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Il secondo addio – recensione su Andergraund

Il secondo addio – recensione su Andergraund

Scrivere l’utopia della dimora perduta. “Il secondo addio” di Sylvie Richterová

Con Druhé loučení (“Il secondo addio”, 1994) anche Sylvie Richterová (Brno, 1945), grazie alla traduzione di Alessandro De Vito, entra a far parte della collana “NováVlna” di Miraggi edizioni, specializzata in letteratura ceca. È il terzo libro edito in Italia della scrittrice ceca, emigrata in Italia nel 1971 ed eternamente errante tra Roma e Praga, dopo Místopis (“Topografia”, Edizioni E/O 1986, Rina 2021) e Každá věc ať dospěje na své místo (“Che ogni cosa trovi il suo posto”, Mimesis, 2018).

Gli scritti di Jan consistono di alcuni incartamenti di testi più lunghi e più o meno coerenti e di diversi frammenti più brevi, annotazioni o piccoli lavori a sé stanti. È un romanzo che un giorno mio fratello finirà di scrivere? O è un’accozzaglia autobiografica di ricordi e note diaristiche, per la quale non ha pensato una forma compiuta?” (p. 135)

Un pulviscolo di voci errabonde, una comune di personaggi che abitano la dimora fittizia di un romanzo. Sono solo due dei molteplici modi con cui si potrebbe interpretare Il secondo addio. Il romanzo a variazioni di Richterová gioca continuamente con il carattere fittizio della scrittura e sulle diverse idee di “casa” dei suoi personaggi che vanno spargendosi geograficamente e spiritualmente, per poi svanire egli infissi del tempo e della carta. Non è dunque possibile riassumere un susseguirsi di fatti, la cui credibilità d’altronde è fortemente minata, ma solo soffermarsi sulle tracce di plurali e soggettive ricerche tematiche. Il secondo addio, infatti, solo dal punto di vista dei temi può essere considerato un romanzo corale.

Spesso il lettore si domanderà chi parla, quali parti siano narrate da Jan o da suo fratello, quanto le diverse scritture siano riportate fedelmente o mediate, o se sia tutto un gioco metaletterario di Richterová stessa. Cercherà di ricomporre episodi e vicende da cui sono sempre tolti dei tasselli e non gli sarà mai possibile ricostruire la fabula. Ma se riassumere un intreccio è impossibile, è necessario parlare del vero protagonista di questo romanzo: la scrittura.

“[…] Marie stendeva sulle pareti il colore bianco lavabile con uno spesso pennello piatto, dall’alto in basso, applicava il colore con uniformità e accuratezza, il primo strato copriva lo sporco, il secondo raggiungeva il biancore, ma solo il terzo era immacolato.” (p. 35)

Anche l’appartamento bianco è qualcosa di diverso, c’è silenzio e Marie non invita più ospiti e non organizza cene, nell’appartamento bianco non si cucina, non si beve, non si fuma. Marie non vuole macchie. Non vuole e basta.” (p. 68)

La scrittura si pone in contrasto con la sporcizia del mondo, una sporcizia ubiqua che pervade ogni luogo dell’eterno presente alla fine della Storia, da Roma a Praga, da Padova fino all’America Latina. Uno sporco a cui è contrapposto di continuo il biancore della casa di Marie, emigrata ceca, professoressa di matematica e madre di Michal, nato con quella che si potrebbe definire “un’immacolata concezione”, e di Blanka, “bianca come la pagina bianca, pulita, non scritta e non descritta” (p. 90). Un bianco presente anche nella neve praghese che avvolge la macchina in cui Pavel, intellettuale dissidente, si abbuffa barbaramente o i vestiti della setta messianica da cui si lascia coinvolgere Anna: un’ossessività (presumibilmente di Jan) che si traduce in 69 realizzazioni del solo lemma “bianco”, declinato per genere e numero, in poco meno di 150 pagine. Ma la scrittura come antidoto alla sporcizia può finire per essere forse un “salasso”, un riversarsi tutto intero nella pagina bianca attraverso un sottile filo di inchiostro” (p. 143), una manifestazione essa stessa della sporcizia?

