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Il bambino intermittente – intervista a Luca Ragagnin di Lorenzo Germano sulla Gazzetta d’Alba

Il bambino intermittente – intervista a Luca Ragagnin di Lorenzo Germano sulla Gazzetta d’Alba

Il bambino di Ragagnin

Nel cortiletto della libreria Milton sono tornate a risuonare le voci dei libri grazie al coraggio di Carlo, Serena e della casa editrice Miraggi. È stato presentato Il bambino intermittente: diretta streaming e firma copie per i lettori di Luca Ragagnin, già candidato allo Strega 2019 con Pontescuro (proposto da Alessandro Barbero). Torinese, dotato di estro poliedrico, dopo aver esordito come poeta negli anni ’90 (vincendo il premio Montale) Ragagnin ha proseguito come autore di romanzi, racconti, testi teatrali e canzoni (anche per Mina, Antonello Venditti e Subsonica). Nella sua ultima opera ha racchiuso le memorie di una vita.

Com’è nato il romanzo?

«Quattro anni fa, mentre stavo scrivendo altre cose, ho sentito l’esigenza di raccontare un periodo abbastanza lungo della mia vita di Berg, personaggio che in qualche modo mi appartiene. Con molto pudore potremmo definirlo un romanzo di formazione: in fondo si segue la crescita di Berg, nome principale del protagonista che nel libro ne assume diversi altri. Una delle sue caratteristiche più importanti, comune a tutti i bambini, è una sorta di esubero di fantasia, per cui vive le sue esperienze e i fatti che gli capitano stravolgendoli. Di solito lo scarto che si crea tra la sua interpretazione e la realtà è buffo e divertente. Manterrà la caratteristica fino all’età adulta, producendo una serie di eventi agrodolci, che sono un po’ la mia cifra stilistica».

Chi è il bambino intermittente?

«L’intermittenza riguarda i pensieri di Berg sul mondo, le persone, i bambini che incontra all’asilo, poi a scuola, all’oratorio, poi anche nella vita adulta, durante il primo scontro-incontro con l’altro sesso, ma anche le problematiche sociali che gli si presentano quando è adolescente, dato che ci troviamo alla fine degli anni ’70. Nel romanzo si attraversano gli anni di piombo, delle droghe, fino ad arrivare alla data simbolica dell’11 settembre 2001, che rappresenta la morte dell’Occidente. Con questo disincanto e intermittenza, Berg vorrebbe agire, fare, collocarsi nel mondo, ma poi finisce spesso per fare l’opposto».

Con quale approccio hai ricostruito quel periodo?

«Ho cercato di ricordare il mio passaggio in quegli anni, Berg è un po’ un mio coetaneo (leggermente più giovane), è un bambino e poi un adolescente che ha pochi mezzi conoscitivi, come pochi ce n’erano in quegli anni. Non capisce, chiedi lumi a sua madre che è una professoressa e che ha a che fare anche con ragazzi problematici. In fondo i terroristi che incontra sono appena più grandi di lui, ma sono irraggiungibili per la sua comprensione. Neanche la madre ha delle risposte, cerca solo di approntare delle difese, mettendogli dei divieti minimi per evitare rischi (no treni, no mezzi pubblici, no manifestazioni)».

Il tuo romanzo precedente aveva un aspetto favolistico. Hai mantenuto anche qui quel tipo di narrazione?

«In questo libro lo scopo principale è preservare la memoria, per quanto aberrata dalle caratteristiche del personaggio che l’attraversa. In pandemia a malapena ricordiamo un mondo che è scomparso 15 mesi fa, immagina lo sforzo per ricostruire il mondo degli anni ’70 e ’80, anche nel modo di vivere la gioventù in una città industriale con pochi spazi».

Che rapporto hai con le Langhe e i suoi scrittori?

«Un rapporto stretto. Ci vengo spesso. Considero Milton di Carlo Borgogno una seconda casa. Con Enrico Remmert abbiamo scritto per Laterza L’acino fuggente, una scorribanda nei territori del vino tra cui soprattutto il Roero e la Langa. Gli scrittori come Pavese, Fenoglio, Lajolo li ho amati e li apprezzo molto, ma vorrei citare anche Marco Giacosa, che è originario di qui e ha appena pubblicato lo splendido Langhe inquiete».

QUI l’articolo originale:

Il bambino intermittente – intervista di Francesca Angeleri sul Corriere della Sera (Torino)

Il bambino intermittente – intervista di Francesca Angeleri sul Corriere della Sera (Torino)

Ragagnin: «La mia Torino degli anni 70 e 80, vista con occhi di bambino»

Ragagnin: «La mia Torino degli anni 70 e 80, vista con occhi di bambino»

Lo scrittore Luca Ragagnin da bambino

«Berg sono io? Ha delle parti di me, un po’ come sempre. Ci sono degli elementi del mio vissuto, sicuramente, e poi c’è l’innesto dell’invenzione». È la prima intervista di un Luca Ragagnin super eccitato per l’uscita dell’ultimo suo romanzo, Il bambino intermittente, il primo aprile in libreria con Miraggi. Quasi 700 pagine di una storia cui ha dedicato molto tempo (l’ha cominciato un anno dopo la morte della mamma nel 2014) e che non definisce «un romanzo di formazione, per pudore» ma che a conti fatti lo è. Berg è figlio unico di genitori separati, la mamma è professoressa e il papà lo porta in giro su un maggiolino giallo a pois rosa. Ha dei nonni fantastici e un’immaginazione che lo porta a essere sempre qualcuno di diverso. S’inventa una sorella immaginaria e con l’amico Paul vive le scorribande notturne ed esoteriche in una Torino tanto riconoscibile quanto mai pronunciata. Ci sono le bombe dei terroristi, l’oratorio, l’adolescenza, l’età adulta, Dio che cerca e perde in una mensa e tutte le sue epoche. Intermittenti, come quelle di ognuno di noi.

Il romanzo finisce l’11 settembre 2001. Come mai?
«È una data di stop. La storia è diacronica, ci sono salti temporali avanti e indietro, la memoria non è lineare e il romanzo vuole preservare quella che attraversa gli anni 70, gli 80, i 90. Anni particolari, per l’Italia e per Torino, visti con gli occhi di un bambino».

Com’era quella Torino?
«Ricordo l’eroina. I grandi corsi alberati, le panchine nei controviali con questi corpi che sembravano statue e la siringa piantata nel braccio. E il terrore che provavi quando stavi fermo alla fermata del pullman, le borse abbandonate sul treno. Un mondo di sensazioni che andavano preservate».

Come si scrive con lo sguardo di un bambino?
«Ho trovato la mia voce di allora. Mi sono cercato. È stato un lavoro di scavo capillare, soprattutto nel decennio dei 70. Ci sono i bambini, quelli ritrovati nelle fotografie in casa, andavamo all’oratorio che era uno spazio protetto mentre fuori scoppiavano le bombe. È stato commovente e feroce, perché è uno scavo nella terra dei morti, quel bimbo non c’è più».

Non è triste pensarla così?
«L’idea era tracciare una netta linea di demarcazione che mettesse al sicuro qualcosa che il tempo ha sgretolato. Come dire: “Eccoti qui, ti ho ricostruito e ti tengo al sicuro in cassaforte. E non ti guardo più”. C’erano cose sulle quali mi premeva scrivere un punto finale».

Come si sente ora?
«Come uno che è emerso da una lunghissima apnea senza bombole. Che guarda oltre quella linea di demarcazione e vede una vita intera. E passare dall’altro lato è bellissimo, ma oltre dove? Ho finito le mie indagini. L’orizzonte è nebuloso ma c’è un gigantesco cosmico tergicristallo».

Il Maggiolino a pois c’era davvero?
«Era giallo e i pois rosa erano dell’antiruggine. A sette anni mi vergognavo tantissimo, se ci ripenso adesso era una figata pazzesca».

