A sette anni Tommaso batte a macchina con disinvoltura; il padre, che fa il segretario in uno studio legale, gliel’ha insegnato quando era piccolo e il suo primo regalo importante è una Olivetti portatile. È questo il motivo che spinge il ragazzo a scegliere la carriera di giornalista a Milano, mentre è l’esplosione della bomba di piazza Fontana e il ferimento subito in quell’occasione a fargli decidere di partire per Roma alla ricerca di un cambiamento. In Roma, pubblicato da Miraggi edizioni, Nicola Manuppelli affronta una sfida coraggiosa: raccontare la Cinecittà di Fellini, ma anche il Pigneto, Trastevere, piazza del Popolo degli anni 1970-71 attingendo ad aneddoti su aneddoti (su Richard Burton, su Walter Chiari, su Gore Vidal per citare solo alcuni dei personaggi che compaiono nel libro) senza cadere nel bozzettistico. Ci riesce e il suo romanzo fa scoprire al lettore un’epoca d’oro del cinema italiano attraverso gli occhi di un giovane ingenuo ed entusiasta. A Roma, Tommaso conosce Satchmo, un sosia di Louis Armstrong, che vive costruendo notizie false sui divi grazie a una rete di collaboratori, tra cui presto annovera anche il nuovo arrivato. Tra cene che si protraggono tutta la notte, bevute interminabili, corse di maiali al Circo Massimo, Tommaso fa gli incontri fondamentali della sua vita. A stregarlo è Judy, un’inglesina di Bath, che sogna di fare l’attrice e vende gelati. L’amarissimo finale oltre a segnare la fine della giovinezza, marca quel confine tra vero e falso che tutta l’atmosfera intorno a Tommaso sembrava voler negare. Manuppelli alterna il lavoro di scrittore a quello di traduttore di classici americani: la sua prosa vivace e appassionata ne trae gran giovamento.
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“Le ragazze stan sedute/ I ragazzi le osservano in piedi/ Attaccano bottone” oppure “Una volta lo facevamo/ Allora lo tengo io?/ Sì sì tienilo tu/ Pronto?/ Una cosa storica sull’Italia/ Della lavanda/ Mi manda l’email dopo, ha detto” oppure ancora “Bruciata a bruciapelo/ Ce l’aveva adesso in mano/ Ognuno ha le proprie/ Quanto?”. E infine: “È molto facile contrarre la malattia e l’opposizione deve essere pronta fin delle prime ore del mattino. Non è semplice opporsi ma è il livello minimo e anche massimo di soluzione nota. Anche se in realtà, almeno fino a oggi, non ha quasi mai veramente rappresentato una soluzione”. La tensostruttura di quest’opera vive nella temporaneità della posizione nella quale i materiali sono mantenuti. Guardandola dal basso uno si può chiedere come diamine si regga in piedi. Ma ecco ci viene in auto la citazione iniziale: “non sentirti in imbarazzo, puoi leggere in tutti gli ordini / come? / indicazioni preziose / come?” La risposta era già nella prima frase. Porsi ulteriori domande o meravigliarsi non ci porterà beneficio. Prestando l’orecchio alla rete-realtà, o alla reale realtà, come una grattugia con il formaggio, ecco che cosa cade dentro al piatto. Frammenti di un tutto e non briciole, che sono gli avanzi. Hanno forse una propria vita e una propria dignità, questi frammenti? Sono tessere di un puzzle in grado di sopravvivere se staccate dal resto del gregge? Ed è come se prendessi tutte le tessere di questo puzzle e le disponessi a casaccio sopra un grande tavolo. La figura intera c’è, è tutta lì, solo che ancora non si comprende e non si vede e, forse, non si vedrà mai del tutto, eclissata dall’incapacità della mano o dalla volontà di completarla o meno, semmai un puzzle disposto in tale modo completo non lo sia già…
Di cosa stiamo parlando? Di un tipo di ricerca poetica sviluppatasi dopo gli anni Novanta in un contesto che succede alla tradizione delle avanguardie storiche e nel quale i nuovi autori, in pratica, si trovano in un ambiente editoriale vuoto che essi stessi intendono riempire. Flarf poetry, googlism, minimalist concrete poetry, cut up e cose così. Metto subito le mani avanti: non conoscevo l’argomento, la tecnica, il dietro le quinte, ho cercato di saperne di più. Sono cioè un lettore popolare al quale questo volumetto è capitato tra le mani. Perché è questo quello che accade ai libri. Vengono presi in mano. Da chi? Da lettori senza pregiudizi e così devono fare anche i libri nei confronti di chi li legge: essere senza pregiudizi. Farsi cioè leggere da chiunque. Logico, direte voi. Non è così semplice. Tornando a noi, Marco Giovenale in questo mondo di ricerca poetica è uno degli esponenti più noti, facente parte del gruppo GAMM, attivo dal 2006 assieme ad Alessandro Broggi, Gherardo Bortolotti, Massimo Sannelli e Michele Zaffarano. Ma tornando alla domanda iniziale: di cosa stiamo parlando? Di una ricerca poetica che rinuncia al lirismo, smembra i testi (nella postfazione di Paolo Zublena la si paragona a una ventata fredda come l’asetticità di un’operazione chirurgica) trasformandoli in frasi volanti che prendono quasi la forma di spezzoni di conversazioni captate in mezzo alla gente. L’autore rifiuta uno stile qualsiasi, una struttura qualsiasi, allo scopo di ottenere un componimento non assertivo e una poesia no-logo, mi verrebbe da dire, a cominciare dalle maiuscole che non esistono più. Un approccio “caviardage” del poeta nel cosmo delle parole possibili, non ancora scritte e fluttuanti. Almeno questa è la sensazione del vostro lettore popolare.