Nonostante nel 1994 Richterová viva ormai da ventitré anni in Italia e abbia un ruolo attivo come mediatrice culturale, sceglie di continuare a scrivere in ceco. Nel romanzo trovano posto temi presenti in molta letteratura mitteleuropea del secondo Novecento, come la persecuzione degli intellettuali da parte di un regime totalitario o il dramma del confine che separa i nuclei famigliari. L’autrice non demistifica la grammatica dell’emigrazione – in cui la scelta della lingua di scrittura gioca un ruolo spesso fondamentale – ma ne compone una propria variazione individuale. Nessuna delle figure che popolano il suo romanzo può essere ridotta a un ruolo o un’identità storica (pratica tipica di un certo sguardo occidentale e del suo pietismo): Pavel non è solo un uomo di scienza ostracizzato e messo a tacere, l’emigrazione politica non chiarisce integralmente la natura errabonda di Jan, la “vita impropria” di Marie nella comune romana non presenta che pallidi accenni alle origini ceche, tanto autoctona da sembrare scritta da una penna italiana. Il suo sguardo si sofferma principalmente sul mistero privato e intimo dei personaggi ancora prima del crollo delle ideologie politiche; la loro ricerca individuale di significazione permane anche in un tempo in cui i confini ritornano a essere invisibili linee che non ostacolano più la circolazione delle persone e la Storia, non agendo più sul presente, da centrale nelle singole biografie può trasformarsi in insignificanza.

Ventidue quaderni, scritti di fretta con una grafia illeggibile, sono tanti, sono troppi.” (p. 75)

Nell’insignificanza può però sfociare anche la cecità narcisistica del singolo, la cui scrittura nel prendersi troppo sul serio rischia di trasformarsi in mera grafomania. Non è infatti casuale che Richterová, portavoce di una letteratura il cui carattere umoristico non ha forse eguali nel mondo, chiuda la sua premessa al libro con un invito allo humour (e con altrettanta ironia inviti a non confondere le vite degli enunciatori-narratori con la propria biografia).

Scriviamo ognuno un nostro libro, pallido riflesso di quel libro dei vivi e dei morti, in cui non vediamo.” (p. 107)

Il tragicomico de Il secondo addio risiede proprio nella serietà con cui è posto il legame tra due termini cardine in Richterová come scrittura e casa, entrambi rimandano a una sfera ideale e sono proiezioni progettuali tese a una struttura immaginaria perfetta e irraggiungibile. Abitare-scrivere – uno scrivere come in Kristóf non connotato in senso letterario – svela il troppo umano bisogno di imprimere una traccia di sé nel mondo, scolpire il fragile passaggio di un sé transitorio, prendere possesso della significazione della propria esistenza.

Ogni voce di questa polifonia sviluppa a modo suo questo binomio bifronte. Marie, la cui scrittura rimane intima, quasi in ombra, vive in una casa condivisa e all’interno della scrittura altrui di cui è depositaria e spesso destinataria. Pavel, che vive isolato rispetto al mondo in un confino subito e forse persino cercato, elabora il “Narciso Cieco”, la bozza di una propria variazione del celebre mito; ripiegato su se stesso, il suo amore per Marie sarà solo platonico, paternale e intriso di belle parole. Jan espone il suo ideale kitsch di domesticità, un idillio famigliare vago e indefinito, forse la pallida eco della casa praghese dei genitori che aveva lasciato da giovane (eco suggerita da un dettaglio significativo come la panca ad angolo). La casa che presto andrà a fuoco, con cui inizia il suo racconto, potrebbe essere l’abbandono dell’illusione di finire un romanzo che non si compie mai, la rinuncia a quella ricerca di significazione che tende al lirismo, a una profondità che talvolta risulta anch’essa kitsch nel suo prendersi troppo sul serio.

