Patrizio Zurru ha lavorato come libraio (riconoscimento miglior libraio d’Italia nel 2012, n.d.c.), editore, scrittore, ufficio stampa, curatore di collana, consulente editoriale e agente letterario, e a ventinove anni dalla sua prima pubblicazione (13 racconti, 3B+Z), torna con Endecascivoli (Miraggi Edizioni, collana Golem), una raccolta di sessantacinque piccoli racconti in endecasillabi.
Endecascivoli perché spiega come lo stesso autore dopo aver salito gli scalini si butta(no) in discesa liberamente. E mentre cadono e si imprimono sulla carta, sprigionano odori e afrori di un mondo che appare lontano; il latte bollito e scremato dalla nonna per fare il burro, e la polvere di carbone sottile sulla pelle del padre minatore. Un mondo in bianco e nero che sembra lontano, e invece non sono passati più di cinquant’anni. Archeologia dei sentimenti, conservazione dei beni relazionali.
Endecascivoli o della vita scandita dalla famiglia, dai parenti, dalla scuola, dagli amici, e dalle cose concrete. Dalle voci, dai gesti, dai viaggi con lo zaino in spalla, dai corpi che si spostano nello spazio, fendendolo e modellandolo per favorire naturalmente l’arte dell’incontro. Dalle foto non fatte, fatte e mai sviluppate, sviluppate e mai trovate, eppure non dimenticate. E forse non è un caso che ogni racconto sia aperto da uno spazio vuoto delimitato da una sottile cornice quadrata dove l’autore ha apposto l’immagine trasparente di quel ricordo. E donato a chi legge lo spazio per un disegno o un appunto.
Gli Endecascivoli di Patrizio Zurru sono frammenti di prosa poetica densi come la vita, che lasciano spazio alla nostalgia felice di tempi vissuti, custoditi, e ora generosamente condivisi.
Il frammento numero 52 è un omaggio al maschile della famiglia, ci sono suo nonno, suo padre, i suoi zii e parla della miniera, un intreccio di cunicoli che a suo padre faceva mancare l’aria da masticare. […]Rivedo mio padre, i suoi fratelli. In campagna riuniti nei giorni di festa. Parlavano poco […] Mangiavano l’aria che avevano intorno. Mangiavano l’aria almeno quel giorno, invece il n. 59 è la storia di un viaggio con suo padre e contiene passaggi tratti da I quarantanove racconti (Mondadori, Traduzione di Vincenzo Mantovani) di Ernest Hemingway, maestro assoluto della prosa breve. Ha voluto far incontrare il padre biologico con quello letterario?
P.Z.: In questo racconto parlo della prima volta che ho veramente trascorso del tempo con mio padre, per molto tempo assente ma per il nostro bene, e il caso ha voluto che ci siamo incontrati anche attraverso le pagine di Hemingway, quindi ho avuto questo privilegio.
Nella prefazione a I quarantanove racconti, l’autore americano scrive: «Andando dove devi andare, e facendo quello che devi fare, e vedendo quello che devi vedere, smussi e ottundi lo strumento con cui scrivi. Ma io preferisco averlo storto e spuntato, e sapere che ho dovuto affilarlo di nuovo sulla mola e ridargli la forma a martellate e renderlo tagliente con la pietra, e sapere che avevo qualcosa da scrivere, piuttosto che averlo lucido e splendente e non avere niente da dire […]» Qual è la sua modalità di scrittura?
P.Z.: Scrivo mentre cucino, solitamente, quindi non è un caso se qualcuno dice che si sentono gli odori, il richiamo forte c’è. Il racconto finisce quando il piatto è pronto. Poi magari smusso, ma è come quando in cucina si corregge il sale e si aggiungono degli aromi.
Per concludere, nella lista dei suoi classici preferiti quale occupa il primo posto?Ce lo racconta in un tweet?
P.Z.: Opere complete e altri racconti di Augusto Monterroso (Zanzibar editore); un concentrato di sintesi e colpi di scena in racconti che quasi prevedevano i tweet. Il suo “Al suo risveglio il dinosauro era ancora lì” ti apre un mondo, anzi, parecchi.
