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DI SANGUE E DI FERRO – Marco Quarin intervista Luca Quarin su Quasicultura

DI SANGUE E DI FERRO – Marco Quarin intervista Luca Quarin su Quasicultura

Luca Quarin vive a Udine, dove è nato (1965) e dove si occupa di ambiente, design e architettura.Di sangue e di ferro (Miraggi edizioni, 2020) è il suo secondo romanzo. Il primo, Il battito oscuro del mondo, Autori Riuniti, 2017, vincitore del Premio Letteratura dell’Istituto Italia di Cultura di Napoli e del Golden Book Awards) era ambientato negli Usa, il secondo affonda le radici in patria, in Friuli, terra d’origine dell’autore. Scelta ben ponderata, che mescola realtà e finzione, come egli stesso ci spiegherà.

[Marco Quarin] Cominciamo dal titolo del tuo nuovo romanzo: Di sangue e di ferro. Se permetti lo sfrutterei subito per spiegare l’arcano dello scrittore Quarin intervistato da un altro Quarin: di sangue la lontana parentela, di ferro l’amicizia. Soddisfatta la curiosità del lettore, in breve cosa ci racconta la trama di Di sangue e di ferro
[Luca Quarin] Il protagonista del romanzo, Andrea Ferro, è un quasi cinquantenne che vive ancora come un ventenne: ciondola in un limbo indefinito facendo l’assistente in università, canta canzoni country in un locale di periferia, aiuta un amico a mandare avanti una casa editrice, insegue una vecchia adolescente come lui, Silvia, che lo abbandona in continuazione e fugge in altri luoghi del mondo, con altri uomini. Ma un giorno il suo disequilibrio si infrange. L’amico gli sottopone uno “strano romanzo”, che con il passare dei giorni si intrufola nella sua vita. L’agonia della nonna lo costringe a ritornare nella sua città d’origine. Comincia così la discesa di Andrea in un tempo che si è sempre sforzato di dimenticare. Le vicende della destra eversiva negli anni settanta. L’attentato di Peteano, nel 1972, e il depistaggio che per dodici anni ha impedito di conoscerne i colpevoli.

 
Da dove è venuta la storia? Quando e come è nata? 
L’idea di questo romanzo è nata sei o sette anni fa da una serie di discorsi fatti con Bruna Graziani, la fondatrice del festival Cartacarbone, l’unico festival in Italia dedicato alla scrittura autobiografica, e dalla presentazione del libro di Walter Siti Resistere non serve a niente. Mi era rimasto il desiderio di dire la mia su autobiografia e autofinzione, provando che la prima è impossibile e la seconda immorale.

 
La strage di Petano del 1972, l’eversione nera nel Friuli terra di confine. Perché hanno attirato il tuo interesse? 
Perché è il prototipo di come i fatti diventano storia, a prescindere dalla verità. Le domande suscitate dall’esplosione del 31 maggio 1972 nella popolazione friulana e italiana in generale (che cosa è accaduto? che cosa sta accadendo? chi è stato?) hanno trovato nei mesi successivi una risposta che non aveva niente a che vedere con l’attentato – un attentato contro lo Stato compiuto da una cellula di neofascisti che non accettava la svolta neo-governativa di Almirante -: l’arresto di sei ragazzi goriziani e il conseguente processo. La verità è emersa dodici anni dopo, quando Vincenzo Vinciguerra ha confessato al giudice Casson i retroscena della vicenda, senza però riuscire a incidere sulla memoria storica tanto che ancora oggi si parla di Peteano come un momento della strategia della tensione, quando è stato l’esatto contrario.

 
Da un lato c’è la Storia (le date, gli eventi, i fatti ri-costruiti dagli storici) dall’altro le storie dei singoli che pochi, perlopiù romanzieri, raccontano. Cos’è per te la Storia? Borges sosteneva che fosse uno strumento per riprodurre la realtà, sottintendendo, forse, che realtà e verità difficilmente coincidono. 
Mi pare che la Storia sia una necessità umana di dare ordine e soprattutto significato alle macerie che i fatti lasciano sempre alle loro spalle. Dunque la Storia esiste senza dubbio come necessità ed esiste anche come pratica. Si tratta di una pratica laboriosa, molto artigianale, per cucire insieme i fatti all’interno di un sistema semantico che comunemente chiamiamo “struttura narrativa”, l’unico modo che conosciamo per continuare ad attraversare le ombre che formano la realtà. Un filo di Arianna che apparentemente ci impedisce di perderci nel nulla ma che probabilmente ci trattiene all’interno del labirinto da cui cerchiamo di uscire.

 
Come collocheresti questa tua nuova opera rispetto alla precedente (Il battito oscuro del mondo, Autori Riuniti, 2017)? 
Dopo Il battito oscuro del mondo ho sentito il bisogno di sfidarmi su due temi che non ero stato in grado di affrontare, la mia esperienza personale e i luoghi in cui questa si è svolta. Volevo scrivere una storia friulana che avesse a che fare con me. Ne è venuto fuori un romanzo più intimo del precedente, come era ovvio, che guarda il mondo da un altro punto di vista, quello del racconto che ognuno di noi fa a sé stesso del proprio vissuto.

 
Da lettore, ho avuto l’impressione che la tua scrittura oscilli tra il diurno, in cui metti in gioco le tue idee, meglio ideali, e il notturno, in cui fai i conti con i demoni, con “i sosia che abitano nel profondo del nostro cuore”, per citare Magris. Se è così, è una scelta consapevole?
La figura del sosia è molto presente nella mia scrittura, dai tre John Ogden de Il battito oscuro del mondo ai due Quarin di Di sangue e di ferro. Come l’identità si forma nel riverbero degli altri, così la scrittura si forma nel sonnambulismo della realtà, tra la luce del sogno e il buio di quello che accade, in un processo che è sempre incomprensibile benché si verifichi in continuazione.

 
Cos’è per te fare letteratura? “Nuotare sott’acqua trattenendo il fiato” (Francis S. Fitzgerarld) come suggerisce la copertina de Il battito oscuro del mondo? E cosa ne pensi dell’assioma calviniano “la letteratura vale per il suo potere di mistificazione, ha nella mistificazione la sua verità”
La letteratura è l’unico modo che conosco per cucire insieme tutto quello che bolle dentro di me e che nella realtà non riesce a trovare un posto comodo dove stare. Ricardo Piglia sosteneva che l’unica cosa reale che ci accade è la letteratura.

Qui l’articolo originale:

https://www.quasicultura.com/2020/10/lucaquarinintervista.html

Česká kultura je rodinné dědictví (La cultura ceca è un’eredità di famiglia) – Štěpán Kučera sull’inserto culturale Salon del quotidiano «Právo» e su novinky.cz

Česká kultura je rodinné dědictví (La cultura ceca è un’eredità di famiglia) – Štěpán Kučera sull’inserto culturale Salon del quotidiano «Právo» e su novinky.cz

«A volte sembra che i libri siano un bene accessorio, come tutta la cultura, il teatro, il cinema, la musica, i concerti, ma in realtà non ne possiamo fare a meno» dice Alessandro De Vito (1971), italiano con radici ceche e allo stesso tempo traduttore e editore della casa editrice Miraggi, che nella collana NováVlna pubblica una serie di autori cechi, da Karel Čapek a Markéta Pilátová. Abbiamo parlato dell’interesse per la nostra letteratura in Italia e di come il mercato librario di quel paese sia stato colpito dalla crisi del Coronavirus.

Come è nato per lei l’amore per la cultura ceca?

La cultura ceca è un’eredità di famiglia, mia mamma è di Ostrava. I miei genitori si sono conosciuti in Bulgaria, al mare, nell’estate del 1967, e si sono visti 2 o 3 volte nel 1968 in Cecoslovacchia e in Italia. Mio padre era un giornalista, e ha avuto la fortuna di vedere e vivere la Primavera di Praga, e allo stesso tempo la sfortuna di ripartire per l’Italia il 20 agosto 1968, il giorno prima dell’invasione. Si sono sposati nel 1969, e da allora hanno sempre vissuto in Italia, dove sono nato. Ogni anno venivamo ad Ostrava dai nonni per le vacanze, e lì da piccolo ho imparato la lingua, in famiglia e dai ragazzi con cui giocavo, a Sleszká Ostrava.

Lei ha studiato Storia del cinema e ama il cinema ceco. In che modo si è occupato della nostra cinematografia?

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Ho sempre vissuto con il mito del cinema cecoslovacco degli anni Sessanta, di quel gruppo di “brillanti giovani uomini e donne”, come li definì Škvorecky, che ebbero un’importanza molto grande in quegli anni e non solo per il cinema ma per l’intera società. Per questo per me è stato naturale, sfruttando un po’ la conoscenza della lingua, svolgere la tesi di laurea sulla Nová Vlna. E non è un caso che, anni dopo, il primo libro che ho tradotto sia statoVolevo uccidere J.-L. Godarddel regista Jan Němec, che ho avuto la fortuna di conoscere poco prima della morte.

Nella collana ceca che pubblica la nostra casa editrice ci sono altri punti di contatto con quella stagione del cinema ceco: Il bruciacadaveridi Ladislav Fuks, La perlina sul fondo di Bohumil Hrabal, e l’anno prossimo tradurremo proprio la storia personale del cinema ceco di Škvorecky, Tutti quei brillanti uomini e donne, che ho citato prima.

Quale è stata in Italia la risonanza della recente morte del regista Jiří Menzel?

Jiří Menzel, come Jan Němec e Miloš Forman, sono stati ricordati sulla stampa, e proprio grazie alla pubblicazione dei nostri libri siamo riusciti a far proiettare alcuni dei film della Nová Vlna al cinema, a Torino e a Trieste. Per ora tutto è interrotto a causa del Coronavirus, ma abbiamo intenzione di ripetere l’esperienza. 

Nella collana NováVlna pubblicate letteratura ceca, da opere di Bohumil Hrabal e Ladislav Fuks fino ai libri di Bianca Bellová e Pavla Horáková. Come scegliete i libri?

Stiamo seguendo due direzioni, è una nostra idea di letteratura. Da un lato autori (più autrici) contemporanei, da un altro il recupero di grandi classici purtroppo dimenticati o mai tradotti in italiano.

Tutti rispondono ai requisiti di qualità e particolarità che li rendono interessanti anche per il lettore italiano, anche se sono molto differenti uno dall’altro. Si tratta di letteratura, e non narrativa di consumo. Bianca Bellová, ma anche Tereza Boučková, Jan Balabán o Ladislav Fuks sono voci uniche e irripetibili.

