Il richiamo del dirupo – intervista di Raffaella Anna Indaco a Mìcol Mei su Ostello letteratura

Il richiamo del dirupo – intervista di Raffaella Anna Indaco a Mìcol Mei su Ostello letteratura

Il richiamo del dirupo è un romanzo di Mìcol Mei, scrittrice, editor e traduttrice, uscito per Miraggi edizioni lo scorso anno. Tra le tante qualità di Mìcol mi preme sottolineare la sua capacità di tenere incollato il lettore alle pagine del suo breve romanzo ma intenso e ricco di colpi di scena. Mìcol “ospita” il lettore e quattro protagonisti nel Pallido Rifugio, una casa vittoriana costruita sopra di una scogliera a picco sull’oceano e fa rimettere insieme i pezzi e gli indizi che lascia nelle varie stanze. In questa casa si ritrovano una ex tennista, un giovane scultore di successo, una madre che ha perso le tracce della figlia e un giovane affetto da una rara malattia che gli rende la pelle blu. Tutti hanno risposto a un annuncio trovato sul giornale, accettando l’invito del proprietario della casa, Felice Hernandez, a trascorrervi un periodo in cambio della redazione di un diario del loro soggiorno. Tutti hanno i loro motivi per fuggire, per isolarsi, ma ben presto ci si rende conto che in quella casa persino il tempo sembra scorrere in modo diverso. Se all’inizio il romanzo si tinge di tinte gotiche e può farci pensare di essere davanti a un thriller veniamo subito smentiti dalla profondità e dalla delicatezza con le quali l’autrice porta avanti la narrazione. Tanti piccoli frammenti tenuti insieme da uno schema solido che regge la storia dei personaggi e del Pallido Rifugio.

La lettura del Richiamo del dirupo ha suscitato in me così tanta curiosità che ho chiesto a Mìcol di rispondere a qualche mia domanda.

Cominciamo dal principio: da dove nasce l’idea del romanzo?

L’idea del romanzo nasce da una necessità imprescindibile. Sentivo di dover raccontare la storia di altri e in parte la mia, avevo bisogno di ‘partorire’ questo bambino per poterlo far vivere libero nel mondo e separarmene, sebbene resterà sempre una parte di me. Un giorno mentre facevo le mie solite ricerche bizzarre negli archivi più reconditi del web, ho scoperto la storia della Cliffhouse di San Francisco e ho pensato che la mia storia non potesse essere ambientata che in un luogo del genere per ciò che rappresenta. I due elementi, la narrazione e il luogo, si sono dunque fusi in un unicum.

Il richiamo del dirupo, titolo evocativo. Come mai questa scelta? Ha avuto sin da subito questo titolo?

Sì, se c’è una cosa che mi riesce più facilmente del resto è trovare un titolo ai miei progetti; anzi, senza un titolo non riesco proprio ad iniziare a lavorarci su. Raramente poi viene cambiato. Il titolo è stato elaborato da un’idea di partenza di veicolare il concetto de L’appel du vide, ovvero il richiamo di lanciarsi nel vuoto, nello sconosciuto, nel nascosto. Il che non costituisce per forza un pensiero autodistruttivo ma un istinto insito nella natura umana, Il richiamo del vuoto e la nostra attrazione per ciò che è profondo e ignoto, come la nostra psiche negli strati più radicati. La posizione del Pallido Rifugio è sia letteralmente che metaforicamente questo Appel du vide.

Suggestiva anche l’immagine in copertina, potresti spiegarla alle nostre lettrici e ai nostri lettori? Inoltre hai realizzato una playlist da ascoltare durante la lettura. Che importanza ha la musica in questo senso?

La musica per me ha un’importanza assoluta. Non è possibile che io scriva senza ascoltare musica. Concordo con Friedrich Nietzsche quando scrisse che la vita senza musica sarebbe un errore. Per quanto mi riguarda ogni personaggio ha una sua colonna sonora naturale. Scrivo certamente in maniera cinematografica. La copertina è stata realizzata dopo l’aver tartassato di immagini della Cliffhouse il grafico. Avevo un’idea cristallina di come dovesse risultare. È stata una scelta stilistica quella di rendere la vecchia fotografia in RGB, per darle una specie di senso di disconnessione temporale.

Il romanzo mi ha colpita soprattutto per la sua struttura. Come hai lavorato per realizzarla? E le poesie e l’idea di inserirle nella narrazione a cosa si devono?

La struttura del romanzo segue la tecnica narratologica della mise en abyme, ovvero una messa in abisso, un particolare tipo di storia nella storia, in cui la storia raccontata può essere usata per riassumere o racchiudere alcuni aspetti della storia che la incornicia. Questa tecnica l’ho appresa da Andrè Gide. Si tratta di una specie di situazione in cui ci si ritrova tra due specchi e la propria immagine viene riprodotta all’infinito. Le poesie sono state create per ciascun personaggio, per dare prova che chi le ha scritte già li conoscesse, e per fornire al lettore uno strumento in più per leggerli. Sono visioni, interpretazioni, proiezioni del punto di vista di ciascuno, della loro vera natura, del senso del loro abitare il Pallido Rifugio.

Il richiamo del dirupo è dedicato a Chiara Fumai. Questa figura che importanza ha per te e per il romanzo?

Ho avuto la fortuna di conoscere Chiara Fumai grazie alla mia esperienza lavorativa nel mondo dell’arte contemporanea. I momenti che ho condiviso con lei resteranno per sempre scolpiti nella mia memoria. Raramente mi è capitato di incontrare persone così uniche, colme di talento e speciali, che mi parlassero a livello enzimatico, nelle quali mi riconoscessi come fossimo fatti dello stesso sangue. Quando Chiara è scomparsa per me è stato un trauma difficile da superare. Lei è ovunque in questo lavoro. L’arte possiede però la straordinaria capacità di avvicinare le anime simili e grazie al fatto che avessi dedicato il libro alla memoria di Chiara ho incontrato sua madre che è stata mia ospite durante l’ultimo Salone del libro di Torino in cui io presentavo il libro e lei era presente per lo splendido volume sulla carriera di Chiara, Poems I Will Never Release a cura di Nero editions. Chiara mi ha permesso di conoscere una donna strabiliante come sua madre e curatori spettacolari come gli autori del volume. Questo è il potere dell’arte.