Leggi la recensione di Marco Brollo anche qui
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Amo di un amore smisurato questi versi di Pasquale Panella, li porto con me e quando mi accingo a scriverne non riesco più.
Non è un monologo, è un soliloquio, nessun suono.
Come si possa costruire una meraviglia di versi sul continuo dirsi, nel silenzio e nella chiacchiera, mi sembra un vero incantesimo.
Incantata sto “Così che leggere è aggiungere i rumori, fingendo la leggibilità del soliloquio, che è illeggibile.”
Mi prende voglia che non sia vero, che non esista chi sappia così bene di cosa sono fatti i pensieri della solitaria, della solitudine, dell’essere soli, mi prende e mi accompagna verso il personaggio principale, “l’ascoltatrice”, colei che trascrive il soliloquio.
Il soliloquio, questa intima piazzata, questo comizio, questo convenire, qui, di un’oratrice che ha solo se stessa a ascoltarla, a ascoltarsi, a sentirsi regnante sul silenzio.
Il soliloquio come il mare, come le onde, come le maree, come il moto di rotazione della terra intorno a se stessa, come il respiro nei polmoni arriva, invade, ossigena e va via in anidride, il soliloquio occupa e si disperde nella testa, nel pensiero, va e ritorna.
Puro e bianco movimento che viene fatto e cancellato dal suo farsi.
Nel parlarsi addosso “torniamo alla mia voce che io sola sento” la raccontiamo a tutti, scrivendola su un foglio bianco, raccontiamo che vorremmo raccontare.
La volontà, la nostra ” è vero che ci capiamo, umanità?”
Fra disperazione e divertimento, fra ironia e dramma, facciamo di un foglio bianco il tramite di pensieri e azioni, il tramite di un messaggio scritto, perché se lei, la voce, scrive, scritto è.
In un mio antico farneticare scrissi “Dirlo a tutti per non dirlo a nessuno” ed in Poema Bianco (Miraggi edizioni), in questa delizia in versi, noi ci lasciamo andare dove il poeta ci vuole portare: essere cullati dalle parole, dalla ripetitività della certezza che ce le potremo dire ancora e ancora e ancora.
Non è con il pensiero
che ti ricordo
Non è con il ricordo
che ti penso
È un’altra cosa:
è il senso
Prima non era
necessario”
Salutando con un inchino un autore inarrivabile, un gigante, un grande, e sentendomi rispondere
Lo chiamano Scriba, perché “ha la fissa di scrivere tutto, con ossessione, ovunque si trovi”. Ormai da anni dorme tre ore per notte, il resto lo passa a vedere i sogni degli altri. Non sa perché gli succede, ma i sogni delle persone che dormono nelle sue vicinanze gli invadono la testa, mostrando i loro desideri marci, le paure, le ossessioni. Scrivere lo aiuta a capire. Conoscere i sogni degli altri lo aiuta a capire. Eppure “ora che la Notte dei Botti è scoppiata il casino è davvero grande”, è difficile orientarsi. C’è un senso in quello che sta accadendo, oltre al “gusto della sopraffazione e all’euforia del pestaggio?”. Esplosioni, scontri, panico, morti e feriti, cariche della polizia, “fumo da non vederci più nulla”. Non è ben chiaro cosa sia successo davvero e perché, forse molte cose insieme: “per strada, oltre alle ambulanze e alle sirene, oltre ai pompieri per i primi incendi, festosi si erano riversati in molti. Grandi e piccini, intere famiglie, in molti gridavano (…) evidenze protese, più o meno alte, più o meno mature, (…) protese comunque, squadernate, rivendicate, falliche evidenze acuminate, acuminate e urgenti, inderogabili, sfinenti”. In cielo è tutto un volare di elicotteri, le strade sono invase da ingorghi colossali, le autostrade sono chiuse da posti di blocco. Molti vengono ammassati in un autogrill – è da lì che Scriba è fuggito quando la puzza di piscio, sudore e merda si è fatta intollerabile – si parla di Resistenti che si oppongono alle forze che guidano la Notte dei Botti (che ufficialmente si chiama la Notte della Libera Espressione), ma esistono davvero? Scriba non lo sa, nessuno lo sa…
Arriva finalmente in libreria questo fascinoso romanzo breve scritto tra 1993 e 1997 da Biagio Cepollaro – poeta e pittore, teorico del “postmoderno critico” e tra i promotori del Gruppo 93 – su indicazione di Nanni Balestrini, che stimolava continuamente l’autore a cimentarsi con la prosa. Dopo qualche abboccamento non andato a buon fine, il romanzo è rimasto però inedito, pubblicato solo online sul sito di Cepollaro, fino a quando Francesco Forlani (che nella bandella definisce felicemente La notte dei botti “un viaggio davvero al termine della notte”) lo ha proposto a Miraggi. Ed ora eccolo qui: un piccolo gioiello a metà tra avanguardia letteraria e pamphlet politico, ambiti apparentemente inconciliabili ma la cui ibridazione Cepollaro governa con maestria e passione, evitando sia la cerebralità sia l’ingenuità. Nato in un periodo di ricerca linguistica molto intensa dell’autore, La notte dei botti è espressione di un laboratorio linguistico: il testo oscilla continuamente tra realismo scarno e visionarietà poetica, ogni parola è scelta con cura, ogni immagine o metafora è rigorosamente non casuale, il linguaggio racconta – o per meglio dire incarna – il passaggio traumatico tra moderno e postmoderno. Si era negli anni ’90, per definizione il decennio della fine delle ideologie, della agonia del Novecento, della ricerca di nuove identità sociali e politiche, della fusione e della confusione. L’alba di una presunta nuova era, i primi vagiti della Seconda Repubblica. La notte dei botti coglie alla perfezione il nucleo di angoscia di quei momenti, sfrondato di tutte le sovrastrutture, le (false) speranze, le farse mediatiche. Con sensibilità da poeta Cepollaro qui scarnifica il reale, ne mostra l’anima nera. La notte che ci descrive è un violento tutti contro tutti, è un sinistro redde rationem. Lo ha spiegato lui stesso alla trasmissione radiofonica “Fahrenheit” qualche tempo fa: “C’è un equivoco fondamentale, anche nel linguaggio comune, che negli anni si è andato aggravando: e cioè che parole che una volta significavano qualcosa – tipo libertà e riforma – hanno cominciato a significare un’altra cosa, anzi a significare l’opposto di prima. Questa notte della Libera Espressione sembra essere finalmente la realizzazione di un sogno, e in realtà è l’inizio della fine, l’inizio di una dittatura di tipo cileno”. Libro apparentemente di non facile lettura, ma se ci si approccia a livello puramente emozionale, regala un’esperienza potente ed epifanica.
