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Il bambino intermittente – presentato da Alessandro Perissinotto al Premio Strega 2022

Il bambino intermittente – presentato da Alessandro Perissinotto al Premio Strega 2022

«“La vita, istruzioni per l’uso”. Se si volesse cercare nell’universo letterario un riferimento per l’opera più recente di Luca Ragagnin è nel capolavoro di Perec che lo si troverebbe. Certo, come il titolo lascia intendere, non è su tutta la vita che l’autore si concentra: queste sono istruzioni per l’uso dell’infanzia. Se insisto sulla locuzione “Istruzioni per l’uso” è per sottrarre Il bambino intermittente dalla più logica e immediata delle classificazioni, quella che lo collocherebbe nei memoir: Ragagnin non ci racconta la sua infanzia, ma un’infanzia universale, un’età di scoperta che si estende ben oltre il numero canonico degli anni “fanciulleschi” e che dura fino a quando gli occhi di Berg, il protagonista, rimangono sgranati a osservare stupefatti l’incomprensibilità del mondo. Certo, nella narrazione di Ragagnin sono presenti alcune marche temporali e il lettore che si approssima alla sessantina potrà ritrovare nelle esperienze di Berg le sue stesse esperienze; potrà ritrovare gli oratori, le feste casalinghe degli anni Settanta, i 45 giri, le paure e le leggende metropolitane di quell’epoca, ma il libro, lo ripeto, non è un tuffo nella memoria, è semmai una proiezione verso il futuro, la domanda a cui risponde alla domanda non è “cosa abbiamo vissuto?”, ma “cosa abbiamo imparato?”, “cosa potremo usare, domani, di tutto quel passato?”.
Però il contenuto, lo sappiamo, non è che uno degli aspetti di un libro. Un buon contenuto non fa, da solo, un buon romanzo. E qui interviene allora la forza espressiva di Ragagnin e anche in questo, nella girandola di soluzioni linguistiche e grafiche, il paragone con Perec non è affatto azzardato. Pervase da una costante ironia, le quasi settecento pagine del Bambino intermittente, sono sempre vivaci, inframmezzate da canzoni, da trame di vecchi film, da cronache di eventi più o meno immaginari, quasi si trattasse, in forma letteraria, di una di quelle agende adolescenziali sulle quali incollavamo ritagli di giornale, biglietti di concerti e adesivi. Personalmente, detesto il concetto abusato di “opera mondo”, ma di sicuro, Il bambino intermittente è un mondo narrativo che il Premio Strega 2022 può prendere in considerazione con interesse.»

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Il bambino intermittente – recensione di Dario Voltolini