Rileggendo a ritroso Il secondo addio, ogni elemento serio rivela il proprio aspetto ridicolo e la scrittura stessa sembra guardare a sé con autoironia: il tono apocalittico con cui Jan esordisce annunciando la fine prossima, la placida quotidianità di una famiglia che probabilmente è solo frutto di fantasia, la scelta di nomi quali Blanka e Mels (Marx, Engels, Lenin e Stalin), la trama lacunosa alternata a copiose riflessioni liriche, le frasi interrotte a metà, personaggi abbozzati che non vengono approfonditi – le cui relazioni sono date e quasi mai sviluppate – e soggetti maschili che non riescono a immaginare e raccontare credibilmente il femminile. È la dimensione tragicomica del “Narciso Cieco”, colui che non è più capace di vedere gli altri, simbolo di uno scrittore che non riesce più a elaborare in forma compiuta altri personaggi all’infuori di sé.

Richterová espone in piena luce l’impalcatura di un grande romanzo generazionale lirico e al contempo polifonico, delineando la sua personale variazione di un genere che ha avuto illustri antecedenti come Žert (“Lo scherzo”, 1967) di Milan Kundera o Zbabělci (“I vigliacchi”, 1958) di Josef Škvorecký, disossandoli fino a lasciare un qualcosa che però non è solo mero progetto o accozzaglia di appunti di svariate mani.

È finito il tempo delle cattedrali letterarie, delle ricerche del tempo perduto; eppure, l’incompiuto di Jan-Marie-Pavel-Tommaso non è sinonimo di fallimento. Forse è proprio quella forma inarrivabile a non essere più attuabile, forse non si può o nemmeno vale più la pena di scriverla. È una casa inabitabile.

Il “secondo” addio non è dunque solo l’abbandono della terra natia dopo il 1989, l’anno della Rivoluzione di Velluto che né Pavel né i padri di Marie e Jan hanno visto, ma è la rinuncia dell’eterno errante Jan al sogno irrealizzabile di avere una casa, quella da cui si è allontanato – un “primo” addio – è andata in rovina e nessuna nuova architettura potrà erigerne una nuova. Pertanto, Il secondo addio, rinunciando al progetto di raccontare una generazione dispersa e di comporre un romanzo nel romanzo accentandone l’implosione, si presenta come uno spoglio bouquet di bozze e vite pulviscolari rivendicando con leggerezza la significazione della sua insignificanza.

Il libro comincia e finisce come la nostra vita. Il libro non comincia mai, e mai finisce. Come la nostra vita. È qui, dal tempo in cui è stato creato. Lo si può attraversare in tutte le direzioni. Le parole cambiano di significato come i nostri atti, che anche loro cambiano di significato nel tempo e alla luce dell’esperienza.” (p. 91)

Apparato iconografico:

Immagine di copertina: Immagine fornita dall’autrice S.R.

Immagine 1: https://www.miraggiedizioni.it/prodotto/il-secondo-addio/

QUI l’articolo originale: https://www.andergraundrivista.com/2024/01/20/scrivere-lutopia-della-dimora-perduta-il-secondo-addio-di-sylvie-richterova/?fbclid=IwAR3Th6Ag23AGBVfymvjMILQfqY1cmqxBbWjRWNQtssqY2ig6tiSEhaLYPk4

Nell’armadio – intervista di Martina Mecco a Tereza Semotamová su andergraund

Nell’armadio – intervista di Martina Mecco a Tereza Semotamová su andergraund

Un armadio tutto per sé. Intervista a Tereza Semotamová, autrice de “Nell’armadio”

La casa editrice Miraggi Edizioni si riconferma il progetto editoriale più importante in Italia per la ricezione e la diffusione della letteratura ceca. Con Nell’armadio (Ve skříni) di Tereza Semotamová la collana Nová Vlna, interamente dedicata per l’appunto alla letteratura ceca, arriva a ben quindici titoli pubblicati negli ultimi tre anni. In particolare, si aggiunge un tassello alla scoperta della scena letteraria contemporanea di un paese particolarmente florido sotto questo aspetto. Il romanzo Nell’armadio, pubblicato in Repubblica Ceca nel 2014 e tradotto in italiano da Alessandro De Vito, è un’ulteriore conferma di questo aspetto, già evidenziato da altre grandi voci tradotte nella collana come quelle delle autrici Bianca Bellová, Tereza Boučková o Jakuba Katalpa.

