse: una sorta di onirico gotico, allegorico neorealista. I criteri di scelta sono quasi sempre legati all’emozione, al sentimento, al caso e ad una buona dose di culo».

A rappresentare un filo conduttore tra le pagine è anche la musica punk…
«I racconti sono intersecati dalla liriche blasfeme ed insolentemente anarchiche dei Nerorgasmo, seminale punk rock band torinese che a cavallo dell’inizio degli anni 80 significò molto per la controcultura torinese e nazionale, ma anche di numerosi altri gruppi torinesi e non solo, ma anche di Lucio Dalla, Fred Buscaglione e gli eroi del rock e del punk internazionale. Il Suono di Torino è anche il ronzare impenitente delle sue chitarre digrignanti rabbia&disperazione, poesia e melodia in battere e levare, colate di velluto e bitume e cipressi distorti da un Marshall in eruzione incastonato in un giardinetto emostatico di Mirafiori e della Barriera di Milano.

In un’intervista hai dichiarato che “più le imprese sono disperate e più mi affascinano”: qual è oggi un’impresa disperata?
Credo che gli scrittori debbano osare, oggi più di ieri. Credo in un ruolo ancora destabilizzante, curioso, provocatorio, puro ed ingenuo dello scrittore rivolto alla società contemporanea, ed alla narrazione dei suoi mutamenti genetici e cronologici. Vedo attorno a me decine di scrittori bravi, ma sostanzialmente innocui. Ottemperati alla catena di produzione industriale della scrittura: al posto giusto nel momento giusto, senza incidere sulle coscienze, ma accompagnandone lo scorrere nell’alveo della normalità. Al cadenzar della periodicità stabilita dai contratti estorti e dal copyright e non dall’intuizione e dal talento. Osare, bisogna osare, come ha fatto la casa editrice Miraggi nel voler testardamente pubblicare Il suono di Torino, altrimenti la letteratura rimane ancella del consumismo e non si emanciperà mai come sua Cassandra. Io sono un disperato perché ti voglio amare…

Una storia finita e un libro per dimenticare: “Il disastro di una persona” di Daniele Sica

Una storia finita e un libro per dimenticare: “Il disastro di una persona” di Daniele Sica

 

Daniele Sica, “Il disastro di una persona” è un libro di poesie: come mai la scelta di questo genere?
“In realtà io non sono un poeta e non amo nemmeno le poesie, infatti ne leggo pochissime. Però,
per quello che dovevo raccontare, ho pensato che fosse il metodo migliore: ho utilizzato una sorta
di “ottica pasoliniana”, cercando il mezzo più adatto, e l’ho trovato nella poesia. Ne ho raccolte
una sessantina, leggendole una dopo l’altra si incastrano tra loro e formano la storia. Ci sono
poesie più lunghe, anche da due o tre pagine, e più corte, pure da un paio di versi soltanto, e sono
la raccolta di dieci anni di lavoro”.

Quale episodio della vita ti ha spinto a scrivere questo libro?
“Tutto nasce da quando venni lasciato dalla mia ex, Sara, alla quale ho dedicato quest’opera. Ho
vissuto periodi terribili, di vera e propria depressione: stavo chiuso in casa con le serrande
abbassate, osservavo dalla finestra la vita che passava e non facevo niente per viverla. Così ho
deciso di raccontare i giorni successivi a questo episodio che mi ha segnato, ho descritto com’è
stato il dopo e come ho reagito. Ci ho pensato molto prima di pubblicare, ma poi ho deciso di
andare avanti: è stato un bel banco di prova per me, ho capito finalmente di aver superato quel
trauma”.

Il titolo è ambiguo: ce lo spieghi?
“Me lo dicono in tanti, in effetti è così: perché non è la persona a essere un disastro, ma l’esatto
contrario. E’ la tragedia, il trauma, o appunto il disastro che una persona ha dovuto vivere il vero
protagonista. E questo titolo è anche la mia poesia manifesto. L’idea mi è venuta una sera del 2010,
quando rientravo a casa con un gruppo di amici dopo una serata di eccessi. Passando di fronte al
Castello Sforzesco, vidi una scritta su uno dei monumenti di Milano e dissi a chi era in macchina
con me: “Guarda cos’è stato costretto a fare qualcuno”. E lui, sballato dall’alcol, mi rispose: “Sarà
una persona disperata che ha trovato nella scritta su un muro l’unico modo per raccontare il suo
disastro”. Lui era ubriaco, io completamente sobrio, eppure è stato proprio lui ad aprirmi un
mondo”.

