La chair est triste, hélas! Et j’ai lu tous les livres (“La carne è triste, ahimè! E ho letto tutti libri”). Questo verso di Stéphane Mallarmé, che apre Brise marine, scritta nel 1865, può essere posto a epigrafe de Il quarto piano (Miraggi Edizioni, collana Scafiblù), il nuovo romanzo di Riccardo De Gennaro, scrittore e giornalista (Il Sole-24 Ore, Repubblica) torinese di indubbio e non ancora giustamente riconosciuto valore, che da anni vive a Roma a pochi metri dal ponte Testaccio, luogo pasoliniano (muore Accattone nell’omonimo film) per eccellenza. La citazione del poeta francese, infatti, descrive perfettamente il personaggio e la storia del libro di De Gennaro, che si impone come un romanzo colto, originale, triste e allegro nel contempo, e decisamente rivoluzionario. Perché è rivoluzionario, oggi, affermare, in un mondo negato alla vita vera, autentica, che “forse è venuto il momento di leggere meno e vivere di più”. Vivere per vivere davvero, a dispetto di chi ci vorrebbe dei morti viventi (e comunque continuare a leggere, però non barattando la carne con la carta).
Il protagonista è un certo Giorgio Lanfranco, disoccupato più che cinquantenne che vive con i genitori e si nutre letteralmente di libri, li acquista compulsivamente, ne ha fatto l’unico scopo della sua solitaria esistenza. Ma poi tutto cambierà, complice un amore giovanile. E muterà come in un racconto di fantascienza, con un finale fra Philip K. Dick e Dino Buzzati. Tutto ciò in una sarabanda che ha come teatro ovviamente una libreria, e in cui folleggiano brani e personaggi dei libri prediletti: De Gennaro li indica alla fine, un elenco raffinatissimo che va da Ingeborg Bachmann a Oscar Wilde, passando naturalmente per l’Auto da fé di Elias Canetti e senza scordare Albert Camus e Antonio Delfini, la Ortese e James Joyce.
Sarà felice Giorgio Lanfranchi alla fine delle sue traversie, dopo i tanti colpi di scena che stravolgono la routine di perdigiorno (una sorta di Oblomov) cartaceo? Ai lettori, e a chi vuole vivere, la sentenza al termine della lettura.
Già autore di altre buone ottime opere narrative, come I giorni della lumaca e La realtà pura, e di una notevole biografia di Lucio Mastronardi, La rivolta impossibile, lo scrittore torinese è anche il fondatore e il direttore di «il Reportage», un trimestrale di giornalismo d’inchiesta di stampo felicemente antico, attraverso cui orchestrala vita vera e i libri, cioè la vita immaginaria, che tuttavia, per l’eroe del suo romanzo, sono forse T’ossigeno che mi tiene in vita”. Il quarto piano è un romanzo che va controcorrente nell’attuale desolata terra letteraria. A differenza di tanti testi odierni del tutto inutili, che vanno (in apparenza) per la maggiore, il suo fa pensare e sa divertire, non concede niente alle mode, è da scaffale e non da bancarella o da autogrill. Del resto, De Gennaro è anche uno dei pochissimi che hanno continuato a scrivere storie di rivolta sociale, a essere antagonista all’esistente, a credere che ribellarsi sia assolutamente giusto. Basti pensare a La Comune 1871, ambientato durante i giorni della Comune di Parigi, unica rivoluzione, ci rammenta, che durò troppo poco per potere essere tradita come tutte le altre.
NováVlna è il nome dato alla Nouvelle vague cinematografica ceca ai tempi della Primavera di Praga. Un nome appropriato per questa nuova bella collana di Miraggi edizioni, curata da Alessandro De Vito e Laura Angeloni, che vuole far conoscere in Italia le opere di autori cechi inediti nel nostro Paese e altri ingiustamente dimenticati dall’onda quasi mai anomala dello sconfortante mainstream editoriale.