E nel caso di Pavla Horáková e del suo romanzo La teoria della stranezza mi è piaciuto molto l’uso che fa di un humour intelligente per descrivere il nostro tempo e disillusione della generazione degli odierni quarantenni. Il suo romanzo si può leggere come una serie su Netflix. Il lettore segue la protagonista nelle sue quotidiane e naturalmente “strane” vicissitudini, e in breve se ne innamora.

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Altri temi a cui tengo molto sono la questione femminile nella nostra epoca e l’importanza della libertà, che ci viene ricordata sia dalle storie su guerra, olocausto e nazismo, sia da quelle che ci riportano alla vita sotto il totalitarismo comunista. Credo che sia sempre fondamentale mantenere viva la memoria.

Qual è l’eco delle traduzioni di letteratura ceca nel suo Paese?

Noi siamo una piccola casa editrice, e anche se il nostro progetto è ambizioso non è facile uscire dall’angolo. Direi che la collana è apprezzata, che sta crescendo, e che abbiamo riscontri positivi. Trovavo assurdo che molti dei nuovi talenti e tanti grandi autori classici cechi non fossero disponibili in italiano se non in modo non sistematico.

Credo che la casa editrice stia facendo un buon lavoro; allo stesso tempo è vero che ora per le nostre vendite non si può parlare di grandi cifre. Cerchiamo di fare il massimo del possibile.

Ha cominciato anche a tradurla, la letteratura ceca. Durante la traduzione dal ceco all’italiano, incontra qualche specifica difficoltà?

Se non ci fossero difficoltà non ne varrebbe la pena. Le difficoltà cambiano a seconda degli autori, alcuni hanno una lingua più facile, altri presentano espressioni quasi intraducibili, che mettono in difficoltà anche il lettore ceco, come accade per Hrabal.

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Un caso particolare è stato il libro di Markéta Pilátová Con Bata nella giungla, in cui i personaggi spesso si esprimono nel dialetto dello Slovácko o della Haná. Ma è stato più divertente che difficoltoso. Mi ha aiutato il fatto che metà della mia famiglia ceca ha origini di quelle parti.

Io mi occupo anche della rilettura delle traduzioni degli altri traduttori, come la nostra bravissima Laura Angeloni. Abbiamo poi la possibilità di avere i consigli del disponibilissimo boemista prof. Alessandro Catalano, e credo che sia un fatto abbastanza unico, e ci dia tranquillità per quanto riguarda la qualità.

Come è stato colpito il mercato librario italiano, compresa la sua casa editrice, dalla pandemia?

Il mercato del libro è stato colpito duramente, calcoliamo di aver perso quest’anno circa metà del fatturato, e l’attuale seconda ondata di contagi probabilmente peggiorerà le cose.

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Miraggi, la mia casa editrice, ha limitato i danni proprio perché molto piccola, non abbiamo molte spese fisse e siamo una struttura leggera e flessibile. Dovremo cercare idee nuove e innovative, per poter continuare il nostro lavoro. Credo però che tutto andrà a finire bene.

A volte sembra che i libri siano un bene accessorio, come tutta la cultura, il teatro, il cinema, la musica, i concerti, ma in realtà non ne possiamo fare a meno. Pubblicheremo meno, e meglio. Vogliamo e dobbiamo restare fiduciosi nel futuro. È nella natura dell’uomo. Certamente pubblicheremo meno, ma forse meglio e con ancora maggiore qualità. Dobbiamo restare fiduciosi nel futuro.

Qui potete curiosare la collana NováVlna

Qui l’articolo originale: https://www.novinky.cz/kultura/clanek/vydavatel-alessandro-de-vito-ceska-kultura-je-rodinne-dedictvi-40339412?fbclid=IwAR3E1cRa1oQjeZYgS8eXBm0AZ9OQKHlaONQGiVheMewUVfr67uyznqoY1iY

Il Miraggio della Scrittura, voce agli scrittori per imparare a scrivere! Fabio Mendolicchio intervista Luca Ragagnin.

Il Miraggio della Scrittura, voce agli scrittori per imparare a scrivere! Fabio Mendolicchio intervista Luca Ragagnin.

Fabio Mendolicchio: Buongiorno Luca, spesso e volentieri gli scrittori esordienti o aspiranti scrittori si iscrivono a corsi di scrittura con l’intento di acquisire e conquistare segreti e malizie di un mestiere che prima di tutto è fatto di talento.
Talento o meno, la ricerca sembra andare quasi sempre nella direzione di qualche scorciatoia e con questo non voglio assolutamente affermare che i corsi non servano, anzi! Spesso s’ignora che il miraggio della scrittura possa trovare realizzazione nel suo opposto, ovvero la lettura…
Sappiamo noi addetti ai lavori quanto sia importante la lettura in generale, tu sei lettore di vari generi, oserei dire abbastanza onnivoro, giusto? 

Luca Ragagnin: Consiglierei di non porsi limiti e di andare a curiosare ovunque, nel presente e nel passato. Leggere i classici, partire da lì, anche i classici moderni vanno benissimo. Lasciarsi trasportare, non recintare l’emozione è fondamentale ma altrettanto importante è l’attenzione che richiedono certe opere e le scuole di scrittura, in questo senso, dovrebbero assolvere la loro primaria funzione, e spesso lo fanno, cioè diventano delle scuole di lettura, educano alla lettura, insegnano ad analizzare un testo, ad aprirlo come una scatola magica o un orologio e a mettere sotto osservazione gli ingranaggi, il registro, lo stile, la psicologia, le categorie, il tempo e i tempi, lo spazio e i luoghi, i dialoghi, eccetera. Non sono un fanatico delle categorie ferree della narratologia ma penso che possa essere utile prenderne conoscenza, se si vuole scrivere. Magari poi allontanarsene o ignorarle del tutto. In generale credo che per trovare una propria voce un autore debba leggere tanto e opere molto diverse, cioè accostare l’inaccostabile, che è un’azione che paga sempre dei buoni dividendi. Per me questa è l’unica strada possibile e se, come a volte capita, qualche giovane autore mi chiede un consiglio, non gliene so indicare un’altra.

LEGGI MOLTO 

«Se vuoi fare lo scrittore, devi fare due cose sopra le altre: leggere molto e scrivere molto. Non conosco stratagemmi per aggirare questa realtà, non conosco scorciatoie.»

Se vuoi migliorare la tua scrittura, leggi molto anche tu. Leggi ogni volta che puoi, esci portando sempre con te un libro e leggi ciò che ti piace. Leggi per il piacere di farlo e vedrai che comunque imparerai da ciò che leggi, più di quanto pensi.

Anzi, paradossalmente si impara più dai libri che non ci piacciono che da quelli belli.

D’altra parte i libri belli insegnano a uno scrittore lo stile, i meccanismi più efficaci per lo sviluppo della trama e la creazione dei personaggi, la sincerità narrativa.

«Sentirsi travolti da una grande storia magistralmente raccontata, esserne schiacciati, rientra nella necessaria formazione di ogni scrittore. Non puoi sperare di travolgere qualcuno con la forza della tua penna se non ci sei passato prima tu.»

SCRIVI CIÒ CHE AMI LEGGERE

Puoi scrivere di qualunque cosa, purché tu scriva la verità.

SCRIVI CIÒ CHE AMI LEGGERE

Allora è meglio partire da ciò che ami leggere, perché probabilmente lo conosci meglio e comunque, amando quel genere, ti piacerà lavorarci così come ti piace leggerlo.

SCRIVI

CIÒ

CHE

AMI

LEGGERE

LIBERATI

DALLA

PAURA

E DALL’

OSTENTAZIONE

Scrivere bene significa prima di tutto liberarsi dalla paura: paura di non essere capiti dal lettore, di non saper trasmettere i propri concetti esattamente come li sentiamo dentro di noi, paura di essere fraintesi o sottovalutati.

Scrivere bene significa però anche liberarsi dall’ostentazione, dalla voglia di dimostrare quanto si è bravi, mettendo lo stile al di sopra della storia.

Ecco, toglitelo dalla testa. Se pensi di accontentare tutti, alla fine non accontenterai nessuno.

Se pensi che uno stile sia migliore di un altro solo perché lo dice qualche critico importante, lascia stare. Tu devi usare il tuo stile, quello che senti giusto per te, per le tue pagine, per le tue parole.

Con questo ovviamente non soddisferai tutti i lettori, ma l’importante è che tu ti sforzi di soddisfare almeno una parte dei tuoi lettori.

NON PUOI SODDISFARE TUTTI I LETTORI 

Quello che ti voglio chiedere ora è: quale libro e/o autore consiglieresti di leggere e rileggere per imparare a scrivere? Chiesto così sembrerebbe un pro’ generico; proviamo a individuare qualche elemento della scrittura che possa interessare diversi scrittori, come per esempio il ritmo e/o il lessico, oppure lo stile, la forma e perché no qualcosa che abbia a che fare con quelle regole che ogni scrittore dovrebbe avere in mente? Il tuo punto di vista noi lo conosciamo bene ma chi ti legge o chi non ti conosce probabilmente no!

Luca Ragagnin: Per lo stile indico “Esercizi di stile” di Raymond Queneau, un’opera-manuale divertentissima e utilissima (splendidamente resa in italiano da Umberto Eco) in cui si narra un insignificante accadimento di vita quotidiana in 100 stili letterari differenti. Fondamentale. 

Per il registro (forma e contenuto, l’abilità di maneggiare le varie lingue della vita, dei personaggi, etc) i Maestri sono tanti. Scelgo Hemingway, tutti (o quasi) i racconti.
Dialoghi? Anche qui scelta enorme (be’, lo stesso Queneau è un maestro indiscusso). E il gusto personale la fa da padrone, Scelgo invece un manuale di scrittura di Stephen King, On Writing. Me ne parlava l’altro giorno Enrico Remmert. Ogni aspirante scrittore dovrebbe leggerlo, al di là di cosa scriverà e di quanto si allontanerà dalla narrativa di King (peraltro inimitabile), perché è semplice, diretto, pratico e esaustivo, dice tutto quello che bisogna sapere. 
E con questo chiudo, un caro saluto all’affollato mondo degli scrittori in erba.

QUASI TUTTI –  recensione di Gianluca Garrapa su Nazione Indiana

QUASI TUTTI – recensione di Gianluca Garrapa su Nazione Indiana

La presente versione di Quasi tutti (Miraggi ed., 2018), da considerare definitiva, emenda qualche ingenuità e refuso della prima edizione, e si presenta in alcuni punti riveduta, a livello macro- e microtestuale.

Gianluca Garrapa: ci racconti la genesi del testo? E dei microscopi e telescopi testuali come fanno direzionati per curarsi del reale e simbolizzarlo sulla pagina?