Hai ancora rapporti con Sara?
“Ci siamo sentiti alla pubblicazione del libro, volevo regalarglielo, ma ha voluto comprarselo. Lei è di Pisa, ero molto legato anche alla sua città, però quando ci siamo lasciati mi sono sentito come Foscolo e la sua Zacinto: mai avrei potuto rivederla. Ora sto organizzando una presentazione del libro proprio all’ombra della Torre: mi auguro che anche Sara possa essere presente”.

 

 

Andrew Faber: “La poesia rende eterno un attimo di felicità”

Andrew Faber: “La poesia rende eterno un attimo di felicità”

Andrew Faber, eccoci arrivati, grazie a  “Fermo al semaforo in attesa di trovare un titolo, vidi passare la donna più bella della storia dell’umanità”,  alla… terza fatica con Miraggi. Ma davvero è una fatica, oggi, scrivere?

“A volte lo è di meno, quasi sempre lo è di più. I tempi dei social sono frenetici, convulsi. Molto difficili da soddisfare.  Ed è da lì che molti di noi (parlo dei poeti performativi) sono nati. Il pubblico nel corso degli anni si è abituato ad avere aggiornamenti praticamente costanti. Ogni mattina insieme al caffè vuole leggere una nuova poesia. E questo si traduce in una continua produzione da parte dell’artista. Bisogna trovare i giusti riferimenti. Personalmente non smetto mai di leggere, ascoltare musica. Vedere film. Guardarmi attorno. Contaminarmi – per così dire – di qualsivoglia forma d’arte”.

Partiamo dal semaforo. Esiste? Dove si trova?
“Il semaforo esiste eccome! Sorge a poche centinaia di metri da casa mia. Ed è grazie a lui che questi tre libri hanno avuto un titolo che oltre a me, è piaciuto tanto anche al mio pubblico. Ci vado spesso, quando ho bisogno di un consiglio. Di un po’ di ispirazione. Mi metto lì. Tiro giù il finestrino. Me ne accendo una. E dopo avviene la magia. E’ un semaforo magico. Spero solo che un giorno non mi chieda i diritti!”

E la donna più bella dell’umanità come dovrebbe essere?
“Felice. Questo sicuramente. Quando una donna è felice, splende di luce propria. Esattamente come le stelle a cui chiediamo di esaudire i nostri desideri. La bellezza a cui mi riferisco è tutta lì. Nel suo sorriso. Nei suoi pensieri. Nel suo coraggio. Ci vuol coraggio ad essere felici. La poesia serve a questo. A rendere eterno anche un solo attimo di felicità”.

Tre citazioni, in apertura: Sirianni, Dalla, Vasco Rossi. Perché?
“Sono stati loro nel corso di quest’ultimo anno a ispirare tante delle poesie contenute all’interno del libro. Sono tre cantautori incredibili. Visionari. Sognatori. Sono tre poeti. Federico Sirianni è anche un amico. Ho imparato tanto da lui. Sono felice di averlo conosciuto. Il suo ultimo lavoro in studio che si intitola “Il santo” ritengo sia uno degli album più belli in assoluto, per quanto concerne la musica italiana da diversi anni a questa parte. Con le canzoni di Lucio Dalla e Vasco Rossi ho passato la mia infanzia. E ancora oggi mi domando come possano aver scritto certe meraviglie. La sera dei miracoli, Le rondini, Sally, Una canzone per te. Solo per citarne alcune. Sono veri miracoli portati in musica”.

Mi dai la definizione attuale di poeta?
“Mi perdonerai la franchezza. Ma essere un poeta oggi vuol dire avere due palle così. Vuol dire procedere contromano al mondo, correndo il rischio di ammazzarsi ad ogni angolo di vita”.