L’amicizia è un tema forte.
«Quando ero un ragazzo in città non c’era niente da fare. Ci si ingegnava, si bighellonava inventandosi cose. Berg ha Paul (che è ispirato a Max Casacci, ndr) per condividere le scorribande notturne nei locali affossati nella nebbia. Ci sono personaggi che ricordano Mixo, Gigi Restagno…avventure in una città dormitorio alla ricerca anche di suggestioni esoteriche. Si intrippano di un bellissimo libro, Il mattino dei maghi, e cercano magie in giro per le strade».

Alla fine Berg si risolve?
«Riesce a ricomporre l’iridescenza che lo accompagna e a diventare adulto tenendo dentro la sua parte variopinta. Penso che faccia anche sorridere. È un bambino che con la sua forza incespica davanti al muro della realtà e le cose non tornano, ma trova il modo di armonizzarle».

C’è un personaggio secondario particolare, vero?
«È al Metropolitan, un posto che stava in via Gioberti. Si chiama Luca Ragagnin, beve e manda tutti a fanculo».

QUI l’articolo originale:

https://torino.corriere.it/cultura/21_marzo_28/ragagnin-la-mia-torino-anni-70-80-vista-occhi-bambino-04040ae4-8feb-11eb-bb16-68ed0eb2a8f6.shtml?fbclid=IwAR1Mn9RFWFss-wx1ABpYjCoALC3J-PwX-qzYhflPuQRxEodABaq7QxhkyAY

Endecascivoli – Salvatore Massimo Fazio intervista Patrizio Zurru su La Sicilia

Endecascivoli – Salvatore Massimo Fazio intervista Patrizio Zurru su La Sicilia

Storie alla ricerca della memoria

Patrizio Zurru in libreria con una raccolta di 65 scritti, dal titolo “Endecascivoli”, sospesi tra ricordi di famiglia e fatti quotidiani, talvolta surreali. «In endecasillabi, più o meno»

Ventinove anni esatti dalla precedente opera, per assaporare la maturità dello scrittore Patrizio Zurru. Nel 1992, con “13 racconti”, pubblicato dalla 3B+Z, il natio di Iglesias si districava con emozioni in parola scritta, che ebbero un ottimo riscontro. Prima d’approdare al “libro”, organizzava concerti jazz fino a che: «Sono passati oltre 30 anni (da quell’approdo, n.d.c.) e non ho ancora trovato come uscirne». Ci preme ricordare e lo facciamo senza alcuna piaggeria, che non stiamo parlando soltanto con lo scrittore, bensì con un talent scout tra i maggiori che l’Italia può annoverare: «Ho lavorato come libraio (riconoscimento miglior libraio d’Italia nel 2012, n.d.c.), editore, scrittore, ufficio stampa, curatore di collana, consulente editoriale e agente letterario».

Stakanovismo?

«È la passione, che chiami stakanovismo, per le cose che si fanno, l’idea di raggiungere un obiettivo o di crearne di nuovi. Poi il valore lo stabiliscono gli altri». La poliedricità non è dunque casuale, così come casuali non sono i 65 racconti dell’antologia “Endecascivoli”, edito da Miraggi Edizioni, in libreria da ieri, 23 marzo, tant’è che Patrizio Zurru, che ad oggi cura anche la collana “SideKar” di Arkadia Editore di Cagliari, insieme alle gemelle palermitane Ivana e Mariela Peritore «una collana di isole gemelle» come ama ricordare, pubblica per le edizioni torinesi perché «doveroso ricordare che siamo amici dall’anno della loro fondazione. Ho seguito tutto il loro percorso, così, quando mi hanno chiesto di pubblicare le mie storie con loro mi è sembrata la cosa più naturale, oltre che più bella». Sincero nelle emozioni come i contenuti della nuova opera, gli chiediamo se c’è un filo conduttore tra il dato reale e quello della potenziale fiction: «Sicuramente la liaison è la ricerca della memoria, soprattutto passata, ma anche presente e futura. Si va dalla parte che più mi appartiene, le storie di miniera di mio padre, a quelle che coinvolgono una famiglia numerosa per cuginanza, sparsa per l’Europa, a semplici fatti quotidiani; non mancano i racconti surreali, a intervallare il vero con un po’ di verosimile. Il tutto in endecasillabi, più o meno».

Cosa l’ha ispirata?

«Niente! Scrivo mentre cucino, impiego il tempo di cottura, quando il piatto è pronto il racconto si chiude. Quanto alla pubblicazione, già ti ho detto come avvenuta».

I racconti sono narrati in prima persona: parla di se stesso o presta la sua penna ad altri personaggi?

«In quasi tutti, cerco di riportare storie che ho sentito dai miei, arricchendoli con dettagli inventati».

Cosa pensa dei premi letterari, noti e meno noti? Ambisce a parteciparvi? E se si: per vincere, concorrere o per diffondere il suo libro?

«I premi servono, ancora, a dare un brivido a chi partecipa, come scrittore o lavorante nell’editoria. Per me non so, non credo di averne diritto».

L’endecascivolo cos’è?

«Un piccolo racconto che dopo aver salito gli scalini si butta in discesa liberamente».

Non è un caso allora che proprio col suo libro Miraggi battezza la nuova veste grafica nella collana Garamond: sorpreso, emozionato o cos’altro?

«Sorpreso all’inizio, emozionato sicuramente e incuriosito, felice di partecipare e, a mio modo, collaborare a questo nuovo progetto».

Per chi e perché lo ha scritto, Zurru lo ha detto minimamente in parte e sorridendo di gusto, così si è congedato dalla simpaticissima chiacchierata: «Lo dico nell’ultimo racconto, il 65°. Non vi resta che comprare il libro».

Articolo originale:

Di sangue e di ferro – intervista a Luca Quarin di Laura Fonovich su Udinenews

Di sangue e di ferro – intervista a Luca Quarin di Laura Fonovich su Udinenews

Autofiction contro Autofiction. “Di sangue e di ferro” di Luca Quarin, vince il Contropremio Carver 2021 per la narrativa

È stato un caso che conoscessi, lunedì 8 febbraio alle 11, nella Libreria Einaudi di Udine, lo scrittore udinese Luca Quarin? Forse lo sarebbe stato se fosse successo dopo un mese ma, non a due giorni dalla sua premiazione per la narrativa al Contropremio Carver 2021, con il libro “di sangue e di ferro”. Luca mi ha raccontato che la parte più emozionante del premio è stato arrivare tra i primi cinque finalisti con un suo grande amico, Massimo Cracco autore di “Senza”.

Ogni opera letteraria, prima di essere realizzata, è già presente in un’altra dimensione in attesa di essere risvegliata dall’immaginifico di uno scrittore. Il romanzo “di sangue e di ferro”, come direbbero i cinesi, iniziò a respirare nel 2014 a Treviso, a un corso di scrittura tenuto da un’amica di Luca, Bruna Graziani (promotrice dell’unico festival letterario italiano dedicato alla scrittura autobiografica, Cartacarbone). Bruna sollecitò i partecipanti a scrivere un testo su di una loro esperienza. Un evento drammatico raccontato da uno dei presenti, lo fece riflettere sul rapporto che esiste tra gli eventi della nostra vita, il modo con cui li raccontiamo agli altri, il modo in cui li trasformiamo nella nostra mente, e come in alcuni di essi rimaniamo intrappolati.

Se avessi licenza letteraria definirei il genere di questo romanzo “ipnotico”, ben lontano da una struttura ed una forma etichettabili. Leggendo, ti senti immerso in una di quelle atmosfere che solo alcuni filoni del realismo magico e della letteratura fantastica latino-americana sono in grado di creare. Culture in cui, tutt’ora, sogno e realtà possono tranquillamente convivere senza l’ansia del confine.