Tra le tante necessità della letteratura contemporanea, una delle più complesse si prefigura nel tentativo di problematizzare la dimensione psicologica dell’individuo all’interno di un duplice rapporto, ovvero quello con la propria individualità e quello con la dimensione sociale esterna. Due entità che, in aggiunta, entrano spesso in conflitto tra di loro. Nel romanzo, narrato rigorosamente in prima persona, la protagonista si trova a dover scontrarsi con questa problematicità. In un mondo dove la drammaturgia della vita segue una follia diabolica (p. 21) e dove la propria individualità viene continuamente recisa, l’unico modo per sopravvivere sembra essere quello di trovare uno spazio, un luogo tutto per sé – usando un’espressione woolfiana particolarmente nota. O, volendo impiegare un riferimento presente anche nell’opera, si potrebbe citare la canzone di Karel Gott “Kdepak, ty ptáčku, hnízdo máš?” (Uccellino, dove ce l’hai il nido?).

Il romanzo presenta una trama tutt’altro che arzigogolata, dove gli avvenimenti che fanno da cornice ai pensieri e alle riflessioni della protagonista si distribuiscono in modo chiaro e lineare. Tuttavia, sono proprio quest’ultimi a conferire dinamismo all’opera. Volendo dunque attingere a questa “cornice”, occorre evidenziare quello che è l’avvenimento chiave del romanzo, ovvero quello da cui l’azione si evolve. Difatti, proprio nelle prime pagine viene focalizzata l’attenzione su un fatto tutt’altro che bizzarro, la necessità della sorella della protagonista di liberarsi di un vecchio armadio. Nel riflettere sui vari tentativi riguardo a come sbarazzarsi del vecchio armadio, improvvisamente questo diventa la chiave che potrebbe risolvere una difficile condizione esistenziale. L’armadio assume così un valore metaforico all’interno dell’opera in rappresentanza di uno “spazio altro”. Si osservi come viene descritto all’interno del romanzo:

Uno spazio. Il mondo è tutto diviso a piccoli lotti. Ogni cosa appartiene a una persona diversa. Ognuno ha i suoi quattro metri quadrati, ma alcuni non fanno che vagare tra le proprietà altrui. Quanti spazi al mondo sono lasciati lì non sfruttati, senza che nessuno li usi? Molti, di sicuro. Come faccio a trovarne uno piccolino così per me? Un posticino nascosto, al riparo dal vento, dove poter stendere le gambe, farmi un tè e riposare in silenzio, come l’arrosto della domenica nella teglia. Quindi, per ora almeno c’è quell’armadio. E col tempo ci sarà anche la teglia. Ecco. Mi rianimo. All’improvviso comincia a scorrermi in corpo una calda energia vitale.” (p. 10)

A partire dalla decisione di vivere nell’armadio si dipana la vicenda narrata nel romanzo, che diventa luogo di un percorso esistenziale. Il piano dell’esistenza è, infatti, quello dominante. Per districarsi nella sua complessità l’autrice costruisce la sua prosa sulla base di una fitta rete dei riferimenti eterogenei. A questo proposito, una delle caratteristiche più interessanti della struttura del romanzo risiede nella sua intertestualità. La prosa dell’autrice procede inserendo citazioni tratte da diverse fonti, non solo letterarie ma anche, ad esempio, cinematografiche e musicali. Si trovano citati autori come il Kundera de L’insostenibile leggerezza dell’essere o il Dostoevskij de I demoni, ma anche lo slovacco Juraj Jakubisko, regista del celebre film Sedím na konári a je mi dobre (Sono seduto sul ramo e mi sento bene). Aderendo a una di quelle caratteristiche che vengono comunemente attribuite alla letteratura cosiddetta “postmoderna” – sebbene il concetto di postmodernismo sia particolarmente vago, specialmente se applicato a contesti come quello ceco – Semotamová inserisce la sua opera in un dialogo con la tradizione culturale, in primis letteraria, non solo ceca ma mondiale.