Il bambino intermittente – recensione di Dario Voltolini

Questo librone è un libro leggerissimo. La sua vasta e perenne nevicata verbale copre e ricopre di candore un territorio che, tutto bianco, ci appare come sconfinato. Ha invece dei confini, ma noi non li avvertiamo perché Luca Ragagnin è un fuoriclasse del montaggio e il suo racconto corre, si impenna come un cavallo imbizzarrito, dilata in lunghe e molto belle pagine dialoghi di un momento, inventa a getto continuo cose, persone, situazioni, si riallaccia continuamente in sé stesso con rimandi vertiginosi messi lì sulla pagina pacatamente, tra parentesi in apparenza umili, comprime il Tempo mentre espande i singoli tempi. L’oceano di parole allestito dallo scrittore ha qualcosa di mirabolante: cioè è bello perdersi fra le sue onde, le sue correnti, senti che alla fine le quasi 700 pagine avrebbero potuto essere il doppio, perché le parole, qui, oltre ad avere il loro senso hanno anche una funzione particolare, che confluisce in un senso più ampio e generale. La funzione, che è a loro conferita dall’agilissima scrittura dell’autore, è quella di andare a dissodare un intrico di tempi, quello storico e quello personale, quello psicologico e quello immobile di un’infanzia e giovinezza cristallizzate. È una funzione di scoperta e insieme di copertura. È di scoperta perché tutte le figure che compongono il racconto e che attraversano il piccolo Berg (il bambino intermittente, ma anche una montagna) vanno a costellarsi in una formazione che probabilmente neppure l’autore si prefigurava all’inizio di questa straordinaria esperienza di scrittura (lo si intuisce dalla libertà che spira da tutte le frasi e che non esisterebbe se il progetto fosse stato tutto disegnato in anticipo). Dunque è una scoperta anche per l’autore, per il narratore e figuriamoci per il lettore. Ma è anche una funzione di copertura, perché la generosità e la ricchezza dell’affabulazione – la penna che scivola sulla pagina in stato di grazia e senza attrito – coprono qualcosa di abissale che si fa presto a chiamare “vuoto”, ma che vuoto non è: è piuttosto uno spazio tremendo fatto di paura e inesistenza, fatto di ondate di fumo nero e tossico, fatto di emozioni indicibili e maledettamente inevitabili, che riguardano la vita e la morte come un tutto, l’esserci e il sentirsi nulla incollati insieme in un organismo disperato. Qui il libro di Ragagnin va visto come un prodotto eroico, secondo me. Io vedo questo libro come la registrazione verbale, e pertanto preziosamente a disposizione di chi lo legge, di un atteggiamento che è dell’autore e che viene autodefinito come bulimico. Bulimico di che? Molto semplicemente della vita, direi. Un segno di questo sta nella mostruosa conoscenza musicale di Luca, tale per cui viene da chiedersi come sia possibile che tutti i brani che conosce totalizzino insieme un tempo di ascolto che supera di molti lustri il tempo della sua vita cronologica: li ascolta tutti insieme? Ha un acceleratore musicale in casa? Ha un’entrata nel cranio per fare un rapido download di tutto quanto? Qui nel suo libro la musica ha l’importanza che deve avere, ma è anche oggetto di smisurato amore, la bulimia di Luca è un atto d’amore. In questo libro si entra da tutte le parti e si esce anche da tutte le parti. Ma se si sceglie di uscire linearmente dalla fine, rimaniamo con questa immagine centrale e neuronale della perpetua costruzione di “nuovi edifici che crolleranno”, poiché questo fanno i nuovi edifici, crollano (struggente saluto, in epilogo, agli Einstürzende Neubauten).

Il bambino intermittente – recensione su Tuttolibri

Il bambino intermittente – recensione su Tuttolibri

L’intermittenza rende unici

Leggere Il bambino intermittente di Luca Ragagnin è un’esperienza formativa, divertente e anche ancestrale. Conosciamo Berg, uno dei più interessanti personaggi della letteratura contemporanea, fin da quando maneggia il biberon e gironzola intorno alla mamma impegnata nel rito del trucco. È figlio unico, i genitori sono separati, ha una madre professoressa, un padre che lo porta in giro con un Maggiolino giallo a pois rosa insegnandogli i nomi degli alberi e dei funghi e i nonni di mare e quelli di città. Con una sorella immaginaria e l’amico Paul, Berg vive l’infanzia nella Torino degli anni 70. Trascinati dalla sua straordinaria immaginazione ne attraversiamo l’adolescenza fino all’età adulta.

Berg sente di avere molti «nemici», persone, luoghi, oggetti, ostacoli che gli impediscono di diventare chi vuole davvero essere. Anche per questo Berg cambierà nome molte volte, scoprendo così, e noi con lui, il valore salvifico dell’Intermittenza: accettarla lo porterà a diventare adulto mantenendo la sua identità cangiante e variopinta, scontrandosi con la realtà, con i suoi aspetti duri, feroci ma anche di commuovente bellezza, e trovando infine il modo di armonizzarli. Il bambino intermittente mostra a noi lettori il valore inestimabile dell’unicità dell’essere umano, rivivendo il nostro passato, le nostre meraviglie, le nostre paure e arrivando a definire chi siamo veramente.