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Jacinta Kerketta, una poeta dall’India che parte da sé e dal legame con la madre per agire con forza nel mondo
L’incontro con Jacinta Kerketta amplia il nostro sguardo non solo sulla complessa realtà dei popoli tribali dell’India dal punto di vista di una giovane donna, con una soggettività forte ma riesce a farci riflettere anche sulla nostra.
Conoscendo il suo lavoro e lei, come è avvenuto alla Libreria delle donne di Milano il 5 maggio 2018 durante il tour italiano che l’ha portata in varie università e librerie italiane (Venezia, Torino, Milano, Roma) ho capito da dove le proveniva questa forza e la capacità di muoversi in ambienti sempre più ampi. È una testimone in grado di mostrare non solo ciò che vede ma anche quello che non si vuol vedere e che lei sente, un sentire femminile fonte di conoscenza per tutte e tutti, alla maniera indicata dalla filosofa Maria Zambrano
Ho scoperto attraverso la lettura delle sue poesie, pubblicate in Italia nel volume Brace, che Kerketta riconosce l’importanza del legame con la madre per una soggettività capace di trovare le parole che non nascondano ma illuminino la realtà e che aiutino a trasformarla, insomma per quello che il femminismo della libertà chiama politica del simbolico. Infatti fin dalla dedica. “A mia madre, Pushpa Anima Kerketta, fonte della mia ispirazione poetica”, esprime riconoscenza pubblica verso sua madre, una donna che ha sostenuto il desiderio della figlia di diventare giornalista, con l’iscrizione alla facoltà di Mass Comunication di Ranchi, fatto che Jacinta ricorda nelle sue interviste.
La figura di una madre che, pur avendo sperimentato la violenza maschile e capitalistica, continua a lottare appare nella poesia Le armi nelle mie mani. Una madre che, anche se soccomberà, insegna alla figlia a portare avanti una lotta, in cui si tratta di salvare i sogni della madre, una lotta che va ben oltre la sola militanza.
La potenza immaginifica delle poesie di Kerketta è radicata nel suo essere donna e subito mi è venuto in mente il libro di Luisa Muraro, Non è da tutti, L’indicibile fortuna di nascere donna(Carocci, Roma 2011, p. 92 e seg) dove si sottolinea l’eccellenza femminile non come “superiorità relativa che richieda continui confronti […] ma che va riconosciuta per se stessa come un saper tenersi in presenza del mondo”.
Ad esempio, nella poesia La lingua umana l’io poetante guarda “come il ramo di un albero/ fa cadere pian piano le foglie/ dal suo petto/ come una madre/ che toglie il proprio latte/ al bimbo che cresce” e questo permette alla sua anima di ascoltare “una conversazione che non si è mai potuta registrare/ in un documento storico.// e quelli che sono intenti a riempire documenti/ con mucchi di parole/ quelle parole non le possono capire./ perché l’umanità non riesce a capire/ proprio la lingua umana…?”
Mi viene in mente, come dice Zambrano, che la storia vera dovrebbe mostrare lo spessore invisibile dei fatti, trovando il linguaggio più adatto. Non a caso la filosofa spagnola, come Kerketta, rivaluta la poesia come fonte sia di una conoscenza più autentica sia della possibilità della sua comunicazione. Infatti nell’intervista di Daniela Bezzi (“Dalla terra delle foreste. Incontro. Della scrittrice indiana Jacinta Kerketta esce in Italia «Brace», poesie dedicate al riscatto” in Alias, supplemento de il manifesto, 5 maggio 2018, p.8-9 leggibile anche in http://www.libreriadelledonne.it/dalla-terra-delle-foreste-incontro-con-jacinta-kerketta/) racconta che “dopo essere stata testimone di tanti abusi nella totale disattenzione dei reporters locali, e sarebbe fuorviante parlare di corruzione, spesso si tratta solo di pigrizia” aveva deciso di diventare giornalista per “raccontare come stavano veramente le cose e sono stati anni straordinari, prima come apprendista, poi inviata di qua e di là”. Avendo vinto premi importanti lasciò il quotidiano Prabhat Khabar, testata in lingua Hindi con grande seguito per continuare come free lance. Ed “è stato in quel periodo di totale libertà che la poesia ha cominciato a guadagnare spazio, non in alternativa al giornalismo, semmai come trasmissione più immediata di ciò che mi stava a cuore, e dritto al cuore di chi mi leggeva. Ha influito in questo cambio di registro la consapevolezza che il giornalismo, a determinati livelli, ha le mani legate – difficile non ricevere pressioni nella regione ricchissima di risorse minerarie, dove vivo io… Il che ha reso ancor più semplice la mia ritirata dalla stampa. I socials mi hanno aiutato.”