Sessantacinque racconti come messaggi in bottiglia lanciati nello splendido mare della Sardegna in balìa delle onde, messaggi che arriveranno a qualcuno e saprà farne buon uso. Qualcuno? Chi? Saranno i lettori appassionati che scopriranno i volti, i sorrisi, i paesaggi di una Sardegna magica e anche di una Sardegna che si porta addosso la croce di quella sofferenza con una dignità che non ha eguali, aspra e vera come la sua terra. Un libro di piccoli frammenti con una metrica perfetta come una partitura di Alban Berg, un album di ricordi che hanno rifugio nell’anima e trovano spazio sulla pagina. Ogni frammento è un bozzetto con una prosa poetica che lascia spazio a finali, a volte anche a discrezione del lettore, come in un gioco di scatole cinesi. All’apparenza malinconici ma con toni forti, con una scrittura che è un fendente in diagonale come un rasoterra di Gigi Riva.
C’è un filo rosso che tiene insieme questi racconti, queste piccole gemme incastonate: la memoria. Perché i ricordi sono quelli dell’infanzia e della gioventù, relazioni familiari forti, quelle che riempiono la vita, sacrifici, sofferenze, la felicità di stare insieme, esistenze fatte di piccoli gesti e di grandi valori, felicità, anche tragedie.
L’appartenenza a questa terra che soltanto chi è nato può comprendere nei suoi aspetti più intimi, accarezzare le croste delle sue ferite, amarle, eppure ci sono momenti in cui bisogna renderle visibili per farne capire il valore e soltanto la dignità e la grandezza della letteratura può rivelare. Diverse volte è capitato di vederlo arrivare ancora sporco e con il carbone attaccato addosso, non c’era stato tempo per una doccia, non c’era stato perché c’era qualcuno da tirare fuori dai pozzi crollati, qualcuno vivo, altri no.
Questo libro non l’ho trovato soltanto originale nella sua composizione. L’ho trovato straordinario perché sovvertiva tutti quelli che sono i canoni della narrativa tradizionale, dando un ritmo e un linguaggio nuovo, quello di una narrazione dell’anima, una scrittura ribollente fino all’inverosimile. Racconti che paiono oscuri e che sono illuminati sulla pagina da uno spirito vero.
Si sa che c’è una grande tradizione sarda nella letteratura, mi par opportuno citare scrittori del calibro di Sergio Atzeni e Salvatore Niffoi, senza dimenticare altri importantissimi, legati a una realtà culturale che non ha bisogno di lente di ingrandimento. Ecco: Patrizio Zurru è legato a questa cultura, ha radici forti. Con poche righe, essenziali, ci racconta una Sardegna fuori dal folklore, quella più amata, dai sardi e dai suoi lettori nel “Continente” che non sono soltanto i sardi trapiantati in altre realtà. L’ebbrezza linguistica è una grande avventura che sa inerpicarsi per quelle strade scoscese dell’isola tenendo salde le redini, stando dentro un reale e vissuto che si protrae nel ricordo.
Racconti brevi, come un flash istantaneo che vengono dalle radici più profonde di questa terra con una lingua capace di avvolgere gli oggetti e di aspirarne l’essenza, una sintassi sempre lucida con concessioni ad immagini di una poetica intensa. Piccoli bozzetti di vincenti e di perdenti già passati o forse che saranno anche in futuro. Storie senza paraventi, ammiccamenti, a tratti con una sottile ironia, quella che non fa ridere ma sorridere, emblema di una felicità nascosta.
Dire che sono soltanto bozzetti è una bestemmia. È Letteratura. E con tutte le carte in regola. Poi c’è il fascino della scrittura. Una voce dell’anima. Credo che sia una prerogativa o, lasciatemelo dire, un dono, che ogni autore dovrebbe avere. Ma anche in una società consumistica, dove le regole del libro sono soggette al mercato, questo è appunto un dono e non è dato per scontato.
Bene. Qui, con passo felpato, attento a non fare rumore, Patrizio Zurru ci svela il suo volto in ombra, quello di un poeta autentico. Per questo è impegnativo e bellissimo nello stesso tempo affrontare la lettura di questo libro, proprio perché non è semplice imbattersi in un narratore con questa potenzialità così profonda dell’anima e con la capacità di trasmetterla.