QUI l’articolo originale:

Il bambino intermittente – recensione di Silvia Acierno su Exlibris20

Il bambino intermittente – recensione di Silvia Acierno su Exlibris20

In questa storia le parole vengono in qualche modo prima di tutto. E allora comincio proprio dalle parole che riempiono gli spazi, le distanze tra le mots et les choses, tra Luca Ragagnin, l’autore, e le cose, tra sé e il mondo. Tra i mobili della stanzetta in cui era bambino, la sua scrivania, il suo lettino, e i muri perché da bambino il narratore non sopportava che il suo letto fosse stretto alla parete. Quello spazio è l’insostenibile vertigine del vuoto. E le parole che devono riempirlo, “mettersi tra” (intermettersi), diventano infinite, quasi quanti sono gli atomi che ci separano, sempre più lontane dalle cose, che finiscono per perdersi in descrizioni e sovradescrizioni, voragini e burroni. Per avvicinarsi però all’autore, alla sua psiche e nevrosi. Berg, così si chiama il narratore, in fondo sta lì, in quello scarto, in questa distanza. Dove appunto la digressione e i suoi flussi sono uno stato d’animo, un modo di stare al mondo. L’opposto della digressione è la mancanza di immaginazione, la pigrizia, così ci dice. L’immaginazione invece per Berg è quello che separa la parola dall’azione, il reale dalla realtà, tutto quello che sta lì in mezzo. Lì senza argini, il bambino che contava numeri si allunga nell’adulto che conta parola per allungare il tempo.

Le parole hanno un’origine materna o paterna. Quelle del padre sono tassonomie, quelle della madre aspettative. Tra parentesi mamma o papà perché i genitori sono separati e quindi non solo doppie vacanze ma anche cose separate, quelle di mamma e quelle di papà, parole separate, e in qualche modo due universi separati, gli uomini da un lato e le donne dall’altro. Ad un certo punto della storia la madre di Berg, una maestra, compra una casupola in campagna che il narratore descrive nei minimi particolari con la solita autoironia che è un modo per nascondere a se stesso quei sentimenti scomodi che si nutrono nei confronti dei nostri genitori e che non sempre siamo disposti a vedere ed accettare. Questa casina dove tutto batte contro tutto, dove ogni spazio si scontra con quelli contigui, avviluppata da erbe e cose ed insetti minuscoli, una casa giocattolo, una casina delle bambole, un fortino è, allo stesso modo del romanzo, una rappresentazione perfetta dello scrittore, almeno di quello che si nasconde dietro Berg, e delle sue fobie. Ma è anche la forma del ricordo. Cos’è in fondo quella casa in cui siamo vissuti quando cresciamo e tutto cambia, e siamo nelle nostre case e ci mancano tante cose, se non uno spazio minuscolo, un nocciolo, chiuso e perfetto nelle sue imperfezioni come un carillon, come una casa giocattolo, appunto?

Ma anche la casa o stanza che il narratore va costruendosi è un piccolo cerchio forse ancora più angusto della casetta della madre. Un cerchio che allontana tutti gli altri, per snobismo, le ragazze stupide, i figli di papà, e tutti quei nemici, reali o immaginari, che ci costruiamo, forse solo per paura, prima che quegli altri ci facciano del male o ci feriscano di nuovo. “Non sarà un cerchio perfetto, probabilmente non sarà nemmeno un cerchio; sarà una forma chiusa, irregolare, spezzettata, ma avrà una porta, per lasciare fuori”.