Il richiamo del dirupo, per la cura dei dettagli, mi ha portata pagina dopo pagina nel Pallido Rifugio, come se osservassi le azioni dei personaggi. A cosa ti sei ispirata per costruire le stanze e l’ambientazione in generale?

Mi sono ispirata all’idea di creare una scrittura il più possibile immersiva che potesse fare sentire partecipi i lettori in prima persona, come se stessero vivendo loro stessi la vicenda. Il romanzo mi ha richiesto grandissima ricerca per ciascun personaggio, con centinaia di articoli di giornali passati in rassegna, capitoli di testi specialistici, giornate passate in biblioteca per essere il più possibile precisa e mettere a punto la mia visione complessiva. Specialmente nella descrizione del Pallido Rifugio che è una casa vittoriana, ho seguito fino al più trascurabile dei dettagli, i dettami di come fossero costruite, sistemate architettonicamente, arredate e dipinte le case dell’epoca. Mi sono persino disegnata una pianta fittizia della villa, in modo tale da controllare la sua disposizione e come l’avrebbero abitata i personaggi.

Un romanzo complesso e ricco, ma allo stesso tempo breve. Come mai questa scelta? Nella fase di editing ci sono stati dei tagli e delle riduzioni?

Proprio per la sua complessità e ricchezza di contenuti è stata una mia scelta quella di mantenere il romanzo breve. Una narrazione estremamente verbosa e descrittiva non si addiceva allo scopo del lavoro. Ci sono generi letterari che necessitano molto spazio per raccontare bene una storia ma non credo che questo facesse al caso del Richiamo del Dirupo. Come si suol dire ho optato per portare a termine un’opera breve ma intensa, condensata, invece che trascinare la trama riempiendola di dettagli e spiegazioni che in questo caso specifico sono volutamente omesse.

Quanto di Mìcol Mei c’è nei personaggi del Pallido Rifugio?

Tutto e niente. Ho raccontato di me e di esperienze vissute da altri, ho ideato di finzione e ho riportato fatti realmente accaduti fin tanto che le due dimensioni fossero fuse assieme. La bellezza della letteratura sta decisamente nella libertà di avere l’ultima parola sui propri errori.

Quali obiettivi ti eri prefissata prima della pubblicazione del Richiamo del dirupo? Sono stati raggiunti?

L’unico obiettivo che mi ero prefissata era quello di pubblicare qualcosa di cui potessi andare fiera. Non avevo aspettative di risultati da raggiungere, non mi sono posta il problema di come gli altri avrebbero percepito il mio lavoro. Sono stata inondata da affetto e stima, ho avuto testimonianza di quante persone a me sconosciute si fossero sentite vicine e comprese da ciò che avevo messo in scena. Non ero e non sono né sarò mai abituata a ricevere tali ondate di calore perciò ogni volta mi commuovo e alzo un calice di champagne in onore di quella fragile ragazzina sola convinta che le sue parole non valessero molto.

Come definiresti il tuo romanzo?

Definirei il mio romanzo un esperimento, di profonda, dolorosa e viscerale introspezione, una forma di psicoanalisi d’urto, un faticoso ma appagante lavoro di ricerca.

Nel Richiamo del dirupo tratti tematiche importanti e delicate, è un romanzo che al suo interno racchiude più livelli narrativi sapientemente costruiti che tengono lettrici e lettori con il fiato sospeso fino alla fine. Hai mai temuto di essere fraintesa? Che non ricevesse la giusta accoglienza da parte del pubblico?

Temere di essere fraintesi credo che sia il cuore spinoso del mestiere dell’artista. Ci si domanda incessantemente se ciò che stiamo creando abbia senso e aggiunga anche solo una virgola a tutto ciò che è già stato fatto in precedenza. Si può essere orgogliosi dei propri progetti ma mai davvero soddisfatti del tutto. Si cambierebbe sempre qualcosa all’infinito. Ho temuto di essere fraintesa come individuo da quando sono nata perché ho la consapevolezza di essere complessa. La mia produzione riproduce il mio caos e il mio ordine perciò non può essere altrimenti. So di aver scritto un libro che necessita rilettura e che può non arrivare immediatamente al lettore. Sono altrimenti conscia che moltissime persone, bookblogger, critici letterari, lettori accaniti o saltuari, l’hanno capito e sentito loro. Questa è una consolazione assoluta per l’anima e davvero non si può chiedere di meglio.

Ci sono progetti futuri?

Ho terminato la stesura di un secondo romanzo, questa volta di genere murder mystery che solletica il mio lato vintage e il mio amore per il giallo e sto lavorando a un progetto più vicino alle corde del Richiamo del Dirupo. C’è tanto entusiasmo e tanta ricerca in corso, perciò attenzione!

QUI l’articolo originale:

https://www.ostelloletteratura.it/post/il-richiamo-del-dirupo-intervista-a-micol-mei

Nell’armadio – intervista di Martina Mecco a Tereza Semotamová su andergraund

Nell’armadio – intervista di Martina Mecco a Tereza Semotamová su andergraund

Un armadio tutto per sé. Intervista a Tereza Semotamová, autrice de “Nell’armadio”

La casa editrice Miraggi Edizioni si riconferma il progetto editoriale più importante in Italia per la ricezione e la diffusione della letteratura ceca. Con Nell’armadio (Ve skříni) di Tereza Semotamová la collana Nová Vlna, interamente dedicata per l’appunto alla letteratura ceca, arriva a ben quindici titoli pubblicati negli ultimi tre anni. In particolare, si aggiunge un tassello alla scoperta della scena letteraria contemporanea di un paese particolarmente florido sotto questo aspetto. Il romanzo Nell’armadio, pubblicato in Repubblica Ceca nel 2014 e tradotto in italiano da Alessandro De Vito, è un’ulteriore conferma di questo aspetto, già evidenziato da altre grandi voci tradotte nella collana come quelle delle autrici Bianca Bellová, Tereza Boučková o Jakuba Katalpa.