La collana ha iniziato con il piede giusto, sono stati pubblicati due testi straordinari: Il lago di Bianca Bellova (traduzione di Laura Angeloni) e Volevo uccidere J.-L. Godard diJan Nĕmec (traduzione di Alessandro De Vito).
Il lago è, dal mio punto di vista, un autentico capolavoro. Ritmo perfetto, nodi narrativi dosati nei punti giusti, un climax che stravolge completamente la percezione che si fa chiunque sfogli il romanzo, una collocazione geografica inedita e struggente, liquida e grigia come il lago che fa da cornice e coprotagonista alle vicende di Nami, il bambino che diventa uomo e deve continuamente inventarsi la vita e trovare una propria strada.
Come i Balcani immaginari di Zagreb di Arturo Robertazzi o Sniper di Pavel Hak, come l’Ungheria stregata di Ágota Kristóf, Bianca Bellova scrive una storia che affonda gli artigli nella dura realtà di un Paese dell’ex sfera sovietica. Il lago d’Aral, che non viene mai menzionato, tanto che il lettore si chiede continuamente se la vicenda si stia svolgendo in Uzbekistan o in Kazakistan – ma forse il lago non è nemmeno quello e di esso si riprende la tragedia del prosciugamento per colpa di politiche dissennate – è il luogo dove cresce Nami, nella casa dei nonni.
Si tratta di un piccolo villaggio che sopravvive grazie alla pesca. Ma poi i pesci muoiono e i pescatori soccombono allo Spirito del Lago. Rimasto solo, il ragazzino, parte per la capitale dove farà i lavori più disparati, mentre l’acqua del bacino – che ai tempi della sua infanzia ondeggiava tra il turchese e lo smeraldo – è ormai fango putrefatto e opalescente. Rami trasporta zolfo, stende catrame, diventa maggiordomo di un nuovo arricchito modaiolo post-comunista, si fa coccolare da una vecchia nobile decadente. Sempre alla ricerca di una madre perduta, sempre più in profondità nelle bestialità umane e negli orrori che il progresso è in grado di infliggere. L’eco dello Spirito del Lago rimane il richiamo costante, la colonna sonora di questo stupefacente romanzo con un finale altrettanto stupefacente.
Volevo uccidere J.-L. Godard ha tutt’altro ritmo e struttura narrativa. Jan Nĕmec, uno dei più importanti registi cinematografici cechi del Novecento, definito l’enfant terrible della NováVlna, tesse un romanzo a episodi. Racconti scritti tra i primi anni Settanta e gli anni Novanta. Il filo si dipana cronologicamente a partire dalla Praga staliniana dell’elettroshock per i deviati sociali, passa per il jazz d’Oltrecortina, analizza in modo originale e dissacrante gli avvenimenti che hanno preceduto, accompagnato e suonato il requiem alla Primavera di Praga, fino a giungere alla fuga nei “liberi” Stati Uniti dove il narratore si troverà a vivere di stenti.
Autoironico, feroce, sarcastico, rabbioso e geniale, Jan Nĕmec riesce a parlare di un’intera epoca – e dei personaggi incredibili che l’hanno popolata – prendendo spunto dalle sue vicende personali. Critico e violentemente derisorio nei confronti del ’68 occidentale (esemplare il racconto Cannes 1968. La verità su quello che accadde, quando il regista e i colleghi cechi Milos Formane Jiří Menzel erano in lizza per la Palma d’Oro e il festival venne interrotto da Godard e dagli altri intellettuali barricaderi) e dei suoi miti, prepotentemente coinvolto in diatribe sessuali e alcoliche, tenero e sprezzante nei confronti degli amici, l’autore scrive un libro fatto di tanti potenziali soggetti cinematografici. Un vero piacere leggerli.
Due testi riusciti, due coraggiosi manifesti di buona letteratura. Auguro un grande successo a NováVlna e ai suoi curatori. E non vedo l’ora che vengano pubblicati altri titoli.