Nella stanza, tra i muri e sipari del cerchio, le parole devono assolutamente sostituirsi agli oggetti, coprirli, nasconderli. Soprattutto alcuni: quelli che hanno occhi e ingranaggi, quelli da cui il narratore anche adulto continua a distogliere lo sguardo. Le cose che lo fissano con occhi inanimati, come le bambole di pezza nella stanza della madre. Le bambole sono come tre bambine che odiano Berg. Così come la sveglia, che il bambino osserva mentre la madre riposa nella sua stanza, scatena la visione del cadavere di una donna nuda (di nuovo una figura femminile, di nuovo legata alla stanza intima della madre) e insidiosa. Oggetti che portano con sé quell’angoscia che nel romanzo di Saramago, Las intermitencias de la muerte, è per assurdo moltiplicata dall’assenza del tempo e della morte. Quegli oggetti sono il tempo che si prende beffa di te andando indietro per poi prendere quella rincorsa che si porta appresso tutte le illusioni.

Intorno alle parole ci sono le parentesi anche loro oggetto di infinite moltiplicazioni. Poi ci sono le forme che non si adattano alle cose e alle parole che le descrivono, ma hanno una consistenza propria, un’idea, forse l’immaginazione propria dell’infanzia, che si interpone tra la cosa e la parola, trasformandola e creando un lessico molto intimo.

Le parole-talismano o piuttosto parole-leggendarie attorno a cui si materializzano i passaggi da un età ad un’altra, che sono sempre piccoli salti o piuttosto passi attorno a un punto, sempre lo stesso, in sfere che da quel punto si allontanano sempre di più. Fino a quando quel punto resterà dentro pulsante o soffocato. Catavoletto è una di queste: il tavolo posato su due cavalletti che gli regala il padre e che in qualche modo rappresenta il luogo della scrittura che per Ragagnin è un tavolo-sorella. Una sorellina immaginaria, Kyoko, (ancora una versione della femminilità della madre) della cui mancanza il bambino in qualche modo si è fatto una specie di colpa. Un cappello che è un po’ come un orsetto. C’è la panchina. Nel mio immaginario la panchina è un posto romantico, lo spazio stretto di un appuntamento, un bacio svolazzante come quelli di Doisneau sulle piazze e i bancs publics di una Parigi che sopravvive ancora, fedele a se stessa. Niente di più lontano dalla panchina di Ragagnin: luogo della comitiva ristretta di pochi ragazzi, sicuramente appassionati di musica cult, non il pop dei comuni mortali. Solo ragazzi, magari un po’ misogini ma per timidezza. Queste parole sono soprattutto oggetti su cui ancora scorre il tempo. Ma questa volta non minacciano Berg, piuttosto lo difendono come bastioni.

Ragagnin si mette sotto torchio. E quando ci si mette sotto torchio le parole diventano labirintiche e hanno ganci che trascinano con sé tutto, pieni e vuoti. Ganci ancora sono quelle parole tra parentesi a fine capitolo che visivamente devono anticipare ed afferrare l’inizio del capitolo successivo. Il suo bambino intermittente è un bambino distratto, un adulto con la testa tra le nuvole, incapace di portare a termine qualsiasi progetto, uno che inciampa, si scontra continuamente nelle cose che sporgono e quando resti impigliato anche le parole e i ricordi fanno cadute rocambolesche, giri vorticosi. E allora possono far male. È un bambino che probabilmente la madre ha sempre cercato di incasellare. Il biglietto da visita che la madre gli regala in una risma e che il bambino riscrive continuamente è una metafora di questa necessità di inquadrarlo. Che poi diventa una necessità quasi maniacale del ragazzino e dell’adulto di nascondersi, e di coprire sotto tutto il suo vero me. E su quel biglietto ci sono alcune delle definizioni che sentiamo dire distrattamente o con grande apprensione ai nostri genitori: bambino iperattivo, bambino problematico, Ragagnin aggiunge, bambino tra parentesi, bambino maltagliato, bambino indeciso… Tutte tristi testimonianza della difficoltà dell’adulto di accogliere un bambino. Lui quei biglietti racconta di averli inceneriti ma nel romanzo ritornano. Il romanzo stesso è l’ennesimo biglietto da visita, un’altra identità.

