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Bolaño selvaggio – recensione di Alberto Scialò su Aura

Bolaño selvaggio – recensione di Alberto Scialò su Aura

Scongiurare la fine. Vita estetica e parola etica in Roberto Bolaño

E nonostante tutto, le parole praticavano più l’arte di nascondere che l’arte di svelare. O forse svelavano qualcosa. Che cosa?, le confesso che non lo so.

Roberto Bolaño, 2666

I. Uno scrittore di transizione

Roberto Bolaño è ormai universalmente riconosciuto come uno dei massimi scrittori della narrativa contemporanea mondiale. Negli ultimi trent’anni la scena letteraria internazionale ha visto crescere esponenzialmente la fama dello scrittore cileno che si è imposto come pilastro della letteratura globale del XXI secolo. Infatti, pur avendo vissuto nel nuovo millennio per poco più di tre anni (muore nel 2003, poco più che cinquantenne, per insufficienza epatica mentre era in attesa per un trapianto di fegato), Bolaño continua ad influenzare prepotentemente l’immaginario dei lettori e degli scrittori dei giorni nostri. Quest’influenza negli anni ha assunto la forma di una vera e propria mitografia para-istituzionale: stencil, murales, volumi celebrativi, foto e interviste inedite, hanno iniziato a proliferare dopo la sua morte, alimentando l’immaginario etico ed estetico che già lo scrittore aveva contribuito a fondare e che, forse troppo spesso, ha deformato molti aspetti delle implicazioni esegetiche delle sue opere. Quando la mitografia popolare, infatti, si istituzionalizza, diventa allora banalizzabile e il senso ne viene distorto. Di conseguenza, per compiere una lucida analisi del corpus letterario di questo autore, imprescindibile per la comprensione della letteratura di fine millennio (e dell’inizio di quello successivo), bisogna incrinare il più possibile la stratificazione mitografica che lo avvolge e confrontarsi con gli aspetti più nudi dei suoi testi; ovviamente, fin quando ciò è possibile, fin quando cioè, mitologia etica e creazione estetica non risultino totalmente indissolubili all’interno della riflessione poetica.
Probabilmente, per iniziare a parlare dell’opera di Bolaño, si può considerare l’operazione che Raffaele Donnarumma compie nel suo studio intitolato Ipermodernità, con la quale colloca il cileno, insieme a David Foster Wallace, in una «zona di transito»[1] che segna il passaggio dalle modalità artistiche postmoderne ormai in esaurimento, alle tendenze del nuovo millennio. In effetti, il ruolo di “scrittore di transizione” ben si addice a descrivere la valenza culturale di Bolaño, soprattutto se si considera, da un lato, la robusta tendenza alla derealizzazione e all’utilizzo di quelle che Donnarumma chiama «strategie di irrisione del senso»[2] e, dall’altro, l’inesauribile necessità di sperimentazione narrativa, tramite la quale Bolaño ha cercato di innovare la duratura lezione dei grandi maestri sudamericani, Borges e Cortázar, non individuando però il principio ordinatore dei sui testi nella costruzione di vorticosi universi labirintici, volti alla testualizzazione del mondo circostante, bensì nell’indagine ostinata della realtà, nonostante l’ormai evidente impossibilità di sintesi.
Nel solco tracciato da questa prospettiva, lo scopo di questo saggio è, quindi, quello di soffermarsi sulla funzione traghettatrice svolta da Bolaño, rapportandone la produzione all’ambiente socio-culturale di fine secolo, saturato da un senso di esaurimento imminente, cercando di individuare quale ruolo può occupare la letteratura nella percezione del mondo di uno scrittore che si sente ai confini ultimi della storia, e mostrare che proprio l’esercizio della letteratura risulta essere il mezzo per saltare il vuoto della fine e proiettarsi verso ciò che c’è dopo.