Kerketta conosce il valore della lingua materna, di cui ci segnala l’amorosa cura perché essa sia linfa vitale che scorre tra le generazioni e ci segnala il rischio che le parole diventino solo belle parole. Le sue parole sono l’espressione del radicamento nella propria esperienza soggettiva che solo così si apre all’universale.
Ad esempio nella poesia esseri umani e parole “all’alba la mamma con delicatezza/solleva il cestino colmo di parole/toglie la pula, le mette sul focolare/ fa marinare le parole/le avvolge in foglie di saraī/
e poi le dà da mangiare ai suoi bambini”.
Jacinta Kerketta ci mostra anche come in questo mondo globalizzato occorra essere capaci di destreggiarsi tra lingua madre e altre lingue, come e perché salvaguardare quelle delle minoranze. Lei scrive Hindi: questa è stata la sua prima lingua, benchè appartenga all’etnia Oraon che parla il kuruk. I suoi genitori si spostarono dal villaggio di Khudpos alla cittadina, Manoharpur, dove il padre trovò lavoro nella polizia e la sua educazione fu in Hindi e poi in Inglese. Il kuruk l’ha imparato, quando ha cominciato a tenere corsi di scrittura creativa per le ragazzine del villaggio di Kacchabari, nella zona di Khunti. Lei nell’intervista la definisce: “Esperienza straordinaria, dalla quale ho ricevuto moltissimo, che mi ha messo a confronto con un mondo di cui sapevo ma di cui non immaginavo la felicità, per quella totale consonanza con la natura, e una natura che ovunque guardi letteralmente ti parla… e poi le feste, per ogni momento del ciclo agrario, con le danze, donne e uomini, tutti in circolo, al suono dei tamburi, fin dentro la notte, unica luce quella della luna che non hai idea quanto riesce a illuminare. Letteralmente una gioia scappare dalla città per sentirmi a casa lì, perché è lì che so di avere le mie radici…”
Dunque si passa da una lingua all’altra per amore delle relazioni, per radicarsi e poi comunicare le proprie scoperte.
Della sofferenza per la perdita della lingua materna “[…]imprigionata/ proprio dentro la bocca della mamma/”scrive in La morte della madrelingua, tradotta in inglese in Land of the Roots, Terra di Radici per l’editore tedesco Johannes Laping. La mamma“di fronte alle prospettive che mostravano/ sogni di pane per i propri figli/ lei ha serrato i denti/ e sotto i sogni di quei bocconi/ la madrelingua è rimasta stritolata.” Non è stata morte naturale anche se alla mamma sembra solo un incidente.
Ricordo quando insegnavo italiano, e non solo, a una scuola per mamme straniere come loro cercassero di parlarlo con le loro creature passando così una lingua sgrammaticata e incompleta e come invece, quando dicevo loro di parlare a casa la loro lingua, capivano subito che era la scelta giusta.
Kerketta è capace di osservare empaticamente ciò che la circonda e di sentire la natura in stretta relazione con gli esseri viventi, mostrando i legami tra microcosmo e macrocosmo.
Ad esempio nella poesia Una sera al villaggio scrive:la sera accende il fuoco/ nella stufa a legna del giardino/ dalla stufa esce fumo/ e la luna, sbirciando fra gli alberi, /si mette a tossire,/ la ragazza accorre a dare un colpetto/ sulla schiena della luna.
Nelle poesie la personificazione non è una figura retorica, ma risponde a una concezione della natura e di quale rapporto gli esseri umani possono intrecciare.
Nell’incontro alla Libreria delle donne ha sottolineato il valore dell’essere donna nella cultura ancestrale adivasi e come cerchi di trasmetterla con le sue poesie. Si tratta di una cultura che rispetta gli alberi secolari, i campi ricavati disboscando solo alcune zone, perché gli esseri umani sanno viverci armonicamente, non considerandosi separati dalla natura. Nell’intervista ci propone una riflessione: “partecipe di quello stesso humus che continuamente si arricchisce proprio in virtù di quella infinitamente rinnovata convivenza, l’umanità dovrebbe capire che, nel profondo, we are all one, figli della stessa terra. La politica cercherà sempre di dividerci, per dominarci meglio: hindu contro mussulmani, dalits contro adivasi,e all’interno del mondo adivasi ecco che stanno fomentando il risentimento contro i cristiani. Anche la violenza contro le donne rientra in questa strategia: non è solo violenza di genere, è violenza istigata per dividere ancor meglio uomini di comunità diverse che fino a ieri riuscivano a convivere e oggi conviene che siano in guerra, perché in questo modo ci si appropria più facilmente di territori che magari fanno gola – ed ecco che anche il corpo delle donne diventa campo di battaglia.”
Con una potenza espressionista che ci scuote in Fiumi rossi denuncia sia la distruzione delle foreste con i disboscamenti e con le piogge acide, sia la distruzione dei saperi ancestrali attraverso i modi moderni di intervenire nelle calamità naturali come in Tempeste e soccorsi, dove i soccorritori fanno “a brandelli la storia dei villaggi”.