Il lettore, a cui consiglio di leggerlo tutto d’un fiato, deve essere pronto ad accogliere questa non-dimensione, dove spazio, tempo e personaggi sembrano annullarsi nella fitta rete di elementi e narrazioni che si sovrappongono. Si crea così, un’attesa da libro giallo in cui non puoi smettere di leggere per scoprire il colpevole.

La dimensione atemporale, provocata da questo continuo entrare ed uscire ad intermittenza dalle varie storie che si intrecciano, fa emergere in modo secco e totalmente reale la violenza del fatto storico attorno a cui gira tutta la narrazione, la strage di Peteano. L’attentato avvenuto il 31 maggio del 1972, uccise tre carabinieri. Evento documentato con stralci di atti provenienti da archivi storici, e vissuto attraverso l’oscuro destino familiare del protagonista Ferro, il cui nebuloso passato è costruito su di una serie di verità non dette.

Ho provato per ben due volte a intervistare Luca Quarin. La seconda gli ho dato appuntamento al Contarena di Udine, luogo in cui il protagonista Ferro si sarebbe dovuto incontrare con un personaggio misterioso, per cercare di non perdere il cammino ma, anche la seconda volta, i ruoli si sono capovolti come in una realtà metonimica, ed è stato lo scrittore ad intervistare il giornalista. Così in una forma inedita d’intervista, in stile autofiction, ho deciso che fosse il suo Libro a fargli le domande:

Libro: …come se il non vedere fosse all’origine delle relazioni tra gli esseri umani, soprattutto tra i maschi e le femmine.

“È una cosa di cui non so dire se credo, forse anche ci credo ma, certamente è una considerazione che deriva dalla mia esperienza. Mi sembra che il fraintendimento, il vedere nell’altro ma, anche altrove, qualcosa di diverso da quello che è, crei quella lontananza che in qualche misura diventa il motore dell’avvicinamento. È quel fraintendimento che si verifica sempre tra gli esseri umani, quello straniamento che mi dà l’impressione essere il  propulsore che ci spinge l’uno verso l’altro. La relazione è la storia del nostro fraintendersi.”

Libro: …come se quello che accadeva lì dentro fosse soltanto la ripetizione di quello che si verificava ogni giorno in quel posto, persone che non sapevano più chi erano che parlavano con persone che sapevano ancora chi erano, o credevano di saperlo, e il loro dialogo era sempre lo stesso, sapere e non sapere, ricordare e non ricordare, integrare in sé o abbandonarsi alla disintegrazione.

“È come se l’Alzheimer fosse metafora della condizione umana. Ci sembra che la condizione normale sia quella della memoria e del dominio del passato, mentre l’Alzheimer quella in cui anche il passato perde i suoi contorni, e smargina in una storia che si dilata che non è più quella che abbiamo vissuto, ma è una storia di fantasmi. Io adesso non so esattamente come sia la percezione di un malato di Alzheimer ma, l’idea che mi sono fatto è che abbia un tratto metaforico che accentua l’esperienza che abbiamo tutti quanti. Quando ti capita di avere degli elementi precisi del passato o perché ti capita in mano una fotografia, o perché leggi una lettera o perché qualcuno ti racconta qualcosa ti rendi conto che quel passato è avvenuto in modo diverso da come tu lo ricordi. È come se tutti vivessimo in una sorta di Alzheimer, sicuramente meno accentuato perché la nostra linea narrativa è più precisa rispetto a quello del malato, però forse non è poi così diversa…forse.”

Libro: “Tu lo sai com’è la letteratura. Un insieme di vincoli narrativi che danno una forma alla mancanza di forma delle cose, il più delle volte una forma diversa da quelle che si aspettava, un conto è fissare le regole e un altro è prevedere i loro esiti”

“I meccanismi narrativi sovraintendono la creazione della realtà. Mi vengono in mente le grandi tragedie del 900’. Il Fascismo, il Nazismo, il Comunismo esperienze che si sono fondate su un insieme di idee e ideologie che poi hanno prodotto qualcosa di probabilmente diverso rispetto a quello che era l’auspicio di chi le scriveva . Quando porti nella realtà le dinamiche della narrazione il risultato che ottieni non è quello della narrazione ma è un risultato diverso. La realtà rompe e frantuma quella struttura narrativa che hai tu portato dentro e che credevi potesse aiutarti a mettere degli argini alla forza della realtà. Probabilmente la realtà travolge sempre quegli argini e determina degli esiti che sono diversi da quelli che tu narrativamente ti aspettavi.”

Libro: “…la storia spesso non sa cosa farsene della verità”.

“Questo assolutamente sì, la storia è una storia. La storia quella con la S maiuscola è una storia. Ho dei dubbi rispetto la monoliticità della storia con la S maiuscola.”

Libro: La strage è un mezzo che il potere utilizza per creare uno stato di allarme nella popolazione, e che gli permette poi di intervenire per assicurarla. È un evento traumatico che interessa solo chi detiene il potere, perché solo chi detiene il potere può gestire gli eventi che ne conseguono. Quindi la strage è un mezzo di prevaricazione del potere sulla popolazione.

“Questo lo dice Vincenzo Vincigurerra in un’intervista che è gli è stata fatta in carcere ad Opera da due giornalisti. Di cui ti consiglio di mettere qui il link di riferimento.”

Libro: “Dunque nella letteratura autofinzionale ”l’io” è “per te”. L’io è il super-prodotto, il prodotto perfetto, si potrebbe dire, l’essenza del prodotto o, ancora meglio, il prodotto di cui si nutre il lettore per nutrire l’autore”.

“Il discorso è legato al cambiamento dell’economia di mercato e alla centralità del soggetto nella storia contemporanea. Se la storia del 900’ è stata la storia di alcune idee forti, dopo l’89’ che ha sancito la fine delle grandi avventure ideologiche è rimasto il soggetto l’elemento centrale, e di conseguenza il soggetto diventa sia il bersaglio del mercato ma anche il prodotto perfetto del mercato. Tutto il filone della narrativa autofinzionale cavalca questo concetto. Non c’è più il romanzo ma c’è lo scrittore, un po’ come nella logica del reality, dove il prodotto non è più lo spettacolo non è più la storia ma è ma un soggetto che si esprime come soggetto. La letteratura autofinzionale cade spesso in questo giochino della morbosità, della curiosità del sapere se è lui o non è lui e se racconta di sé. L’autobiografia del passato aveva la pretesa di essere oggettiva e quindi raccontare le vicende che erano accadute a chi scriveva la sua autobiografia, il quale cercava di essere il più possibile fedele ai fatti. L’autofinzione non ha più quel vincolo di fedeltà, quindi gioca sulla grande ambiguità tra il narrato ed il reale, ed è proprio quell’ambiguità che solletica il lettore a domandarsi continuamente ma sta parlando di sé o sta inventando. L’autofinzione è un giochino che mette nelle mani dello scrittore un meccanismo molto sottile per prendere in giro il lettore. È autofinzionale anche Donald Trump che fa Donald Trump, non è più Donald Trump ma è lui che interpreta Donald Trump, esattamente come l’autore interpreta il personaggio di sé stesso.”

Libro: “Ieri ti dicevo di Ahoron Appelfeld e dell’impossibilità di raccontare la storia senza tradirla. Sia quella con la S maiuscola che quella con la s minuscola”

“Ahoron Appelfeld non racconta mai la sua esperienza, è stato protagonista in prima persona della persecuzione ebraica, però nella sua letteratura non racconta mai quello che gli è accaduto, e io ne ho parlato proprio per questo, perché è il contrario dell’autofinzione.”

”Mi piace guardare le cose che crescono – aveva detto la vecchia, accarezzando una pianta selvatica che spuntava dall’asfalto – le cose che crescono, e sbocciano, e svaniscono, e muoiono, e si trasformano in altre cose”. Poi gli  aveva chiesto che fiore avrebbe voluto essere, se avesse potuto scegliere, e lui le aveva risposto una margherita… “Perché una margherita?” … “Perché sono tutte uguali? – aveva detto lui…” Sai, Andrea – aveva aggiunto – secondo me questa è la causa di molti mali nel mondo. Quando le persone che sono diverse permettono alle altre persone di considerale uguali”.