II. Fine della storia, postdittatura e letteratura dell’apocalisse

Della fine, del fatto che qualcosa si sta gradualmente esaurendo, nell’esperienza letteraria di Bolaño si può parlare in diversi modi. Il primo, e più immediato, è la sua biografia. Infatti, pur essendo stato principalmente un poeta per gran parte della sua vita (dell’avanguardia infrarealista della metà degli anni Settanta, alle poesie della permanenza catalana scritte tra gli anni Ottanta e il 1998, confluite nella raccolta I cani romantici, che rappresentano una vera e propria fucina di temi e spunti per I detective selvaggi) Bolaño si è imposto al pubblico e alla critica per la sua produzione narrativa, la quale ha occupato unicamente gli ultimi dieci anni della sua vita. Questo dato è indicativo poiché ci costringe a priori a tenere in conto che, il Bolaño che più ha influito sul panorama culturale è un uomo malato (la cirrosi epatica gli era stata diagnosticata nel 1992), che ha ormai familiarizzato con l’idea che la sua vita stia per concludersi. Ciò, quindi, ci permette di compiere alcune considerazioni riguardo le opere che occuparono gli ultimi anni della sua vita, rilevando l’aura da messaggio definitivo ma intrinsecamente incompleto che le attraversa, o ad esempio, interpretando catarticamente l’uscita di scena di Arturo Belano, alter ego ricorrente dell’autore, alla fine della seconda sezione de I detective selvaggi. Ma di certo più interessante è discutere del contesto storico che partorisce le due opere che caleranno il sipario sulla sua carriera letteraria, nonché sulla sua vita.
In questo senso non si può ignorare il dittico “fine del secolo/fine della dittatura” che percorre e sottende tutta la produzione di Bolaño. Per il primo termine del sistema, bisogna considerare che il crepuscolo del secolo che sta finendo getta gli ultimi raggi di luce su un intero millennio di storia umana: Fukuyama teorizza la fine della storia, il raggiungimento del culmine della società umana, del suo assetto politico-sociale, un limite invalicabile oltre il quale non si può più andare, un limite che significa esaurimento o regressione. Nonostante questo mito sia stato prontamente smentito dal corso degli eventi (probabilmente anche prima del fatidico 11 Settembre), difficilmente può essere trascurato in un bilancio generale del periodo storico e della consapevolezza generalizzata della necessità di confrontarsi con la fine di un’era. Per parlare del secondo, bisogna ricordare che nel 1990 termina il regime dittatoriale di Pinochet in Cile, ponendo il problema di una riflessione approfondita sulla memoria e sulla narrazione di un periodo storico che ha sfigurato un paese e milioni di esistenze. Il connubio di questi due aspetti genera un clima culturale di diffusa malinconia che, secondo una dinamica tratteggiata da Paula Aguilar, diventa una posizione intellettuale, presentandosi «come possibilità estetica incarnata nella percezione disincantata di congetture storiche e racconti della storia, come visione del mondo segnata dalle cadute di fine secolo/fine dittatura»[3], dalla quale deriva inesorabilmente «il rovescio di una letteratura ottimista dalle tonalità eroiche, […] una narrativa di fine secolo attraversata dal fallimento delle grandi narrazioni: il notturno, la malinconia e il crepuscolo come simboli del presente»[4].
Allora, è solo davanti alla fine della società, alla dissoluzione di ogni sistema socio-politico in un vortice di violenza e malinconia, che possiamo spiegarci perché Edmundo Paz Soldán parla di «letteratura e apocalisse»[5], ponendo l’attenzione sull’apocalisse culturale che sottende l’opera di Bolaño, il cui esito più immediato è l’articolazione di un mondo scosso da una sorta di violenza congenita, come se questa fosse stata l’unica cosa in grado di resistere alla disgregazione della realtà. Simulacro della marcescenza del mondo, può essere considerata la città di Santa Teresa, luogo simbolicamente importante de I detective selvaggi e perno intorno alla quale ruota tutta la struttura di 2666. Le cinque parti indipendenti che compongono l’enorme romanzo, infatti, vedono ruotare una serie di personaggi di varia natura – poliziotti, giornalisti, critici letterari, intellettuali, operai e prostitute – intorno a due assi fondamentali: la ricerca di uno sfuggente scrittore tedesco conosciuto con il nome d’arte di Benno von Arcimboldi, considerato come uno dei più grandi geni letterari del Novecento e l’assassinio seriale di oltre duecento donne nel corso degli anni Novanta nella città di Santa Teresa, luogo nel quale tutte le storie andranno a congiungersi. Posta in un luogo simbolico, come il confine tra Stati Uniti e Messico, nel quale avviene una brusca transizione, nel giro di pochi chilometri, tra primo e terzo mondo, evidenziando lo squilibrio costante della realtà che si cerca di rappresentare, e delineandosi come una sorta di spazio selvaggio nel quale non vige alcuna legge morale, Santa Teresa è completamente in balia di quella parte d’umanità spregevole il cui «modo di concepire il mondo è la morte della società contemporanea»[6], ma che sembra effettivamente l’unica rimasta. Un tipo di umanità che decreta la «sconfitta della legge, della civiltà»[7] – dal momento che «l’impossibilità di sottrarsi ai pregiudizi sessisti e razzisti ha una relazione diretta con l’impossibilità di risolvere i crimini»[8] – diventando, di conseguenza, lo sbocco ideologico di tutto il XX secolo. Ciò è lampante in alcune pagine perturbanti della quarta sezione dell’opera (La parte dei delitti), come quella nella quale un manipolo di poliziotti si raduna in una tavola calda per la colazione dopo una notte di indagini, intrattenendosi con una lunga serie di barzellette sessiste (enumerate in modo quasi cinico dall’autore per provocare un forte senso di disgusto), o come quella che descrive la violenza di gruppo che, ancora una volta, dei poliziotti compiono nei confronti di alcune prostitute arrestate: distinguere i poliziotti dagli assassini, la legge dal crimine, il bene dal male, non è più possibile:

Nelle altre celle i poliziotti stavano violentando le puttane della Riviera. Ciao, Lalito, disse Epifanio, ti unisci alla baldoria? No disse Lalo Cura, e tu? Nemmeno io disse Epifanio. Quando si stancarono di guardare uscirono tutti e due a prendere il fresco in strada. Cos’hanno fatto quelle puttane, chiese Lalo. Sembra che abbiano liquidato una compagna, disse Epifanio. Lalo rimase in silenzio. La brezza che soffiava a quell’ora per le strade di Santa Teresa era davvero fresca. La luna, piena di cicatrici, splendeva ancora nel cielo.[9]

Quello che vede e rappresenta Bolaño, quindi, è un mondo polimorfo, di confini sfumati e indistinzioni. Un mondo che, sulla soglia della fine, vede le sue certezze disperdersi in un vortice di significati inafferrabili e sensi discordanti.

III. Vita artistica e detective

Interrogandoci riguardo la funzione effettiva che Bolaño attribuisce alla letteratura (e alla scrittura), è utile partire da uno spunto critico che permette di compiere alcune considerazioni interessanti.
Rodrigo Fresán, in un saggio intitolato Il samurai romantico, riporta un passaggio di un’intervista in cui Bolaño espone la sua visione della letteratura con una delle iperboliche metafore che gli sono proprie.

La letteratura somiglia molto alla lotta dei samurai, ma un samurai non combatte contro un altro samurai: combatte contro un mostro. Generalmente, poi, sa che sarà sconfitto. Avere il coraggio, sapendo fin da prima che sarai sconfitto, e uscire a combattere: questa è letteratura.[10]

Successivamente Fresán riflette su questa citazione:

l’opera di Bolaño […] è una di quelle che meglio obbliga […] a una quasi irrefrenabile necessità di leggere, scrivere e intendere questo lavoro come un estremo combattimento, un viaggio definitivo, un’avventura dalla quale non c’è ritorno, perché termina solo quando si esala l’ultimo respiro e si annota l’ultima parola.[11]

A questo punto bisogna considerare che, per quanto i due passi siano contaminati dall’aura mitica creatasi intorno alla figura di Bolaño, o che comunque offrano una visione poetica della scrittura all’estremo dell’autore, oltrepassando la coltre di mitografia è possibile evidenziare un dato sensibile: l’inscindibilità della componente etica da quella estetica in un’analisi della letteratura del cileno. Istituire un rapporto dialogico fra queste due istanze, capire come lavorano e come interagiscono è, infatti, la chiave per svelare i significati più profondi dell’operazione poetica di Bolaño e comprenderne gli aspetti più moderni.
Dall’opera di Bolaño, emerge prepotentemente l’idea che l’arte estendendosi, estremizzandosi, inglobando qualsiasi cosa e connotandosi come unico motore della vita dei personaggi, paradossalmente perda qualsiasi autoreferenzialità: diventa un modo di stare al mondo e processare la realtà. La vita viene concepita principalmente come “vita artistica”, intesa non come chiusura estetica esclusiva, alla maniera del dandy o dell’esteta, bensì come via per aprire un’indagine sul mondo del più ampio raggio possibile. Bolaño nei suoi scritti parla di arte, ma soprattutto di letteratura, ricercando l’essenza del reale per interpretarlo e, difatti, non è possibile limitare le lunghe digressioni di natura quasi saggistica, strabordanti di nomi di opere e autori di qualsiasi provenienza geografica o culturale, ad un mero gioco di specchi, ma parlare di letteratura diventa un modo per parlare di esseri umani. Basti pensare a due passi chiarificatori de I detective selvaggi. Nel primo, l’eccentrico poeta omosessuale Ernesto San Epifanio riscrive un canone poetico transnazionale nel quale confluiscono anche diversi poeti italiani (Pavese, Sanguineti, Leopardi, Montale, per citarne alcuni), usando categorie molto peculiari che, evidentemente, valicano il semplice giudizio estetico per ricercare significati di altra matrice.