Vi è uno stretto rapporto tra le sue emozioni, ciò che testimonia e la sua scrittura come in Occhi inondati di lacrime dove racconta: “succede spesso che/ mentre scrivo una poesia/ chissà perché/ mi si riempiono gli occhi di lacrime.” Forse dovrebbe costruire una diga, ma le dighe sono anche quelle che provocano inondazioni e lacrime nelle popolazioni che lei conosce.
Non è una poesia intimistica: denuncia senza perdere la speranza perché conosce la forza della natura ma anche quella del linguaggio che rende coscienti e spinge alla lotta.
Ad esempio Quando la fame diventa fuoco, se all’inizio “il corpo dell’inchiostro sembra sciogliersi/ perdendosi in una profonda apprensione.” alla fine “una poesia canticchia/ mentre arrostisce al fuoco della fame/ e con lei si sollevano insieme/ i fuochi di molte case/ contro tutte le cause della fame.”
È molto attenta a ciò che accade alle donne e voglio terminare con qualche verso di Quando il tempo alzerà la voce? dove“una madre/ che conosce ogni cellula /dei suoi bambini,/ questa volta/ non riesce a capire/ come mai il bastone della sua vecchiaia/ non è altro che pelle e ossa.// da molto tempo ormai/ il suo petto soffre di una spaventosa/ siccità di latte/ come un ciocco bagnato fumante/ lei si consuma all’interno/ bruciando di disperazione/ e continua a percepire/ fisso sulla sua porta/ lo sguardo di un avvoltoio.//”
Questo testo mi ricorda le battaglie di Lina Merlin per la situazione di miseria del nostro Polesine: in un suo intervento parlamentare del 1951 contro gli stanziamenti per armi raccontava di aver visto “una piccola creatura con gli occhi spenti, simile a tante altre che malamente vegetano nel Delta padano, e ciò perché i seni materni sono inariditi dalla fame” (Lina Merlin, La mia vita, a cura di Elena Marinucci, Giunti, Firenze 1989, p.174)
Come Lina ci incitava a lottare così Kerketta denuncia gli accaparratori di terre e si domanda quando inizierà il tempo della rivolta “le giovani ossa finora dormienti/ quando si leveranno in un boato/ e si metteranno a battere/ i nagāṛā come tamburi di guerra?// quando verrà il tempo/ di reclamare a gran voce/ i diritti che spettano come propri/ e di scacciare gli avvoltoi/ che si accalcano sulla soglia?”
Kerketta crea poesia per avere uno sguardo più profondo che diventa capace di trasformare anche il nostro.
Leggi la recensione di Luciana Tavernini anche qui
Una banale lite tra vicini, di quelle che accadono più o meno a tutti una volta nella vita. Quello che non capita, di solito, è il passo successivo, scoprire dalla polizia di essere morto. O meglio, scoprire l’esistenza di un verbale che notifica il proprio decesso. João Paulo Cuenca, 40 anni, è uno dei più talentuosi scrittori brasiliani contemporanei. Già nel 2012 la rivista inglese Granta lo ha inserito in una ristretta cerchia di autori sudamericani da tenere d’occhio. E la previsione ha trovato conferma nei lavori degli anni seguenti: romanzi, articoli, opere cinematografiche. Ho scoperto di essere morto – pubblicato in otto lingue e in Italia meritevolmente edito da Miraggi (pp. 176, euro 16) con l’avvincente traduzione di Eloisa Del Giudice – è la discesa in un doppio inferno: sociale e personale, un viaggio delirante nelle mille contraddizioni di una Rio de Janeiro che si sta preparando ai Giochi Olimpici tra speculazioni edilizie, polizie più o meno segrete, feste, droghe, alcol, situazioni comiche al limite del grottesco, individui scellerati.
Lo spunto di partenza è autobiografico (nel libro c’è anche il famigerato certificato di morte), ma si trasforma rapidamente in un pamphlet urbano denso di misteri e colpi di scena. L’inventiva anarcoide di Cuenca mantiene alta fino all’ultima pagina la tensione, addirittura amplificata dalla sorprendente postfazione attribuita a una studentessa che nelle pagine precedenti compare con osservazioni critiche nei confronti dello stesso scrittore. Che con questo romanzo si è aggiudicato il premio Machado de Assis, il più importante riconoscimento letterario brasiliano.
La storia narrata dalla scrittrice ceca Bianca Bellovà è quella di un ragazzino, orfano, allevato dai nonni in un piccolo villaggio sulle rive di un grande lago nel cui si specchio si riconosce la vicenda del lago Aral, una delle più grandi catastrofi ambientali del pianeta. La morte improvvisa dei nonni spinge il piccolo protagonista, Nami, a partire dalla ricerca della mamma che è convinto sia ancora viva. Un viaggio epico in un mondo duro e surreale che forgerà il carattere del giovane. Un romanzo ricchissimo a metà tra il racconto di formazione e la fiaba gotica.
Oggi, dopo qualche settimana dall’incontro di João Paulo Cuenca alla libreria Milton, il libraio che noi della Miraggi riteniamo essere uno dei migliori librai italiani e risponde al nome di Carlo Borgogno, ci manda queste quattro righe che ha scritto perché sono ancora caldi il sentimento e l’emozione della lettura di questo libro! Qualcuno di voi potrebbe interrogarsi su quale sia il metro di giudizio per decretare un libraio un grande libraio, giusto? Credo che la risposta possa essere composta da una serie di aspetti inequivocabili, uno dei quali la passione per la lettura, lui che è prima di tutto vorace e attento lettore e quindi libraio fidato. Entrare da Milton ad Alba si rimane letteralmente affascinati dalla libreria che rispecchia bene lo spirito del libraio stesso. Chi ha letto questo piccolo capolavoro Ho scoperto di essere morto riuscirà a trovarvi qualche comune impressione con Carlo e per chi non l’avesse letto, sicuramente la curiosità di leggerlo. In fondo facciamo e vendiamo libri per cui vale la pena innamorarsi.