Marco Giovenale: Il libro cerca di mettere insieme molti materiali nati quasi essenzialmente per spazi web a partire dal 2005, grosso modo. L’intenzione era ed è quella di fissare su carta esperimenti di googlism, cut-up, eavesdropping (=ascolto e trascrizione di frammenti di conversazione altrui). 

Forse più che della composizione del libro può essere interessante parlare del click che scatta – sperabilmente – nella ricezione o manipolazione di materiali che poi entrano nel libro: si tratta sempre di qualcosa di indefinito e allo stesso tempo certissimo. Si ascolta qualcuno che sta organizzando banalmente il proprio discorso intorno a una routine quotidiana, per esempio, e non ci si riesce a staccare dall’esperienza di produzione di senso che contro tutte le aspettative quella banalità emette. Una simile esperienza percettiva, per niente dolorosa, e poi di alta o bassa manipolazione, e infine scrittura o semplice trascrizione, non è affatto lontana dalle esperienze e dal modo di operare del primissimo Joyce, quello delle Epifanie, brevi prose “drammatiche” o “narrative” (a seconda se formalmente strutturate come dialoghi o come frammenti di racconto) scritte nei primi anni del secolo scorso.

Quanto ho appena detto vale in particolare per l’eavesdropping. C’è poi ovviamente una diversa (più forte) intenzionalità o aggressività autoriale, verso il testo, nel manovrare googlism e cut-up, ma la sostanza non cambia: il testo stesso a un certo punto comunica di essere compiuto, e ci si ferma. Non è definibile, credo, come e perché, né quando (you know, “come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore”, Prima lettera ai Tessalonicesi, V, 2). (Una cosa simile, insomma).

Questi modi di scrittura (ma Quasi tutti ne contiene anche altri; e anche scrittura diretta, senza procedure, senza ‘macchine’) vengono talvolta scambiati per incongrui con la poesia, o la prosa, o la scrittura tout court. A me sembra semplicemente miope questa critica. (Per la poesia, passi: penso ci si trovi in tanti oramai, e gioenti, in un territorio post-poetico, e per me amen: bene così).

Però quel che voglio dire è che:

si tratta sempre e principalmente (se il lavoro è fatto con serietà) di dislocare il proprio inconscio, metterlo in un punto non (interamente) governabile e sovrascritto dal superIo, dall’ipoteticamente adamantino Moi lacaniano, o da quel che si vuole.

Si tratta cioè di tagliare il guinzaglio al soggetto dell’inconscio. Lasciarlo andare. A suo modo (un modo ancora altro) Carmelo Bene spiegava la ‘normalità’ (geniale) di constatare e mettere a valore e al lavoro un “linguaggio che si articola come un inconscio”.

Io dico che bisogna proprio dislocare l’inconscio, piazzarlo in un’altra scatola, far parlare l’Altro come altro. Per quanto possibile. Ovviamente la pesantezza della mano che poi agisce sul materiale che arriva, giocoforza, agisce e cambia il flusso e cristallizza frasi passaggi fraseggi e paraggi. Ma questa inevitabilità si applica a un materiale i cui vieti addentellati con l’ego sono smussati o proprio cancellati in incipit da quella dislocazione.

Delocalizzare l’inconscio. Sbatterlo con infame protervia in un quarto mondo a cucirsi il buio.

Poi, certo, in più, possono essere applicate slogature, fantascienze varie di movimentazione della pagina. Però se in partenza l’inconscio sta da un’altra parte, “io” credo, è meglio.

Nella ipercaverna di google, nella altrui chiacchiera da bar, in una pagina di giornale. Eccetera.

“Fons amoris.”

dentro hai molto ed i soldi sono essenzialmente il freddo.

stare fuori dai ratti. penso al bisogno delle cose, che tutti vogliono.

G.G.: che rapporto c’è tra la tua pratica plurima e non narrativa e una visione politica anti-razzista? A proposito… per moltissimi aspetti il tuo è un poema che cerca oggetti narrativi non identificati, la natura aliena del reale, impossibile, è il filo, o meglio il nastro di Moebius della tua non narrazione: non v’è altro che soggetto che scrive intorno al non so cosa del non prestabilito. È quello che sento, ascoltando le tue forme narrative: un altro a proposito: che oralità ci si aspetta da tali strutture non letterarie?

M.G.: Il rapporto è personale, probabilmente. Nel senso che negli anni Novanta ho svolto diversi lavori – diciamo così – “nel sociale”. E questo, oltre ad altre esperienze, ha inciso in modo netto sulla mia identità e sui suoi rami e rametti.

Poi dal punto di vista anche (volendo) teorico, e relativo alla plurivocità delle scritture, e alla loro non-narratività, bisogna dire due cose. Innanzitutto, che lo spostamento dell’inconscio nell’altrove, nell’Altro, volendo, è una buona ginnastica per la prassi dell’“imparare la lingua degli altri”, che (anche) è cosa che mi viene dai primissimi anni dell’università, dalle lezioni di Letterature comparate, dal lavoro redazionale per la rivista “Babele”, tra fine anni Ottanta e primi Novanta. In secondo luogo, la non-narratività è sempre relativa (e avversa) a quello che si può con una certa oggettività considerare il pensiero unico della letteratura, specie nella sua versione e pesantezza occidentale. Non dunque una narratività generica, ma quella delle marchese che escono alle cinque, e quella, in particolare, di un certo tipo cristallizzato di romanzo.

Il romanzo, lo ricordo sempre, è un predatore. Dove fa la sua comparsa (cito Franco Moretti) fa anche strage delle forme minori, delle leggende, delle fiabe, delle novelle, delle fantasie da tradizioni micronarrative, delle contraddizioni implicite nel racconto mitologico. Eccetera. Magari le ingloba, e così – coccodrillo che piange – assicura loro una ‘continuazione’. Ma a quale prezzo? La pulizia etnica è tecnicamente già avvenuta. (Moretti cita il caso dell’America del sud, del patrimonio di storie e tradizioni, orali o meno, che un intero continente vede erose o sommerse a favore dell’emergere e diffondersi virale del mostro romanzo).

Una opzione non-narrativa, antiromanzesca, può avere valore di alterità e spostamento (dagli andamenti suddetti del predatore) anche in aree, come quella europea, nelle quali la distruzione è avvenuta ormai da tempo, e la storia ha attraversato più innesti e mutazioni. (E il romanzo stesso si è adattato per farsi accettare. Ha messo la maschera della sperimentazione, dell’incongruo, del complesso. Il vile, il porco).

Sempre e in ogni caso, tipico della macchina romanzesca e anche di altre entità schiacciasassi, è il gesto divorante, a ganasce aperte, il flusso largo, la verbigerazione, l’andare avanti per paginate e paginate senza misericordia.

Seicento pagine. Seicentocinquanta. Prima di salire sul treno il viaggiatore si àncora a terra comprando in edicola l’ultimo o il primo foratino della nota saga. Settecento pagine, mille. Leggi, leggi: ti coinvolge nella riproduzione mondana, speculum mundi, e nell’immedesimazione. Sei suo dalla genesi.

Mentre al contrario è proprio svellendosi violentemente da sé, dallo schiacciamento del sogno e dal Wille del flusso, che ci si ricolloca e rimodula nell’Altro. (Anzi: si disloca l’inconscio, con tutti i suoi echi di empatia).

L’altro delle strutture ampie è, al contrario, il medesimo. Una calamita. Ore di viaggio che non sai di star facendo, cullato dai ritmi, dalle vicende, e già sei al delta, hai percorso tutta la stolidità del fiume, ti sei letto (in) un romanzo. Senza guadagnare altro che acqua, altra acqua, imbarcandone, affondando, affondandoci. Fidandoti.

Non si tratta della disindividuazione, si tratta semmai al contrario dell’esser colonizzato e mangiato. Usato come specchio altrui. Stai fermo, non muoverti, lasciati andare, facciamo tutto noi, le parole. Tante, troppe.

Leggiti questo romanzo, guardati questo bel film.

Sulla esecuzione dei testi di Quasi tutti: da qualche anno ho assunto una postura che sottolinea vocalmente alcuni passaggi, con inflessioni colori scivolature, perfino gesti. Ma devo asciugarla ulteriormente. Togliere orizzonte e dare orizzontalità. Sottrarre spazio alla tentazione dello spettacolo, senza per questo far morire di noia chi ascolta.

provo un’infinita malinconia e uno schietto desiderio di suicidio. e un ragionamento che ha portato i ricercatori ad una soluzione molto drastica.

G.G.: scrittura desiderante : scrittura immaginaria dell’io = non assertivo : assertivo? E quanto importa il desiderio nel soggettivo percorso? Inconscio dilatato, quasi la scrittura fosse una protesi o i tentacoli di una medusa che si allunga all’esterno per osmosi, per riempire, per poco, la realtà, attratta dal reale impossibile. Non ho ben capito quel che ho scritto ma sento che è questo quel che volevo dire: cosa è la volontà dell’io in una scrittura di genere Marco Giovenale?

M.G.: La proporzione mi garba abbastanza: la scrittura desiderante sta alla scrittura immaginaria del Moi come il non assertivo sta all’assertivo.

Cosa aggiungere?

Penso, certo, di aver parlato più di inconscio – e di soggetto dell’inconscio – che di Io o SuperIo. E non credo si possa fare altrimenti, lavorando con la parola scritta e parlata. Scritta ed eseguita. (E perseguita, e perseguitata).

Tutta la scrittura che non si rende conto di questo passaggio copernicano è, a mio avviso, tolemaica. Ma va bene (forse il mondo occidentale gira, e gira così, precisamente perché si fa centro: si punta il compasso addosso).

Cfr. https://slowforward.net/2020/07/30/copernicovstolomeocarmelobene/

Ossia tutta la scrittura di grande distribuzione e grande accoglimento è scrittura di genere. Alza il cartello “Qui poesia” come altre scritture alzano il cartello “Qui giallo” o “Qui fantascienza”. Fanno le mossette, i lettori le riconoscono, e si accodano al cartello.

Sulla scrittura di ricerca non ci sono scritte, perché tutti i tentativi più o meno abbozzati di darle una vestina per coprire le curve falliscono e in tanti lo ammettono. Quindi sono felice quando mi dicono “anatema! scrittura di ricerca no, scrittura di ricerca non significa una fava!”, oppure “non-assertivo no! ἀνάϑεμα n’ata vòta, categorizzatore esecrando! tutto è assertivo, come fai a non asserire?” (Eh. Pensa tu che allora uno non potrebbe nemmeno dire “incolore”, perché ovviamente per la meninge di genere, generosa, “tutto ha colore”). Che fioritura flarf! che rigoglio di contumelie. E io sono contento: soprattutto quando queste “critiche” vengono dall’interno più comico della sperimentazione. Proprio noi che sperimentiamo, hélas, nescimus?