Note biografiche
Luca Quarin è nato e vive a Udine. Si è occupato di ambiente, di design e di architettura. Il suo primo romanzo, “Il battito oscuro del mondo”, edito da Autori Riuniti, ha vinto il Premio Letteratura dell’Istituto Italiano di Cultura e il Golden Book Awards 2018, come migliore romanzo del 2018. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati da riviste quali Parametro, Carie e Crack e da editori quali Biblioteca del Cenide e Lazy Book. Questo è il suo secondo romanzo.

QUI l’articolo originale:

Bianca Bellová intervistata da Valentina Di Cesare su Formicaleone

Bianca Bellová intervistata da Valentina Di Cesare su Formicaleone

Raccontare le prospettive che normalmente non vediamo

Quando ho contattato Bianca Bellová per chiederle di rilasciarmi un’intervista ero, come mi capita spesso dinanzi ad autori che ho molto apprezzato, in forte soggezione. Ho scelto con cura la forma e le parole, ho cesellato ogni vocabolo e poi ho inviato tutto. Bianca ha accettato di rispondere alle mie domande il giorno stesso, con un’energia e una gentilezza non comuni. Non sempre gli scrittori acconsentono a simili proposte, specie se queste giungono dalla redazione di una piccola rivista online nata da pochi mesi che non può vantare alcun blasonato nome o traguardo. Bianca Bellová è, fortunatamente per lei, fuori da questi meccanismi limitanti e non poteva non essere così: a rivelarlo è, del resto, ciò che scrive. 

L’autrice ceca di origini bulgare, nata a Praga nel 1970, è una delle personalità letterarie più autentiche e apprezzate nel suo paese ma non solo. Il suo esordio letterario, avvenuto nel 2009, è solo la prima tappa di un crescendo sempre più meritato che l’ha vista nel 2016, con il suo romanzo “Il lago” tradotto in quindici lingue, vincitrice di due importanti riconoscimenti: il Premio Unione Europea per la Letteratura e il Premio Nazionale Magnesia Litera. È proprio con “Il lago”,edito da Miraggi nel 2018 all’interno della preziosa collana NováVlna diretta da Alessandro De Vito, che il pubblico di casa nostra ha potuto finalmente conoscere questa voce inconfondibile e potente, in grado di raccontare e scandagliare i sentimenti umani, – dai più cupi e dolorosi sino ai più teneri – con un coraggio e una profondità illuminanti. Tradotta in italiano da Laura Angeloni, l’opera di Bianca Bellová sa sempre rivelare ogni nascondiglio umano con una chiarezza e una chiaroveggenza che in tanta letteratura contemporanea è molto difficile rintracciare. Nel 2020 è stato sempre l’editore Miraggi a pubblicare l’edizione italiana del suo nuovo romanzo intitolato”Mona” e di nuovo l’attenzione di molti lettori italiani si è rivolta alla sua opera. Le prospettive umane che Bianca Bellová sa indagare e far emergere sono gli angoli più nascosti del quotidiano, quelli che più difficilmente vogliamo affrontare. Non solo la ricerca delle verità esteriori sembrano stare alla base dei suoi romanzi. A esse si affianca un’altra esplorazione parallela: quella del proprio inconscio, dei simboli che ogni individuo si costruisce per sopravvivere, quegli stessi simboli che un bel giorno vanno conosciuti davvero, affrontati, esperiti, accettati e se necessario abbattuti. 

Nami, il personaggio protagonista de “Il lago”, ha una personalità molto complessa. Com’è stato entrare in empatia con uno come lui?
«Nami è un ragazzo sfortunato che cresce senza gli appigli che tutti diamo per scontati – genitori, casa, comodità – e ha una mappa molto approssimativa grazie alla quale navigare nella vita. Devo dire che non auguro a nessuno di essere nei panni dei miei personaggi. Di solito hanno sfide incredibilmente difficili da superare. E sì, mi dispiace per loro, ma si deve andare molto in profondità nella disperazione o persino nel trauma per iniziare a crescere. E poi ci sono sempre altri umani sulla strada per aiutarti a portare la tua croce».

“Il lago” è un romanzo di violenza e compassione, un romanzo di dolore ma anche di resistenza. Non ci sono giudizi, c’è solo l’umanità. Credi che la letteratura possa aiutarci ad osservare meglio il mondo e a capire gli altri più a fondo?
«Ebbene sì, lo hai detto. È il lavoro delle persone che scrivono, fanno musica, dipingono, ballano o fanno qualsiasi altra cosa per mostrare agli altri il mondo da prospettive che normalmente non vediamo».

È da poco uscito anche in Italia e sempre per Miraggi il tuo nuovo romanzo “Mona” . Quali sono i temi più ricorrenti della tua scrittura e perché?
«Quando guardo indietro, ci sono davvero temi che si ripetono: di solito si tratta di un individuo con una situazione familiare difficile, quasi sempre danneggiata. Ecco, il protagonista spesso deve far fronte a situazioni che mettono in discussione la sua integrità o conformità morale. Deve affilare bene gli attrezzi, insomma. 
Inoltre, mi rendo conto che per qualche motivo non ancora ben chiaro a me stessa, c’è un tema assai ricorrente che è quello dell’acqua. È forse quasi un personaggio.
Questo vale per i miei testi più lunghi; quando si tratta di racconti, i temi variano molto, dai thriller noir, all’ironia situazionale a gravi e importanti drammi storici.
Non saprei dirti perché accade tutto ciò, io penso sempre che sono i temi a scegliere me , e non il contrario. Mi sento più come se fossi l’intermediario, una sorta di strumento o semplicemente una macchina da scrivere in grado di  catturare idee e immagini che non sono interamente mie, sono solo là fuori, in attesa di essere colte, plasmate e narrate».

Hai debuttato nel 2009 e da allora hai avuto una buona risposta dal pubblico. La tua scrittura è maturata in questi anni? Cosa è cambiato nel tuo modo di fare letteratura e cosa invece è rimasto intatto? 
«Credo che ci sia stato un certo sviluppo nella mia scrittura. Dopotutto, ognuno di noi dovrebbe essere in grado migliorare le proprie abilità se le mette in atto costantemente, che tu sia un falegname o un pastaio è lo stesso. Probabilmente con il passare del tempo arrivo più rapidamente ai miei obiettivi, e per obiettivi intendo le storie da raccontare. Certo, mi capita ancora iniziare a scrivere un testo che non porta da nessuna parte ma ora lo riconosco molto più velocemente e non provo più a rianimare una pagina se non respira. Rispetto a prima , la mia prosa attuale è molto più semplice o più pura di una volta, provo maggiormente a  concentrarmi sulla storia e a dare al lettore più spazio per usare la propria immaginazione. Sono anche più cauta, cerco di evitare di causare troppi “traumi” al lettore, a meno che non sia davvero richiesto dalla storia. Sono sempre stata abbastanza realista, ad esempio nella rappresentazione del sesso o delle scene violente, non tralasciavo nulla, ero davvero precisa ma ora uso sempre meno scelte di questo tipo. Spero che quando sarò anziana la mia scrittura si ridurrà al minimo. Ecco, mi vedo già, con i miei capelli bianchi a pronunciare solo brevissime sentenze o piccole frasi. Possibilmente un haiku».