Non ho mai visto di persona Patrizio Zurru. Ho parlato con lui qualche volta al telefono. Quei pochi dialoghi, rapidi, essenziali, me lo hanno presentato nello stesso modo in cui ho affrontato la lettura del suo libro. Nell’attesa di incontrarlo e di stringergli la mano ve lo presento così. Credo di non sbagliare. Io ormai lo conosco. Lui forse conosceva me.
n’inchiesta in versi per raccontare l’amore malato, la violenza di genere e l’abbandono: temi che purtroppo accompagnano la quotidianità e le notizie di cronaca
Sono 112 le vittime di femminicidio nel 2020. E nel 2021, in meno di tre mesi, sono già 15 le donne uccise per mano di chi diceva di amarle. Il bilancio sembra un fluire di sangue inarrestabile: un problema sociale e antropologico enorme. Felicia Buonomo, da brava giornalista d’inchiesta,si è sempre occupata di temi delicati legati ai minori e al mondo femminile.Questa volta, però, ha scelto di compiere un lavoro di analisi del drammatico fenomeno, attraverso un genere di scrittura che ama particolarmente: la poesia. E infatti, ‘Cara catastrofe’ edita da Miraggi Edizioni segna il suo esordio nel mondo editoriale della poesia. E’ una raccolta ben strutturata, coraggiosa, senza censure, come riportato da Valerio Di Benedetto nella nota di commento al libro. Il progetto si divide in tre parti: nella prima, c’è una sorta di carteggio e tutte le poesie iniziano con ‘Cara catastrofe’:“Cara Catastrofe, non chiedermi cosa penso/se ho un ramo di mano sulla fronte./Reggo le foglie dei miei tormenti su cui ti adagi leggero”. L’autrice tenta un dialogo con il dolore e rende partecipe il lettore. Inizialmente, l’amore ha tutte le caratteristiche di qualcosa di magico, speciale; poi, quando inizia a prendere un’altra forma, cambiano il lessico, le sonorità, le metafore. Felicia Buonomo sceglie una poesia prevalentemente breve, asciutta, ma diretta e mirata; nella seconda par
te, si entra nel vivo della violenza attraverso la fisicità. Non a caso, tra i versi troviamo ‘clavicole’, ‘braccia molli’, ‘carne debole’, ‘segni rossi sul collo’. Le immagini, potentissime, riconducono a situazioni di profonda e amara verità, in cui chiunque si trova a dover riflettere e molti sono i simboli che incidono nel ritmo e nel linguaggio; la terza e ultima parte apre a una consapevolezza dell’amore malato, che invade anima e corpo a un dopo possibile: si può uscire dal tunnel della sofferenza. L’autrice attinge a storie vere di donne che ha incontrato. E le traduce in poesia autentica, attraverso una scelta chirurgica delle espressioni comunicative. Le ferite nella pelle e nell’anima restano indelebili, ma è possibile recuperare, lentamente rimarginare pesanti cicatrici. Felicia Buonomo compie un lavoro necessario per tutte le donne, vittime che spesso si sentono colpevoli di ciò che vivono. Una raccolta di valore,che serve a sensibilizzare, a scuotere le coscienze. Ognuno può fare la propria parte. E la poesia è un ottimo strumento per affrontare tematiche così complesse, che toccano l’umanità.
Le memorie di un padre (minatore poi laureato) accendono le narrazioni di Patrizio Zurru
Se al termine della lettura di ciascuno dei 65 racconti arriva l’impulso di cercare il pollicesù per mettere un mi piace, non c’è da preoccuparsi. È solo uno dei sani effetti collaterali di “Endecascivoli” scritto da Patrizio Zurru e pubblicato per Miraggi edizioni. Storie ritmate e brevi, come dentro un social network, da leggere con la libertà di non seguire l’ordine proposto nel libro.
Vita social
Il nostro tempo, pesante di preoccupazioni, con questi racconti sembra prendersi una tregua, e così si fa largo un’oasi di leggerezza e giocosità che offre riparo soprattutto in ciascuna pagina dispari del libro dove è presente un riquadro bianco concepito per raccogliere pensierini, appunti o disegni. Anzi, scarabocchi come succedeva ai tempi del telefono grigio a rotella della Sip. L’evoluzione di quei ghirigori diventa la vita social del volume: è stato infatti creato un hashtag, #endecascivoli, per interagire con l’autore e magari esprimere un giudizio.