Tra le tante necessità della letteratura contemporanea, una delle più complesse si prefigura nel tentativo di problematizzare la dimensione psicologica dell’individuo all’interno di un duplice rapporto, ovvero quello con la propria individualità e quello con la dimensione sociale esterna. Due entità che, in aggiunta, entrano spesso in conflitto tra di loro. Nel romanzo, narrato rigorosamente in prima persona, la protagonista si trova a dover scontrarsi con questa problematicità. In un mondo dove la drammaturgia della vita segue una follia diabolica (p. 21) e dove la propria individualità viene continuamente recisa, l’unico modo per sopravvivere sembra essere quello di trovare uno spazio, un luogo tutto per sé – usando un’espressione woolfiana particolarmente nota. O, volendo impiegare un riferimento presente anche nell’opera, si potrebbe citare la canzone di Karel Gott “Kdepak, ty ptáčku, hnízdo máš?” (Uccellino, dove ce l’hai il nido?).

Il romanzo presenta una trama tutt’altro che arzigogolata, dove gli avvenimenti che fanno da cornice ai pensieri e alle riflessioni della protagonista si distribuiscono in modo chiaro e lineare. Tuttavia, sono proprio quest’ultimi a conferire dinamismo all’opera. Volendo dunque attingere a questa “cornice”, occorre evidenziare quello che è l’avvenimento chiave del romanzo, ovvero quello da cui l’azione si evolve. Difatti, proprio nelle prime pagine viene focalizzata l’attenzione su un fatto tutt’altro che bizzarro, la necessità della sorella della protagonista di liberarsi di un vecchio armadio. Nel riflettere sui vari tentativi riguardo a come sbarazzarsi del vecchio armadio, improvvisamente questo diventa la chiave che potrebbe risolvere una difficile condizione esistenziale. L’armadio assume così un valore metaforico all’interno dell’opera in rappresentanza di uno “spazio altro”. Si osservi come viene descritto all’interno del romanzo:

Uno spazio. Il mondo è tutto diviso a piccoli lotti. Ogni cosa appartiene a una persona diversa. Ognuno ha i suoi quattro metri quadrati, ma alcuni non fanno che vagare tra le proprietà altrui. Quanti spazi al mondo sono lasciati lì non sfruttati, senza che nessuno li usi? Molti, di sicuro. Come faccio a trovarne uno piccolino così per me? Un posticino nascosto, al riparo dal vento, dove poter stendere le gambe, farmi un tè e riposare in silenzio, come l’arrosto della domenica nella teglia. Quindi, per ora almeno c’è quell’armadio. E col tempo ci sarà anche la teglia. Ecco. Mi rianimo. All’improvviso comincia a scorrermi in corpo una calda energia vitale.” (p. 10)

A partire dalla decisione di vivere nell’armadio si dipana la vicenda narrata nel romanzo, che diventa luogo di un percorso esistenziale. Il piano dell’esistenza è, infatti, quello dominante. Per districarsi nella sua complessità l’autrice costruisce la sua prosa sulla base di una fitta rete dei riferimenti eterogenei. A questo proposito, una delle caratteristiche più interessanti della struttura del romanzo risiede nella sua intertestualità. La prosa dell’autrice procede inserendo citazioni tratte da diverse fonti, non solo letterarie ma anche, ad esempio, cinematografiche e musicali. Si trovano citati autori come il Kundera de L’insostenibile leggerezza dell’essere o il Dostoevskij de I demoni, ma anche lo slovacco Juraj Jakubisko, regista del celebre film Sedím na konári a je mi dobre (Sono seduto sul ramo e mi sento bene). Aderendo a una di quelle caratteristiche che vengono comunemente attribuite alla letteratura cosiddetta “postmoderna” – sebbene il concetto di postmodernismo sia particolarmente vago, specialmente se applicato a contesti come quello ceco – Semotamová inserisce la sua opera in un dialogo con la tradizione culturale, in primis letteraria, non solo ceca ma mondiale.

Concludendo questa breve presentazione, in modo tale da lasciar maggiore spazio alle parole dell’autrice che si è dimostrata disponibile nel rilasciare un’intervista, è necessario riconoscere come Nell’armadio si presenti in termini di un’opera profondamente attuale. Nel romanzo l’autrice presenta al lettore una condizione esistenziale quanto mai applicabile a diverse situazioni che affliggono gli individui all’interno dell’attuale conformazione sociale. A prendere parola è una voce narrante che esprime i suoi bisogni di trovare il proprio spazio, un “posticino nascosto” in cui poter costruire un equilibrio senza che questo venga minato dell’esterno. In questo senso l’armadio diventa il luogo in cui costruire una dimensione esistenziale in cui il mondo assume un ritmo diverso. Ne Nell’armadio si realizza una disamina della quotidianità quanto mai contemporanea.


Riportiamo qui di seguito l’intervista con l’autrice Tereza Semotamová che ringraziamo per la disponibilità nel rispondere ad alcune domande.

MM: Innanzitutto le vorrei chiedere come ha deciso di iniziare a scrivere romanzi. Se non sbaglio, ha studiato sceneggiatura e drammaturgia…

TS: Ho sempre scritto prosa. Sin da bambina finivo di scrivere dei libri che leggevo se, per esempio, non mi piaceva il finale. In Repubblica Ceca di fatto non si può studiare come scrivere in prosa, ho pensato che mi sarebbe potuto piacere studiare sceneggiatura e drammaturgia. Si è scoperto che molti cineasti in Repubblica Ceca sono anche registi e sento di non avere questo talento. Ho scritto diversi drammi radiofonici ma non sono mai stata soddisfatta di ciò che realizzavo. Questo è stato un grande incentivo per scrivere un romanzo. Ma, a dirla tutta, ho sempre voluto scrivere un romanzo. Almeno da quando, per la prima volta, ho letto Piccole donne di Louise M. Alcott.

MM: Nel suo romanzo c’è una forte intertestualità che il traduttore Alessandro De Vito ha saputo ben trattare con l’impiego di note esplicative che sono necessarie, in quanto alcuni riferimenti non sono comprensibili al lettore comune. Come spiegherebbe questo aspetto e, soprattutto, che ruolo gioca questa intertestualità nella stesura di un romanzo?

TS: Forse queste spiegazioni non turberanno il lettore italiano. Mi piacciono davvero molto. Per me l’intertestualità è una caratteristica naturale della letteratura. Molta di questa intertestualità non è riconoscibile… Non mi vergogno delle mie fonti. Ma va detto che l’originale non comprende spiegazioni o fonti, quindi potrebbe non essere così evidente quante ne ho “copiate”. Mi viene in mente che la letteratura è un grande acquario in cui è possibile immergersi, molto è già stato scritto e detto, quindi perché non usarlo. Sono una persona che sta continuando a scrivere qualcosa. Penso che il bello della letteratura risieda nel fatto che si possono seguire i pensieri di altri e coglierli a modo proprio.