Nell’immenso oceano della poesia distingueva varie correnti: frocioni, froci, frocetti, checche, culi, finocchi, efebi e narcisi. Le due correnti maggiori, tuttavia, erano quelle dei frocioni e dei froci. Walt Whitman, per esempio, era un poeta frocione. Pablo Neruda, un poeta frocio. William Blake era, senz’ombra di dubbio, un frocione, e Octavio Paz un frocio. Borges era un efebo, cioè poteva diventare all’improvviso frocione e all’improvviso rivelarsi semplicemente asessuale.[12]

Nel secondo, Bolaño dedica un intero capitolo della sezione mediana dell’opera (nella quale vengono raccolte quasi cinquecento pagine di testimonianze fittizie che ricostruiscono asistematicamente la vita dei due protagonisti, Arturo Belano e Ulises Lima) alla voce di un manipolo di scrittori, esponenti di diverse correnti, presenti alla Fiera del libro di Madrid del 1994, riflettendo sullo stato di asservimento alle regole del mercato della letteratura e degli intellettuali del tempo: in uno scenario del genere, anche il poeta Pelayo Barrendoain, affetto da diversi disturbi psichici, riflette sul fatto che sia la sua stessa malattia a dargli successo e guadagno, poiché è ciò che attira i suoi lettori, «quelli a pezzi, quelli massacrati»[13] e alimentati dalla sua follia.
Bolaño quindi, parla molto spesso di letteratura, ma soprattutto di vita letteraria. Nelle sue opere assistiamo ad un proliferare di personaggi artisti, spesso posti ai limiti della società, che come modo di vivere conoscono soltanto la vita artistica. Inseguendo l’arte, inseguendo quel sogno che l’autore esplica nella poesia I cani romantici[14], che apre la raccolta omonima, essi fanno esperienza del mondo, indagano e riflettono su dinamiche che trascendono l’ambito artistico. I due protagonisti de I detective selvaggi si mettono in viaggio per le aride strade del deserto del Sonora alla ricerca della fantomatica Cesárea Tinajero, poetessa fondatrice del movimento realvisceralista, di cui i due si proclamano nuovi pionieri. Quando la trovano ne causano la morte e rimangono condannati a vagare per il resto delle loro vite orfani di un riferimento, poetico ed etico, e di un sogno. Infatti con la morte di Cesárea (posta nell’ultima sezione, cronologicamente precedente alla seconda, come chiave di lettura finale di tutto ciò che verrà dopo), ma più probabilmente con la visione dell’oceano di solitudine e rimpianti in cui si è arenata la rivoluzione che essa ha tentato, svanisce anche l’utopia poetica che avevano costruito. La morte della poetessa sarà l’evento che darà il via al lungo vagabondare dei due realvisceralisti, che continueranno a inseguire per anni qualcosa che sanno non esistere, consapevoli della vanità della loro ricerca.
Sulla falsa riga di Arturo Belano e Ulises Lima, i quattro critici protagonisti de La parte dei critici, prima sezione di 2666, dedicano tutta la loro carriera accademica, ma anche tutta la loro vita, allo studio della produzione di Benno von Arcimboldi. Per caso, grazie alle informazioni di uno studente messicano, riescono a capire che lo scrittore si trova proprio a Santa Teresa e, tre di loro, decidono di intraprendere un viaggio alla volta del paese centroamericano. Dopo svariati mesi di permanenza, in cui la ricerca infruttuosa della sfuggente personalità di Arcimboldi passa in secondo piano, sopraffatta dal vortice di esperienze in cui vengono avviluppati i protagonisti, una di loro, Liz Norton, decide di andare via, capendo di essere innamorata del critico rimasto a casa, Piero Morini, e i due reduci, Pellettier e Espinoza, in procinto di ripartire per l’Europa, si fermano davanti alla consapevolezza del fallimento della loro ricerca; ci sono andati vicino, non ci andranno mai più vicino, e questo deve bastargli. «Arcimboldi è qua», disse Pellettier, «e noi siamo qua, e non gli arriveremo mai più vicino di così»[15]. Proprio come Lima e Belano, i due critici devono arrendersi davanti all’insolvenza (o alla riuscita misera) della loro inchiesta, la quale non li vedrà mai arrivare al raggiungimento della verità.
In quest’ottica, assume allora un ruolo rilevante la costruzione da detective story che hanno i testi di Bolaño, i quali ruotano spesso intorno ad un enigma da risolvere, facendo emergere la figura tutta concettuale del detective, poiché quasi sempre a rivestirla sono dei letterati. Il detective, colui che ricerca e indaga sulla verità in una realtà che assume dei connotati sempre più opachi, si sovrappone all’artista (secondo una dinamica non completamente nuova, tanto che volendo è possibile riscontrarne un archetipo addirittura nel componimento di Baudelaire Una martire, nel quale il poeta descrive una sorta di scena del crimine, metaforizzando la degenerazione della nuova realtà di cui egli è testimone). Da elemento unificante, nei meccanismi del giallo classico, il detective diventa colui che assiste alla dissoluzione e ne prende atto, l’enigma del suo tempo non può essere risolto, tutto ciò che rimane è lo sforzo dell’indagine; ed è significativo che a compierlo siano proprio degli intellettuali, molto spesso proprio degli scrittori.