Istruzioni per l’uso
In apertura un bugiardino offre qualche spiegazione sul testo e sul senso della narrazione. «Tutto nasce», spiega l’autore, «dalle storie raccontate da mio padre e dalla successiva richiesta al sottoscritto di mia madre: mettile in bella, come sai scrivere tu. In particolare gli aneddoti sulla miniera». Non hanno titoli i racconti-post, quindi il riferimento è la pagina. Alla 29 si legge: «15 anni di sottosuolo a spalare carbone, e a un certo punto ha deciso che poteva esserci un’altra possibilità, si è messo a studiare per laurearsi, facendo registrare a mia madre le lezioni su un Geloso, che ascoltava nella strada che da casa ogni notte lo pottava in miniera. Avanti e indietro. Play, stop, rewind. Play again, stop, rewind, return home».
Il viaggio
Lo spunto per ciascun brano è reale, spesso sono le memorie a dettare il viaggio alla fantasia per spaziare tra nonsense, sarcasmo, realismo liberatorio. Ovunque si ritrova musicalità, che come brezza di parole investe il lettore per poi scivolare via e lasciare sensazioni rarefatte che sono già ricordi. Pagina 70: «Mio padre, che si faceva i chilometri a piedi per incontrare mia madre, un amore scavato con scarpe coi chiodi sotto, per non consumarsi, arrivare ad Iglesias per un sorriso». Difficile scegliere il passo più divertente, specie quando la narrazione attinge alla memoria collettiva di chi negli anni Sessanta ci è nato. A pagina 25 c’è un viaggio in treno per raggiungere Parigi, alla frontiera il controllo dei documenti, delle borse, delle valigie… e le Superga di tela o le espradillas usate come «potenziale bellico non indifferente» per non condividere lo scompartimento con nessuno. E come non citare Eros Ramazzotti suonato all’infinito da un sopravvissuto jukebox in un pub belga non appena il gestore, troppo ospitale, capisce che Zurru arriva dall’Italia. “Endecascivoli” è questo. È parola che non esiste ma che parla di racconti, scritti perfino durante il tempo di cottura di un minestrone.
Lo scrittore
Nome noto nel panorama editoriale per essere stato prima libraio e ora ufficio stampa, agente letterario, direttore di collana, Zurru è passato per un attimo dall’altra parte, quella degli autori, quasi non per scelta. «Non ho ansie da scrittore», dice a tal proposito, “il libro è un divertissement, niente di più. Determinante è stata la spinta forte delle gemelle Ivana e Mariela Peritore, con le quali lavoro per la collana SideKar, altrimenti chissà… ».
Aveva permesso che il tempo si annullasse, che quei baci lontani arrivassero prima.
Endecascivoli, Patrizio Zurru, Miraggi. Icastici, brillanti, intelligenti, vividi, schietti, i racconti di Patrizio Zurru sono gemme liriche che indagano senza retorica e con freschezza impareggiabile la condizione umana in tutta la sua gamma di colori, dalle tinte più tenui a quelle più fosche, tra le fragilità più inconfessabili e gli improvvisi e irresistibili slanci di forza, vitalità e resilienza, facendo conoscere, tra realismo e magia, un festoso assembramento di caratteri al lettore, che in loro riconosce e il sé, e non si sente più solo. Un gioiello.
Patrizio Zurru in libreria con una raccolta di 65 scritti, dal titolo “Endecascivoli”, sospesi tra ricordi di famiglia e fatti quotidiani, talvolta surreali. «In endecasillabi, più o meno»
Ventinove anni esatti dalla precedente opera, per assaporare la maturità dello scrittore Patrizio Zurru. Nel 1992, con “13 racconti”, pubblicato dalla 3B+Z, il natio di Iglesias si districava con emozioni in parola scritta, che ebbero un ottimo riscontro. Prima d’approdare al “libro”, organizzava concerti jazz fino a che: «Sono passati oltre 30 anni (da quell’approdo, n.d.c.) e non ho ancora trovato come uscirne». Ci preme ricordare e lo facciamo senza alcuna piaggeria, che non stiamo parlando soltanto con lo scrittore, bensì con un talent scout tra i maggiori che l’Italia può annoverare: «Ho lavorato come libraio (riconoscimento miglior libraio d’Italia nel 2012, n.d.c.), editore, scrittore, ufficio stampa, curatore di collana, consulente editoriale e agente letterario».
Stakanovismo?