MM: Da questo punto di vista, ci sono riferimenti letterari che preferisce? Mi spiego: ha qualche modello concreto?

TS: No. In questo sono molto democratica. Cito volentieri sia Platone che la stampa scandalistica. Nel mio caso si tratta di una visione bizzarra su qualcosa, di uno stile basso o strano.

MM: Le faccio una domanda che faccio sempre a tutti gli autori con cui parlo. Cosa ne pensa della scena letteraria ceca contemporanea? Glielo chiedo in quanto ritengo sia parecchio ricca ed eterogenea.

TS: Credo che ogni scena letteraria venga percepita da lontano come ricca ed eterogenea. E penso che nel caso di quella ceca sia proprio così. Negli ultimi anni, soprattutto, ci sono molte giovani autrici che non scrivono in modo mainstream. E, al tempo stesso, anche la scena poetica è parecchio dinamica. Penso che qui ognuno possa trovare il proprio posto. Tuttavia, mi mancano voci maschili che scrivano in modo intelligente di temi come il femminismo o la paternità. Leggerei volentieri qualcosa del genere.

MM: Durante la lettura mi è sembrato chiaro, mi dica se mi sbaglio, che lei abbia voluto descrivere la società contemporanea, anche il suo lato più oscuro. Pensa che possa essere una buona descrizione? La protagonista del suo romanzo si confronta con molte domande oggi importanti…

TS: Esatto. Al tempo stesso il libro si può leggere come un racconto intimo, non tutti possono vederci un aspetto sociale. Non volevo proprio descrivere la società contemporanea, non è proprio possibile, ma piuttosto raccontare la storia di una persona che nella società non si sente bene e che si sente tutt’altro che normale, ovvero di vivere da qualche parte a andare al lavoro da qualche parte, scappare dentro un armadio. Penso che a volte ognuno di noi senta questa voglia di nascondersi da qualche parte.

MM: Nel libro gioca un ruolo importante l’armadio come simbolo, che rappresenta la dimensione psicologica della protagonista… Potrebbe spiegarlo brevemente? Da dove proviene l’idea?

TS: L’idea, in realtà, è nata in modo banale. Mia sorella mi aveva chiesto se conoscevo qualcuno che avesse bisogno di un armadio. Ero in visita da lei e vivevo in Germania. La domanda nella mia testa era come sarebbe stato prenderle l’armadio, portarlo giù nel suo cortile e viverci. In un certo senso in quel momento avevo bisogno di scappare dalla situazione che stavo vivendo e mi era sembrata una buona soluzione. Alla fine l’ho fatto in un modo un po’ diverso. E, per il resto, questa dimensione psicologica è particolarmente esistenziale. La mia protagonista trova la forza di scappare da ciò che è estraneo, ma non trova la forza di continuare ad agire e così si nasconde nell’armadio. Solo che poi l’estate finisce e si chiude dentro. E con questo? Volevo scrivere di quest’agonia, di quando qualcuno sta davvero male, di quando non si è più in grado di dire agli altri quanto le ose vadano male e quindi si nasconde fingendo anche davanti a sé stessi che vada tutto bene. Ma non è così.

MM: Un’ultima domanda: ha intenzione di scrivere  altri romanzi?

TS: Sì, certo. Ma forse non succederà. Non lo so proprio. Ho un bambino molto piccolo e posso scrivere davvero poco, il che mi dispiace perché penso che la maternità sia un tema molto ampio e mi piacerebbe parlarne, ma semplicemente non trovo abbastanza tempo ed energie. Chi ha letto Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf penso mi possa capire appieno.

Apparato iconografico:

Immagine di copertina: novinky.cz

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RUR – Andrea Voglino intervista Katerina Cupová

RUR – Andrea Voglino intervista Katerina Cupová

«Il momento in cui le macchine (…) invadono, non senza traumi, l’uomo e la natura: all’orrido paesaggistico si aggiungono e si intrecciano gli orridi industriali e metropolitane e fabbriche con la tempesta gotica; l’acciaio degli ingranaggi con le braccia dell’operaio; (…) la proletarizzazione del lavoro con la serialità del gesto; lo sfruttamento con la bestialità; la concentrazione del capitale e del lavoro intellettuale con la privazione della volontà»… Probabilmente piacerà assai al sociologo e saggista Alberto Abruzzese, questo R.U.R.-Rossum’s Universal Robots di Katerina Cupová (Miraggi Edizioni, 280 pp. a colori, € 30). Modernissima trasposizione a fumetti del dramma fantascientifico scritta dal Ceco Karel Capek nel 1920 all’origine della definizione «robot», è una fantasmagoria di segni e colori che a ogni pagina sorprende, intriga e cattura. Raggiunta nella sua Zlín, la fumettista e cartoonist classe 1992 spiega con semplicità la scelta di tradurre a fumetti l’opera fondativa di tanta narrativa e cinema fantascientifico, da Lang a Asimov a Lucas: «R.U.R. è un’opera magnifica come ispirazione per una graphic novel: c’è l’isola esotica, la fabbrica per la produzione di persone artificiali… è densa di temi interessanti da disegnare».

MA SI TRATTA di un’essenzialità di facciata, plasticamente contraddetta da un segno ricco, stratificato e personale. «Il mio obiettivo principale era trasmettere in modo interessante l’opera teatrale, che per tutti i bambini della Repubblica Ceca rappresenta una lettura obbligatoria, di cui però non ricordano altro che la parola “robot”. Ho cercato di far appassionare il lettore all’argomento, in modo che magari poi vadano a cercarsi l’originale o leggano altre opere di Capek», spiega Cupová. Senza però dimenticare le infinite contaminazioni tra R.U.R. e le grandi firme del fumetto anglosassone e nipponico: «Penso che mi abbiano ispirato Amleto sul tetto di Will Eisner, o autori classici di manga come Osamu Tezuka e Ishinomori Shotaro». Al di là dell’effetto cinematografico mutuato dai Maestri e dell’astuzia molto cinematografica di distribuire dialoghi pensati per lo spazio ristretto di un palco in pagine di ampio respiro, nel fumetto di Katerina Cupová a strabiliare è lo straordinario talento infuso nella descrizione dei personaggi e degli ambienti. «Nel dramma originale, non viene specificato quando si svolge l’azione. Teniamo conto però che doveva essere una rappresentazione del futuro, e che negli Anni ’20 immaginavano il futuro in modo diverso da noi: questo è un aspetto che ho cercato di preservare ad esempio nel fatto che i personaggi usino ancora i telefoni col filo o i telegrammi».