IV. La parola per quello che viene dopo

Avviandoci verso la conclusione, è interessante notare che la ricaduta formale di questo sostrato morale volto all’indagine perenne del mondo, prenda corpo nella produzione di quelli che potremmo definire veri e propri romanzi-fiume, delle macchine narrative rizomatiche che si protraggono per svariate centinaia di pagine, capaci di inglobare una quantità impressionante di materiali e modalità narrative. Le creature di Bolaño, infatti, sono scandite da un’incessante necessità di ricerca che si esplica nella costante tendenza alla digressione. Come suggerisce Carlo Tirinanzi De Medici,

in questi romanzi la lunghezza è un elemento essenziale per permettere di rappresentare il mondo in cui ci muoviamo: un mondo enorme e dispersivo, entro cui i personaggi si perdono, in cui le storie si moltiplicano e s’intrecciano secondo un principio di pluralità e coesistenza sincrona.[16]

Di conseguenza, stride ma non risulta inadeguato passare, nel giro di poche pagine, dalla descrizione cronachistica di decine di omicidi ai consigli per una sana alimentazione impartiti da una cartomante in un programma televisivo, o da paragrafi dominati dalle informazioni riguardanti Animali e piante del litorale europeo (il primo libro mai letto da Arcimboldi), alla descrizione della seconda guerra mondiale. Veri e propri disegni geometrici che tentano di ordinare il canone filosofico europeo o riflessioni riguardanti i ready made di Duchamp (entrambi in La parte di Amalfitano), convivono con inserti metanarrativi e lunghe narrazioni che si incastrano all’interno dell’esoscheletro principale, come quella riguardante lo scrittore fittizio Boris Ansky. Massimalisticamente, la scrittura di Bolaño tende a saturare l’orizzonte del lettore con la parola, l’unico strumento adattato a scandagliare le pieghe della realtà. La parola consente l’esplorazione di un mondo ormai disorganico, quindi non stupisce che il soggetto della rappresentazione risulti ineluttabilmente deformato. I personaggi, soprattutto quelli di 2666, vivono una realtà costantemente esposta al rischio di rarefarsi, in cui si aprono sistematicamente squarci onirici che sembrano trascenderla. I connotati si deturpano, le azioni si estremizzano (come quella del pittore Edwin Johns, che si amputa la mano con cui dipinge e la pone sulla sua ultima opera per raggiungere gloria e denaro) e nel reale si formano spazi di illogicità pura, basti pensare alla voce con cui Amalfitano dialoga per gran parte della sezione dedicatagli, o ai sogni e alle visioni che assalgono tanti altri personaggi.
Come nota, infatti, Peter Elmore, il realismo di Bolaño si muove «su un piano che non è meramente empirico, ma anche simbolico e psichico»[17] e di conseguenza «il mostruoso non è una deformazione soggettiva del reale, ma la sua forma più arcana e terribile»[18]. Testualizzare il mondo allora, non è più, alla maniera postmoderna, un meccanismo deformante concepito intrinsecamente alla rappresentazione, volto alla creazione di strutture labirintiche che esauriscono in loro stesse il proprio senso, ma è rappresentazione pura: presa di coscienza di una realtà polimorfa sino alla radice. Dunque, è quest’indagine ostinata, al cui servizio pone tutta la sua opera, ad essere l’aspetto più significativo nell’ambito di una proiezione dell’esperienza letteraria di Bolaño verso il terzo millennio, «è in questa ricerca incessante, vana e necessaria che sta il vero senso della sua modernità»[19]. La valenza culturale di Bolaño, in conclusione, sta nell’essersi riuscito a confrontare con la dissoluzione di una realtà ormai impossibile da circoscrivere, non approdando a conclusioni nichiliste, ma anzi, trovando nello sforzo di sintetizzare ciò che è ormai definitivamente franto, una via da percorrere, un modo di esplorare l’apocalisse nel tentativo stesso di scongiurarla.


  1. Raffaele Donnarumma, Ipermodernità, Bologna, il Mulino, 2014, p. 109. 
  2. Ivi, p. 111. 
  3. Paula Aguilar, «Povera memoria la mia». Letteratura e malinconia nel contesto della postdittatura cilena, in Bolaño selvaggio, a cura di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau, traduzioni di Marino Magliani e Giovanni Agnoloni, Torino, Miraggi, 2019, p. 105. 
  4. Ibidem. 
  5. Edmundo Paz Soldán, Roberto Bolaño: letteratura e apocalisse, in Bolaño selvaggio, cit., p. 17. 
  6. Ivi, p. 25. 
  7. Ivi, p. 26. 
  8. Ivi, p. 10. 
  9. Roberto Bolaño, 2666, traduzione di Ilide Carmignani, Milano, Adelphi, 2008, p. 436. 
  10. Cit. in Rodrigo Fresán, Il samurai romantico, in Bolaño selvaggio, cit., p. 255. 
  11. Ivi, p. 256. 
  12. R. Bolaño, I detective selvaggi, traduzione di I. Carmignani, Milano, Adelphi, 2014, p. 96. 
  13. Ivi, p. 559. 
  14. Riporto qui i versi più significativi ai fini della presente trattazione: «A quel tempo avevo vent’anni | ed ero pazzo. | Avevo perso un paese | ma guadagnato un sogno». (Id., I cani romantici, traduzione di I. Carmignani, Roma, SUR, 2018, p. 7). 
  15. Id., 2666, cit., p. 180. 
  16. Carlo Tirinanzi De Medici, Mondo epico e mondo romanzesco nel sistema narrativo contemporaneo, in L’epica dopo il moderno (1945 – 2015), a cura di Francesco de Cristofaro, Pisa, Pacini, 2017, p. 64. 
  17. Peter Elmore, 2666: l’autorialità al tempo limite, in Bolaño selvaggio, cit., p. 232. 
  18. Ibidem
  19. Juan Antonio Masoliver Rodenas, Parole contro il tempo, in Bolaño selvaggio, cit., p. 273. 

QUI l’articolo originale:

BOLAÑO SELVAGGIO – recensione di Davide Barilli sulla Gazzetta di Parma

BOLAÑO SELVAGGIO – recensione di Davide Barilli sulla Gazzetta di Parma

Bolaño selvaggio e il suo labirinto

Su certi autori, attraverso lenti procedimenti, si formano aureole di mitologia. Inizialmente accade per cortocircuito. Un titolo azzeccato. Una contingenza temporale. Ma poi subentra il passaparola fra i lettori, con la voglia di ricostruire, libro dopo libro, l’architettura totalizzante. Cosa che riguarda, fra i più recenti, Roberto Bolaño. Scrittore cileno cosmopolita, eppure radicato in un Sudamerica antico e violento di cui ha raccontato misfatti e solitudini, Bolaño è autore di culto di cui, in questi ultimi anni, sono stati pubblicati valanghe di libri. Il suo esaltante iter postumo (è morto a soli cinquant’anni) non è prodotto di un’operazione editoriale. Ma di un talento capace di attrarre il consenso di chi ama la letteratura vissuta in toto. Destino dei sognatori e dei costruttori di mondi. Bolaño non spiega, racconta. Un universo, il suo, che da Cile e Messico si espande all’Europa. Esule solitario e narratore incontinente, ha costruito trame autobiografiche che si rincorrono tra gioventù, bar, circoli artistici, avanguardie e fallimenti, biografie strambe e disperate, in una sorta di sconfinato labirinto di parole.