«È la passione, che chiami stakanovismo, per le cose che si fanno, l’idea di raggiungere un obiettivo o di crearne di nuovi. Poi il valore lo stabiliscono gli altri». La poliedricità non è dunque casuale, così come casuali non sono i 65 racconti dell’antologia “Endecascivoli”, edito da Miraggi Edizioni, in libreria da ieri, 23 marzo, tant’è che Patrizio Zurru, che ad oggi cura anche la collana “SideKar” di Arkadia Editore di Cagliari, insieme alle gemelle palermitane Ivana e Mariela Peritore «una collana di isole gemelle» come ama ricordare, pubblica per le edizioni torinesi perché «doveroso ricordare che siamo amici dall’anno della loro fondazione. Ho seguito tutto il loro percorso, così, quando mi hanno chiesto di pubblicare le mie storie con loro mi è sembrata la cosa più naturale, oltre che più bella». Sincero nelle emozioni come i contenuti della nuova opera, gli chiediamo se c’è un filo conduttore tra il dato reale e quello della potenziale fiction: «Sicuramente la liaison è la ricerca della memoria, soprattutto passata, ma anche presente e futura. Si va dalla parte che più mi appartiene, le storie di miniera di mio padre, a quelle che coinvolgono una famiglia numerosa per cuginanza, sparsa per l’Europa, a semplici fatti quotidiani; non mancano i racconti surreali, a intervallare il vero con un po’ di verosimile. Il tutto in endecasillabi, più o meno».
Cosa l’ha ispirata?
«Niente! Scrivo mentre cucino, impiego il tempo di cottura, quando il piatto è pronto il racconto si chiude. Quanto alla pubblicazione, già ti ho detto come avvenuta».
I racconti sono narrati in prima persona: parla di se stesso o presta la sua penna ad altri personaggi?
«In quasi tutti, cerco di riportare storie che ho sentito dai miei, arricchendoli con dettagli inventati».
Cosa pensa dei premi letterari, noti e meno noti? Ambisce a parteciparvi? E se si: per vincere, concorrere o per diffondere il suo libro?
«I premi servono, ancora, a dare un brivido a chi partecipa, come scrittore o lavorante nell’editoria. Per me non so, non credo di averne diritto».
L’endecascivolo cos’è?
«Un piccolo racconto che dopo aver salito gli scalini si butta in discesa liberamente».
Non è un caso allora che proprio col suo libro Miraggi battezza la nuova veste grafica nella collana Garamond: sorpreso, emozionato o cos’altro?
«Sorpreso all’inizio, emozionato sicuramente e incuriosito, felice di partecipare e, a mio modo, collaborare a questo nuovo progetto».
Per chi e perché lo ha scritto, Zurru lo ha detto minimamente in parte e sorridendo di gusto, così si è congedato dalla simpaticissima chiacchierata: «Lo dico nell’ultimo racconto, il 65°. Non vi resta che comprare il libro».
Libro copertina della settimana è quello di Patrizio Zurru, Endecascivoli, Miraggi.
Endecascivoli è una serie di racconti legati dal ritmo, con le parole smosse dal vento dei ricordi e di storie che partono dalle realtà per arrivare sul bagnasciuga come legni trasportati e trasformati dalle maree. Sono piccoli camei che in parte raccontano ricordi, in parte hanno il fascino surreale dell’inconscio. Ogni frammento è una partitura la cui metrica perfetta ricorda orchestrina e ottavini sommersi. La prosa è poetica, malinconica e lascia sempre spazio a finali possibili, ad altre storie come in un gioco di scatole cinesi. La particolarità. Con Endecascivoli di Patrizio Zurru, Miraggi edizioni inaugura la nuova veste grafica della collana “Golem Narrativa” L’autore Patrizio Zurru, classe ’65, come i racconti contenuti nel suo libro d’esordio, ha dedicato la sua vita per il libro. Nel 2012 fu votato come miglior libraio d’Italia, ha attraversato tutta la filiera, iniziando come editore nella 3B+Z edizioni, dove nel 1993 pubblica 13 racconti, poi come libraio per 26 anni, ufficio eventi e consulente per case editrici, agente letterario, attualmente svolge il ruolo di Ufficio Stampa, Comunicazione ed eventi in Arkadia Editore, dove cura la collana SideKar insieme a Mariela e Ivana Peritore.