Pensi che si possa essere scrittori senza provare emozioni forti?
«Questa domanda è interessante, ma non so forse uno psicologo potrebbe rispondere meglio. Conosco un gran numero di autori di successo, alcuni estremamente introversi, altri estremamente estroversi, ma come e se provano emozioni forti possono saperlo solo loro. Certo, credo che serva una dose elevata di empatia e capacità di osservazione estrema per scrivere testi che siano coinvolgenti per gli altri.
L’estrema sensibilità e l’estrema creatività spesso vanno di pari passo: questa sensibilità è insieme una benedizione e una maledizione per chi la possiede.  La percezione del mondo per la persona sensibile è molto più densa e colorata, ricca di sfaccettature e visioni, ma la sua vita quotidiana può essere davvero dura; è più reattiva agli stimoli e questo può riversarsi anche non positivamente sul suo sistema immunitario. Questo tipo di persona si stanca facilmente, ha reazioni molto più emotive rispetto al normale e spesso non è in grado di gestire il rumore o la folla per periodi di tempo lunghi. È come se dovesse in qualche modo pagare questo dono che possiede la sensibilità appunto, ma dall’altra parte ha il privilegio di averla e usarla per gli altri, per stimolare e nutrire la loro immaginazione».
 

La scrittrice italiana Elsa Morante ha detto: “Una delle possibili definizioni giuste di scrittore per me, sarebbe anche la seguente: una persona a cui importa tutto ciò che accade, tranne la letteratura”. Sei d’accordo? Qual è la tua definizione di scrittore?
«Sono assolutamente d’accordo. Non mi interessa la letteratura, mi interessano solo i buoni libri e le storie buone.  Ed è molto importante essere intuitivo e “prensile” su tutto ciò che accade: chi scrive dovrebbe essere sempre pronto a trarre ispirazione da qualsiasi angolo, anche il più improbabile della conoscenza umana, che si tratti di uno stralcio di  poesia cinese del IV secolo o di notizie di microcriminalità su un giornale di provincia. Per me lo scrittore è qualcuno che scrive per vivere ma qui ci inerpichiamo in un percorso pericoloso e complesso. 
Puoi essere super bravo – come Ian McEwan, diciamo, o Stephen King – ma puoi anche essere condizionato da bisogni materiali e quindi decidere di abbandonare la tua autenticità di autore solo per scrivere ciò che sai che lettori apprezzeranno (e compreranno). Questo è un vicolo cieco troppo pericoloso per l’esplorazione e la creatività e non vorrei mai percorrerlo. Non voglio dipendere finanziariamente dalla mia scrittura, voglio solo ottenere piacere e soddisfazione dal processo di scrittura».


Bianca Bellová è una scrittrice ceca di origini bulgare. Nata a Praga nel 1970, ha scritto una serie di libri: Sentimentální Román (Sentimental Novel, 2009), Mrtvý muž (Dead Man, 2011), Celý den se nic nestane (Non accade niente tutto il giorno, 2013) e Jezero (The Lake, 2016).  Con Jezero ha vinto il maggior Premio Letterario della Repubblica Ceca, il Magnesia Litera e inoltre nel 2016 si è aggiudicata il Premio dell’Unione Europe per la letteratura. Jezero è stato tradotto in numerose lingue tra cui l’italiano con il titolo Il lago per le edizioni Miraggi (traduzione di Laura Agnoloni). Il 3 giugno 2020, sempre per Miraggi Edizioni è uscito Mona, il suo ultimo romanzo.

QUI l’articolo originale:

Langhe inquiete – intervista a Marco Giacosa di Guido Tiberga su La Stampa

Langhe inquiete – intervista a Marco Giacosa di Guido Tiberga su La Stampa

Quando a Barolo il vino si beveva dai pintoni, non nei calici alla moda

Marco Giacosa è uno scrittore che parte dalle cose piccole per raccontare la grandezza della vita. Lo aveva già fatto anni fa con «L’occhio della mucca» o con la rubrica «Cose che ho visto oggi», prima su Facebook e poi sull’edizione torinese della «Stampa». Piccole storie quotidiane capaci di diventare «narrativa» solo nel momento in cui il narratore sapeva riconoscerle come storie da raccontare. Con «Langhe inquiete» (Miraggi Edizioni), Giacosa compie la stessa operazione su se stesso. Ha recuperato una serie di post usciti sui blog e sui social, li ha cuciti insieme, ne ha fatto un libro che nel sottotitolo definisce «appunti per un romanzo». Una sorta di autobiografia che, attraverso le memorie personali e familiari, diventa anche uno specchio delle Langhe «di prima». Prima del turismo, della moda, delle colline cool e patinate.

Giacosa, attraverso i ricordi della sua famiglia, lei ci riporta alle campagne piemontesi del primo Novecento, quando i bambini andavano a lavorare dopo due-tre anni di elementari, quando la religione era più dei bigotti che dei credenti. Una vita scandita da tradizioni che lasciano tracce ancora oggi. Che cosa è rimasto in lei in tutto questo?

«Molto. A quelle tradizioni sono stato legato in modo quasi malato per molto tempo. Sono cresciuto con il codice del “si fa così” e del “non si fa”, l’ho suburra per anni senza neppure chiedermi se mi piacesse o no. Ci ho sofferto parecchio finché c’ero dentro. Poi me ne sono staccato, e a quel punto ne ho riconosciuto il fascino. Adesso che non ci vivo più sono davvero libero di sentirmi figlio delle Langhe».

Le sue pagine raccontano un rapporto stretto, ma a volte conflittuale con la famiglia. Specie con suo padre, a cui ha dedicato il libro e di cui parla spesso su Facebook. Rimpianti?

«È una cosa che succede a molti: cresci nella convinzione di essere molto diverso da tuo padre, e poi con il passare del tempo ti accorgi di assomigliargli sempre di più: te lo fanno notare, i gesti, gli atteggiamenti, il modo di camminare sono uguali ai suoi. Mio padre aveva la mania di tenere diari, scriveva, raccoglieva fotografie. È come se facesse Facebook prima di Facebook: nei suoi album non ci sono solo le foto, ci sono ritagli di giornale, commenti, poesie che aveva scritto per qualche ricorrenza, appunti dei discorsi che teneva ai matrimoni».

Lei ha scritto che l’anno passato nell’Alessandrino a fare il carabiniere di leva è stato il «migliore della sua vita». Perché?

«Perché per la prima volta ero e mi sentivo legittimato a stare lontano da casa. Mio nonno aveva fatto la guerra negli Alpini, mio padre era veterinario ma era stato ufficiale di complemento. In famiglia c’era l’idea del cittadino che deve rispondere quando lo Stato chiama».

Lei però ha studiato a Torino. Non bastava l’Università per sancire il «distacco»?

«Nel weekend rientravo ad Alessandria, mia mamma mi preparava il cibo e mi stirava i vestiti. C’era sempre l’idea, anche metaforica, del “tornare a casa”».

Lei si descrive come un bambino solitario. Era così?

«Io ho avuto la fortuna di crescere con mio nonno, in una piccola borgata come Pela, a sette chilometri da Alba. Quando da piccolo giochi in un cortile di campagna la tua socialità è data dalle persone che passano in quel cortile. E di bambini, in genere, ne passano pochissimi. Così il mondo lo scoprivo da solo: il muschio, l’uva, gli animali. A volte i contadini pagavano mio padre veterinario in natura, con un cambio-merce: ricordo che un giorno arrivò con un asino. La mia infanzia ha avuto un senso di avventura».

Non le mancava qualcuno con cui giocare?

«No. In fondo io non ho perso qualcosa, non l’ho mai avuta».

Nel libro, però, racconta di una vacanza con altri bambini in cui si sentiva isolato perché lei «non era di Alba, ma di un paese vicino». Bastavano i 7 chilometri tra Pela e la città per sentirsi diverso?

«Era come essere la provincia della provincia. Ad Alba c’erano i figli dei professionisti: a casa parlavamo in italiano, mentre noi usavamo il dialetto. La differenza era evidente, specie più avanti, al liceo: io avevo amici che lavoravano da idraulici o da muratori, molti studiavano negli istituti professionali. Erano i tempi in cui andare a bere il vino non faceva ancora figo: c’erano i pintoni, non i calici».