Perché il tuo è un pubblico soprattutto femminile?
“Credo che il motivo principale resti sempre la ricerca dell’amore. Non che gli uomini non ne abbiano bisogno, non dico questo. Ma una donna ne reclama con più forza l’esistenza. Ha più bisogno di credere che esista. Per questo motivo cerca conferme, molto spesso ricambiate, all’interno della poesia”.

Cristiana Tognazzi: “La poesia è aiutare gli altri”

Cristiana Tognazzi: “La poesia è aiutare gli altri”

Cristiana Tognazzi è in libreria con “Costellazioni“, la nuova raccolta destinata a emulare il grande successo di “Blu”. A noi racconta il suo amore per la poesia.

Cristiana, come sei arrivata a scrivere poesie e alla decisione di pubblicarle?
“Se devo essere sincera non lo so nemmeno io. Sono partita da una forma diversa, utilizzavo il mio blog per raccontare ciò che si prova in determinati momenti della vita. Con il passare del tempo qualcosa è cambiato e ammetto che i social network, in particolare Instagram, hanno condizionato il mio stile: a volte riuscivo a racchiudere il tutto in poche righe anziché in pagine. E questo aspetto mi ha affascinato: riuscire a esprimere un concetto con poche parole è fantastico. Ho iniziato a pubblicare i miei scritti molto presto, ma solo da qualche anno ho deciso di dedicarmici seriamente. Prima lo facevo esclusivamente per me, adesso lo faccio per me e per tutte le persone che mi seguono: condividere qualcosa ti rende meno solo, ti fa capire che al mondo ci sono tantissime persone che provano le tue stesse emozioni e che non sono in grado di esprimerle. Sapere di essere d’aiuto a qualcuno è essenziale. La scrittura, la poesia, il racconto, le parole in generale hanno uno scopo ben preciso”.

A leggerli sono componimenti dal forte tratto autobiografico. È così o ha ragione Pessoa quando scrive che il poeta è un fingitore?
“Sicuramente ci sono casi e casi, ma io sono del parere che quando le cose si vivono sulla propria pelle è diverso. Penso che ci sia molto più amore, molto più sentimento quando qualcosa è reale. Io purtroppo, o per fortuna, scrivo solo cose che sento, cose che mi appartengono, cose che a volte possono anche avere un pizzico di fantasia, ma il reale c’è e deve esserci. Probabilmente non riuscirei a scrivere qualcosa di completamente inventato o di finto, non è una caratteristica che mi appartiene”.

Cosa pensi dello stato attuale della poesia in Italia?
“Credo che sia sottovalutata. Per esempio, la poesia contemporanea dovrebbe essere introdotta nelle scuole: i ragazzi, anche e soprattutto grazie ai social network, iniziano a conoscerla, ma l’esperienza scolastica potrebbe essere molto utile. A chi la non considera vera e propria poesia vorrei dire che la poesia può avere tante forme diverse, tante sfumature e che per coglierle basta avvicinarsi senza pregiudizi”.

Credi che i reading possano servire a promuovere i versi?
“Penso che in realtà siano una cosa meravigliosa! A me tremano le gambe quando so di dover sostenere un orale all’università quindi probabilmente non riuscirei a leggere qualcosa davanti a tantissime persone, ma ammiro molto chi è in grado di fare questo tipo di intrattenimento. Sono convinta che sia un ottimo mezzo di promozione, bisogna comunque saperlo fare perché non tutti sono portati”.

Sei molto attiva sui social, dove le tue pagine sono seguitissime: quanto è importante saperli utilizzare con efficacia?
“Al giorno d’oggi è fondamentale. Io li utilizzo da anni e questa cosa mi ha permesso di essere aperta ai cambiamenti. Mi piacerebbe molto continuare in questo ambito, vorrei specializzarmi in Social Media Marketing, anche se con il passare del tempo mi rendo sempre più conto di quanto sia difficile riuscire a seguire tutti i cambiamenti che ci sono. Tanti pensano che sia una cosa semplice, ma dietro a ogni singola foto, ogni singolo post, ogni singolo dettaglio c’è uno studio, una strategia, c’è costanza. Insomma, per quanto bello e affascinante, si tratta di lavoro vero e proprio”.