Negli anni 90 Seattle non era poi così lontana da Torino: questa è l’impressione che si ha al termine della lettura dell’ultimo libro di Domenico Mungo che si è occupato in più occasioni di musica, sia sulle pagine della rivista Rumore, sia in vari racconti. Il sottotitolo di With Love è Epifanie di Kurt Cobain e di me nella Torino sociale e musicale degli anni Novanta, e rende l’idea dello sviluppo del volume: il racconto degli inizi e dell’ascesa dei Nirvana a partire dagli ultimi anni 80, con una particolare attenzione verso i concerti e le apparizioni del gruppo in Europa, con digressioni sulla scena musicale rock/punk torinese e aneddoti autobiografici sullo sfondo della trasformazione di Torino in città postindustriale. Il leader dei Nirvana viene presentato da Mungo come colui che ha resuscitato il rock che a cavallo tra i decenni 80 e 90 era se non morto, moribondo; e il suo suicidio viene accostato, per rimanere a Torino, a quello di Pavese e non alle morti del “club dei 27”. Lo stile di scrittura è scorrevole, in totale sintonia con il racconto.
Pino alla soglia dei 40 anni è in momento di grande crisi, “un vuoto cosmico “. Rimasto senza lavoro, abbandonata dalla compagna, abbandonato il percorso terapeutico intrapreso , senza amici e dipendente da alcol e marijuana. Dall’Abruzzo a Torino per lavoro e con una ferita ancora aperta lasciata dal suo primo e grande amore da cui è stato tradito.È un percorso faticoso il suo, tra momenti di lucidità razionale, che lo portano a pensare di essere forte ed in grado di superare le difficoltà soprattutto la dipendenza e momenti in cui tra i fumi dell’erba e dell’alcol si perde in solitario sgomento. Capta per caso un discorso : “ho smesso per sempre di fumare quando sono tornato dove ho cominciato la prima volta “ , e con questo pensiero che frulla nella sua testa , come un messaggio mandato a lui, si fa forza.In un percorso difficile ognuno ha i suoi tempi e la razionalità non basta. Pino se lo ripete come un mantra, “ devo cambiare a cominciare da quello che mangio “, ma continua a bere e fumare, tentando qualche goffo approccio con qualche donna, storie che non durano, sesso e non sempre, senza neanche affetto. Ha un amico con cui si confida un omino dei Lego (i mattoncini colorati) , con lui sì ,a volte se lo porta in tasca, e con lui, parte per ritornare al punto in cui ha iniziato a fumare. Amsterdam, e in quei tre giorni che trascorre lì non si fa mancare niente, pensando che sarà l’ultima volta. Tre giorni in preda ad annebbiamenti, visioni e sbandamento. Per poi fare ritorno a Torino. Un fatto di cronaca successo al suo paese d’origine ad una compagna di liceo, pare per mano dell’uomo con cui è stato tradito dalla sua prima fidanzata, minano il precario equilibrio in cui si trova. Forse anche per sanare la ferita d’amore bisogna tornare dove è iniziata? Si sente pronto e parte verso il suo paese d’origine, quello stesso dove si dice essere nato Ponzio Pilato. Lì c’è la sua famiglia e c’è Isabella la donna che non ha mai dimenticato.Isabella sembra che lo aspetti e gli porge le braccia. Pino è di nuovo preda della razionalità e dell’istinto, senza alcol e erba questa volta. Potrà un lavaggio di mani essere salvifico in una situazione che non è quella che aveva immaginato? Potrà guarire la sua ferita d’amore? Un libro che lascia spazio a riflessioni, a fare i propri conti, ad interrogarsi con quello che ci manca ( ognuno il suo) È scritto in seconda persona, come ci fosse un occhio sempre attento su Pino, un libro pieno di sorprese che a volte lasciano col fiato un po’ sospeso. Una lettura interessante e scorrevole.
“Vit(amor)te” è una raccolta di poesie di Valeria Bianchi Mian, illustrata con le carte degli arcani maggiori (in versione monocromatica) disegnate dall’autrice stessa, edita da Miraggi Edizioni nel 2020. Il mazzo di carte a colori è disponibile a parte.
Psicologa e psicoterapeuta junghiana nonché autrice poliedrica e appassionata, Valeria Bianchi Mian nella sua raccolta “Vit(amor)te” coniuga poesia e illustrazione.