UNA DISTOPIA tutta estetica, ambientata nel presente-passato alternativo in cui si disvela il conflitto tra umani e automi. Ma nonostante il secolo di riletture a cavallo tra media e linguaggi, più l’input originario di Capek, che li descrive come «indistinguibili dall’essere umano» i robot di Cupová risultano unici, funzionali e appaganti. «Avevo molte idee, tutte accomunate dalla volontà di rafforzare il messaggio dell’opera teatrale», svela l’autrice. «Alla fine ho scelto la più “semplice”, con robot come “persone artificiali” dall’aspetto uniforme e regolare». Mentre i personaggi umani del fumetto come Domin e Helena hanno personalità distinte, sottolinea l’autrice, «i robot sono tutti perfetti allo stesso modo. Inoltre, il loro sguardo è perennemente vacuo». Alta fedeltà anche nella narrazione, con minime concessioni nella trama e nei dialoghi rispetto alla pièce teatrale rappresentata per la prima volta nel gennaio del 1921 al Teatro Nazionale di Praga.

«IN REALTÀ PENSO di aver soprattutto tolto, altrimenti il fumetto avrebbe avuto molte più pagine. Dal punto di vista visivo, ho allungato il prologo. Nell’originale, l’intera introduzione si svolge nel corso di un’unica conversazione, in mezz’ora. Ho conservato i dialoghi, ma visivamente i personaggi si muovono per tutta la fabbrica, e alle loro spalle vediamo alternarsi le stagioni. Poi, nell’ultimo atto, ho tralasciato la maggior parte del lungo monologo e l’ho sostituito con immagini». E proprio le immagini dei robot più iconici di sempre chiudono il volume nella lunga e godibile postfazione firmata da Alessandro Catalano, professore associato di letteratura ceca presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università di Padova. Contenuti extra dal fascino extraterrestre.

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Autoritratto in vinile – Francesca Angeleri intervista Luca Ragagnin sul Corriere della Sera

Autoritratto in vinile – Francesca Angeleri intervista Luca Ragagnin sul Corriere della Sera

«Nei momenti difficili… sento il bisogno di ritornare lì. In quella camera dove tutto è rimasto classificato con amore, dove i titoli dei brani sulla copertina delle cassette sono battuti diligentemente a macchina, dove i momenti preziosi di quel passato restano custoditi. Il rifugio mentale che mi permette di non tradire mai la mia giovinezza». La scrive Max Casacci la prefazione al nuovo libro di Luca Ragagnin Autoritratto in Vinile edito Miraggi, con le foto di Alberto Ledda, che lo scrittore presenterà oggi alle 18.30 al Blah Blah in compagnia del leader dei Subsonica e di Flavio Ferri dei Delta V che si esibirà in alcuni brani tratti dal suo nuovo album Testimone di passaggio , i cui testi sono stati scritti in toto da Ragagnin.

In quella cameretta azzurra che ricorda Casacci lei ci è tornato.
«È stata la mia cameretta di bambino e oggi sono tornato a frequentarla come uomo adulto. Era diventata la stanza dei gatti di mia mamma Giuseppina, che era professoressa di lettere e che è stata la persona che mi ha trasmesso la passione per i libri, mi insegnò a leggere che ero molto piccolo. Cinque anni fa, quando è mancata, ho sfidato qualunque legge della psicanalisi e sono tornato in questa casa e l’ho ripristinata esattamente com’era 30 anni prima. Per prima cosa ho fatto ridare quell’azzurro che i miei amici ricordano alle pareti della mia stanza. È esplosa: ci ho messo dentro 30 anni di musica e di libri. Di dischi ne avrò sui diecimila titoli, i libri stanno intorno ai seimila. Tanti li comprai al villaggetto di bancarelle sotto il tetto di lamiera in corso Siccardi che purtroppo non c’è più».

È la casa di Luca grande o di Luca piccolo?
«Di Luca grande. Anche se non è facile ritornare nel luogo dove sei cresciuto. Negli ultimi anni ho scritto un grande romanzo, nel senso di dimensioni poderose, in cui c’è il tema dell’infanzia e della memoria, non è un memoir ma una storia composita che dovevo scrivere per andare altrove. Volevo chiudere i conti con quel ragazzino. Inizia negli anni 70 e finisce l’11 settembre. Uscirà il prossimo anno». 

Cos’è invece «Autoritratto in vinile»?
«Un libro occasionale. Sono piccole scritture nate in un periodo in cui, ogni giorno per sei mesi, pubblicavo su Facebook un disco e un libro affiancati da alcuni miei aneddoti personali, ben lontani dal voler essere una critica musicale o letteraria. Ne pubblicai 150. Non sono mai più stato e né mai sarò tanto attivo sui social. Per il libro ne abbiamo scelti 50».

Quali?
«Con i ragazzi di Miraggi, che da qualche tempo è la mia casa editrice, siamo stati severi per eliminarne 100. Abbiamo scelto quelli dove entravo più come autore e meno legati al quotidiano. Non faccio il professorino della musica, ma c’è una sorta di proselitismo musicale un po’ nascosto: c’è molta musica anni 70».

C’è qualche brano del suo autoritratto che ama di più?
«Il primo, che è su Ummagumma dei Pink Floyd, un disco che entrò nella mia vita di quattordicenne nel 1979. La prima volta lo ascoltai in cuffia, e non c’erano i volumi e continuavo ad alzare. C’era un tappeto sonoro bassissimo che poi erompeva con un urlo agghiacciante di Roger Waters. Io, che avevo il volume al massimo, feci un salto terrorizzato e versai il caffè ovunque».

Da dove si parte per scrivere il testo di una canzone?
«È una questione di sartoria, bisogna mettersi al servizio completo dell’artista e della sua storia. Tutte le mie collaborazioni con vari musicisti sono nate in maniera spontanea. Nei prossimi mesi potrebbe cominciare un mio corso dedicato al song writing per i ragazzi che fanno trap. Per loro la parola è molto importante».