Recentemente l’editore Miraggi di Torino ha pubblicato – con la traduzione di Marino Magliani e Giovanni Agnoloni – un monumento postumo, strumento indispensabile per gli amanti di Bolaño. Operazione congrua e coraggiosa, proporre in Italia una serie di studi di matrice ispanica come quelli raccolti in «Bolaño selvaggio» (pag. 427, 24 euro), spaccato di una letteratura sudamericana impura, imbevuta di radici europee (come non pensare a certo Perec?). Perfetta radiografia di un anti-maestro, di un inventore di mondi che si inabissano, tra tunnel narrativi e fantasmi apocalittici, affrescando quello che inoppugnabilmente Alessandro Raveggi ha definito, nella prefazione, come un irripetibile «realismo confidenziale».

BOLAÑO SELVAGGIO – recensione di Marco Archetti su Il Foglio

BOLAÑO SELVAGGIO – recensione di Marco Archetti su Il Foglio

Gli scrittori latinoamericani tirano fuori il peggio di noi

“Bolaño selvaggio” è un libro che fa bene a Bolaño e benissimo ai bolañisti, cioè a tutti noi. E che andrebbe letto da cima a fondo a cominciare dal fondo

Confesso, ho sempre fatto fatica con Roberto Bolaño. Il che non significa che io non abbia letto Roberto Bolaño, perché, giuro, l’ho letto. Ho letto numerosi romanzi di Roberto Bolaño, direi almeno cinque – verità che, non fosse tale, confesso che occulterei senza pensarci un attimo, negando fino alla morte e resistendo eroicamente alle inquisizioni sopraccigliari delle frotte dei bolañisti, i quali sono una setta di adepti che ti sbirciano in tralice mentre parli fino a indurti al balbettio (quando parlate con un bolañista fissatevi su un dettaglio del volto a caso e concentratevi su quello, solo così potrete sostenere il suo sguardo non sostenendolo) e ti sbirciano per vedere se hai detto la verità, sospettando che non l’hai detta, tu Roberto Bolaño l’hai letto poco, pochissimo, e ovviamente male. Come tutte le sette, sono pericolose e assassine, il che getta una luce di amara verità non solo sui bolañisti ma anche su tutti gli altri: sui cortazariani, i dostoevskiani, i pasolinisti, i thomasbernhardiani, i franzeniani, insomma, su chi siamo tutti noi, nessuno escluso, quando amiamo un autore. Siamo dei granitici detentori di culto, degli officianti permanenti, dei teppisti che si contengono per un pelo, degli stalinisti, dei mezzi mostri con l’alibi intero della passione, come se la passione sia mai riuscita ad affrancare qualcuno dalla propria condizione di aguzzino, macché, non c’è un solo caso al mondo, anzi, è vero il contrario, l’ha semmai nutrita e incrudelita, la passione, quella condizione di omicida con l’alibi profondo.

Io – sia chiaro – non sono da meno, e faccio parte di questa famiglia di fanatici feroci che suppongono il proprio gusto il più giusto possibile: quando sono io il portatore di un’inamovibile convinzione letteraria sono sempre nella verità, mentre i portatori di culti diversi erodono il mio terreno esclusivo, quindi mi urtano, mi ostacolano, mi innervosiscono con la loro ottusità. E quanto insistono! Tra l’altro è dalla mia vita cubana in poi che noto come, quando in ballo ci sono i latinoamericani (come se “scrittore latinoamericano” significasse davvero qualcosa), il culto prenda pieghe ancor più aggressive e l’amore assuma assurdi significati travalicanti. Quello che accade è che “scrittore latinoamericano” diventa automaticamente condizione morale e non solo estetica. E lo diventa al punto che criticare la qualità letteraria delle pagine di uno scrittore latinoamericano scarso ma di culto è pericolosissimo, è una spericolata attività portatrice di penose conseguenze, alimentate da sospetti di insensibilità politica del criticante, e di squallido cinismo occidentalista antindigenista (l’accusa non viene aggiornata dal 1967). Perché gli scrittori latinoamericani tirano fuori il peggio di noi? Perché, in nome di ciò che non esiste, ci assembriamo in contese ringhiose su un terreno ridicolo, in una notte in cui tutte le vacche sono nere, trascinandoci – nolenti – fin nel cuore delle selve amazzoniche, sospinti da una rossa brezza esoterico-allegorica?

Bolaño selvaggio” (miraggi edizioni, 436 pp., € 24 euro) è un libro splendido, pubblicato da un editore tra i più ammirevoli in circolazione. Un libro che fa bene a Bolaño e benissimo ai bolañisti, cioè a tutti noi. E che andrebbe letto da cima a fondo a cominciare dal fondo, cioè da un rimasuglio di intervista ad oggi inedita in cui Bolaño risponde come spesso amava, con sferzante sarcasmo – il che è rivelatore perché la maggior parte degli scrittori che amano senza ironia Bolaño non hanno nemmeno un centesimo del suo sarcasmo e del suo disinteresse verso ciò che era conveniente dire, chi ha dei dubbi si rilegga la conferenza “Siviglia mi uccide” e avrà di che deludersi, in termini di secca sconfessione di militanze presunte.

Ma è leggendo “Bolaño epidemia” di Jorge Volpi che sopraggiunge l’epifania. Non solo perché epidemia è ormai la nostra parola chiave, ma perché, attraverso un gioco metabolañista, Volpi sveste Bolaño, sveste i bolañisti e la propria generazione di tutto il bolañismo deteriore, di tutto il bolañismo orfico, e consegna un saggio acuto, divertente e intelligentissimo sul Bolaño originario. E ci parla dell’utilità di non essere maniacali e settari quando si ama uno scrittore, perché poi si finisce a non capirlo. E a chi, in quel congresso di Siviglia, chiese che consiglio avrebbe dato a un giovane scrittore, Roberto Bolaño rispose: “Vi raccomando di vivere. E di essere felici.” La risposta meno bolañista possibile. La più bella. Quella fu l’ultima apparizione pubblica dello scrittore. Morì a Barcellona di lì a pochi mesi.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.ilfoglio.it/una-fogliata-di-libri/2020/05/24/news/gli-scrittori-latinoamericani-tirano-fuori-il-peggio-di-noi-318821/