Già già.

Benedetti, come pensate possa essere diversamente, se serissimi s’è nel ricercare?

E allora: nella scrittura di genere (all’ingrosso, spaccando tutte le formine della critica da spiaggia o da cattedra: fantascienza, poesia, giallo, fantasy) è del tutto evidente che l’io con la “i” maiuscola, l’Io, spanda e spalmi la propria volontà – e il proprio irraggiare istruzioni & istituzioni su come debba il lettore specchiare l’auctor – nell’opera. Era un’opera. Fu. L’hanno or ora operata per piantarci dentro un ripetitore: un riferitore, un riproduttore, che al dicitore o scrivitore rimandi il suo medesimo detto e medesimo scritto. Mai il dire, mai lo scrivere, sempre il già stabilito, il detto, ri-detto, scritto, ri-scritto.

il governo sembra puntare sull’approva l’antimateria. il pacchetto arrivato alle camere ha risolto. prima di passare al senato. basta che tocchi la materia. fine dei problemi. che gli ci vuole al mediterraneo per rimarginare? da nizza alla dalmazia fai il giro o salti. e uguale. e l’uovo.

G.G.: è un estratto da «differx.it»: che rapporto hai con l’antimateria?

M.G.: Ah, guardi, ognuno a casa sua.

La sera andavano in via Veneto. Lì un distributore di uranio aperto giorno e notte. Si diventava brillanti senza saperlo.

G.G.: Quasi tutti: con quale criterio hai suddiviso la tua raccolta? E perché non scrivi come tutte le persone normali, invece di usare prose che non sono prose e poesie che non sono poesie? Prima di congedarci… in che direzione sta proseguendo la tua scrittura?

M.G.: La divisione interna, come spesso mi accade dando di lama ai libri, è istintuale e lascio un po’ fare alle insofferenze che saltano su mentre leggo o rileggo il dattiloscritto. A un certo punto metto punto. Segmento. Qui finisce pinco e inizia pallino. Cose così.

A posteriori, purtroppo, devo constatare che questo bassissimo grado di professionalità non è stato in grado di arrivare a rovinare veramente la partizione, rendendola aleatoria. Sembra infatti che ahimè la suddivisione interna della raccolta segua abbastanza fedelmente la divisione delle fonti: eavesdropping per cominciare, poi cut-up, materiali da film, eccetera. Per arrivare alla sezione grande (una specie di secondo tempo del libro) intitolata “differx.it”, che semplicemente mette insieme materiali scelti da un blog che avevo fino a non molti anni fa. C’è dunque una regola in tutto ciò, ho sbagliato anche stavolta.

Perché non scrivo come tutte le persone normali? Perché vivaddio tutte le persone normali, o quasi tutte, non sono normali. E se le lasciassero libere di sbattere in pagina quello che veramente le costruisce e le impalca tutti i giorni, non farebbero né il diarietto né l’instagram, bensì la prosa in prosa. Anzi già la fanno qualche volta, magari.

Dove vo? – domandi.

La mia scrittura prosegue grosso modo sui canali di Quasi tutti. Ma con una virata verso il sillogismo e la finta narrazione, sgretolata, che al momento sto concentrando in due o tre raccolte, di cui la più ampia è Oggettistica.

È stato molto bello

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M.G.: Il frontespizio dello Speculum Mundi (“Speculum Mundi or a Glasse Representing the Face of the World; Shewing Both that is Did Begin, and Must Also End: The Manner How, and Time When, Being Largely Examined. Wheretunto is Joyned an Hexameron, or a Serious Discourse of the Causes, Continuance, and Qualities of Things in Nature”) di John Swan, 1635, è immagine ripresa dal sito d’aste Bonhams: https://www.bonhams.com/auctions/18847/lot/137/

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

VIT(AMOR)TE – intervista a Valeria Bianchi Mian su Oubliette Magazine a cura di Emma Fenu

VIT(AMOR)TE – intervista a Valeria Bianchi Mian su Oubliette Magazine a cura di Emma Fenu

Vivere è appartenere a un altro. Morire è appartenere a un altro. Vivere e morire sono la medesima cosa. Ma vivere è appartenere a un altro dal di fuori, e morire è appartenere a un altro dal di dentro. Le due cose si assomigliano, ma la vita è il lato di fuori della morte. Perciò la vita è la vita, e la morte la morte, perché il lato di fuori è sempre più vero del lato di dentro, tanto che è il lato di fuori che si vede.” – Fernando Pessoa

Valeria Bianchi Mian
Valeria Bianchi Mian

Valeria Bianchi Mian è straordinaria. Esula dall’ordinario grigio e sfumato, dallo stereotipo, dal serioso e dal melenso, dal banale e dal già visto e già sentito.

È una donna rossa di capelli e di utero, filosofa bambina, psicoterapeuta e psicologa di formazione junghiana, scrittrice, poetessa, saggista, fautrice di psicodrammi e di pièce teatrali, illustratrice, artista, insegnante di Scienze Umane, blogger. Collabora per “Psiconline” e per il nostro “Oubliette Magazine”, ha pubblicato “Favolesvelte”, silloge di poesie; “Non è colpa mia”, un romanzo noir; ha curato (con me) l’antologia di racconti “Una casa tutta per lei” e “Vit(amor)te”, una silloge di quarantaquattro poesie dedicati ai ventidue arcani maggiori, disegnati dall’autrice stessa.

Ho raccontato molto, eppure è poco rispetto alla sua biografia, e nulla rispetto alla sua essenza.

Perché, se volete conoscere Valeria, dovete specchiarvi, guardarvi negli occhi ed essere pronti a salire sulla sua giostra, scalzi e scarmigliati. E poi lanciarvi nell’abisso di animus e anima, mentre lei vi sorride.

E.F.: Chi è Valeria? Chi è la donna, la psicoterapeuta, la scrittrice, la poetessa, l’artista, la madre, la figlia, la bella e la bestia?

Valeria Bianchi Mian: Mi metto a nudo, Emma. Lo voglio fare. Valeria è una donna che dimostra meno anni della sua età. È una psicoterapeuta in gamba ed è una personalità decisamente creativa con un’energia pazzesca che si esprime a più livelli: scrittura, disegno, teatro. Valeria è Anima unita a uno Spirito indomito che solo a tratti si lascia ingabbiare e sottomettere. E perché mai, in quei “tratti”, il suddetto Spirito scivola nell’inganno? Osservando Valeria come se fossi ‘l’io narrante’ che rimane un po’ a distanza, vedo l’insieme delle concause e dico: “Questa persona è stata disponibile nei confronti degli altri. Voleva, è vero, pensare anche a se stessa mentre al contempo dispensava gratuitamente bellezza e stimoli, idee e tempo prezioso. Offriva il suo oro al mondo, Valeria. Un piccolo lucente barlume aureo, stelle e stelline, le lune e i pianeti, lei regalava qua e là, finendo (quante volte!) per mettersi in fondo alla lista o, se non proprio alla fine, trovando all’ultimo la possibilità di farsi avanti insieme agli altri, quasi a giustificare timidamente la richiesta di un giusto compenso, di una cassa di risonanza, di un podio, di un traguardo tagliato al momento opportuno, di una coppa ricca di fortuna. Insomma, ci sono anch’io, sembrava dichiarare. Sarebbe stato meglio dirlo subito. Sarebbe stato bene pronunciare più spesso dei no e pestare qualche piede in più.” Non è possibile mutare atteggiamento, trasformare Valeria in una perfetta egoista. Quel che si può fare, in accordo tra l’Io e le zone più profonde della personalità, è convincerla a canalizzare la luce del suo lavoro, a mettere un po’ più in risalto i figli di carta che ha partorito nel viaggio alchemico che l’ha condotta alla creazione di tanti libri, di idee e progetti professionali. Si potrebbe trovare un accordo: se l’Io si impegna a seguire i comandamenti del marketing, il Sé porterà nuove storie da scrivere fino a che Morte non separi Valeria da se stessa, sperando che quel momento arrivi molto tardi. Calcolando che la sua bisnonna è vissuta fino a 107 anni, direi che c’è ancora tempo per imparare a sgomitare un po’.

E.F.: Ci presenti i tarocchi come se fossimo alla fine di uno spettacolo, davanti alla platea che applaude e con il sipario in attesa di chiudersi?

Valeria Bianchi Mian: Non andrete via, Signore e Signori, prima di conoscere i nostri ospiti! Salgano sul palco le carte dei Tarocchi! Applausi! Ecco a voi i ventidue simboli antichi che fungono oggi da suggerimenti creativi. Nati nell’Italia delle Corti, gli Arcani Maggiori incedono adesso attivando suggestioni lontane, attraversano il tempo per stimolarci ancora al futuro.

Io li ho scoperti vent’anni fa e mi ci sono tuffata dentro nei Tarocchi, nell’acqua della Temperanza e della Stella, in fondo al mare lunare; ho corso con il Carro, ho girato la Ruota più e più volte. Ho incontrato Imperatrice e Imperatore sorseggiando il tè con l’Innamorato. Ho cantato follie con il Matto, ho declamato poemi insieme al Bagatto, rimescolando nell’alambicco il nucleo del mio essere, fino a disegnare (nel 2019) le illustrazioni per la silloge “Vit[amor]te. Poesie per arcani maggiori.”. Con i Tarocchi ci possiamo giocare. Possiamo inventare storie come nipotini di Italo Calvino o scoprire versi come farebbe un bambino dal Matto al Mondo, e viceversa. Alejandro Jodorowsky li ha portati nel mondo a voce alta, così come vuole il suo genio. Moltissimi sono gli artisti che nei secoli li hanno dipinti, scolpiti e fotografati.  La compagnia dei Tarocchi è disponibile per meditazioni guidate, per giochi di Psicodramma, per azioni sceniche e collane di sogni.  Insieme alla burattinaia Marta Di Giulio, qui lo dico e non lo nego, ho inventato il Teatrino dei Tarocchi: alla mia lettura immaginale si sposa la sua performance con oggetti, piume, pupazzi.

E.F.: Amore e morte sono un topos dell’arte e della letteratura: cosa ci attrae?