Berg è un collezionista, di libri, di musica e vinili, di erudizione musicale. Ma soprattutto di parole e ricordi e di immaginazioni, che hanno una consistenza diversa dalla sabbia della famosa collezione che Calvino sceglie come metafora della sua raccolta. Eppure anche tutti quegli oggetti e fantasie ancora così corporee, accumulate, a volte affastellate in queste pagine finiranno per diventare granelli di sabbia, edifici che crollano.

Come raccontare la propria infanzia? Forse meglio nello spazio incompiuto del frammento, di quelle poche scene che sopravvivono di un tempo del prima. Difficile farlo in una narrazione classica, dove a una pagina segue un’altra, ad un anno segue quello successivo. Difficile farlo quando si pretende di raccontare invece di mostrare. In questa narrazione l’adulto Ragagnin è sempre presente anche troppo, accompagna sempre per mano quel bambino ne completa il gesto, lo interpreta, lo racconta con parole troppo adulte. Eppure, nonostante il narratore si intrometta continuamente, provi a rientrare negli spazi vuoti, quel bambino impacciato, che pende dalle labbra degli adulti sta lì, eccolo. E quanto più l’io narrante non si ridimensiona, non si rimpicciolisce, dà libero corso alle sue fantasie gotiche e non, tanto meglio vedo quel bambino protetto ma sempre vigile, che ha paura di dormire, paura di mangiare, paura che accada qualcosa alla madre mentre dorme. Il bambino che guarda gli enormi vagoni merce dal terrazzo della nonna.

Il bambino intermittente è un bambino che avanza e si ferma, si accende e si spegne. Ma è anche quel bambino che ritorna continuamente e involontariamente nell’adulto, nella scrittura. Evoca le “intermittenze del cuore” di Proust. La memoria involontaria che sola può farci sperimentare il vero dolore, e restituirci la persona che si ricorda assieme a un sé più vero e autentico. Un sentimento intermittente è incompleto, anacronistico, non freudiano. Una rivelazione in cui si inciampa senza volere.

All’intermittenza del cuore si addice forse uno stile frammentario (Roland Barthes nel Journal de deuil, e in La chambre claire), invece qui il ricordo è sostenuto da una narrazione fitta, lunga, più o meno cronologica, stilisticamente agli antipodi di qualsiasi frammentarietà. Eppure a ben guardare la scrittura non è un ponte che conduce dal passato al presente. Ragagnin si muove piuttosto nell’indeterminatezza, una specie di confusione che forse è il suo modo di sopravvivere. Così la scrittura confonde e trasforma un imbarcadero nel punto romantico in cui Berg immagina che i suoi genitori si siano scambiati quella lontana promessa, nel punto dannato in cui si ritrova con un gruppo di musicisti, l’infelicità dei bicchieri vuoti sul tavolo, dei travestimenti ben stirati, delle parole acide, fino a dissolversi in un luogo di occasioni mancate avvolte in una nebbia che morde le parole.

Nella nebbia dove la realtà compare a blocchi intermittenti, nonostante tutte le parole e tutti gli appigli, il ricordo è ancora più rotto di un frammento, più frammentario di una scaglia, è un punto statico, desolatamente irraggiungibile, amplificato all’infinito. Sul quel punto Ragagnin-Berg si ferma e cerca di imbalsamarlo, “non dimentico più nulla”, applica gli unguenti, l’impronta morbida del silenzio delle nonne “su tutti quei bambini che sono stato” e sull’unico bambino che è stato, sulle sue paure e solitudini che sono forse il biglietto da visita più vero.

QUI l’articolo originale:

https://www.exlibris20.it/il-bambino-intermittente-di-luca-ragagnin/

Il bambino intermittente – recensione di Anna Cavestri su LoScrivodaMe

Il bambino intermittente – recensione di Anna Cavestri su LoScrivodaMe

Quando la potenza della scrittura e la fantasia si coniugano nascono questi gioielli.
Il libro inizia con una sorta di vademecum che è preambolo ai capitoli e un elenco di nomi -Cerca di ricordarti.