Sei attratta anche da altre forme di narrazione?
“Ammetto che mi dispiace lasciare la poesia, ma devo dire che non vedo l’ora di dedicarmi a qualcos’altro. Mi piacciono i cambiamenti, mi piace essere messa alla prova e sicuramente il 2019 per me sarà un anno nuovo sotto molti punti di vista. Mi laureo e già questo è un bel traguardo, e poi uscirà il mio primo romanzo con Rizzoli. Quindi non vedo l’ora di iniziare questo nuovo cammino. Incrocio le dita e spero il 2019 possa portarmi tante soddisfazioni e tanta felicità”.

“Autismi” protagonista con Giacomo Sartori a Fahrenheit

Difendersi dal pensiero dominante con l’ironia: Sartori ci racconta “Autismi”

Giacomo Sartori si divide tra Parigi e l’Italia, Trento nello specifico. Di mestiere fa l’agronomo e, soprattutto, scrive. È membro di Nazione Indiana, blog letterario collettivo, il luogo in cui è nato “Autismi”: “Sono sedici racconti che erano usciti su Nazione Indiana con questo titolo. Allora erano stati molto seguiti e molto commentati, ma erano altri tempi per i blog. Li ho rivisti, li ho corretti, ne ho cambiato l’ordine ed è nato un libro da non confondere con quello del 2011: erano pochissime copie. Questo è realmente un’altra cosa”.

Perché “Autismi”?
“Per un gioco tra la mia autobiografia e la componente autistica che c’è in ognuno di noi: le difficoltà a relazionarsi con le persone e un linguaggio ripetuto, fino a divenire ossessivo. Parlo di intimità, soprattutto: i rapporti con le donne, con il lavoro, con chi incontri durante un viaggio”.

Una difficoltà a interfacciarsi che è diventata il segno dei nostri tempi.
“Oggi l’autismo ha raggiunto livelli patologici con i social: non sappiamo più parlare, sorridere, relazionarci. Non sappiamo più fare niente che esca dallo schermo. Ci mettiamo una maschera perfino nei corteggiamenti quando la vita reale, invece, è un’altra cosa. Ognuno di noi ha una componente autistica e fa di tutto per nasconderla. Ci sono zone in cui siamo completamente soli e a me piace esplorare queste zone d’ombra utilizzando lo humor”.

Un esempio?
“In “Le mie passeggiate” racconto di uno che fa sempre lo stesso percorso, alla stessa ora, con gli stessi pensieri e che, alla fine, è contentissimo quando la realtà introduce invece piccole variazioni. Ci sono tanti livelli nascosti e tutto è molto ironico. Noi ci appoggiamo sempre al “già conosciuto” ma, in fondo, abbiamo il bisogno di essere stupiti, abbiamo dentro di noi il desiderio di una novità”.

Viviamo tempi duri da questo punto di vista.
“Quello che manca oggi è l’ironia, tutti si prendono tremendamente sul serio. Il contesto italiano è sempre stato molto conformista, ma è allucinante quanto capita oggi. Ogni pensiero trasgressivo o controcorrente è bandito. Peggio: non viene capito”.

 

 

Perché tutto dovrebbe essere migliore: l’intervista con Alessandra Perna

Perché tutto dovrebbe essere migliore: l’intervista con Alessandra Perna

Tutto dovrebbe essere migliore” è il titolo con cui Alessandra Perna debutta con Miraggi Edizioni nella collana Golem. Trentatré racconti che farebbero pensare alla musica: Alessandra scriveva i testi, suonava il basso e cantava con i Luminal, “un gruppo art-punk, se fossimo stati negli Usa”, osserva lei. Trentatré come un 33 giri, per chi ormai ha una certa età. Ma è niente di tutto questo: “È assolutamente casuale, avrebbero dovuto essere 30 poi sono diventati 33. Ma è invece vero come io sia personalmente appassionata di numeri, mi piace ragionarci sopra. Mi è capitato l’altro giorno col numero 2, io sono nata il 2 febbraio. Metti insieme il caso, la fortuna, alla fine vedi che certe cose corrispondono, che si arriva a una vaga idea della realtà”.