Ecco la recensione fantastica di Carlo Borgogno:
Ho letto e riletto il libro di Cuenca negli ultimi giorni poichè dovendolo presentare nella mia libreria ed avendone subodorato l’importanza e lo spessore letterario non volevo farmi cogliere impreparato.
È perciò un libro che consiglio di leggere e rileggere: piacevole, fluido, interessante, divertente e provocatorio ad una prima lettura, si schiude come un fiore prezioso ad un secondo ed approfondito passaggio grazie al quale si incominciano ad avvertire le solide e meditate architetture della narrazione.
Notti insonni hanno accompagnato la rilettura di alcuni passaggi attraverso i quali sono entrato in empatia con la sofferenza e lo sforzo che l’autore deve aver fatto per raccontare l’abiura da se stesso e la riconciliazione avvenuta attraverso un contrappasso di feroce autolesionismo voluttuoso.
Il libro è pieno di carne, sangue e cemento. Una Rio De Janeiro oltraggiata e deturpata fa da sottofondo alle vicende umane del protagonista che come la città stessa si ritrova a pezzi. Entrambi alla ricerca della propria identità sepolta.
Non credo di essermi spiegato. Cuenca lascia ad ognuno sensazioni troppo personali per essere condivise. È un libro da leggere. Assolutamente. È inutile star qui a far tante parole!
Un mosaico di suoni, immagini e racconti prende progressivamente forma fino a offrire al lettore il ritratto vivente di una città, della sua storia e del suo profilo psichico e criminale. E già, perché la Torino di Domenico Mungo è un’assassina “con un ghigno diabolico” stampato sul volto. È lei la protagonista delle trenta storie mutanti del Suono di Torino – una sciarada intrisa di urla poetiche, stridii di chitarre elettriche e tonfi metallici. Seguendo le tracce della killer seriale si scopre, sotto la rapsodia degli eventi narrati, una trama profonda che lega insieme luoghi, vicende e personaggi, fino a far emergere in trasparenza un romanzo noir dove odio ribelle e amore tradito sono avvinghiati in una lotta all’ultimo sangue.
Mediante il libero riadattamento di articoli, opuscoli e volantini si affrontano efferate stragi fasciste, esecuzioni capitali, gli eroici scioperi del marzo 1943, l’immigrazione meridionale verso le fabbriche del Nord, i bagliori insurrezionali dell’autunno caldo, la marcia dei 40 mila, i drammi del fordismo e la crudele persecuzione dei notav. Il suono di Torino importa in letteratura le tecniche musicali della campionatura, del remixing: “Unico fil rouge, la colonna sonora punk: le strofe rabbiose, dilaniate, furibonde dei Nerorgasmo, distorte qua e là che emergono improvvise tra i fiumi di parole urlate da una gola recisa. Ma anche Negazione, Cesare Pavese, Church of Violence, Totozingaro Contromungo, Rough!, Refused, Fred Buscaglione, Lucio Dalla, il rumore della fabbrica, il deragliare di un treno ad alta velocità.”
Nel capitolo finale l’autore si congeda:
Delle sue valigie di cartone spruzzate di smog e grasso d’officina.
Delle sue barricate operaie
E delle sue università̀ di rampolli della rivoluzione.
Dei suoi mille centri sociali
Ormai necropoli di se stessi
Murati vivi i cuori che anelano
Addio.
Non mi volterò mai, nemmeno per un istante per guardarne i grattacieli e le ciminiere fantasma che mi lascio dietro le spalle.
Torino è la personificazione geolocalizzata della nostra vita miserabile, ma allo stesso tempo la speranza resiliente dell’insubordinazione. Domenico Mungo, del quale Carmilla ha recensito anche Avevamo ragione noi, offre al lettore un modo innovativo di fare poesia e narrativa, una nuova tecnica balistica per scagliare l’arte contro l’oppressione e la violenza del Potere.
José Diaz Fernández fu uno degli intellettuali delle avanguardie spagnole dimenticati dal lungo periodo franchista. Giornalista, repubblicano, attratto dai “grandi fatti russi” e della rivendicazioni operaie in quanto portatrici di una nuova sensibilità morale e letteraria, visse in prima persona la guerra coloniale in Marocco, dove svolse il servizio di leva. Era il 1921, l’anno del disastro militare di Annual, a cui fece seguito una crisi politica che sfociò due anni più tardi nel colpo di stato di Primo de Rivera. Dal fronte scrisse sette racconti indipendenti l’uno dall’altro, aventi “come elemento di unità soltanto l’atmosfera comune”, dati alle stampe nel ’28 come El blocao, titolo tradotto in Casamatta per questa prima edizione italiana. A questi episodi si aggiungono in appendice due caustici articoli pubblicati nel periodo di stanza in Marocco.