Concludendo questa breve presentazione, in modo tale da lasciar maggiore spazio alle parole dell’autrice che si è dimostrata disponibile nel rilasciare un’intervista, è necessario riconoscere come Nell’armadio si presenti in termini di un’opera profondamente attuale. Nel romanzo l’autrice presenta al lettore una condizione esistenziale quanto mai applicabile a diverse situazioni che affliggono gli individui all’interno dell’attuale conformazione sociale. A prendere parola è una voce narrante che esprime i suoi bisogni di trovare il proprio spazio, un “posticino nascosto” in cui poter costruire un equilibrio senza che questo venga minato dell’esterno. In questo senso l’armadio diventa il luogo in cui costruire una dimensione esistenziale in cui il mondo assume un ritmo diverso. Ne Nell’armadio si realizza una disamina della quotidianità quanto mai contemporanea.


Riportiamo qui di seguito l’intervista con l’autrice Tereza Semotamová che ringraziamo per la disponibilità nel rispondere ad alcune domande.

MM: Innanzitutto le vorrei chiedere come ha deciso di iniziare a scrivere romanzi. Se non sbaglio, ha studiato sceneggiatura e drammaturgia…

TS: Ho sempre scritto prosa. Sin da bambina finivo di scrivere dei libri che leggevo se, per esempio, non mi piaceva il finale. In Repubblica Ceca di fatto non si può studiare come scrivere in prosa, ho pensato che mi sarebbe potuto piacere studiare sceneggiatura e drammaturgia. Si è scoperto che molti cineasti in Repubblica Ceca sono anche registi e sento di non avere questo talento. Ho scritto diversi drammi radiofonici ma non sono mai stata soddisfatta di ciò che realizzavo. Questo è stato un grande incentivo per scrivere un romanzo. Ma, a dirla tutta, ho sempre voluto scrivere un romanzo. Almeno da quando, per la prima volta, ho letto Piccole donne di Louise M. Alcott.

MM: Nel suo romanzo c’è una forte intertestualità che il traduttore Alessandro De Vito ha saputo ben trattare con l’impiego di note esplicative che sono necessarie, in quanto alcuni riferimenti non sono comprensibili al lettore comune. Come spiegherebbe questo aspetto e, soprattutto, che ruolo gioca questa intertestualità nella stesura di un romanzo?

TS: Forse queste spiegazioni non turberanno il lettore italiano. Mi piacciono davvero molto. Per me l’intertestualità è una caratteristica naturale della letteratura. Molta di questa intertestualità non è riconoscibile… Non mi vergogno delle mie fonti. Ma va detto che l’originale non comprende spiegazioni o fonti, quindi potrebbe non essere così evidente quante ne ho “copiate”. Mi viene in mente che la letteratura è un grande acquario in cui è possibile immergersi, molto è già stato scritto e detto, quindi perché non usarlo. Sono una persona che sta continuando a scrivere qualcosa. Penso che il bello della letteratura risieda nel fatto che si possono seguire i pensieri di altri e coglierli a modo proprio.

MM: Da questo punto di vista, ci sono riferimenti letterari che preferisce? Mi spiego: ha qualche modello concreto?

TS: No. In questo sono molto democratica. Cito volentieri sia Platone che la stampa scandalistica. Nel mio caso si tratta di una visione bizzarra su qualcosa, di uno stile basso o strano.

MM: Le faccio una domanda che faccio sempre a tutti gli autori con cui parlo. Cosa ne pensa della scena letteraria ceca contemporanea? Glielo chiedo in quanto ritengo sia parecchio ricca ed eterogenea.

TS: Credo che ogni scena letteraria venga percepita da lontano come ricca ed eterogenea. E penso che nel caso di quella ceca sia proprio così. Negli ultimi anni, soprattutto, ci sono molte giovani autrici che non scrivono in modo mainstream. E, al tempo stesso, anche la scena poetica è parecchio dinamica. Penso che qui ognuno possa trovare il proprio posto. Tuttavia, mi mancano voci maschili che scrivano in modo intelligente di temi come il femminismo o la paternità. Leggerei volentieri qualcosa del genere.

MM: Durante la lettura mi è sembrato chiaro, mi dica se mi sbaglio, che lei abbia voluto descrivere la società contemporanea, anche il suo lato più oscuro. Pensa che possa essere una buona descrizione? La protagonista del suo romanzo si confronta con molte domande oggi importanti…

TS: Esatto. Al tempo stesso il libro si può leggere come un racconto intimo, non tutti possono vederci un aspetto sociale. Non volevo proprio descrivere la società contemporanea, non è proprio possibile, ma piuttosto raccontare la storia di una persona che nella società non si sente bene e che si sente tutt’altro che normale, ovvero di vivere da qualche parte a andare al lavoro da qualche parte, scappare dentro un armadio. Penso che a volte ognuno di noi senta questa voglia di nascondersi da qualche parte.