BOLAÑO SELVAGGIO – recensione su Minima&Moralia

BOLAÑO SELVAGGIO – recensione su Minima&Moralia

IL BOLAÑO SELVAGGIO

È in libreria l’edizione aggiornata del Bolaño selvaggio, la raccolta di saggi sullo scrittore cileno uscita per Miraggi. Di seguito pubblichiamo l’introduzione di Alessandro Raveggi, ringraziando editore e autore.

di Alessandro Raveggi

«La vita, sicuramente, che ci mette sotto il naso i libri necessari solo quando sono assolutamente necessari», si legge ne Los sinsabores del verdadero policía. E io dico così: «Perché proprio Bolaño?» – me lo sono chiesto spesso. Nel 2002 vivevo a Granada in Andalusia, e in una libreria di fiducia, suggestiva e tutta accatastata, che si illuminava come un fuocherello speranzoso nel gelido inverno offerto dalla Sierra Nevada, trovai per caso, in mezzo ad altri mille libri e autori in spagnolo, quella che sarebbe divenuta una delle mie bibbie: Los detectives salvajes di tale Bolaño Roberto, un autore mai sentito prima – in Italia era in realtà uscito in molta sordina per Sellerio già dal 1997.

In quella libreria spagnola in fondo non si celebrava alcun trionfo, nessuna fascetta eclatante, sebbene avesse vinto due tra i più importanti premi del mondo delle lettere spagnole – l’Herralde nel 1998 e il Rómulo Gallegos nel 1999 –, nessuno scaffale dedicato, nessuna feticizzazione della pallida faccia emaciata addolcita dall’occhiale dalla montatura rotonda, e da un crine corvino scompigliato stile Charlie Chaplin che ha perso il cappello, appena scampato a un disastro. Era lì tra gli altri romanzi Anagrama, docile e insignificante: Bolaño Roberto. Me lo confessò più tardi anche Juan Villoro, senza il minimo segno d’invidia: «Roberto era uno scrittore contemporaneo bravissimo, ma non era un mito, aveva avuto dei successi, sebbene in ritardo rispetto ad alcuni di noi. Era uno di noi, insomma», fu più o meno quello che mi disse.

Per me fu però, in lettura, una subitanea folgorazione, e ne rimasi anche stordito, complice forse la stufetta a gas della mia angusta stanza singola, o forse persino la mia conoscenza ancora mediocre della lingua spagnola. Era diverso da tutto quanto avessi letto prima, in quella casa condivisa vicino alla Gran Vía de Colón – indizio maligno di mie prossime peregrinazioni e anche di future diramazioni bolañane verso le Americhe? – la casa dove, ironia della sorte, avevo divorato Leopoldo María Panero, Octavio Paz, Pablo Neruda, Gabriela Mistral e tutti quei poeti che, seguendo il suo maestro Nicanor Parra, Roberto avrebbe forse dismesso o attaccato ferocemente. Certa spigliatezza, certa sagacia, la possibilità unica che ti dava la sua voce di seguire in una costante scorribanda a un tempo personaggi non sempre rotondi, non sempre dotati di quello che gli editor definiscono uno spessore psicologico completo (e chi se ne fregava!), e far loro passare cose buffe e a volte cacciarli in cose serissime e terrifiche, tenendo la corda sospesa a metà, sul bordo dell’annientamento e della morte; oppure ancora certe sue improvvise virate poeticissime che ricadevano anch’esse, si direbbe ancora con Parra, nell’antipoesia tipica de Los perros romanticos: tutto mi prese, anche nelle letture voraci successive di quello che era disponibile in libreria (ricordo in particolare Putas asesesinas e La pista de hielo).

Certo, in lui c’era di mezzo Borges, c’era di mezzo Cortázar, o anche Ernesto Sabato, ma loro si rubricavano/storicizzavano pur sempre nelle astrazioni di un’avanguardia, cristallina o ferina che fosse, o annacquati nella moda del boom. Non era in realtà un grande amante delle avanguardie, Roberto, a mio parere: «Preferisco i paracadutisti che scendono avvolti dalle fiamme, o direttamente, quelli a cui non si apre il paracadute», disse una volta. Era più un situazionista melancolico.

Accadeva poi che con Bolaño si potesse andare oltre le facili categorie del modernismo e del postmodernismo: la voce dell’Autore immaginario – che non è solo la voce dimessa e scanzonata, dall’accento cileno smorzato ma mai compromesso dal messicano o dal catalano – mi si era appiccicata alle orecchie per giorni, inventiva, ma mai spaccona. La voce unica persa nelle sue decine di trasfigurazioni e maschere. Ogni opera in fondo contiene la voce dolente del proprio autore, disse pressappoco così a Carmen Boullosa in quella che è la cosiddetta sua Ultima conversación.

Avete però mai letto lo stesso Los detectives salvajes, che io lessi in quel lontano 2002 a Granada, guardandolo con occhi disinnamorati, o da detrattori?

Impresa oggi oramai difficile. Ma in fondo, chiedetevelo: che ne capisce il lettore italiano di tutto quel crogiolo di vite ingenue e perse, strade affastellate di vizio e poesia, cantinas y calles del centro storico di Città del Messico, nomi e cognomi iberici, poeti spagnoli esiliati, o eccentrici giovani poetastri e poetesse cileni e uruguaiane, riferimenti letterari remoti o spesso inventati, e ricerche piene di vicoli ciechi? Poco, o niente. Perché Bolaño non è un Gogol’ o un Dostoevskij, nei quali poco importa se a volte certi nomi e cognomi sono ardui da pronunciare (e non son sempre molti). In lui, invece, credere nella toponomastica e nell’onomastica è tutto, proprio fondamentale, così come si crede all’amore assoluto da giovani (come quello di Roberto per Lisa) e lo si confonde con una passione momentanea. A volte si ha l’impressione che vi faccia persino illudere di abbracciare a volo d’uccello tutta la storia della letteratura ibero-americana, o almeno tutto quello che va da Ruben Darío ai suoi stessi contemporanei (amici spesso citati e adorati), o di permettervi di giocare con essa come nello straordinario gioco de La literatura nazi en America.