QUI l’articolo originale:

https://torino.corriere.it/cultura/20_ottobre_08/luca-ragagnin-suo-autoritratto-vinile-4af9881a-093c-11eb-86e2-3854c59f54db.shtml

Gaia Ginevra Giorgi – intervista di Filippo Rosso su Singola

Gaia Ginevra Giorgi – intervista di Filippo Rosso su Singola

Mi sono accostato alla poesia di Gaia Ginevra Giorgi, i primi tempi, facendo un po’ di fatica a empatizzare, a tenere insieme i ragionamenti, semmai ce ne fosse il bisogno.
Questo perché la sua opera ha dei margini sfuggenti, a volte ombrosi, mentre altre volte ti sbatte in faccia una parola risonante e carnale, organica, mai orrenda, che stringe i versi come la bocca dello stomaco, e si ricomincia.
Si tratta di una poesia performativa ancora prima delle inclinazioni dell’autrice verso la parola detta e registrata, è ritmo ancora prima del sonoro: e questa parola – “spezzato” – ricorre molte volte, ed è altrettante volte segno distintivo e iniziativo dell’opera. Le aree nevralgiche del discorso si fondano su un’indagine del tempo, sulla memoria, sulle innumerevoli capacità sensibili dei corpi. L’incedere si fa tutt’uno con il divenire.

Come altrove abbiamo dialogato con il poeta nel tentativo di comporre un quadro sulla nuovissima produzione di questa arte in Italia, in cui Gaia Ginevra Giorgi – nonostante il dato anagrafico – sembra occupare un posto sempre più centrale e rivelatorio.

Filippo Rosso – La parola “spezzato” associata al respiro, alla schiena; i versi quasi del tutto priva di punteggiatura che sembrano schegge. E Sylvia Plath, di cui hai analizzato l’esistenza e l’opera, che si toglie la vita a 30 anni… Perché ricorre questa rottura, questa dimensione dell’infranto? 

Gaia Ginevra Giorgi – Spezzare, qui come a dire: fare a pezzi, dividere in parti, sezionare, per vivisezionare. Fare a pezzi per me non ha a che fare con un principio di distruzione, di annullamento, piuttosto con una pratica di frammentazione, che è sempre possibilità generativa di ricomponimento in complessità, secondo un metodo di assemblaggio che si basa sulla ricontestualizzazione, la dislocazione e il decentramento delle parti. Porre l’attenzione sulle parti, sulle pluralità, occuparsi dei margini, delle estremità e delle superfici, diventa metodologia decolonizzante di ricerca linguistica.

Questo sminuzzare analitico – quasi chirurgico – necessita di un corpo. Quali caratteristiche deve possedere questo corpo? È necessaria una certa resistenza strutturale perché possa spezzarsi? È possibile, ad esempio, frantumare qualcosa di fluido, di liquido, o addirittura di sottile, postumo e spettrale? Di cosa parliamo quando parliamo di corpo? Probabilmente di materia pensante, in sé vitale, intelligente e capace di autorganizzazione, umana e non umana, animale e non animale.

La mia poetica si esprime lungo una sorta di asse orizzontale tracciato tra le specie, nell’interdipendenza simpoietica (per dirla con Haraway) tra i corpi, in cui anche gli oggetti sono vivi, pensanti e attivanti. Allora la “dimensione dell’infranto”, dello “spezzato”, ricorre nella misura in cui produce la possibilità di decostruire, per poter leggere le trasformazioni, le mescolanze, le possibili alleanze, includerle nel discorso, riorganizzare le forme del pensiero in una continua negoziazione con il centro, con la norma, con l’istituzione in senso lato.


FR –
 Ci sono delle intersezioni tra il tuo lavoro performativo e la poesia, dei punti di incontro o delle zone mutualmente esclusive?

GGG – Quando il testo poetico si svincola dalla pagina, attraverso un progetto di riaffermazione dell’oralità riarticolata in ottica intermediale, la poesia si trasforma in materia sottile, volatile, spettrale proprio perché performativa. Della performance della parola m’interessa l’apparizione – la postura dell’attraversamento – tutta rivolta verso la costruzione di una nostalgia, dove la nostalgia è meccanismo progettuale e non desiderio malinconico di qualcosa che non è più. Il ricordo che irrompe all’improvviso è già progetto, ciò che viene ricordato torna in circolo sotto forma di spettro.

In effetti, questa è una delle specificità che accomuna la poesia alla performance: il suo manifestarsi come apparizione di una lontananza. Per questo difendo la dimensione performativa della mia ricerca sul testo poetico, e mi mostro reticente rispetto all’ipotesi di registrare un disco. Non rifiuto il dispositivo della registrazione in sé, anzi. Pratico field-recording da anni e mi occupo di paesaggio del suono e di contesto sonoro, conosco il microfono e so che non è un dispositivo “innocente”, registro la mia voce e lavoro su livelli mobili di elaborazione del suono (la ricerca sulla spazializzazione, per esempio – con il sound designer Riccardo Santalucia, con cui collaboro, lavoriamo usando MaxMSP, che è un sorprendente generatore di possibilità a partire dalla sola voce – , l’utilizzo della loop-station, che consente interventi drammaturgici live, quali progressioni, intensità, cut-up ecc.). Ho del materiale registrato in archivio ma si tratta di registrazioni in presa diretta di performance che sono state eseguite live.

Mi disturba, invece, l’idea di organizzare il suono in fase di editing, di intervenire in post-produzione. C’è qualcosa del definitivo, del concluso, del confezionato, che non mi risuona. Difendo l’accadimento. Le parole, a dirle, si avverano e si rinnovano. Ogni volta. Lo studio sulla voce, poi, coinvolge sempre tutto il corpo, la comunicazione orale comporta inevitabilmente la modificazione di uno stato complessivo che impegna il corpo intero. Quindi la voce rende la poesia concreta, abitabile, almeno per il tempo di un attraversamento, di un’apparizione. D’altronde sono questi i tempi della poesia: l’istante, e, allo stesso modo, l’eternità. Con le ricerche elettroniche – scrive Henri Chopin, pioniere assoluto della poesia sonora – la voce è diventata finalmente concreta. In questa prospettiva, la voce è da considerarsi, insieme alla gestualità, come una funzione del testo – per dirla con le parole di un altro grande maestro che è Giovanni Fontana – una sua estensione modale. La dimensione sonora del testo, infatti, collabora in maniera efficace con alcuni punti per me essenziali per poter dire “poesia”: invenzione linguistica, rinnovamento delle strutture del testo (fino alla radicale sovversione del concetto di testualità), processi neo-tecnologici, coscienza intermediale, valori della voce e del corpo.