MM: Nel libro gioca un ruolo importante l’armadio come simbolo, che rappresenta la dimensione psicologica della protagonista… Potrebbe spiegarlo brevemente? Da dove proviene l’idea?

TS: L’idea, in realtà, è nata in modo banale. Mia sorella mi aveva chiesto se conoscevo qualcuno che avesse bisogno di un armadio. Ero in visita da lei e vivevo in Germania. La domanda nella mia testa era come sarebbe stato prenderle l’armadio, portarlo giù nel suo cortile e viverci. In un certo senso in quel momento avevo bisogno di scappare dalla situazione che stavo vivendo e mi era sembrata una buona soluzione. Alla fine l’ho fatto in un modo un po’ diverso. E, per il resto, questa dimensione psicologica è particolarmente esistenziale. La mia protagonista trova la forza di scappare da ciò che è estraneo, ma non trova la forza di continuare ad agire e così si nasconde nell’armadio. Solo che poi l’estate finisce e si chiude dentro. E con questo? Volevo scrivere di quest’agonia, di quando qualcuno sta davvero male, di quando non si è più in grado di dire agli altri quanto le ose vadano male e quindi si nasconde fingendo anche davanti a sé stessi che vada tutto bene. Ma non è così.

MM: Un’ultima domanda: ha intenzione di scrivere  altri romanzi?

TS: Sì, certo. Ma forse non succederà. Non lo so proprio. Ho un bambino molto piccolo e posso scrivere davvero poco, il che mi dispiace perché penso che la maternità sia un tema molto ampio e mi piacerebbe parlarne, ma semplicemente non trovo abbastanza tempo ed energie. Chi ha letto Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf penso mi possa capire appieno.

Apparato iconografico:

Immagine di copertina: novinky.cz

QUI l’articolo originale:

L’anno del gallo – recensione di Martina Mecco su Andergraund

L’anno del gallo – recensione di Martina Mecco su Andergraund

Fare i conti con la disillusione. “L’anno del gallo” di Tereza Boučková

L’anno del gallo (Rok kohouta) è l’ultimo libro edito da Miraggi Edizioni all’interno della collana NováVlna, interamente dedicata alla letteratura ceca. L’autrice, Tereza Boučková, era già stata presentata al pubblico italiano nel 2018 con La corsa indiana (Indiánský běh), sempre pubblicato dalla medesima casa editrice nella traduzione di Laura Angeloni.

Tereza Boučková (1957-) è una delle protagoniste della scena letteraria ceca contemporanea. Figlia del dissidente e chartista Pavel Kohout, firma Charta 77 non appena conclusi gli studi liceali. Questa sua scelta le creerà non pochi problemi, soprattutto in ambito lavorativo, dove si troverà costretta a fare i lavori più disparati, dalla postina alla donna delle pulizie. Nonostante le difficoltà causate dagli anni della Normalizzazione, Boučková è riuscita a ritagliarsi il suo spazio non solo nell’ambito letterario, ma anche in quello della pubblicistica e del cinema.

L’anno del gallo può essere considerato come l’ideale continuazione de La corsa indiana (su Andergraund Rivista è stato pubblicato un articolo dedicato al romanzo nel terzo numero di maggio), romanzo in cui l’autrice affronta temi quali la questione famigliare, la difficoltà della vita negli anni della Normalizzazione e la questione della maternità, protagonista è infatti un io narrante che cerca disperatamente di avere figli. L’opera, inoltre, è profondamente critica nei confronti di personaggi dell’epoca, quale il padre Pavel Kohout e il futuro presidente della Cecoslovacchia Václav Havel, che compaiono con gli pseudonimi di “Indiano” e “Monologo”. Anche L’anno del gallo cela, sin dal titolo, una critica nei confronti del padre, giocando sull’ambivalenza del termine “kohout”, che in ceco significa appunto “gallo”.