È uno dei pochi autori del tardo Novecento che pretende e ottiene per i suoi lettori un Universo completo e sussistente, per quanto fragile e dai bordi sfrangiati, ripetitivo a tratti. Un Universo di senso che non include solo i suoi personaggi ricorrenti (Belano, Lalo Cura, Amalfitano), ma anche la città di Santa Teresa o la Universidad Nacional Autónoma de México come posti reali e immaginari assieme, le bizzarre teorie poetiche infrarealiste, il mondo delle mille riviste underground che nascono e muoiono ogni mezzora (come la rivista «Caborca»), le notti con le puttane o con le studentesse o le albe assonate, o ancora la passione per i giochi di ruolo (mai investita di postmodernismo), il rincorrere costante delle vite di scrittori fittizi e la riscrittura della vita di quelli veri (fin dal César Vallejo morente di Monsieur Pain)… ed ecco, Bolaño, che in questo Universo ci ficca dentro idealmente anche una Biblioteca personalissima: immagine perfetta del Paradiso, direbbe Borges, ma anche «una sala di lettura dell’Inferno» – per fare il calco ad un verso bolañano in veste di giovane poeta e vago. Universo completo con bibliografia inclusa, che genio!

Essere un genio scrittore poeta y vago è d’altronde questo: farci abboccare continuamente anche rispetto a cose remote e insignificanti, oppure illuderci di poter sapere noi tutto senza saperlo. E, soprattutto, dare l’impressione di cianciare sul bordo dell’Abisso, del Mostruoso, davanti alla Legge kafkiana. Direte che questo d’altronde ha a che fare con la famosa suspension of disbelief di Coleridge, che rende il lettore tanto disposto a divertirsi nella trama dell’autore quanto totipotente. Certo, ma in Bolaño, complice quel suo tono fresco e in fondo amichevole di cui ho già parlato – che contribuisce a quella che come ha detto Ignacio Echevarría si può chiamare una epica de la tristeza che diventa mitopoietica –, tutto ciò mi pare si ponga all’ennesima potenza. Perché non c’è nessuna concessione al real maravilloso, come si chiamava in realtà il tanto abusato realismo mágico: siamo in una realtà che al maravilloso sostituisce una cruda confidenzialità (un fragilissimo confidenziale), e mai l’esagerato.

Realismo confidenziale, qui propongo la definizione: lo scrittore vi porta familiarmente, sottobraccio, a vedere cose segrete e terribili: «saper ficcare la testa nel buio», avrebbe detto Roberto, e non tirarsi indietro, è scrivere davvero.

Così, per questo Bolaño è definito l’eccentrico, Bolaño l’arrischiato di una nuova letteratura-mondo, del romanzo massimalista (per riprendere una definizione dello studioso Stefano Ercolino) che si esprime non solo con i tomoni come 2666, ma anche in libri brevissimi, e altrettanto colossali – o in racconti-romanzi splendidi, come l’incantato racconto russo «La nieve» oppure l’oramai classico «Sensini», o chissà anche la «Prefiguración de Lalo Cura», solo per citarne tra i migliori, almeno per quanto mi riguarda.

Bolaño ahinoi anche l’outsider, che a causa della morte troppo precoce – appena un anno dopo il mio soggiorno a Granada, cioè a luglio del 2003 – si è trasformato in un autore maledetto, il cileno scoppiato che derapa fino a morire per una malattia al fegato, povero, dimenticato (una costruzione spacciata a tavolino da certa editoria americana). Maledetto per cosa, però? Certo non per la sua vita, passata e finita nel non esilio della brutta cittadina marina catalana di Blanes, o a Girona, a fare mille lavoretti miserrimi, spesso a fare la fame, o a mandare testi a iosa ai concorsi letterari di provincia, oppure la vita rarefatta in una gioventù messicana che si perde oramai nel mito dei caffè amarissimi del Café de L’Habana, una vita che non doveva essere stata comunque facile né gloriosa. Maudit, quindi, siamo sicuri? Forse solo perché in lui ci sono accenti da Poe e Rimbaud, ma molto digeriti.

Anzi, trovate in realtà una serie di qualità che annullano ogni possibilità di confonderlo con un’icona dello scrittore trasgressivo a buon mercato, quello che si lancia in avventure gonzo o che fa del degrado anarchico quotidiano quasi una forma di venerazione mistica che spesso sconfina nell’egolatria. Cercherò di elencare, in ordine sparso, le cose che invece di Bolaño, mi paiono essenziali per capire la sua grandezza, non tanto la sua maledizione.

Uno

In primis, Bolaño riesce a raccontare al meglio quel tipo di stato affettivo tutto particolare e tutto intellettuale dell’essere studenti: studenti in quanto apprendisti della vita, del sesso, dell’amore e anche se vogliamo del saper vivere la vita adulta. Qualunque altro scrittore si coprirebbe di ridicolo nel raccontare certe cose. I suoi romanzi sono anche questo: negano e usano l’impossibile coming of age di un’intera popolazione di giovani (da El espiritu de la ciencia ficción fino ai Detectives, ovvio), quella in particolare latinoamericana, che storicamente ha sempre vissuto la propria inferiorità come un limite e un’utopia allo stesso tempo – anche perché il loro cammino è stato martoriato dalla violenza. Il binomio studenti-violenza: sappiamo ahinoi quanto rappresenti l’America Latina oggi come in passato. Lui però ha reso questa condizione dolente – le nottate passate a inseguire non sequitur, le feste interminabili e atemporali, oppure i consessi cisposi degli studenti cileni all’università, e certo anche il terrore inflitto ai desaparecidos e agli esiliati – come una condizione universale, senza retorica alcuna. Qualcuno ha detto che etica ed estetica in lui convivono perfettamente. Io dico: senza che si facciano beccare in giro a braccetto.

Due

Inoltre, Bolaño ci parla spesso della complicità della finzione letteraria col male più metafisico, e ci dice forse anche che solo attraverso la finzione possiamo in qualche modo sanarlo, o quanto meno avvicinarlo per comprenderlo («la violencia» d’altronde «es como la poesia: no se corrige», scrisse nella poesia Patricia Pons). In una prospettiva anti-ideologica, l’autore ci racconta cioè l’orrore della dittatura o del nazismo (si prenda il concetto in senso lato) attraverso l’esperienza di intellettuali spesso conniventi – come, ovviamente, in Estrella distante e Nocturno de Chile. La dittatura: sia quella cilena, sia quella messicana che si esprime nel massacro degli studenti a Tlatelolco, sia quella quotidiana alla frontiera con gli Stati Uniti, che modifica e falcia le vite di chi vi si trova nel mezzo. Magari politicamente si sarebbe detto pure comunista, sebbene terrorizzato da quello che chiamava il discorso vuoto di certa sinistra. Fu trockijsta e poi infine anarchico, per sua stessa definizione. Era schivo sicuramente nei confronti del consenso, perché conosceva l’idiozia feroce che può celarvisi dietro.