Le sue Langhe «inquiete» oggi sono diventate un’altra cosa. Viste da Torino, dove vive da anni, che effetto le fanno?

«Da ragazzo andavo a Barolo con i miei amici, in motorino. Ci fermavamo in piazza a parlare, compravamo la focaccia, qualche birra di nascosto al bar. Ci sono passato qualche tempo fa: ogni dieci metri un negozio che vende vino, cantine, qualcosa di turistico».

Meglio allora?

«No, no. Mi fa piacere che ci siano dei piccoli imprenditori, che non siano solo Ferrero e Miroglio ad aver trasformato le terre della Malora di Fenoglio. Però lasciatemi un po’ di orgoglio: io ho visto l’anima di questi luoghi, chi ci passa un weekend e se ne va non la vedrà mai».

Articolo originale:

Il gruppo di lettura ConTesto Diverso legge “Quando i padri camminavano nel vuoto” di Piergianni Curti

Il gruppo di lettura ConTesto Diverso legge “Quando i padri camminavano nel vuoto” di Piergianni Curti

A settembre 2020 è partito il gruppo di lettura “ConTesto Diverso” nuovo progetto targato Periferia Letteraria.

Lo scopo è di approfondire e arricchirsi in un’analisi di lettura non subita ma elaborata dal singolo e sviluppata nella pluralità. Non si tratta di affrontare il testo con pretese tecniche e critiche, ma di maturare il nostro approccio spontaneo alla lettura.

Il primo autore ospite è Piergianni Curti con libro “Quando i padri camminavano nel vuoto” edizione Miraggi, Collana Scafiblù. Padri e figli: uno dei rapporti più complessi in natura. I figli che scrivono dei padri sono molti, sono un tassello importante per ripercorrere scelte esistenziali che si ripetono in tutte le generazioni. Due figure intorno a cui si muove il racconto: in un rapporto delicato un padre formidabile ma duro ed ingombrante e un figlio pieno di buone intenzioni. Tra aspettative e incomprensioni del padre, si assiste alla formazione della personalità dei figli in un rapporto familiare sicuramente interessante e decisivo per la crescita e poi, più tardi, direzioni di vita che prendono corpo in modi diversi attraverso gusti e scelte a volte non condivise. I protagonisti vengono a patti con i loro padri, reali e spirituali, accentandoli anche nelle loro debolezze. L’argomento del padre è sterminato e riguarda tutti noi come figli, come padri o come madri, perché figura in rapido mutamento.

Tea Castiglione

Il contributo di ciascuno allarga, modifica e arricchisce le considerazioni scaturite da questa esperienza di lettura.

Ecco le domande dei nostri lettori:

· Sandrina: “Quando i padri camminavano nel vuoto” – Il vuoto sottintende momenti di assenza dal mondo che ruota intorno? Questo vuoto si ritrova nei figli e nei giovani di quella generazione, quando non si trovavano certezze o risposte a momenti di vita?

· Giovanna: Com’è da intendersi il vuoto del titolo? E i Padri di adesso camminano nel vuoto? Se si è lo stesso vuoto o è un vuoto diverso?

Curti: Quando ero bambino leggevo i fumetti ed ero colpito dal fatto che, nei fumetti, i personaggi potessero camminare nel vuoto fino a che non ne prendessero coscienza. Così avevo almeno due (ma anche più di due) ossessioni: quella di capire come si potessero riconoscere i vivi dai morti (evidente metafora del riconoscere una vita autentica da una vita inautentica), e quella di riconoscere chi cercava di prendere coscienza dei problemi e chi cercava di comportarsi al contrario.

Dunque, camminare nel vuoto significa vivere senza voler prendere coscienza dei problemi per non essere costretto a cadere, cioè a rendersi conto della propria vita fatua, falsa. Che era quello che faceva, secondo me, la maggior parte della popolazione di quella cittadina.

Una precisazione: il libro nasce dalla convinzione che nel dopoguerra, che io ho vissuto, si facesse finta di aver risolto i problemi dell’Italia. Giustamente, la gente cercava di vivere nuovamente, ma contemporaneamente di non porsi molti problemi (almeno in quella cittadina, ma, come si sa, il piccolo è quasi sempre modello in miniatura di quella che succede in grande: quanti problemi irrisolti a partire da quel tempo ci portiamo dietro, addirittura amplifcati? Nella sua presentazione del libro al Circolo dei lettori lo storico Gianni Oliva, concordando con la mia tesi, ci ha gratificati con una splendida Lectio magistralis sul tema). Ne è prova il fatto che il Padre, pur tra tante contraddizioni, cercava di svegliare le coscienze con la sua frenetica attività culturale. Che non ha avuto successo: il successo, temporaneo, era legato all’adrenalina che scatenava con le sue provocazioni, non al fatto che riuscisse a promuovere una seria presa di coscienza nei concittadini.

· Mirella: Innanzi tutto desidero esprimere il mio apprezzamento all’autore per la grazia con cui ha descritto questo padre. A tratti mi è parso di intuire un’inversione di ruoli, il bambino sembrava assumersi il ruolo di genitore. È un’intuizione corretta la mia? Nelle caratteristiche del padre io non vedo la debolezza ma l’unica forza che abbiamo come individui: il coraggio di essere noi stessi e il coraggio di vivere. Che tipo di padre, in senso ampio ovviamente: genitore/educatore è stato una volta cresciuto il bambino? È riuscito a guidare con lo stesso talento, libero da ogni forma di costrizione e pregiudizio?

Curti: Questa è la domanda che negli incontri mi è stata posta con maggiore frequenza. Potrei rispondere che questa domanda si dovrebbe (potrebbe) porre a chiunque, e che chiunque dovrebbe tentare di rispondere a questa domanda. L’educazione è la cosa più complessa della vita umana, inizia alla nascita e termina alla morte, e non è possibile sperimentare personalmente che la propria educazione. Per questo è importante questa domanda: segnala che ciascuno di noi ha bisogno di confrontarla con quella degli altri. Ma torniamo alla domanda specifica: la mia è stata una educazione difficile, ma contemporaneamente esaltante. Intanto mi mi ha insegnato la libertà (condizione difficile). Difficile perché mi ha obbligato alla responsabilità: a non camminare nel vuoto. Difficile. Mi ha posto un mucchio di domande, fin da piccolo, insegnandomi che “le vere domande hanno risposte infinite” (come si legge nel romanzo). Mi ha insegnato a non giudicare frettolosamente, ma a capire: capire significa “obbligarsi a trovare la soluzione, obbligarsi a capire”. Difficile perché era difficile mio padre, che soffriva e lottava, senza rete. Difficile, ma produttiva, perché mi ha messo nella condizione di figlio e di padre. Il che mi ha, credo, fatto diventare un padre amoroso, e mi ha spinto a scegliere nella vita il ruolo di educatore: uno che aiuta a trovare la propria strada. Mi pare, con un certo successo.

Ancora: il romanzo racconta anche la generazione dei figli, che probabilmente camminavano anch’essi nel vuoto, convinti però di essere su terreno solido. Avevo, almeno dal tempo del liceo, chiaramente la certezza che la mia generazione si stesse staccando dai padri, e questo molto prima del Sessantotto, e che la nuova generazione fosse lanciata alla conquista del potere. Magari, in piccola parte, con coscienza. In gran parte, no. Lo stesso Sessantotto è stato un movimento ambiguo (anche con molte istanze giuste), dove, come si sa, prevalevano narcisismo e ricerca del potere, anche se non solo.