Valeria Bianchi Mian
Valeria Bianchi Mian

Valeria Bianchi Mian: Lo stesso Eros, bellissimo dio dell’amore, compare nel mito sotto mentite mortifere spoglie alla giovane Psiche curiosa. L’Amore “mostro” si svela soltanto attraverso il sacrificio della fanciulla, si cela affinché il suo lungo viaggio possa diventare vita congiunta e unione. Mircea Eliade ci racconta le storie di amanti invisibili nello sciamanesimo, e questi “sposalizi soprannaturali” portano sempre elementi di contatto con l’Altro e Oltre, perché l’amplificazione e l’approfondimento della personalità, il completamento di Sé richiede sempre una Morte simbolica. Gli alchimisti conoscevano il segreto del regicidio, ed è lo stesso “dover morire” che il nostro Io deve accogliere se vogliamo crescere. Ogni rinuncia, ogni sacrificio dell’Io è una piccola morte.

Altre immagini simboliche della danza tra i due principi psichici, e tra le due realtà, Amore e Morte, hanno un sapore medioevale. Penso all’abbraccio tra lo Scheletro e la ragazza, per esempio, iconografia vicina al richiamo affascinante dell’amato assassino in letteratura, il cavaliere che conduce la protagonista al talamo mortale – e che ha come controcanto al maschile la keatsiana Belle Dame Sans Merci.

Nella Totentanz, è ovvio, ci finiremo tutti: belli e brutti, ricchi e poveri, re e regine e cavalieri. Saremo im-mort-alati in un affresco che vede come protagonista assoluta la nostra Nera Signora che ci tiene per mano e ci fa fare il girotondo fino al cascar del Mondo.  

Negli Arcani Maggiori la Morte ci chiama alla trasformazione: è albero in inverno che cela le sue gemme come spunti per la Primavera, è taglio di Atropo, è falce nel campo.

Non mi soffermo qui sul richiamo di Thanatos nei pazienti che ho incontrato in questi anni di lavoro come psicoterapeuta. Penso ai ragazzi tossicodipendenti innamorati della “sostanza”, intrappolati nell’abbraccio di ossa e denti, sepolti (in)felicemente insieme alle spoglie del loro stesso Io non-morto. Non è accogliere la trasformazione, sopravvivere in quel modo: è, piuttosto, optare per la versione Zombie.

E.F.: Le parole cambiano il mondo? Lo faranno? Tu ci credi?

Valeria Bianchi Mian: Io direi piuttosto che le parole cambiano insieme al mondo, in un reciproco nascere crescere e morire culturalmente. Le culture meticciano i termini e le credenze, le pelli, i colori e confini. Se non trascuriamo le nostre radici, possiamo giocare con le parole o prenderle seriamente, e possiamo conservarle per le generazioni future, riscoprirle. Penso ai dialetti, penso a mio marito che ride con mio figlio suggerendo espressioni in piemontese. Ricordo l’alfabeto segreto che inventavo bambina tra le bambine. Con le parole ci lavoro, nelle parole mi avvolgo e poi cambio parole. Verba volant ma a volte attecchiscono i significati e allora le lettere diventano parole chiave. Le parole feriscono più delle spade ma occorre coglierne il significato, altrimenti ci si travisa, ci si ingarbuglia e scattano gli insulti in quest’epoca di “fake-news” e di facili “flame”.

Mi piace stare sopra sotto dentro fuori e in mezzo alle parole e alle azioni, amo i performativi, le parole vive. Nei Tarocchi, a volte, la Morte non ha nome, eppure arriva lo stesso. Così come l’Amore, senza troppi discorsi.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://oubliettemagazine.com/2020/06/24/intervista-di-emma-fenu-a-valeria-bianchi-mian-fra-amore-morte-alambicchi-e-tarocchi/?fbclid=IwAR1_1I0J_mBFYrYLL83vq6S1AZOjUMV657FQDNKbUntfmoy0Wg_XOE0WpPQ

DI SANGUE E DI FERRO – intervista a Luca Quarin di Iuri Lombardi su YAWP

DI SANGUE E DI FERRO – intervista a Luca Quarin di Iuri Lombardi su YAWP

Luca Quarin, Di sangue e di ferro, l’interrogatore della storia

Sono i fatti a nascondere la verità storica e forse, senza tanti preamboli, possiamo affermare che la verità sta ai margini dove il messaggero addetto al racconto e all’epica racconta ciò che non è narrabile. Lo scrittore dice infatti la verità mentendo, attraverso l’uso della menzogna.

A parlarci di questo, in piena libertà, è Luca Quarin, autore friulano, da sempre narratore di verità scomode che molto chiaro ha il ruolo dello scrittore: il privilegiato della narrazione.

L’occasione dell’intervista che segue, che vuole essere una conversazione senza pretese tra di noi, è motivo di poter discutere del suo ultimo romanzo Di sangue e di ferro (Miraggi Edizioni, 2020) https://www.miraggiedizioni.it/prodotto/di-ferro-e-di-sangue/, una storia particolare sul destino della nostra Italia, un viaggio tra i misteri, su ciò che non si può dire o semplicemente riferire.

Luca che da sempre si occupa come narratore di questo, già conosciuto come scrittore di racconti e al pubblico con il suo precedente romanzo Il battito oscuro del mondo ( Autori Riuniti, 2017), e attraverso le pagine della sua ultima fatica letteraria si incorona lui stesso mediante la tecnica della finta-fiction.

Il narratore di fatto facendo narrazione, sviluppando una certa epica nei fatti che racconta, diventa un cronista estraneo alla storia e adottando un comportamento distaccato in lei si immedesima, si inabissa come in un oceano.

Che cosa è la letteratura? Cosa la storia? L’interrogativo forse non trova risposta. E allora forse possiamo solo soffermarci a fare supposizioni, a teorizzare sull’impossibile come Quarin ci suggerisce.

Intervista a cura di Iuri Lombardi

YAWP: “Di Sangue e di Ferro è un romanzo sulla storia nera d’Italia, in particolare vista dal Friuli, apparentemente una terra di confine, ricca di storia, linguisticamente interessante ma che pare nascondere qualcosa. Ci potresti raccontare come nasce questa idea e soprattutto quale è stato il ruolo del Friuli nella storia d’Italia?”

LUCA QUARIN : “Per quanto riguarda il Friuli direi che è proprio il termine confine ad averne scandito la sua storia e anche la mia storia, il suo essere al margine delle vicende storiche e il mio essere al margine di quello che accadeva nel mondo. Essere al margine è sempre una condizione privilegiata, vuoi perché nessuno si interessa a te e sei libero di percorrere le strade che ti interessano, vuoi perché puoi osservare le cose da lontano, vuoi perché gli eventi attraversano i margini ma non si fermano mai sui margini, finiscono sempre per svolgersi altrove, vuoi perché hai l’impressione di dover colmare la distanza che ti separa dal cuore della Storia e di conseguenza ti muovi continuamente, oscillando al di qua e al di la del confine, come il protagonista del mio romanzo rispetto alle vicende del suo passato o come il Quarin che scrive rispetto al Quarin che viene scritto”.

YAWP: “Un altro interessante aspetto che emerge dal tuo romanzo è che i fatti nascondono la verità. Intendo non la verità spicciola, ma la grande verità, il segreto della storia, la dinamica che si cela dietro a certi eventi, e questo porta a formulare un nuovo romanzo, o meglio un inedito, per certi versi, genere, quello della finta fiction. Qual è quindi l’esigenza di uno scrittore: ricostruire i fatti – sapendo di mentire- o dire la verità?”

L.Q: “Manganelli sosteneva che non ci fosse altra possibilità di dire la verità se non attraverso l’uso della menzogna. Auden invece faceva un discorso diverso e diceva che ci sono due momenti in cui l’autore dialoga con il proprio libro. Mentre lo sta scrivendo, lo scrittore interroga il suo progetto come la madre interroga il bambino che cresce nella sua pancia. Si domanda e gli domanda come sarà, che cosa gli piacerebbe diventare, che cosa faranno insieme. Il libro e il bambino sono pura possibilità, pura ipotesi. Né uno né l’altro posseggono una risposta. Quando ha finito di scrivere il romanzo, l’autore può continuare questo dialogo soltanto con sé stesso. Il libro ormai è nelle mani del lettore, non risponde più a lui, come il bambino è nelle mani del mondo e non risponde più alla madre (le madri ci mettono un po’ a comprenderlo e spesso anche gli scrittori ci mettono un po’ a comprenderlo). Lo scrittore, se è onesto, deve chiedersi che cosa ha fatto bene e che cosa ha fatto male, che cosa potrebbe migliorare in futuro, che cosa ha imparato scrivendo quel libro, come si colloca quel lavoro all’interno della sua opera e che rapporto ha con quello che lo precede e con quello che lo segue. Deve prendere le distanze. Deve allontanarsi. Si tratta, con tutta evidenza, dell’esatto contrario di quanto avviene nel mio romanzo. Qui la scrittura e la riflessione sulla scrittura si intersecano e si sostituiscono (come il vero Quarin e il finto Quarin, come la verità e la finzione in generale), oppure si escludono, dipende dal punto di vista, comunque sempre coesistono, in una forma che è tipicamente modernista ma anche postmoderna. Il romanzo scompare parlando di sé stesso e lascia spazio al vero protagonista della scrittura, che è sempre il silenzio”.

YAWP: “A questo punto ti chiedo: ma la storia esiste oppure è solo un’invenzione degli storici?”

L.Q: “Ho l’impressione che la Storia sia una necessità umana di dare ordine e soprattutto significato alle macerie che i fatti lasciano sempre alle loro spalle. Dunque la Storia senza dubbio esiste come necessità ed esiste come pratica, anche quotidiana. Si tratta di una pratica laboriosa, molto artigianale, per cucire insieme i fatti all’interno di un sistema semantico che comunemente chiamiamo struttura narrativa, che è l’unico modo che conosciamo per continuare ad attraversare le ombre che formano la realtà. Un filo di Arianna che apparentemente ci impedisce di perderci nel nulla ma che probabilmente ci trattiene all’interno del labirinto da cui cerchiamo continuamente di evadere”.

YAWP: “La mia sensazione, leggendo il tuo romanzo, è che la storia può esistere solo attraverso un discorso di avanzamento dell’epica; voglio dire dal momento che faccio epica probabilmente faccio la storia. Ma se così fosse quale è il senso del divenire?”

L.Q: “Ho dei dubbi sull’idea di progresso illimitato nata con l’illuminismo e diventata il dogma del capitalismo neoliberista. Non vorrei che anche il divenire finisse per sottostare all’effetto Flynn, secondo cui i figli devono essere sempre più intelligenti dei genitori, altrimenti sono destinati a soccombere. Nelle ultime pagine del romanzo ho ripreso il ragionamento che Borges fa sull’idea della storia di Cervantes, attraverso il personaggio di Pierre Menard, usando le medesime parole del grande autore spagnolo, il padre assoluto del romanzo. Stando a Cervantes la storia è uno strumento per interpretare la realtà, stando a Borges la storia è uno strumento per riprodurre la realtà”.