Quest’opera, definita “un piccolo capolavoro” dallo scritto Ignacio Martinez de Pisón, autore dell’introduzione, affronta con demistificante realismo una campagna coloniale che portò allo sterminio di quella gioventù che non poteva permettersi di pagare la quota, l’esonero parziale dall’arruolamento. Il blocao è l’avamposto isolato, spesso situato in cima a un’arida altura, in cui venivano dislocate a rotazione le guarnigioni spagnole a presidio del fronte. In esso i soldati protagonisti di questi racconti si trascinano in una logorante monotonia sperimentando un’alienazione dalla vita sociale e affettiva. La sensualità come richiamo della vita, soffocata dal peso dei fucili sulle spalle, e il supplizio dell’attesa di un nemico invisibile assalgono i personaggi annidati nel desertico paesaggio che circonda una fumante cabila o frastornati dall’ingannevole seduzione della Tetuan occupata. Dietro l’aspro smarrimento dei soldati, privati di ogni eroismo, si coglie la resistenza delle tribù del Rif e l’emergere delle idee rivoluzionarie. Queste compaiono in Maddalena rossa, il testo principale del libro, in cui Angustias, un’impetuosa rivoluzionaria, impone il suo esempio a “Occhialini”, uno studente tanto idealista quanto incerto nell’azione, anche al momento di tradire la chiamata alle armi.
Diaz Fernández condusse una battaglia per la letteratura sociale, per il compito giornalistico di “dare una sensazione esatta delle cose”, contro la glorificazione della guerra che occultava la dolorosa realtà di uomini sottratti alle loro vite per servire una fallace idea di patria. Il suo impegno politico continuò con l’opposizione alla dittatura di Primo de Rivera e ai governi del bienio negro repubblicano, pubblicando ulteriori opere nel solco di quella che egli stesso chiamò letteratura “de avanzado”, tra le quali si ricordano La Venus mecánica, El nuevo romanticismo e Octubre rojo en Asturias, apparso sotto lo pseudonimo di José Canel dopo la rivoluzione asturiana del 1934. Eletto alle Cortes repubblicane, ebbe un ruolo a fianco del governo del Fronte Popolare durante la guerra civile, trovando infine la morte in esilio. El blocao è un libro che risponde al sentimento culturale più avanzato degli anni Venti spagnoli e che seppe trovare un chiaro successo editoriale, a dispetto del successivo oblio.
Nel volgere di poche ore una serie di esplosioni semina il panico in città. Nel metrò e nelle strade presidiate da esercito e polizia le vittime si contano a centinaia, compresi dipendenti comunali, sindacalisti, medici e (sostiene qualcuno) lo stesso sindaco, tutti passati per le armi: è la “notte dei botti” che dà il titolo allo sconvolgente, coraggioso romanzo di Biagio Cepollaro, scritto tra il 1993 e il 1997 ma uscito soltanto quest’anno presso l’editore Miraggi. Cosa accade, allora, durante la notte dei botti? Il dominio della merce ha già raggiunto eccessi macroscopici: nonostante siano stati privatizzati addirittura l’aria e i colori, ora i nemici dello Stato sociale, dei vincoli, delle frontiere, i fanatici del “Grande Scroscio della Liquidità”, della “Grande Fiumana delle Libere Espressioni”, pretendono la resa totale della Politica e con un colpo di mano stanno per impossessarsi definitivamente della città.
Scriba, poeta-veggente che sembra rimbalzare nell’oggi da un passato arcaico, dotato com’è della facoltà di ascoltare i sogni altrui, si muove in bicicletta sull’autostrada, pedalando per ore fra carcasse di macchine incendiate, crateri nell’asfalto e cadaveri riversi. Il suo scopo è raccontare la notte dei botti a partire “da quello che uno sente col naso”, “dal non farsi illusioni, dal mettere le mani nelle piaghe”: tutto ciò, si direbbe citando alcuni versi di Cepollaro stesso, per “provare il non-detto / e la sua deflagrazione” (dalla raccolta Scribeide, 1993) e comprendere così il senso di un mondo diventato sempre più oscuro, imperscrutabile. Ma anche Scriba sogna, e in sogno vede i Resistenti ammassarsi in cima all’autostrada, pronti all’azione contro il Nuovo Potere: “Cavalieri a piedi nudi, in piedi, sui cavalli… Centinaia di cavalieri che fanno acrobazie, che saltano da un cavallo all’altro… Cavalli e cavalieri che invadono le strade e le piazze della città disegnando festose figure… Piramidi di cavalieri alte quanto gli edifici… È la prima vera sfida alla Notte dei Botti”. La visione di Scriba si realizzerà concretamente? I Resistenti sapranno organizzare un movimento di opposizione? E saranno poi così forti e numerosi da liberare la città?
L’allegoria della Notte dei botti offre una esemplificazione da manuale del “post-modernismo critico” teorizzato da Cepollaro e dal Gruppo 93, sia sul versante dello stile, sempre teso e sorvegliato nella sua polifonia, sia, soprattutto, per la denuncia tempestiva e spietata dell’ascesa di un capitalismo estremo, eversivo, fattosi più che mai violento dopo il crollo dei freni costituzionali social-democratici impostigli nel “Trentennio glorioso”. La durezza e la potenza del giudizio sul nostro tempo espresso in questo romanzo non sono inferiori a quelle del quasi coevo Le mosche del capitale di Paolo Volponi, nonostante qui ci si focalizzi più spesso sulle classi subalterne, il cui linguaggio è restituito fedelmente nell’”oratura” di Cepollaro. Se infine si volesse assegnare la notte dei botti a un punto preciso della storia recente, a mio parere non bisognerà pensare soltanto agli esordi del ventennio berlusconiano ma a eventi come il varo del Trattato di Maastricht o il golpe extraparlamentare di Mani Pulite che segnano la fine dell’esperienza essenzialmente sovranista della Prima Repubblica e l’avvento del finanzcapitalismo trans-nazionale.