· Donatella: Mi è sembrato di avvertire una differenza non saprei… di tonalità, di atmosfera e forse anche di stile nella IIª e soprattutto nella IIIª parte; il figlio adulto e il padre meno fuori dalle righe. Penso non sia casuale, ma…

Curti: Sì, il padre sconfitto e sofferente cercava, come un guerriero ferito, di riprendere le forze e di salvare il salvabile, scaricando la propria bizzarria nella scrittura del romanzo in latino (comunque autentica bizzarria) e di lottare, nel nuovo mondo, ormai mutato, con le armi che aveva a disposizione. E, con debolezze: il tentativo di prendere scorciatoie e di accettare compromessi, per stanchezza, sfiducia, disperazione, ma tentativo abbandonato perché in realtà in conflitto insanabile con la propria etica. E il finale è in tono minore, per sottolineare anche il grigiore del mondo attorno a lui, che ancora una volta ripeteva gli schemi che aveva conosciuto in precedenza: ma stavolta erano le nuove leve, i giovani post Sessantotto, quelli che avevano fatto la rivoluzione contro quegli schemi, che ripetevano gli stessi errori.

E il figlio? Beh, direi che ha introiettato l’impossibilità di accettare compromessi, di giudicare senza capire, di seguire schemi consolidati e ingiusti. Vive “in modo sperimentale”, si potrebbe dire, come fisico della vita: sospende i giudizi, mette alla prova le proprie credenze, accetta l’idea che le domande hanno risposte infinite, e cerca soluzioni umane, che non facciano male agli altri. Prendendo coscienza dei limiti e accettandoli. E questo non gli rende la vita facile, ma perlomeno, nei limiti umani, ragionevolmente giusta: si spera, almeno, che così sia. Senza pretendere di imporre agli altri la propria visione del mondo, restando possibilista, accettando di metterla in discussione, attento alla sofferenza altrui: come si dovrebbe essere. 

· Gina: L’abbandono del cane, perché questa mancanza di coraggio nel tenerlo?

Curti: Una storia terribile, che ha segnato me per tutta la vita, ma che ha segnato anche mio padre. Che poi per tutta la vita ha avuto cani presi al canile, a cui ha dato il nome di quel cane. 

Il racconto segnala la sua difficile crescita (padre e figlio crescevano, nell’educazione si cresce in due), la sua mancanza di coraggio, che ammetteva, ma, come per il leone del Mago di Oz, ha poi mostrato di avere coraggio per tutta la vita, quando davvero era difficile averlo, nei momenti in cui si sarebbe giocato il futuro, e nei quali avrebbe pagato caramente la scelta coraggiosa. Per cui, nessuno sconto, ma onore al fatto che mio padre ammetteva sempre i propri errori e non pensava di meritare sconti. 

Avrebbe potuto tenerlo? Sì, ma: io credevo di essere colpevole, perché avevo terrore del cane, e non facevo niente (non potevo) per vincere il terrore. Un terrore tale che nessuno riusciva a rassicurarmi. Lui non sapeva come fare. Aveva chiesto a qualcuno che gli aveva detto di farlo ammazzare. In quel mondo non si era teneri con nessuno, tantomeno con gli animali. Lui credeva di rendermi responsabile accollando a me la scelta. Ma era una vigliaccheria. Voleva liberarsi del problema, assillato com’era da tutti i guai che lo assediavano. Certo, lui non sapeva come domare il cane. E anche lui si sentiva colpevole di non sapere come fare: devo dire, nelle cose pratiche era un totale imbranato. Comunque non si è mai perdonato. E io non l’ho mai perdonato. E perfino da grande mi ha chiesto scusa. Chissà se questa è una giustificazione sufficiente? Da quella storia ho imparato molto, comunque: che non si scarica mai sugli altri una tua responsabilità. E che si impara anche dalle cose ingiuste, se si vive in un clima in cui si cerca la verità.

Grazie a tutti per le domande, intelligenti e molto centrate.

Nell’incontro in presenza avremo il piacere di conoscerci, di chiacchierare, di parlare, male o bene, del libro, e di noi, che è quello che conta.

Nota: a proposito di educazione.

Il libro può essere visto, come detto, come incentrato sul problema dell’educazione. E come ho detto, il problema vissuto mi ha spinto ad occuparmi di educazione. Ho insegnato nella scuola per molti anni, in particolare al liceo, poi sono passato all’università. Sono specializzato in didattica della matematica e ho scritto dieci libri di matematica per vari ordini di scuola e uno per l’università, e tre libri di fisica per il liceo scientifico. Per sette anni ho avuto una borsa di studio del CNR, nella facoltà di matematica, in didattica della matematica, e per dieci anni sono stato responsabile della formazione scientifica nei laboratori di pedagogia fondati da Francesco de Bartolomeis e diretti da Piero Simondo. Inoltre sono stato comandato al Piano nazionale per l’informatica e all’Irrsae Piemonte, istituto di ricerca pedagogica.

Questo il frutto della mia educazione? Forse non tanto, o non solo. Il frutto è stata la mia concezione dell’educazione, che ho cercato di praticare sul serio: se non capisci (matematica, fisica) il problema riguarda me e te. E insieme troviamo la strada per capire, in primo luogo, a cosa serve a te, nella tua vita, la matematica. E quale matematica. E se questa fosse per ora poca, l’importante è che tu rimanga aperto alla matematica e che sia pronto quando ti servirà. Tocca al docente, all’adulto, dimostrare che la matematica serve per leggere il mondo, e per te. La risposta, alla domanda implicita che chi non ama, o non crede di amare la matematica, pone, è sempre la stessa: a me, ai miei problemi di adolescente, che serve la matematica? Mi sono posto sempre, di fronte a questa domanda, come un padre che non vuole che il figlio si perda: troviamo insieme la risposta. Proviamo ad avere entrambi pazienza, non perdiamo il contatto. Io cerco di capire te, tu cerca di farti capire. Io aspetto, e non ti perdo. Io non ti giudico, rispetto le tue difficoltà. Tullio De Mauro aveva sperimentato che cinque anni dopo che si è concluso lo studio di una materia si retrocede di cinque anni rispetto alla conoscenza. Io confermo che chi termina il liceo, dopo forse meno di cinque anni, se non ha scelto una facoltà scientifica, non sa più quasi nulla di matematica. Perché ha perso tanto tempo inutilmente? Serve davvero immagazzinare con terrore ricettari da cucina matematica e formule che si squaglieranno in un tempo brevissimo, lasciando una immagine distorta, oppressiva, triste della matematica? Quando ero docente al Piano per l’introduzione dell’informatica (anni ’87-89), alla seconda settimana di corso facevo svolgere un tema ai miei allievi, tutti illustri docenti dei trienni di scuola superiore: che immagine della matematica veicolo ai miei studenti? I risultati erano deludenti e banali per la maggior parte dei casi: una visione impoverita e orrorifica della matematica.

Ho sempre lottato per questo. Se mi guardo attorno, ho perso (ma non con i miei allievi).

Con amicizia e affetto,

Piergianni

Nicola Manuppelli scopre e traduce Aaron Klopstein – intervista e nota del traduttore che accompagna il romanzo!

Nicola Manuppelli scopre e traduce Aaron Klopstein – intervista e nota del traduttore che accompagna il romanzo!

Qual’è stato il particolare e il tuo stato d’animo quando hai scoperto questo libro? Perchè hai deciso di farlo conoscere in Italia?

Ho vissuto la sorpresa di quando si scopre un autore sconosciuto per motivi misteriosi perché la sua opera è invece di grande valore. Klopstein appartiene alla grande tradizione ebreo-americana, anzi ne è uno dei precursori, perché viene prima di Bellow e Roth. Ma in lui echeggia anche Kafka. E non è una sorpresa che i suoi dialoghi surreali affascinassero Chanlder.

Spesso si sente dire che la lettura svolga un ruolo curativo, secondo te la scrittura ha anche lo stesso ruolo? Stesso vale anche per la traduzione?

Credo che la letteratura – parlo di questo tipo di lettura, almeno – debbano essere prima di tutto intrattenimento. Klopstein lo è, anche se poi in tutta la sua narrativa c’è un percorso esistenziale, domande sull’arte e sulla vita

Se questo libro che hai tradotto fosse un medicinale che medicinale sarebbe? E pensando ai bugiardini che accompagnano appunto i medicinali, quali potrebbero essere gli effetti collaterali?