YAWP: “D’altronde gli storici nascondono la verità e forse gli unici a svelarla, potenziali messaggeri, sono gli scrittori e il popolo che è costretto a subire certi eventi ma che essendo folla non riesce a spiegarli. Gli storici hanno nascosto per lungo tempo la questione della P2 in Italia, i depistaggi di certe trame occulte, per non dire atlantiche, a cominciare da quella fantomatica (e mi scuso se sembro poco patriottico in questo) unità della nazione dove la questione del brigantaggio non viene citata per ragioni politiche (una guerra civile di tanti morti e che la letteratura ne ha parlato attraverso Alianello, Nigro ecc..). Ora i fatti vengono nascosti, secondo te, per ragioni politiche o perché il fatto di per sé nasconde segreti?”

L.Q: “I fatti mi sembrano sempre inspiegabili. Sono come la carcassa di un animale abbandonato sul bordo della strada. Non si sa chi o che cosa lo abbia ucciso né per quale ragione. E così ognuno è libero di cibarsene come preferisce. Ecco, in questo naturale cibarsi dei fatti ci stanno le manipolazioni della politica, quelle della storia, quelle dei media, quelle delle persone comuni. Ognuno ha bisogno di una storia che sia coerente con la sua cultura e ognuno costruisce la propria storia a partire da un brandello della carcassa, strappandolo dal corpo degli eventi e innestandolo nel corpo del racconto. Dunque, con il trascorrere del tempo, la carcassa si dissolve sempre di più fino a scomparire, lasciando dietro di sé soltanto un alone iridescente che è quello della memoria”.

YAWP: “In Italia chi fa letteratura e non prodotti editoriali rimane al margine, costretto quindi a rivolgersi a un gruppo, a una élite e il tuo romanzo è alta letteratura. Ma questo decadimento culturale- quasi da basso impero, da storia quasi da non raccontare– come cantavano alcuni versi di De André, a cosa è dovuto?

L.Q: “Mi sembra una questione che ha molto a che fare con l’evaporazione delle élite, che è un punto cieco del nuovo millennio ma direi che è anche un punto cieco della cultura illuminista. Questo scollamento tra élite e popolo ha trasformato probabilmente le élite in una oligarchia molto ristretta e il popolo in una massa silenziosa e omogenea. Il romanzo mi sembra sia rimasto stritolato in questa disinter-mediazione, passando da strumento per comprendere la realtà a strumento per sostituire la realtà. Uno vale uno. Lo scrittore non può più mettersi in mezzo tra il lettore e la realtà, deve soltanto riprodurla attraverso una storia. Di conseguenza è terminata l’epoca del modernismo e delle avanguardie e si è restaurato il romanzo ottocentesco, quel viaggio dell’eroe di Vogler che è diventata l’ossatura delle “storie” tanto amate dalla grande editoria”.

YAWP: “Gli editori sono al servizio delle lobby e loro stessi – parlo della grande editoria- sono il potere, ma non credi che a questi detentori del potere manchi un coraggio culturale?”

L.Q: “Il coraggio manca sempre, purtroppo. Manca nella società, manca nel mercato, manca nelle relazioni umane. Il coraggio ha a che fare con il nuovo, con ciò che ancora non esiste, con ciò che si trova nell’oscurità e potrebbe uscire dal buio avventandosi su di noi. Tieni conto che il tempo di big data, il nostro tempo, è il tempo della reiterazione, dove i dati del passato servono per costruire le forme del futuro, un futuro analogo al passato ma con un’altra pelle. Anche l’editoria partecipa a questo grande spettacolo consolatorio, facendo un enorme sforzo per realizzare abiti nuovi sopra corpi che invece sono vecchi, incapaci di tramontare. Detto questo, direi che si tratta anche di valutare quale sistema narrativo debba utilizzare il romanzo contemporaneo per assemblare le informazioni in un flusso logico che rappresenti l’esperienza e allo stesso tempo la superi, costruendo un ponte tra quello che è stato e quello che sarà. Ne sapeva qualcosa Proust che ha sempre posto l’accento sui tempi verbali, utilizzando il passato prossimo per confinare il tempo perduto in un spazio lontano ma al tempo stesso accessibile, un’idea brillante per includere sia il trascorrere del tempo che il suo essere perpetuo”.

YAWP: “Tu vieni da una terra particolare, una volta, sino a pochi decenni fa era considerata il meridione del nord; una regione storica che dalla Carnia scende al mare, divisa da un fiume, il Tagliamento, e che ha partorito grandi geni come Pasolini, Sgorlon, in Friuli nasce la Gladio; ci parli di questo evento storico?”

L.Q: “Gladio è stata un’organizzazione segreta nata negli anni cinquanta, su sollecitazione della Cia e dei servizi segreti delle nazioni atlantiche, per contrastare una possibile invasione nell’Europa occidentale da parte dell’Unione Sovietica e dei Paesi aderenti al Patto di Varsavia. La sua esistenza è rimasta segreta fino al 1984 quando Vincenzo Vinciguerra, nell’ambito delle rivelazioni sulla strage di Peteano, ha svelato per la prima volta il ruolo di questa organizzazione e i suoi meccanismi di funzionamento. Senza entrare nei dettagli di una vicenda di enorme interesse che suggerisco a tutti quanti di approfondire, direi che la storia di Gladio e la storia del Friuli si sono talmente intrecciate nel dopoguerra, proprio per il discorso sul confine che facevamo prima, da dover essere sempre raccontate insieme. Nel mio romanzo i personaggi si muovono proprio su quel palcoscenico, ovviamente in una dimensione finzionale e non giornalistica, per raccontare un frammento di quella vicenda”.

YAWP: “Alla fine si potrebbe dire ancora cose, fare nomi che non faccio, nascondo la verità come puoi intuire. Tuttavia, che differenza fa tra la narrazione e la descrizione?”

L.Q: “Ho l’impressione che la “descrizione” abbia ancora a che fare con il Novecento e continui nel tentativo di guardare da fuori la realtà, cercando di raccontarla, mentre la “narrazione” mi pare più incardinata nel presente, anche in virtù del ritorno della scrittura attraverso i media, e dunque sia un po’ più indistinguibile dalla realtà, visto che contribuisce a generarla. Ecco, questa impossibilità di separare la realtà dall’immaginazione che l’ha generata mi pare una interessante forma di verità”.

YAWP: “Quali sono i tuoi progetti futuri?”

L.Q: “Mi mancano pochi capitoli per terminare una storia ambientata di nuovo negli Stati Uniti, come il mio romanzo d’esordio, che racconta di un guru della robotica che nel 2011 scompare improvvisamente insieme alla sua famiglia e di una capanna che nel 2013 viene risparmiata da un enorme incendio che devasta lo Stanislaus National Park. La storia si conclude nel Pando, detto anche “gigante tremante”, l’organismo vivente più grande e più antico del mondo, che si trova nella foresta nazionale di Fishlake, in Utah. Il protagonista è un giovanissimo giornalista italiano, Ferrante Savorgnano, che inseguendo un’adorabile attivista della Rainforest Alliance, cerca di fare luce su entrambi i misteri”.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.barbaricoyawp.com/post/intervista-luca-guarin-di-sangue-e-di-ferro-l-interrogatore-della-storia

E DENTRO LUCCICA – intervista a Giulia Fuso a cura di Antonio Esposito su Rivista Grado Zero

E DENTRO LUCCICA – intervista a Giulia Fuso a cura di Antonio Esposito su Rivista Grado Zero

In questi giorni ho avuto modo di scambiare due chiacchiere con Giulia Fuso, attenta lettrice e autrice di due volumi di poesia, pubblicati per Eretica edizioni e Miraggi edizioni.

Giulia, presentiamoci. Nelle prime pagine del tuo Tu che dismetti mai le cose Jaime Andrés De Castro dichiara che per conoscere bene un poeta non basta leggerne l’opera, ma che bisogna provare a conoscere la persona che sta dietro le parole scritte. Però, ammettiamolo, non a tutti è data questa possibilità, quindi ti chiedo di mettere da subito le cose in chiaro: chi è l’“io” che appare nei tuoi versi? chi il “tu” a cui ti rivolgi? E come possono le parole annullare la possibile distanza tra autore e lettore?

Le parole non annullano in alcun modo la distanza autore lettore, distanza che a mio avviso è necessaria a volte. Perché dovremmo volerla annullare? La mia esperienza poetica è singolare così come lo è la tua. Capire le parole non è capirsi, né tanto meno entrare in sintonia. Al limite arricchirsi aggiungendo contenuto, cosa che ricerco spesso nelle letture che faccio. Da questo punto di vista non risulta necessario nemmeno spiegare il mio “io” e il mio “tu” che sono solo veicoli e hanno spazio marginale. Quello della poesia aperta è un discorso lunghissimo, ma resto convinta del fatto che spiegare non sia necessario, a volte auspicabile, altre decisamente superfluo.

Per questa chiacchierata ho letto entrambe le tue raccolte: E dentro luccica (Miraggi, 2017) e Tu che dismetti mai le cose (Eretica, 2018). In entrambi i casi l’approccio è stato quello del curioso, rimasto però, folgorato dall’immediatezza dei versi, dalle immagini nitide evocate e dalla loro composizione. Oltre ciò mi ritrovo, a malincuore, a dover confessare di non essere un buon lettore di poesie. Le poche volte che mi capita attingo a quella classica e mi oriento male in quella contemporanea – pur vivendo e godendo d’improvvise scoperte. Mi sapresti dire, secondo te, come può orientarsi nel maremagnum editoriale chi non frequenta questa forma? Quali sono le riviste, gli autori e gli editori di riferimento per chi come te pratica poesia oggi?