Perché ha scelto i racconti?
“Perché è sempre stata la forma che ho utilizzato. Mi piacciono la sintesi, la brevità: scrivevo e scrivo canzoni. Il racconto mi fa esprimere bene quanto voglio dire. Pensavo a una storia, la immaginavo dall’inizio alla fine. E tutto si compie. Questa con Miraggi è la mia seconda raccolta, la prima è uscita con un altro editore e si chiamava “Non farti fregare di nuovo”. Ho impiegato anni per completarla perché volevo imparare a scrivere, e a scrivere bene. Per questo ho letto tutto il possibile. “Tutto dovrebbe essere migliore” è invece nato e scritto nel giro di un anno perché avevo deciso di chiudere con i racconti. Sto provando con il romanzo e penso di essere sulla buona strada”.

E perché questo titolo?
“C’è un filo conduttore, con un doppio motivo. Il primo: ho passato l’ultimo anno e mezzo alle prese con una brutta malattia psichiatrica. Io di solito sono molto forte, ho sempre fatto quello che volevo. Questa malattia mi ha spezzato le gambe, per la prima volta nella mia vita ho avuto paura. Passavo il tempo a domandarmi: “Che cosa sono diventata?” E sempre mi ripetevo: “Tutto dovrebbe essere migliore”, per tornare a rimettermi in carreggiata. Il secondo motivo è invece legato all’interazione con le persone, soprattutto con gli sconosciuti: quelli che incontri sui mezzi pubblici, che incroci in un locale o per strada. Ti capita di parlargli, ti dicono delle cose, anche senza un perché. Ecco per curarmi, oltre ai farmaci, mi sono fatta ispirare da queste persone”.

Nei racconti ritornano spesso la quotidianità e la fragilità.
“Sono l’una legata all’altra. In questo paese è difficile essere “diversi”. Anche dire semplicemente che suoni oppure scrivi. Manca una sensibilità nei confronti di quelli che vengono concepiti come comportamenti non comuni, manca a cominciare dai tuoi coetanei. Non rientri nelle caratteristiche che vengono codificate dalla società, negli stereotipi. Per quello che facevo ero considerata la pecora nera della famiglia: “Sì, scrivi, ma poi trovati in lavoro serio…”. Mi sentivo attaccata anche in maniera violenta. Era come trovarsi in film di Monicelli: dietro l’apparenza, dietro la patina piccolo borghese c’era altro. Mi sono difesa con l’arte”.

E il libro ne è stata una conseguenza.
“Rispondo con una frase che mi piace molto: “Ci sono persone che vincono, ci sono persone che perdono e ci sono persone che resistono, dei combattenti”. Io mi sento una combattente. Dopo quello che ho passato pensavo di non essere più capace a fare niente. Pubblicare un libro ti dà invece fiducia, capisci di saper ancora combinare qualcosa. Un anno fa ero chiusa in casa con pensieri catastrofici, oggi è tutto diverso. In positivo. Non che vada tutto va bene, ma ci stiamo lavorando…”.

Quale racconto sente più vicino?
“Quello ispirato a una persona che amo molto e che sintetizza il mio ultimo anno. Parla di una coppia che vive in un appartamento, lui esce tutte le notti e lei non sa perché, fino a quando l’uomo non le dice: “La prosa non è un urlo ma disciplina”. E spiega che tutte le notti si siede su una panchina, fissando una finestra a caso. Quando uno accende la luce, lui si sente pronto a scrivere: “Impari cosa sia la pazienza”, le dice. Ed esce. La donna accende la luce, va sul balcone e vede che lui è lì fuori, che la sta osservando”.

Ed è quello che le è capitato?
“Scrivere è un’azione solitaria ma quando qualcuno ti dà fiducia le cose migliorano. È il senso di una citazione di Stephen King. Mi sentivo sola, questa persona ha sempre creduto in me anche quando stavo male: è diventata la mia fonte di ispirazione personale”.