La realtà terrena dell’esistenza nel suo svolgersi si sposa con l’astrazione simbolica degli arcani maggiori dei tarocchi, che regalano sfaccettate possibilità di interpretazione.
“[…] Stiamo qui nel mosaico
stabile instabile
nel puzzle d’erranza
in errore di base
ché prima di conoscerci
abbiamo scoperto l’uno
nell’altra la polpa
sotto gli aculei del riccio
ma non ci siamo divorati.”
(‘Finché morte’ da IL CARRO)
Una poesia alchemica che si trasforma, attraversa tutti i colori, tutti i mondi, tutte le vite possibili, tutti gli incontri passati e quelli futuri, forse soltanto immaginati. Ma non è detto.
Figure del mito intrecciano danze con le multiformi parti del sé, si scambiano i ruoli, si nascondono per riapparire diverse, eppure sono sempre uguali. Ma non è detto.
“[…] Sapevo di andare a morire
dopo il primo fiore.
Un figlio, e via.
Scopro con particolare orrore
e assurdo piacere
che al sale
si accompagna l’acqua
che la maturità
non è un esame.
È senso della terra. […]”
(‘Agave’ da LA FORZA)
Gli arcani si rivelano nel mutamento: il cerchio della vita che nasce e passa attraverso l’amore – l’unica possibilità di dare un senso alla presenza – per tornare alla morte, eterno ciclo continuo, breve attimo privo di consolazione, spazio rubato al Tempo.
Tra i versi sono incastonate ad arte alcune citazioni da poemi classici e letture altre, che scrivono una storia parallela di profonda conoscenza e talvolta strappano un sorriso per la fine arguzia e la blanda irriverenza.
“Mando avanti me
le zone fertili
dell’animo umano
un giardino, la cura
la cultura delle stagioni.
L’attesa, l’intesa
la pretesa (non funziona
mai abbastanza).
La stanza al centro
le vie, i percorsi
i sentieri, i sentimenti.
La lista della spesa
l’essere qui e ora
nell’ora quotidiana:
il mio corpo quaderno
per lo spirito penna.”
(‘Mandala’ da IL MONDO)
Valeria Bianchi Mian pesca a piene mani dall’inconscio, indaga con audacia l’umano sentire, ci sorprende mettendo a nudo e a fuoco gli innumerevoli stati dell’essere.
Abile giocoliera di parole, la poeta ci conduce tra i versi del suo cerchio infinito vita-amore-morte accompagnata da Kitsune, la saggia volpe rossa ritratta nell’arcano della Forza.
Qui niente è impossibile, tutto è memoria e rigenerazione, ma bisogna porre attenzione, come scrive l’autrice nell’introduzione al libro: “Verso Dove, / fino a Quando”.
Sinossi
Quarantaquattro poesie per ventidue originalissimi arcani maggiori: parole e immagini come gemelle in danza. Scrivere e illustrare poesie è per l’autrice un operare quotidiano, attività ormai consolidata di sperimentazione e strumento nel suo lavoro di psicoterapeuta. Dopo le poesie e le filastrocche del libro “Favolesvelte” (Golem Edizioni, 2015), Valeria Bianchi Mian ha pubblicato racconti, ha curato e illustrato un’antologia sul tema della ‘dimora’, ha scritto e fatto nascere il suo primo romanzo (“Non è colpa mia”, Golem Edizioni, 2017), ha partecipato alla stesura di tre saggi di psicologia in collaborazione con altri colleghi. In questa silloge raccoglie le poesie giovanili e quelle scritte tra il 2014 e il 2019; le fa procedere insieme alle figure dei tarocchi. È una Totentanz che passa dalla nigredo, l’Opera al Nero, e punta alla rinascita, è un cerchio di versi che si fa spirale attraverso i disegni. Il filo conduttore di “Vit(amor)te” è l’idea della natura viva: è una bozza di verde, lo spunto generativo, il germoglio rigoglioso o la foglia secca, il respiro della terra sopra la quale camminiamo, natura che matura nella nostra psiche. La storia del diventar se stessi comincia dal Matto incompiuto, un germe, il seme ritrovato; lo sviluppo per concludere con il ricominciar da capo.