Qualche giorno fa parlavo con un amico che mi diceva intendere la poesia come una grande baraonda, ecco questo può essere un buon punto di partenza. Parlare di poesia è complesso e io non me ne sento mai in grado perché quando c’è vastità è necessario conoscere e conoscere è sempre fin troppo relativo per i miei gusti. Il mondo social ci ha sicuramente aperto una bella porta, in fondo si tratta di una vetrina a cui tutti accedono. Il rischio ovviamente è di ritrovarsi e leggere di tutto, dove non c’è un “criterio di ammissione” passami il termine, alcune volte viene a mancare la qualità. Questo però è un discorso semplicistico che non mi va di far mio più di tanto perché credo anche che la maggiore quantità di porte aperte diano maggiori scenari da analizzare e del buono si trova sempre. Conoscere così è una bella onda di ritorno.
Si può dire che per chi non ha mai frequentato il meremagnum della poesia sia necessario perdersi per entrare? Io non mi ricordo come ci sono arrivata, non parlerei certo di formazione scolastica però. Credo di aver iniziato ad appassionarmi per caso, comprando un paio di libri che ora non comprerei mai per esempio, ma tutto serve. Impossibile non nominare la Bianca Einaudi se si parla di poesia, a cui si aggiungono case editrici come Nottetempo e Marcos Y Marcos se parliamo di nomi più noti. Eretica, Pietre vive, Interlinea, Interno Poesia, Aguaplano sono altri nomi che mi vengono in mente e da cui attingo spesso.
Vittorio Lingiardi, Dario Bellezza, Giovanni Gandini, Mario Benedetti e Ivano Ferrari sono nomi che mi sento di fare, potresti iniziare da qui ma sono un puntino di partenza piccolo e questo è da intendere. Poi i classici si sa, vanno letti. (Sono un po’ provocatoria).

Nella tua scrittura c’è un rapporto diretto con la realtà: i gesti, gli oggetti, le sensazioni, le emozioni, attingono alla vita di tutti i giorni. E lo fanno in maniera diretta. Alessandra Piccoli ha parlato di “poesie take-away”. Tu come definiresti la tua produzione? C’è una linea di discendenza in cui provi a collocarti? Quali sono i tuoi riferimenti culturali?

Non mi colloco, non riesco ancora. Trovo tutto fin troppo nebuloso quindi evito di star qui a parlare del nulla. Il riuscire a definire la mia produzione è un passo che spero di riuscire a far presto, ma ora non è una necessità.

Nel tuo vocabolario interiore, quale definizione c’è alla voce “quotidianità”?

Per me quotidianità è confidenza. Sono una persona che adopera le mani e che crede fermamente che la misura delle quotidianità sia data dalla confidenza che si riesce a raggiungere con quello che si fa e forse con quello che si è. Il conoscersi è una scala a salire, ma approcciare con noi stessi è ancora l’unico modo che abbiamo per trovare equilibrio. Faccio meditazione e la trovo necessaria per riuscire ad andare avanti.

La tua ultima raccolta poetica risale a due anni fa, eppure chi ti segue sui social sa che stai continuando a scrivere: dove ti stanno portando i nuovi componimenti, hai un altro libro in cantiere?

I due libri che ho pubblicato sono usciti a distanza ravvicinata, ad un anno l’uno dall’altro. Non è stata una scelta, non la definirei tale. Credo piuttosto di averne avuto la necessità perché al tempo andavo veloce.  Non ho mai presentato i miei libri, né il primo né il secondo, non ne ho mai parlato davanti a un gruppo di persone e mi risulta tutt’ora difficile farlo. Quello che mi sono riproposta prima di pubblicare un altro libro è di conoscere meglio me stessa e superare alcuni punti cruciali che mi impediscono di essere come vorrei. Nessun segreto quindi, voglio solo imparare a conoscermi prima che lo facciano gli altri in modo da sentirmi completa.
Sì, c’è un file pronto da essere letto, ci sono tante parole che per il momento però restano dove sono.  Credo che sia un lavoro diverso, spero sia anticamera di una crescita ormai necessaria.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.rivistagradozero.com/2020/06/02/intervista-i-versi-del-quotidiano-di-giulia-fuso/amp/

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI – intervista a Angelo Meloni a cura di Alberto Minnella su ThrillerNORD

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI – intervista a Angelo Meloni a cura di Alberto Minnella su ThrillerNORD

A tu per tu con l’autore

Si intitola “Santi, poeti e commissari tecnici” l’ultima straordinaria fatica dello scrittore siracusano Angelo Orlando Meloni. Edito da Miraggi Editore, pubblicato nella collana Golem, “Santi, poeti e commissari tecnici” è una raccolta di racconti. Anzi, no: è qualcosa di più. È un viaggio appassionato nell’assurdità del mondo di oggi. Angelo Orlando Meloni è nato a Catania e vive a Siracusa, dove lavora nella libreria storica della città “La casa del libro – Mascali”, un vero e proprio avamposto culturale intrappolato nel suolo ortigiano. Nel 2010 ha scritto “Io non ci volevo venire qui” e tre anni dopo ha sfornato insieme a Ivan Baio “Cosa vuoi da grande”, editi entrambi da Del Vecchio Editore. La sua penultima pubblicazione è “La fiera verrà distrutta all’alba”, uscito nel 2017 per Intermezzi editore, in cui Meloni racconta la mitomania del nostro tempo, e in cui svela «i desideri mostruosamente proibiti degli “aspiranti qualcosa” ai tempi dei social network e della paventata, presunta morte della lettura in un apocalittico mondo post-qualcosa».

Com’è nata la raccolta e dove? (Ti immagino scrivere in libreria, mentre ti chiedono un classico della letteratura bulgara)

La raccolta è nata in due momenti diversi, alcuni racconti sono molto vecchi e altri invece gli scritti tutti di getto uno dopo l’altro. Poi alla fine ho messo tutto insieme, ho rimescolato e cotto a puntino, ho tagliato molto e ho riscritto molto e devo dire che il libro mi sembrava e mi sembra tuttora molto compatto. Ci ho sudato su a casa, però, non al lavoro in libreria, ma per quanto riguarda le richieste diciamo strambe potrei scriverci non uno ma due libri; e con tutto il rispetto per la letteratura bulgara, che mi auguro un giorno di conoscere come certa musica bulgara che è molto famosa nel mondo, di richieste strambe me ne sono arrivate davvero tante, durante le mie esperienze di libraio. Anche se ho paura di non avere ancora visto niente, la mia preferita è quella del cliente che spalanca la porta della libreria e dice: “avete ebook?”

A partire dal primo racconto, che dà il titolo alla pubblicazione, dove Meloni racconta le imprese della Vigor, una squadra incapsulata in una sorta di eterna nullità, fino a “Il campionato più brutto del mondo”, in cui la Serie A rischia il collasso, la catastrofe, e dove emerge un «eroico» ispettor Crisafulli, si rimane incollati alla pagina. A proposito di catastrofe: c’è ancora qualcosa da raccontare di questa Sicilia in continua involuzione?

Invecchiando ho lasciato perdere i discorsi sull’evoluzione o la decadenza della nostra terra che sembrano riferirsi a ipotetiche età dell’oro in cui chi parla era giovane, aveva tutti i capelli e non soffriva per il mal di schiena. Certo, però, rispetto ad altre realtà siamo indietro, ma non solo economicamente, siamo indietro culturalmente. È facile nascondersi dietro la Magna Grecia e altre storie di duemila anni fa, ma a furia di nascondere la polvere sotto il tappeto del salotto, nei nostri antichissimi e nobili tappeti si sono formate montagne. Certo, la letteratura nella cosiddetta involuzione ci sguazza, quindi roba da raccontare ne abbiamo in abbondanza. In linea di massima le cose siciliane sono molto interessanti, proprio per questo nostro mix di abbacinante bellezza e abissale miseria. C’è tantissimo da scrivere sulla nostra società, sulla desertificazione culturale ed economica. Sulle piccole caste che gestiscono le cose siciliane e i nostri destini come proprietà privata. Su un mercato del lavoro, quel poco che c’è, basato al 99% sulla raccomandazione, sulla mafia che è sempre fortissima, su quell’enorme fetta di siciliani che non mandano i figli a scuola e conducono un’esistenza abusiva, tra sale scommesse e catto-paganesimo di facciata. C’è tantissimo lavoro da fare e tutti noi in Sicilia dovremmo rimboccarci le maniche e smettere di lamentarci, la colpa non è di quelli del Nord se le cose sono andate in un certo modo, ma è nostra. Abbiamo cacciato a calci in culo fuori dalla Sicilia una o due generazioni di laureati, come fossero persone non gradite. Abbiamo scambiato la tolleranza per un parcheggio in doppia fila con città senza marciapiedi, strade, servizi, con ospedali e scuole fatiscenti, agitate da un’umanità depressa, impoverita e aggressiva, usata come serbatoio elettorale da politicanti senza scrupoli. Era impossibile che le cose prendessero una piega diversa.

Nel panorama letterario nazionale, ingolfato da una iper-produzione romanzesca, la forma racconto sembra essere una scelta più che coraggiosa, sia per l’autore sia per l’editore.

Nella produzione di molti scrittori i racconti hanno un ruolo fondamentale, se non altro in quella che secondo me è la letteratura per eccellenza, cioè la letteratura fantastica, nelle sue declinazioni horror, fantasy e fantascientifiche. Ma la stragrande maggioranza dei lettori, anche quelli colti, oltre a pensare che la fantascienza (e i fumetti) siano “arte degenerata”, diffida delle raccolte di racconti. Chissà se le due cose sono collegate, mi chiedo a volte scherzando. Ho visto tranquilli uomini della porta accanto soffiare come i gatti se mostri loro la copertina di una raccolta di racconti. C’è poco da fare, dobbiamo farcene una ragione, così è.

Il titolo provocatorio della raccolta fornisce l’occasione per fermarci e riflettere sui risultati ottenuti dalla nostra società, a quale stadio di evoluzione o involuzione è giunta e se il genere umano ha ancora voglia di affidare la propria sopravvivenza a certi meccanismi illogici che la governano. Così succede di scoprirsi santi, poeti, ma anche virologi, infermieri, persino agenti segreti esperti nel rilascio ostaggi.

Un ritorno all’umiltà ritengo sia impossibile – afferma Meloni – almeno secondo me. Ormai l’ego dell’uomo comune, me compreso, è partito e vola alto altissimo lassù, un enorme pallone che oscura il sole, ci impedisce di vedere l’orizzonte e preme sulle nostre vite. Ma quel gigantesco pallone gonfiato a boria, analfabetismo, punti interrogativi e dogmatismo prima o poi esploderà. La clausura da coronavirus mi ha definitivamente convinto del fatto che i dogmatici nevrastenici, quelli che si bevono tutto e puntano a testa bassa come tori infuriati, sono anche peggio dei cospirazionisti. Ma forse la verità è che ci adattiamo a tutto, anche alla perdita del “campionato più bello del mondo”.

In “Santi, poeti e commissari tecnici” l’ironia non piroetta su se stessa, ma è una lama affilata che fa a brandelli il velo di pressappochismo con cui è stato coperto il tabellone del torneo degli improvvisati professionisti, è l’arma che denuncia una società spesso iniqua, vuota e visibilmente agonizzante.