Sarebbe un placebo. Zero effetti collaterali. Semplice acqua che diventa magica per chi ci vuole credere.

C’è una domanda che avresti voluto ricevere e che nessuno ti ha mai fatto sul tuo mestiere? Provi a rispondere a questa domanda?

Vorresti campare con la scrittura? Risposta. Sì.

Sulla base dei libri precedenti che hai tradotto, cosa rappresenta questa traduzione? In fin dei conti tradurre significa anche riscrivere, reinterpretare, pensi che ogni scrittura sia trovare un pezzo di te? Oppure lasciare un pezzo di te? 

Questo è uno dei libri più intimi e personali che ho tradotto. Sento questo autore molto vicino, ogni tanto mi sembra quasi di personificarmi in lui. I libri che scrivo come autore sono molto diversi da quelli di Klopstein, ma anni fa, quando ho iniziato a scrivere, sognavo di realizzare un libro sciolto, diretto e agile come “I perdenti”. Credo di averci messo dentro questo di me, quel pezzo del mio passato che oggi rivive attraverso Klopstein.

Clicca sull’immagine per vedere la scheda libro!

Ecco la postfazione del traduttore che accompagna il romanzo uscito ieri 16 novembre!

Ci sono pochissime informazioni riguardo ad Aaron Klopstein, scrittore ebreo-americano nato a Tysmenitz in Galizia, oggi in Ucraina, nello stesso paese dove nacque Henry Roth. I due scrittori, di fatto, avevano solo un anno di età di differenza e si incontrarono qualche volta a New York e in seguito a Yaddo, come risulta dalle carte di Henry Roth custodite dall’American Jewish Historical Society. Probabilmente, chissà, chiacchierarono di scrittura e di celebrità, e del perché, per motivi diversi, il mondo delle lettere pareva ignorarli. Henry Roth ebbe un lungo blocco creativo, dopo Chiamalo sonno, che lo portò a mollare la scrittura per decenni e a tornare con il fluviale Mercy of a Rude Stream solo in tarda età, quando alcuni critici importanti già avevano riscoperto quel suo primo romanzo e lo avevano eletto a genio dimenticato. Il percorso di Klopstein fu diverso, ma altrettanto sofferto. Pubblicò sempre in poche copie, gettò via un sacco di idee, non raggiunse mai la fama, eppure per i suoi amici, per le persone che lo conoscevano intimamente (Raymond Chandler, Hedda Hopper, John Houston, e in qualche modo anche Ernest Hemingway), era lo scrittore di maggior talento della sua generazione. Il suo nome comparve solo qua e là saltuariamente, divenne leggendaria la sua abitudine di scrivere i libri “ a memoria ” prima di stenderli su carta. Lavorava a mente, come un aedo, sviluppando le proprie storie attraverso una tradizione orale che lui stesso creava; giorno dopo giorno, nei circoli artistici che frequentava, si presentava narrando nuovi episodi della storia a cui stava lavorando. Tutti gli copiavano idee mentre lui solo saltuariamente si prendeva la briga di battere a macchina quello che aveva elaborato. Furono soprattutto i suoi amici più stretti a insistere e a convincerlo, anche perché Klopstein, con la sua vita estrema, versava sempre in enormi difficoltà economiche.
Si racconta che già a quindici anni, sulle terrazze del Lower East side, la gente si raccoglieva attorno a lui per sentirlo raccontare. Le sue erano storie che partivano dal quartiere ebraico di New York ma poi diventavano altro, diventavano sogni, allucinazioni, favole universali. E presto, dal Lower East Side, si mosse verso gli ambienti culturali più vivi della città per conoscere gli scrittori – i colleghi – che a volte, per lui, si rivelarono una grossa delusione. Hedda Hopper racconta di come Hemingway si impossessò di uno di quei raccontini “ orali ” di un giovanissimo Klopstein per farne una delle sue short story più celebri. Da qui nacque uno scontro, un’antipatia, una gelosia che forse costò la carriera a Klopstein. Per quanto riguarda l’altro grande scrittore americano dell’epoca, F. Scott Fitzgerald, si sa che i due si frequentarono e che c’era simpatia, e poco altro. Si sa che si consigliarono dei libri reciprocamente, e che chiacchierarono un paio di volte di letteratura americana. Questo ce lo racconta la scrittrice del Nebraska Sarah Ferguson, che con Klopstein ebbe una relazione piuttosto tormentata (fu, a tutti gli effetti, la sua femme fatale).
Klopstein comunque scrisse e pubblicò, anche se in poche copie. Tre romanzi (The Chinese Magician, I perdenti e Bay) arrivarono quasi a ottenere una tiratura più alta, ma c’era sempre qualcosa che si metteva in mezzo. Spesso il carattere di Klopstein, dipendente dall’alcol, umorale, non amante dei compromessi, volubile. In ogni caso furono, dei suoi sette romanzi messi su carta (altri ce ne sarebbero stati se fosse stato possibile fermare nel tempo le storie da lui raccontate oralmente) quelli più fortunati (anche se di piccola fortuna si tratta). Anni dopo, quando il nome di Klopstein fu riscoperto per caso grazie a Barry Day e al suo lavoro su Chandler, furono questi romanzi che emersero per primi. Da allora (stiamo parlando solo di una manciata di anni fa) si è creato un piccolo culto attorno all’opera dello “ scrittore maledetto ”. Intanto, è emerso il suo ruolo nel sottobosco della cultura newyorchese prima e di quella losangelina in seguito. Si è parlato molto dei suoi demoni privati. Soprattutto, le sue pubblicazioni originali, come la copia de I perdenti, con appunti a mano di Raymond Chandler, sono diventati pezzi da collezione, da cultori, battuti all’asta per migliaia di dollari. È emerso il suo ruolo a Hollywood, il sogno di fare l’attore, l’amicizia fraterna con John Houston. La morte tragica – suicida al Greenwich Village – già prefigurata prima per scherzo da Raymond Chandler, quasi come se Chandler fosse il Conte di Saint Germain.
Il suo nome ora colpisce gli occhi dei suoi ancora pochi cultori, che lo ritrovano in corrispondenze private, che lo vedono emergere ogni tanto in appunti di autori molto più fortunati. Forse, lentamente, questa fortuna si sta riversando anche su di lui, il più misconosciuto autore ebreo-­americano.
In questo senso, il recente ritrovamento del profilo di Klopstein a opera di Hedda Hopper (manoscritto che ringrazio Diego Bressan per avermi aiutato a decifrare) è una preziosa fonte di informazioni. Chi era Klopstein? Che cosa si nasconde dietro il suo percorso assolutamente anomalo? Forse, come pare sperare Louis Berenstein dei Perdenti, una redenzione c’è e anche per Klopstein ora è il momento di essere recuperato e salvato dal tempo.”

MUSICA SOLIDA – Erika Zini intervista Vito Vita su Bookmania Ciao Radio

MUSICA SOLIDA – Erika Zini intervista Vito Vita su Bookmania Ciao Radio

Quanti di voi conservano a casa dei vinili? E i 78 giri li ricordate? Di CD ne acquistate ancora? La storia dell’Industria discografica italiana ha radici indietro nel tempo e molto è cambiato da quando Ricordi era una edizione musicale di spartiti (sembra incredibile ma senza i supporti fisici, l’unico modo per ascoltare musica era… suonarla!). Ne parliamo a #Bookmania oggi insieme a Vito Vita, esperto musicale, giornalista e musicista, che ha raccolto nel suo libro “Musica Solida” (Miraggi Edizioni) oltre 100 anni di storia, tracciando le tappe chiave di un industria che da “solida” è diventata ora “liquida” (o gassosa 😉 ).

https://www.youtube.com/channel/UCb97TgAyZjIYNDCw3a9CdBg