“Mi è capitato in mano un grazioso libricino. Oroscopi cinesi. Sulla copertina è scritto in lettere maiuscole:

KOHOUT

Il gallo, sotto il cui segno sono nata io, è… E ora tenetemi forte, tenetemi perché salto in aria! Gli anni nel segno del gallo si ripetono periodicamente, ma ci sono varie sottospecie di galli, che si alternano ogni sessant’anni.” (p. 139)

All’interno del testo non mancano di certo riferimenti alle condizioni di vita ai tempi della Normalizzazione, ricordando ad esempio un incontro con le “donne della Charta” (il documentario, girato nel 2007, si può recuperare in lingua ceca qui: https://www.ceskatelevize.cz/porady/10114412382-zeny-charty-77/), ovvero la maggior parte di coloro che avevano dato sostegno ai loro uomini durante gli anni del dissenso. Il ruolo delle donne, nonostante questo non venga enfatizzato abbastanza da coloro che si occupano di questo specifico periodo, fu determinante su molti fronti, basti pensare all’importanza della moglie di Havel, Olga Havlová, durante gli anni della prigionia del marito. Proprio in questo frangente viene ricordato come il romanzo forse più famoso di Kohout, Katyně (“La carnefice”, pubblicato da Editori Riuniti nel 1980), fosse stato battuto a macchina da Drahomíra Šinoglová. Gli anni in cui è ambientato L’anno del gallo si situano in un arco di tempo distante rispetto a quello de La corsa indiana, ovvero a partire dal 2005. Tutto il romanzo è narrato, come il precedente, in prima persona e si incontrano numerosi elementi che si possono ricondurre alla vita dell’autrice. Boučková riesce in modo magistrale a indagare la complessa dimensione dell’interiorità, sviscerandone gli strati per comprendere l’origine della sofferenza e del dolore. Il piano su cui questa ricerca viene portata avanti è duplice, da un lato si ha la dimensione intima della famiglia, dall’altro, invece, quella pubblica dell’ambito lavorativo a cui si lega il ruolo di intellettuale della protagonista impiegata nella stesura di sceneggiature cinematografiche. Le sensazioni dell’io narrante vengono esternate senza alcun filtro che le mitighi, in tutta la loro profondità:

“Ieri finalmente ho fatto una fuga, sono andata a fare una passeggiata a Praga, ho parlato con la gente, ho riso, ma non è servito ad allontanare il mio senso di solitudine. Ce l’ho dentro, non mi lascia via di scampo. L’antidepressivo non ha ancora fatto effetto. Sono una donna inutile. Mi do fastidio da sola. […] A volte verrei mi venisse un cancro. Lo so che è una bestemmia. Ma magari accenderebbe il motore che un tempo mi aiutava a superare le crisi. Avrei un motivo vero per lamentarmi e forse ritroverei la forza di combattere.” (p. 73)

La situazione famigliare in cui vive la protagonista è tutt’altro che semplice. Nonostante sia riuscita a soddisfare il suo bisogno più grande, quello di avere dei figli (elemento centrale in La corsa indiana), questi mostrano dei problemi comportamentali spesso complessi da gestire. Il più grande, Patrik, se ne è andato di casa finendo in condizioni di vita precarie nella capitale. Lukáš, invece, è affetto da difficoltà nel controllare la rabbia e da disturbi da cleptomane, ragione per cui i genitori devono sempre mettere sottochiave i loro averi. Il più giovane, Matěj, è l’unico dei tre a non essere stato adottato e nel corso nel romanzo arriva anch’egli a scontrarsi con la madre. A complicare la situazione è anche il marito Marek, appassionato di ciclismo e spesso fuori casa per lavoro, non sembra rendersi conto davvero della situazione che alleggia in famiglia, reagendo molto spesso dando sfogo alla sua rabbia. Lo stesso rapporto col marito sembra vacillare a più riprese nel corso del romanzo, la stessa protagonista arriva addirittura a farsi domande sull’effettivo valore della loro unione matrimoniale. L’atmosfera che si respira in famiglia può essere riassunta con le parole stesse dell’autrice: Grido alla casa intera, al nostro nido ormai trasformato in trappola” (p.213). Tutto questo sovrapporsi di problematiche, che viene mostrato da vicino attraverso gli occhi e le sensazioni della voce narrante, genera una condizione di sofferenza e, soprattutto, solitudine. Difatti, ad essere lamentata a più riprese è l’impossibilità di essere compresi o ascoltati. Il dolore si genera e si consuma nella protagonista senza che questa riesca a trovare alcun tipo di conforto duraturo. Boučková costruisce, così, un grande collage di disillusioni che rappresenta la vita stessa.