Un amaro ridere, dunque, è quello a cui va incontro il lettore, il quale difficilmente riuscirà a non divorare la raccolta in un boccone soltanto.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://thrillernord.it/intervista-a-angelo-orlando-meloni/

DI SANGUE E DI FERRO – intervista a Luca Quarin di Salvatore Massimo Fazio su La Sicilia

DI SANGUE E DI FERRO – intervista a Luca Quarin di Salvatore Massimo Fazio su La Sicilia

Il dolore nella propria storia

“Di sangue e di ferro” di Luca Quarin affronta le vicende della destra eversiva degli anni Settanta. «Andrea è costretto a misurarsi con le proprie origini».

Dieci anni per Miraggi edizioni. La casa editrice torinese che ha curato nel dettaglio diverse collane e si è imposta all’attenzione mondiale per aver tradotto per la prima volta in Italia personaggi del calibro di Habral, vanta nella sua squadra diversi siciliani, non ultimi, Daniele Zito o Angelo Orlando Meloni. Il genetliaco cade il 15 maggio e i tre fondatori, Fabio Mendolicchio, Alessandro De Vito e Davide Reina, hanno puntato su un countdown per giungere il 15 nel gruppo facebook del del blog siculo “Letto, riletto, recensito”, proponendo una diretta alle h. 18:00. In uscita il 30 marzo era “Di sangue e di ferro”, romanzo che narra di Andrea che un amico editore gli sottopone uno “strano romanzo”, che con il passare dei giorni si intrufola sempre di più nella sua vita. Da lì la discesa di Andrea in un tempo che si è sempre sforzato di dimenticare attraverso alcune vicende essenziali, dove lo stesso autore diventa personaggio.

Lo speciale logo per i 10 anni Miraggi edizioni

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Quali sono le vicende?

«Andrea è costretto a misurarsi con le sue origini, prima che queste scompaiano definitivamente. Le vicende sono quelle della destra eversiva degli anni settanta».

E lo strano romanzo?

«Lo “strano romanzo” e la conversazione con il suo autore lo incalzano sempre di più: tenta ad esempio di fare luce sulla morte dei propri genitori e sulle responsabilità storiche dei suoi nonni».

Da cosa nasce l’idea e perché questo intreccio di temi che convergono all’identità?

«L’idea nasce a Treviso, a un corso di scrittura tenuto dall’amica, Bruna Graziani, che ha sollecitato i partecipanti a scrivere un testo su una loro esperienza. Una ragazza ha raccontato un momento davvero doloroso della sua vita, è stato lì che ho cominciato a riflettere sul rapporto che esiste tra gli eventi della nostra vita e il modo con cui li raccontiamo agli altri. Sull’identità, può capitare che il desiderio di “raccontare una buona storia”, che ciascuno di noi ha provato di fronte alla domanda di qualcun altro, prevalga su una “verità” di cui ci sfuggono i contorni oppure che vogliamo nascondere al nostro interlocutore, per debolezza, per colpa, per il dolore che porta dentro di sé, modificando addirittura i nostri ricordi, visto che, come diceva Freud, rimaniamo estranei anche a noi stessi».

Quali sono in genere i temi da cui attingi per scrivere?

Luca Quarin

Luca Quarin

«Mi interessa soprattutto quello che accade attorno a me. La politica, l’economia, la scienza, la filosofia. Ovviamente moltissimo la letteratura. Mi interessa pochissimo, invece, quello che accade a me stesso e quello che ha a che fare con la mia esperienza personale. Anzi, di solito cerco di evitarlo come la peste. Se mi viene in mente qualcosa che ho vissuto o qualche persona che ho conosciuto, scarto l’idea senza indugiare un attimo. Credo molto nell’invenzione, piuttosto, o se preferisci nella reinvenzione, anche se la polemica mi sembra assolutamente inutile. Inventare tutto o non inventare niente mi pare che non renda giustizia ai meccanismi con cui il linguaggio rigenera tutto quello che ingoia».

E il tema di “Di sangue e di ferro”?

«Da un po’ di tempo ho l’impressione che nel nostro paese stia riemergendo un’idea di destra irrazionale, mistica, metafisica, che ha trovato terreno fertile nell’azione disgregatrice che tecnologie e globalizzazione hanno compiuto sui soggetti e sulle strutture della società e che ricorda molto il fascismo di Gentile e di Croce. La progressiva messa in ombra delle corporazioni (i partiti, i sindacati, et alii), tanto per fare un esempio, ha lasciato spazio a un bisogno indefinito di comunità che adesso, si soddisfa in un pensiero nazionalista e sovranista che travalica i limiti dell’individuo e lo protegge dagli assalti della modernità. Qualcosa di simile alla promessa fatta dallo stato islamico, per intenderci.

Nel suo complesso, però, mi sembra un’operazione abbastanza disperata che cerca di aggrapparsi ad alcuni valori che sono già stati asfaltati dalla storia».

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Dunque qual è la differenza tra realtà e finzione letteraria?

«Dai tempi di Plutarco è noto che “chi inganna è più onesto di chi non inganna e chi si lascia ingannare è più saggio di chi non si lascia ingannare”. Questo discorso, se da un lato riporta al patto tra scrittore e lettore, e quindi a quella “sospensione volontaria dell’incredulità” di cui parlava Coleridge, dall’altro lato rinvia alla consapevolezza del proprio ruolo, che ci sia o meno».

Miraggi, covid e i 10 anni di storia…

«… più l’intervista per il più noto quotidiano delle tue parti: felicissimo!».

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

http://www.salvatoremassimofazio.it/smf-per-la-sicilia-il-dolore-nella-propria-storia-intervista-a-luca-quarin/

DONNE DI MAFIA – intervista di Salvatore Massimo Fazio a Liliana Madeo su La Sicilia

DONNE DI MAFIA – intervista di Salvatore Massimo Fazio a Liliana Madeo su La Sicilia

Anche la mafia ha il suo lato oscuro

Liliana Madeogiornalista ardita e scrittrice, dopo 25 anni nella la collana Scafiblu della torinese Miraggi Edizioni, torna con “Donne di mafia”, pubblicato inizialmente per Mondadori. Da qui iniziamo a farci raccontare come è avvenuta questa nuova edizione con Miraggi: «È il mio esordio con Miraggi. La proposta è venuta da loro stessi. Mi è piaciuto proprio che non venisse da una big». Potentina di Genzano di Lucania, sarà inviata del quotidiano La Stampa, per passare dal mondo dello spettacolo alla cronaca tra luci e ombre dell’attualità. Dal ’90 al ’92 è consulente al programma del Tg 2 Mafalda – Dalla parte delle donne. Ha scritto di terrorismo, criminalità organizzata, salute mentale, femminismo, iter legislativi di norme su violenza sessuale, aborto. Con “Donne di mafia” e “Donne cattive –Storie di donne contro” ha aperto una ‘voragine’ sulla evoluzione di quelle donne che trasgredendo hanno contribuito sia al cambiamento dell’identità femminile sia al varo di nuove leggi.


Venticinque anni fa cosa ti spinse a scrivere di questo argomento?
«Falcone fu ucciso. Quella sera stessa mi chiesi come si comportavano a casa gli assassini. Chi fossero le mogli o le amanti, che rapporto avevano con la mala. Non se ne sapeva niente, né se ne parlava mai. “Lo faccia, lo faccia questo libro“ mi disse a Palermo un giorno un alto magistrato. “Noi non sappiamo niente delle donne di mafia” aggiunse. Credo ancora oggi che le inchieste non hanno un destinatario unico, definito: riempiono un vuoto, si rivolgono a chi non sa e magari vuole sapere».

Chi erano e chi sono le Donne di mafia, delle quali dipingesti due profili?
«Certamente, come ho più volte detto, quelle cresciute in famiglie criminali e quelle che vi sono approdate, tramite relazione con un mafioso, quasi per errore».

Scrivere di mafia, con certi approfondimenti, ti ha arrecato danni, minacce, molestie, ritorsioni?
«No e credo perché sono stata rispettosissima dei dati. Le ricerche, le indagini, non ho modificato nessuna verità che non fossero fatti reali»

Eppure, hai raccontato di chi si è opposto alla ‘famiglia’ mafiosa dove accidentalmente, per amore, vi finì dentro…
«Indagini, inchieste, come ti dicevo, su fatti reali. Donne che pagarono a caro prezzo il loro rapporto sentimentale con un membro di ‘famiglie’; donne che si ribellarono per ottenere la libertà, donne delle quali tutto si sapeva e che ho raccontato, come il loro essere pavide in alcune circostanze. Poche le ardite. In breve, non ho avuto paura di dire quello che scoprivo perché corrispondeva alla verità».

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Donne di mafia, sembrano assorbite in uno stato degenerativo, come anguille che scivolano dalle mani del patriarcato mafioso, per orientarsi verso più orizzonti…

«Le facce delle donne che fanno parte della mafia sono tante: il libro fa nette distinzioni fra loro. Il sottotitolo è chiaro. Il senso e il pregio del lavoro fatto, pubblicato, ripubblicato. Certamente Cosa Nostra nasce come mondo al maschile, dove le donne tacciono e per questo sono rispettate e scelte; tutto è basato su violenza, sul potere, sull’imposizione al maschile. Attraverso gli atteggiamenti, conniventi o di ribellione, si è potuto capire chi ha abbracciato la “causa” e chi ha pagato a caro prezzo per ottenere la libertà».

La teoria della stratificazione sociale asserisce il cambiamento, ma non cancella l’identità.
«Probabile, ma la sicurezza di alcune donne di mafia ad esempio fu dovuta alla tranquillità economica, velata dalla fedeltà verso il maschio: si attivano nel momento in cui l’uomo cade nella trappola di avversari».

Liliana Madeo

Liliana Madeo

Quali differenze ci sono dalla prima edizione della tua inchiesta/libro ad oggi?

«Non esiste più la donna sottomessa all’uomo mafioso. Oggi e l’ho detto anche in una intervista per il mio editore “le compagne o aspiranti compagne degli uomini di mafia non stanno più nella penombra. Parlano in pubblico. Sono viaggiatrici instancabili, anche se nel metro di giudizio dei vertici di Cosa Nostra la donna resta un soggetto inaffidabile, una creatura debole, con molti talenti ma capace di provare emozioni che possono mettere a rischio l’intero territorio su cui la mafia esercita la sua signoria.” (Angela Vecchione, su miraggi.it, n.d.a.)».

Quanto importante è stato il tuo coinvolgimento in prima persona in questa inchiesta ?

«Abbattere il silenzio e i luoghi comuni sulle donne di Sicilia, sulla loro cronica subalternità al maschio e al potere maschile …. ti pare poco? Ti pare un tema relegato nel passato?»

QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

http://www.salvatoremassimofazio.it/5178-2/