Lo scrittore Marco Giacosa, autore de Il pranzo di nozze di Renzo e Lucia, Miraggi, 2017, il saggio L’Italia dei sindaci add, 2015, la serie DisasterChef , Miraggi, 2014, e la raccolta di racconti L’occhio della mucca, MarcoValerio, 2014, ritorna in libreria sempre per la casa editrice piemontese Miraggi, con un memoir dedicato a suo padre, una storia di paesi e di colline, e a suo nonno con il quale ha vissuto l’infanzia in campagna giocando con gli animali, studiando i nidi delle formiche e cercando il muschio.
Marco Giacosa ripercorre i sentieri dei suoi ricordi nelle Langhe Inquiete, una biografia dedicata alla sua famiglia, ai suoi affetti, tra partite di pallone, i primi amori, ma soprattutto ripercorrendo la vita dei suoi genitori, il padre veterinario che ha sempre mantenuto i suoi principi onesti della professione, non si è mai arricchito a spese degli indifesi nella lotta del potere, e Marco si scopre essere identico a lui “perché sono come te, perché io me ne frego se i professionisti come te si sono arricchiti e tu no. Piango come un bovino perché ti sei sentito di questo colpevolmente incapace, io che invece per questo ti ho amato, padre.”
Un passaggio delicato, profondamente intenso che racchiude la storia di un uomo che curava anche i cani dei sinti piemontesi, senza alcuna remora, senza alcun pregiudizio.
Nei suoi racconti di bambino che diventano sempre più maturi, il rapporto genitoriale che assume spesso – come in qualsiasi famiglia – i tratti della conflittualità e della ribellione, ma sempre con pacatezza e condivisione. Sono frammenti, ritagli di immagine di un passato vissuto in una cultura che ostenta una pervicace devozione religiosa, ma anche l’impronta di un luogo ancora intimidito dalle superstizioni dove si narra del canto della civetta, un canto che agli occhi di un bambino può incutere paura, la paura della morte.
“Sei una roccia che si sbriciola, occhi dolcissimi che guardano lontano, seppure l’infinito sia ora il corridoio, sei bellissima perché il male non riesce a spegnere il tuo sguardo. Quando sorridi incanti.”
In queste bellissime parole, Marco affida il ricordo della sua amata madre, della sua malattia e del suo lavoro alla Ferrero e di come siano cambiati i tempi, da una piccola comunità di lavoratori, alle grandi realtà moderne.
“Reinventarsi è la parola che accompagna delocalizzazione. Per una persona che in un posto si reinventa, ce n’è una che altrove migliora la qualità della vita.”
Una realtà – oggi – ben diversa da quella degli anni settanta, che si affacciava al nuovo decennio, cosa sia meglio o peggio rispetto ad allora non è facile a dirsi, resta sempre e comunque la memoria di un vissuto cementato nel profondo e di una idea di casa mai abbandonata sempre e comunque viva nel ricordo
Sono flashback di langhe, si inquieta, perché racchiudono una inquietudine interiore, ma anche forse il ritratto di un luogo in bianco e nero che narra le storie dei suoi protagonisti, e di un bambino che giocava a pallone elastico.
“Sciolgo la barca e ti faccio salire, il mare si calma, ti sospingo via, lontana, è ora che il male vada, che rimanga tutto ciò che sei libera dal male, dalla morte, è ora che tu vada, ti faccio morire, mamma, è il più bel regalo che possiamo farci.”
“Mio nonno è un uomo giovane e forte e su quella piazza gioca alla palla. La palla si batte col pugno, la palla è grande quanto un’arancia ma pesa come un melone, e mio nonno e gli altri uomini sono a messa e dal fondo, quando il parroco si dilunga, fanno vedere la palla e il parroco si sbriga, conclude in fretta, un pater e un’ ave veloci, poi tutti sulla piazza per la sfida degli uomini giovani e forti.”
Marco Giacosa – Langhe inquiete
“Ma se noi ogni estate continuiamo a mandarlo sulle langhe, per forza finirà col farsi un’anima Fenoglio, anche se alla nascita non ce l’aveva. Quanto a me debbo dire che quella miscela di sangue di langa e di pianura mi faceva già da allora battaglia, nelle vene, e se rispettavo altamente i miei parenti materni, i paterni li amavo con passione, quando a scuola ci accostavamo a parole come “atavismo” e “ancestrale” il cuore e la memoria mi volavano subito e invariabilmente ai cimiteri sulle langhe.”
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