FR  Le tue poesie, come è stato correttamente più volte notato, si soffermano spesso su parti “attivanti”, qualcuno ha detto “erogene”, del corpo. La sensualità è sicuramente un modo di trasferire carnalità alla parola e -correggimi se sono fuori strada-, in questo rientra il tema della transustanziazione (o detransustanziazione) dei corpi e della poesia. C’è dell’altro che giustifica la presenza di questa dimensione?

GGG  La mia è una poesia dell’esperienza. La ricerca linguistica è tutta tesa verso uno sforzo di traduzione, di tradimento dell’esperienza. Dare i nomi alle cose per avverarle. La relazione con i corpi è qualcosa che mi permette la messa a fuoco. Non inizio mai a comporre a partire da un concetto, ma sempre da un’esperienza immersiva. C’è una sezione del libro in uscita che s’intitola “profezie del corpo. archivio di fatti umani e non umani”, ed è una specie di glossario anatomico sentimentale, in cui tutte le parti del corpo (e non solo quelle erogene, anche se mi chiedo se esista qualcosa di strutturalmente non erogeno) vengono rinominate attraverso un esercizio di memoria e, al tempo stesso, di prefigurazione.


FR – 
Allora mettiamo al centro questo, la memoria. Il passato – la tua poesia sembra dirlo nella performance – può trasformarsi in un’incursione nel futuro?

GGG – La memoria è un tema cruciale, ricorrente, uno dei fuochi che lega “Manovre segrete” a “L’animale nella fossa”. Il lavoro inedito (che è già stato performato live, in perfetta risonanza con il principio di spettralità), si costruisce attraverso il meccanismo della memoria, come fenomeno contrario alla museificazione. La memoria vive di scarti, di paesaggi modificabili, di attraversamenti fantasmatici, è un fatto di smaterializzazione, di quello che era materia e ora non è più, è sostanza plasmabile, trasmettibile, altamente infettante. Forse da questo punto della memoria sarà possibile inventare il futuro, pensare e innescare i nuovi processi. In questo senso forse, come dici, avviene l’incursione del primitivo nel futuro, del memorabile nel prefigurabile.

La memoria crea i vuoti e così facendo apre spiragli, produce uno spazio vivo, autorizza il gioco, rende abitabile. La museificazione, al contrario, fissa e porta a ragione, per questo è una pratica sterile e non vivificante.

Ricordare è una pratica performativa, disegna percorsi, derive, evoca luoghi che sono sempre abitati da spettri, da segnature, da stratificazioni di racconti. La memoria è una finzione, una pratica significante che agisce nelle maglie del reale molto più di qualsiasi altra operazione intellettuale. Inventa il presente. Lo esercita.

Oltre a una sezione intitolata “sullo smembramento e sulla dissoluzione (di tutte le cose)” che, per l’appunto, incarna quello “spezzare” di cui parlavamo prima, la perdita, gli strappi, e le rinnovate configurazioni, con l’ultima sezione, intitolata “la materia ha superato la postura della carne”, si inaugura la riflessione sul residuale, ponendo una domanda: come si chiama quello che resta? La sottrazione diventa metodologia per lasciare alle cose lo spazio necessario per accadere. Dare un nome al residuo, alla cosa più piccola, per conferirle dignità. In effetti, è il residuo il paesaggio che meglio può accogliere nuove specie.

Il libro conterrà anche una sorta di diario, un cut-up di appunti e corrispondenze (materiale raccolto durante il confinamento), in cui emerge la dimensione del corpo postorganico, della materia sottile, del ricordo e del sogno.

FR – Cosa resterà dell’umano in questa dimensione? Sarà ridefinito, ridimensionato, avrà altre caratteristiche? E cosa resterà di te? 

GGG – Evidentemente è già in atto un processo trasformativo dell’umano, è necessario attivare pratiche di defamiliarizzazione, attraverso le quali i soggetti si liberino dalla visione normativa dominante del sé, per comprendere il divenire relazionale in modo molteplice e multidirezionale. In questo senso la teoria femminista e post-coloniale ha messo in campo il concetto di disidentificazione, ma sempre nei termini dei criteri di un approccio antropomorfo, se non consideriamo il pensiero di Braidotti e Haraway. Immagino l’introduzione della dimensione planetaria, cosmica, corpi relazionali, interdipendenti, senza organi, una comunità non più legata dal nesso negativo della vulnerabilità, ma dal riconoscimento empatico della propria interdipendenza con i molteplici altri. Nelle pratiche artistiche e nelle scienze umane è necessario allontanarsi dalla logora postura antropocentrica e spostarsi verso la trasversalità, l’interdisciplinarietà, queerizzare i saperi per una teoria della complessità.

Quanto a me, sarò uno dei fatti del mondo, e continuerò a dare i nomi alle cose, a inventare parole, a generare possibilità.


FR –
 A cosa stai lavorando attualmente? Quali direzioni sta prendendo il tuo lavoro?

GGG – Questo è un tempo molto vivo per i miei studi e la mia ricerca: i processi immaginativi sono attivati e i centri sono fioriti. Si staglia di continuo il territorio della prefigurazione. Ho trascorso l’ultimo anno costruendo architetture effimere dove poter installare il mio osservatorio sconvolgente e tenere gli occhi aperti sul contemporaneo. È da maggio che ciclicamente abito la dimensione del bosco, la foresta, non solo come ciò che sta fuori dallo spazio domestico, ma anche come ciò che sta fuori dalla legge comune, il luogo in cui le regole della civitas non sono più sufficienti. È necessario attraversare la realtà diagonalmente, come fa il teatro, la performance, la poesia, per trovare altre forme di abitabilità e progettualità che si distanzino da una verità singolare e definitiva. Tenere lo sguardo fisso sul buio significa tenere lo sguardo fisso sul presente, scrive Giorgio Agamben in Che cos’è il contemporaneo, di cui riporto un passaggio.