“”È la nostra cecità, cecità esistenziale, che rende il mondo che ci circonda così misterioso. Petr Král, con discrezione, ce lo svela”. Così si apre questa prima edizione italiana di Nozioni di Base, con un’introduzione di Milan Kundera che ci fa presagire un libro certamente sui generis.
Petr Král è uno scrittore e poeta ceco nato a Praga ed emigrato a Parigi nel 1968, dopo l’invasione sovietica. È stato una figura di spicco dell’editoria clandestina fiorita a Parigi nonché dell’intelligenza praghese antisovietica. Diplomato alla FAMU di Praga, ha contribuito a veicolare la cultura non ufficiale svolgendo l’attività di critico letterario e cinematografico, ma anche di interprete, traduttore e insegnante, dedicandosi alla scrittura di saggi, sceneggiature, diverse raccolte di versi in ceco e in francese tra cui Enquête sur des lieux (Flammarion, 2005). Ha contribuito anche alla traduzione e alla diffusione della letteratura ceca in Europa, curando importanti antologie come Le Surréalisme en Tchécoslovaquie (Gallimard 1983) e Anthologie de la poésie tchèque contemporaine 1945-2002 (Gallimard 2002).
Il lettore italiano può avvicinarsi a Král poeta con la raccolta di Tutto sul crepuscolo (Mimesis Edizioni 2014) e alcune poesie tradotte dal ceco e dal francese (rispettivamente da Annalisa Cosentino e da Massimo Rizzante).
Non è, invece, facile incasellare Nozioni di Base (Základní pojmy nell’edizione originale) in un genere letterario predefinito. Edito da Miraggi Edizioni nella collana Tamizdat (pubbicato ”tam” ovvero ”là”, ”altrove”) e tradotto dal ceco da Laura Angeloni, si presenta come una raccolta in prosa di 123 brevi e incisivi pensieri che riguardano svariati oggetti e situazioni della quotidianità dell’autore, che assumono all’interno del libro quasi una connotazione universale.
Definito da Milan Kundera come ”una bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana” si tratta di un collage frammentato di immagini, sensazioni fugaci, epifanie fulminee che lacerano per un istante il tessuto grigio e uniforme della nostra vita quotidiana. Král osserva il mondo, si concentra sugli elementi che appaiono semplici e comprensibili e ne distorce il significato e la funzione. La prima nozione di base riguarda il caffè, una delle immagini più familiari e senza fronzoli per eccellenza, che rappresenta per Král quasi un’improvvisa rivelazione, la coscienza improvvisa della propria esistenza:
”Lasciarsi portare verso se stessi da un sorso bollente, inaspettatamente preciso, della bevanda che ci scorre in corpo insieme ai residui del buio notturno, significa concentrarsi di colpo e affermare chiaramente la propria presenza, nonostante la momentanea indefinitezza dei nostri gesti e la sonnolenza del momento”.
Da questo risveglio scaturiscono gli altri micromondi di Nozioni di base, a partire da un’osservazione attenta degli oggetti comuni e apparentemente futili che ci circondano: ed ecco che Král scrive di una camicia pulita ma anche della zuppa di pesce (”…e la gustiamo con cura, ognuno per sé, la coccoliamo e ci attardiamo con lei come con il nostro destino”), dell’attaccapanni e del cestino per la carta che diventa d’un tratto il custode della nostra esistenza. Ma ci narra anche dei nostri luoghi: il bagno degli uomini e il bagno altrui, l’hotel, la Spagna e l’Italia, l’impellente urgenza di rifugiarsi altrove per fuggire dal qui e ora.
All’interno di queste minuscole avventure, raccontate in tre righe o in due pagine appena, affiorano sensazioni e stati d’animo universali e ben conosciuti: il vizio, l’inerzia, la solitudine, l’incompletezza, l’assenza, ma anche la ridondanza, le aspettative deluse, il desiderio e il sollievo.
L’avvicendarsi dei pensieri di Král ricorda e immagini multiformi di un caleidoscopio: l’autore gioca con le gli oggetti in modo imprevedibile, assembla svariati frammenti di vita, osserva le cose da una prospettiva differente, vaga con la fantasia e l’immaginazione. E così l’ordinario si fa straordinario. Scorgere una sagoma dal finestrino di un treno e pensare all’improvviso a tutte le le vite che non saranno mai le nostre, attraversare una strada e rendersi conto delle possibili scelte che ci lasciamo dietro, l’incontro fugace con una donna sconosciuta con la quale avremmo potuto trascorrere tutta una vita, le inevitabili delusioni (”la cavità in cui precipitano senza scopo le nostre mentine rinsecchite non è solo una trappola misteriosa nella stretta di due fianchi, ma è lo sbadiglio dell’intero deserto cosmo”)
Tutto ciò con cui ci scontriamo ogni giorno sembra avere un’essenza nascosta che Král cerca di rivelare e di interpretare attraverso l’introspezione. Ogni cosa ha la potenzialità, quindi, di rivelarci qualcosa di profondo sulla nostra esistenza, di ”svelare il vero bagliore delle cose nella loro usura”, se solo la osserviamo attentamente. E così una giornata passata a languire nella quiete domestica può portarci a delle conclusioni inaspettate sulla nostra vita.
Ho amato molto questa raccolta, un vero e proprio compendio della vita, con la sua struttura frammentaria, il linguaggio asciutto e a tratti corrosivo, in cui ognuno può perdersi e ritrovarsi. Un approccio molto singolare a questo autore di certo da riscoprire.
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