Tre

Bolaño ci fa capire poi il senso di quello stupido coraggio che ci vuole a essere scrittori, senza pedanteria o senza rischiare di cadere nella metafiction noiosa. Ovviamente in lui si sentono spesso echi metaletterari, ovviamente nei suoi romanzi la letteratura, i libri, la voracità e l’insensatezza con la quale veneriamo parole stampate su carta o declamate ai reading poetici la fanno da padrone. Ma tutto è fatto con una disinvoltura unica – altrimenti non sarebbe così amato da lettori non professionalmente legati ai libri, o meno pedantemente raffinati – pari a quella di quel giovane studente cileno di El espiritu de la ciencia ficción, ulteriore alter ego e vertigine dell’autore, che manda lettere strampalate e visionarie ai maestri della fantascienza da un bugigattolo di Calle Insurgentes. Disinvoltura che non significa nonchalance, disinteresse snob, né enfasi di un mondo letterario incantato: “la letteratura ti porta all’Inferno, stanne certo, amico lettore”, si ode nei suoi libri, e noi scrittori non possiamo che continuare a crederci, mandando lettere a mittenti irraggiungibili, che mai in fondo saranno considerate o ricevute.

Quattro

Bolaño procede poi spavaldo e senza remore nella riscrittura del canone (o nella sua ironica dissoluzione?), portandoselo con sé come una bandiera arruffata. E non a caso anche questo libro che state per leggere, questa raccolta di saggi che prendono da vari punti di vista, da quello più accademico a quello più slacciato, i mille aspetti della produzione del cileno, si parla di un suo chiaro stravolgimento del canone: amava minori come Rodolfo Wilcock (che grazie a Bolaño è stato riportato in auge, a mio avviso, in Italia), il raccontista Felisberto Hernández, o scrittori ancora da noi poco considerati come il grande Daniel Sada, o un autentico selvaggio e indecifrabile come Osvaldo Lamborghini; sbeffeggiava i monumenti a Paz, Fuentes e Márquez o certi Sepúlveda e Pérez-Reverte. Bolaño l’outsider, si diceva, che cambia il canone dall’esterno verso l’interno. E allo stesso vi si pone in modo ironico e scomposto al centro.

Difficile per me capire quindi, ritornando all’inizio di questo testo, che cosa tutto sommato riservi Bolaño per il lettore italiano, se non quanto ho sommariamente elencato (un piacevolissimo disorientamento, una confidenza assoluta degli abissi che la letteratura deve spalancare).

Ma forse un certo grado di vicinanza tra noi italiani e Roberto può essere compreso dalla definizione di paradiso che lo stesso Bolaño consegnò a «Playboy»:

Playboy: Com’è il paradiso?
Bolaño: Come Venezia, spero, un posto pieno di italiane e italiani.

E come si sta da italiani a Venezia forse lo sapete.

 

QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

http://www.minimaetmoralia.it/wp/bolano-selvaggio/

BOLAÑO SELVAGGIO – recensione di Gennaro Serio su Alias

BOLAÑO SELVAGGIO – recensione di Gennaro Serio su Alias

ALIAS DOMENICA

Bolaño, un florilegio di scritti per ricostruire le influenze continentali

Critica latinoamericana. Contributi saggistici e accademici sullo scrittore cileno: «Bolaño selvaggio», da Miraggi

Roberto Bolaño (1953-2003)

In un memorabile passaggio dei Detective selvaggi uno dei due protagonisti, Arturito Belano – giovane poeta invischiato nelle prime, focose battaglie stilistiche ed esistenziali – sfida alla sciabola un critico letterario che forse vuole dire male del suo ultimo libro. L’esito del duello, su una spiaggia isolata di Barcellona verso sera, è incerto.
Non è dato sapere se la lama del poeta abbia raggiunto l’insoddisfatto recensore, tuttavia ben altri sentimenti avrebbero animato Roberto Bolaño se avesse potuto tenere tra le mani il florilegio di scritti che lo riguardano e che ora arrivano in Italia tradotti da Marino Magliani e Giovanni Agnoloni per Miraggi.

È una raccolta pubblicata in spagnolo nel 2008 e rivista nel 2013, sotto il titolo Bolaño selvaggio (pp. 437, euro 24,00) a cura di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau, studiosi e scrittori sudamericani di formazione accademica statunitense; un volume che cerca di dare conto della vastità dell’influenza dell’opera di Bolaño mettendo assieme testi tra loro molto disomogenei, organizzati con un criterio improntato più alla suggestione che non a un vero rigore espositivo.

Apre un’illuminante introduzione di Paz Soldán, mirabile nel chiamare in causa Julio Cortázar e il suo racconto seminale Apocalisse a Solentiname per collocare Bolaño nella «tradizione apocalittica» della letteratura sudamericana. Il primo e l’ultimo testo della raccolta riportano parole dello stesso autore cileno («Discorso di Caracas» e un’intervista inedita di Sónia Harnández e Marta Puig). Nel mezzo, alcuni studi inediti (non tutti significativi) danno un saggio dei nuovi percorsi che la critica accademica – in America latina, in Spagna e negli Stati Uniti – ha intrapreso nello studio di un corpus letterario che va acquisendo, negli anni, una forma sempre più consistente.

Molti lavori di natura saggistica guardano allo scrittore cileno da prospettive biografiche e bibliografiche non convenzionali: alcuni inediti, ma anche molti testi già noti, a firma di scrittori e critici, in alcuni casi autori vicini a Bolaño o più spesso appassionati conoscitori della sua opera. Tra i più significativi, il saggio dello stesso Faverón Patriau sul rapporto dell’autore di Puttane assassine con la tradizione letteraria argentina, e lo scritto di Enrique Vila-Matas tra ricordo personale e sovrapposizioni Bolaño-Perec. E, ancora, i testi di Jorge Volpi, di Juan Villoro, e soprattutto del cileno Carlos Franz sulla malinconia in Bolaño. Allucinato dai «poeti senza opera» dei Detective selvaggi, Alan Pauls dichiara anch’egli la sua ammirazione.

Di certo utile, Bolaño selvaggio restituisce bene la tentazione di canonizzare in fretta uno scrittore che forse non lo avrebbe gradito: non al punto di arrivare a brandire la sciabola, certo, anche se a un intervistatore secondo lui troppo generoso con la sua opera, rispose, mimando Breton: «Chi sono io»?

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

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