Da quando Boris Vian si affaccia sul mercato dell’arte, il suo nome o i suoi tanti pseudonimi, firmano canzoni, traduzioni, romanzi, poesie, testi teatrali, racconti, articoli e critiche musicali, collane discografiche, pièce da cabaret, esibizioni jazzose, serate patafisiche, nottate da chansonnier o performance culturali. Non c’è artista del Novecento che sia riuscito a contaminare così tanti generi in una sola vita, come fece il principe di Saint-Germain, e ad avere così tante pubblicazioni postume, anche perché critici ed editori faticavano a riconoscergli potenzialità commerciali, nonostante gli attestati di fiducia e le proverbiali pacche sulla spalla.
Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés di GiangilbertoMonti (Miraggi Edizioni) è un originale, divertente e malinconico docu-romanzo dedicato a una delle figure più appassionanti e non etichettabili dell’arte del secolo scorso. Un improbabile giornalista svizzero si reca a Parigi per intervistare i sopravvissuti dell’epoca degli zazou del Quartier Latin che abbiano avuto rapporti con Boris Vian. Le parti dirette (le interviste a Michelle Léglise, prima moglie di Vian, fino a coinvolgere bibliotecari, custodi, archivisti) danno il La per quelle indirette (la vita di Boris Vian, dal jazz agli ultimi incontri con gli amici del Collège de ‘Pataphysique, passando per i romanzi americani sotto pseudonimo e le centinaia di brani musicali firmati).
Il resoconto che ne scaturisce è frizzante ed energico. Un ritratto di un genio senza limiti, violento, crudele, rivoluzionario e dotato di un’innata tenerezza (basti pensare al romanzo L’écume des jours o al testo di A l’ecole de l’amour, uno dei 484 brani firmati da Vian). Del resto l’autore nell’universo-mare di Boris ci naviga perfettamente da anni: Giangilberto Monti è cantautore, traduttore, ricercatore dotato di un formidabile intuito, votato per le sinergie con la musicalità linguistica e sonora di Boris Vian tanto da diventarne il maggior interprete italiano e non solo. Entrambi, tra l’altro, sono ingegneri.
Poema bianco, di Pasquale Panella (contributi di Lucio Saviani e Francesco Forlani; Miraggi Edizioni), è un soliloquio poetico che prende spunto dalle costanti immagini della quotidianità e le trasforma in un originale linguaggio iperrealista. È l’analisi di un gioco di coppia che si trasforma in solitudine, un’immagine allo specchio fissata a lungo nella speranza che si sdoppi e porti nuovi significati: “L’acqua non scorre più, scorre l’anta. La frizione di un asciugamano, un tirar su col naso, il contrasto tra il corpo e il tessuto dell’accappatoio, ciabattine senza tacco come nacchere morbide. Fuori è spiovuto, gli pneumatici sul bagnato imitano gli scrosci. L’imitazione, il come e la somiglianza sono il lascito di quel che è finito di accadere”.
Dopo una serie infinita di fallimenti letterari (il più mirabolante è probabilmente quello legato alla messa in stampa di un libro di pagine bianche, nella speranza di fare successo grazie a un’opera che non stanchi i lettori), Domizio Pertica decide di aprire un’agenzia investigativa insieme alla praghese Venus Diomede, giunta in Italia in compagnia della sua merla parlante. Da qui prende, anzi prosegue, una narrazione surreale che deve molto alla letteratura noir, ma anche al realismo magico di stampo sudamericano, ai delirion the road alla vodka di Venedikt Erofeev e a una lunga tradizione di testi rappresentativi del caos e della delirante società postmoderna globale. Si tratta di Agenzia Pertica, di Luca Ragagnin (Miraggi Edizioni), opera originale, colta e divertentissima difficilmente collocabile nell’ormai trito e commerciale panorama letterario nazionale.
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