Nejradši jsem tam, kde zrovna nejsem - kulturní magazín Uni

Accanto a questa linea narrativa si sviluppa quella che riguarda la questione legata alla stesura della sceneggiatura. La protagonista è una scrittrice di sceneggiature e libri, questo lo si capisce in modo esplicito quando un uomo sul tram si complimenta con lei per le sue opere. Ad avvalorare il fatto che nella protagonista ci sia molto dell’autrice non bisogna dimenticare che Boučková ha realizzato anche sceneggiature per il cinema, quella di Smradi (“Canaglie”, film del 2002 diretto da Zdeněk Tyc) e Zemský ráj to na pohled (“Paradiso terrestre a prima vista”, film del 2008 diretto da Irena Pavlásková). Entrambi compaiono all’interno de L’anno del gallo, sebbene non siano gli unici film a essere nominati. Difatti, tutto il romanzo è caratterizzato da una forte componente intertestuale: sono moltissimi i riferimenti che compaiono, sia di carattere letterario (come il caso dello scrittore slovacco Rudolf Sloboda) che cinematografico. Non vi sono solo rimandi al cinema ceco come nel caso di Evald Schorm, una delle stelle della Nová Vlna, ma compaiono anche riferimenti a registi di fama internazionale, ad esempio Federico Fellini:

“Uscendo dall’ufficio della caporedattrice sono andata alla proiezione mattutina del film di Fellini ‘La dolce vita’. […] Fosse per me l’avrei accorciato. Già, sono talmente sfrontata che avrei accorciato Fellini. […] Per il resto magnifico. Soprattutto la storia nella storia, che parla di un intellettuale amico del protagonista. Al contrario di quest’ultimo, dissennato e superficiale, il suo amico è a prima vista un uomo equilibrato, arguto, profondo, onesto. […] E forse proprio la sua vita piena di sicurezza, armonia, ordine, tranquillità e pace, tutto secondo i piani e senza imprevisti, lo spinge infine a fare del male a se stesso e ai suoi figli.” (p.149)

Il personaggio ricordato, nonché successivamente aspramente criticato, da Boučková è quello di Steiner. Fellini viene citato anche in riferimento al suo libro Fare un film. Difatti, una delle difficoltà della protagonista è proprio quella che ha a che fare con la dimensione creativa. Spesso lamenta l’impossibilità di scrivere, la difficoltà nel trovare un qualche tipo di ispirazione per il soggetto della sua sceneggiatura. A questo concorrono anche altri problemi legati al trovare un regista adatto che non ne limiti le scelte.

In conclusione, L’anno del gallo di Tereza Boučková è un romanzo che, sebbene si presenti come il racconto di vicende personali, mostra una profondità di indagine e una ricchezza di riferimenti storico-culturali. Ciò che, inoltre, colpisce della prosa dell’autrice è la capacità di narrare in prima persona episodi personali in modo diretto e tangibile. Questa resa reale del quotidiano attraverso la scrittura si realizza anche grazie all’uso di numerosi realia (ad esempio slivovice o la tradizione pasquale della Pomlázka), che sono stati commentati in modo meticoloso dalla traduttrice grazie all’uso di note. Leggere Boučková significa compiere un viaggio negli strati più profondi dell’anima, scavare nei propri dolori e nelle proprie insicurezze, fare i conti con una vita che non è sempre rosea, ma in cui è sempre possibile trovare un modo per continuare. Questa possibilità la si scopre proprio grazie alla forza della prosa di Boučková che, con questo romanzo, si riconferma essere la grande autrice che già si era palesata nel suo primo romanzo, La corsa indiana.

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