[…] il poeta – il contemporaneo – deve tener fisso lo sguardo nel suo tempo. Ma che cosa vede chi vede il suo tempo, il sorriso demente del suo secolo? Vorrei a questo punto proporvi una seconda definizione della contemporaneità: contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, chi è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente. Ma che significa “vedere una tenebra”, “percepire il buio”? […] il buio non è la semplice assenza di luce, qualcosa come una non-visione, ma il risultato dell’attività delle off-cells, un prodotto della nostra retina. Ciò significa, se torniamo ora alla nostra tesi sul buio della contemporaneità, che percepire questo buio non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un’attività e un’abilità particolare, che, nel nostro caso, equivalgono a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale, che non è, però, separabile da quelle luci. […]

Il suo buio speciale mi si rivela nel decentramento delle affettività, dei desideri. Abitando il bosco, come spazio marginale, notturno, misterico, ci si accorge che i primi elementi a scomparire sono la certezza delle distanze e delle misure. Le alterazioni delle comuni coordinate spaziali coinvolgono tutti i sensi, anche lo spazio acustico e olfattivo muta, attivando i corpi, allertandoli. Finalmente ci si accorge della presenza di altri esseri viventi non umani. Questa distanza mi consente di poter prendere una posizione nello spazio. In questa lucidità, sto precisando e mettendo a punto il mio prossimo libro, che uscirà in primavera e raccoglierà il lavoro degli ultimi quattro anni. È un materiale complesso e spaventoso, che ho tenuto da parte a lungo, che ho lasciato maturare. Mette in campo questioni legate all’improduttività, all’orizzontalità come scardinamento delle gerarchie, alle derive come privilegio degli assenti, dei senza-luogo, si articola in una sorta di materialismo vitalistico, di panteismo ctonio tutto teso alla mescolanza, costellato da innesti e spettri, esercizi di memoria e profezia.

Nel frattempo, sto scrivendo una tesi sui processi intermediali della poesia, precisamente nel campo delle sperimentazioni sonore, e proseguendo il lavoro con il collettivo performativo e curatoriale veneziano EXTRAGARBO, di cui sono co-fondatrice. Si è da poco conclusa la residenza a Santarcangelo di Call Monica, gruppo di ricerca performativa di cui faccio parte, che riflette sullo sguardo come costruzione culturale e vettore di potere, e in particolare sullo sguardo maschile.

In questo momento mi trovo in un ex mulino di pietra, a Latte – che parola elementare – nell’estremo ponente ligure, sul confine con la Francia, dove sto sviluppando un progetto insieme con un’artista visiva (una nekomata) su Terzo (Quarto) Paesaggio, specie pioniere (che durano troppo poco per capitalizzare), affettività, piante infestanti, alieni, fantasmi e liminalità. Pratico regolarmente psicomagia e allestisco altarini.

QUI l’articolo originale:

https://www.singola.net/arti/il-corpo-spezzato-intervista-gaia-ginevra-giorgi

I PELLICANI di Sergio La Chiusa, libro del giorno a Fahrenheit il 15/09/2021

I PELLICANI di Sergio La Chiusa, libro del giorno a Fahrenheit il 15/09/2021

Ascolta la puntata:

Rare volte la lettura di un romanzo dà tanto piacere per la scrittura in sé; e rare volte tanta ricchezza narrativa viene con tanta disinvoltura stipata in un solo romanzo, in un solo appartamento, quasi in una sola stanza.l giovane Pellicani è un chiacchierone. Si presenta una sera – una sera tardi – nella casa del padre, casa dalla quale si era allontanato – dopo aver sottratto certi risparmi da un certo cassetto – vent’anni prima. L’immobile, un condominio di sei, sette piani, è disastrato. Ma la scritta «Pellicani» sul campanello dell’ultimo piano c’è ancora; e la porta è appena accostata. Il giovane Pellicani – un completo grigio un po’ sdrucito, una valigetta ventiquattrore portata solo per darsi un tono – vuole fermarsi una notte e via, andare altrove: ha degli affari in Cina, sostiene. Il padre avrà dimenticato i fatti di vent’anni prima, lo accoglierà volentieri. 

Intervista a Paolo Morelli sul suo ultimo libro, «Più di là che di qua»

Intervista a Paolo Morelli sul suo ultimo libro, «Più di là che di qua»

Paolo, sei uno scrittore “esperto”, con diverse pubblicazioni alle spalle. Scrivere Più di là che di qua è stato diverso che non scrivere gli altri tuoi libri?

Scrivo sempre due cose insieme, forse perché sono dei Gemelli o piuttosto perché in questo modo arrivo sempre impreparato passando da uno all’altro. Il lavoro quindi è durato un paio d’anni, nel frattempo ne continuavo uno che ancora non è finito. Comunque questo libro è l’ultimo di una trilogia, cosiddetta del buon senso (anche se alla fine ce n’è poco), dopo Né in cielo né in terra e Da che mondo è mondo.

Parlando di un libro con così tanti rimandi alla cultura buddhista e tibetana, viene spontaneo chiederti quale sia lo spirito che lo anima…

Per me i libri sono esercizi, cosiddetti spirituali, prove di fraternità con il mondo. Come al solito ciò che volevo fare mi è apparso chiaro durante la stesura. All’inizio volevo solo divertirmi a far saltare qui e là brandelli di personaggi famosi, ma poi ho capito che sarebbe venuta una stupidaggine se non provavo  per loro compassione. Quindi si è trasformato in uno studio sulla concezione orientale della compassione, ben più coinvolgente della nostra, vale a dire la percezione reale che tutto quello che incontro fa parte del corpo della mia vita.

Se fosse un medicinale che medicinale sarebbe? E pensando ai bugiardini che accompagnano appunto i medicinali, quali potrebbero essere gli effetti collaterali?

Anche il peyote è considerato una medicina, difatti lo stregone era chiamato l’uomo-medicina. Ne ho praticato lo studio una cinquantina d’anni fa, e gli effetti collaterali sono la percezione reale (pure qui) di quanto il nostro ego soffochi la nostra personalità.

C’è una domanda che avresti voluto ricevere e che nessuno ti ha fatto?

Perché non te ne fai una ragione?

Pensando anche ai tuoi libri precedenti… se Più di là che di qua fosse un cibo, quale cibo potrebbe essere?

Abbiamo mangiato già un bel po’, ma un altro bicchiere di vino ci sta sempre bene.