Conosciamo Berg che è un bambino che va alla scuola materna, non va affatto volentieri.
Lui non è un bambino e basta è: goffo, distratto, impreciso, stupido, bambino parentesi, maldestro incompreso, intermittente e ha tanti nomi tutti inventati così come inventata è la sorella con la quale discute come fosse sempre con lui, assumendo le forme di oggetti vari a lui preziosi, ed ha le sue “copertine “ come Linus ma non sono copertine.

“Ho tre anni e la vita sta diventando difficile……”

E a tre anni trova la radio noiosa e comincia il suo ritornello “ mamma, comprami GIRADICCHI! Io DICCHI…..”
Comincia da piccolo ad amare la musica che insieme alla fantasia e ai tratti della sua personalità non l’abbandoneranno mai.

E con questo bagaglio già così pieno fin da piccolo affronterà la vita, con delle difficoltà ogni volta diverse e uguali con cui fare i conti.
La madre insegnante, il padre con un maggiolino giallo a pois rosa.
I nonni di mare e quelli di città.
Con ognuno crea un rapporto unico, con qualcuno anche speciale e sarà la nonna di mare quella con la quale vivrà esperienze di complicità e amorevolezza e che lo porterà un giorno anche a crescere più in fretta e a scoprire l’inutilità del dolore.

Lo troviamo tra i ragazzi dell’orario alla scoperta di se e degli altri, a volte impacciato o timido, “la prima ombra di barba … la barba fu un piccolo trama “, a 16 anni Amanda “ era come arrivare impreparati ad una interrogazione”.

Con “ gli amici della panchina “ a parlare della passione comune: LA MUSICA , forse l’amore suo più grande, quello che non è mai svanito.
La musica diversa da quella che ascoltavano gli altri “stavo sviluppando una curiosità maniacale e bulimica “.
Sopra un treno per andare a pranzo dalla nonna di mare durante il periodo del servizio militare, vicino casa di nonna, che buttava la pasta quando vedeva il treno passare dal balcone.

E in crescendo a fare per un periodo il commesso in un negozio di dischi e poi in un’altra città e un’altro amore e…
Con salti temporali tra un capitolo e l’altro e tanti rimandi in cui la vita del bambino, ragazzo, adulto è un vortice che assorbe tra fantasia e realtà e tanta tanta umanità.

È un racconto ironico, pieno di tenerezza di malinconia di una vita unica e speciale che appassiona dalla prima pagina.

E non finisce con l’ultima pagina del libro ( pag 665), perché c’è una playlist di tre pagine da sentire

“ per chi ha paura della fine, del silenzio, ovvero l’inutilità del dolore ……………..Se vuoi farne parte ti serve un suono “.

Non è facile recensire questo libro perché c’è tanto da dire, può essere solo letto.
E merita di essere letto, si cresce insieme al bambino intermittente e a volte ci si scopre intermittenti , quasi come lui.

QUI l’articolo originale:

Luca Ragagnin ed Enrico Remmert nel programma Rumori su RadioOhm

Luca Ragagnin ed Enrico Remmert nel programma Rumori su RadioOhm

Luca Ragagnin ed Enrico Remmert: intermittenze, vinili e sbronze consapevoli

Ospiti della puntata numero 23 della quarta stagione gli scrittori Luca Ragagnin ed Enrico Remmert per un’ampia conversazione intorno agli ultimi due libri di Luca (“Il bambino intermittente”, Miraggi Edizioni, marzo 2021 e 
“Autoritratto in vinile”, Miraggi Edizioni, ottobre 2020) e le incursioni alcolico-letterarie di “Elogio della sbronza consapevole. Piccolo viaggio dal bicchiere alla luna” (Marsilio Editori 2004/Feltrinelli 2020), scritto a quattro mani con Enrico. 
Sogni, incertezze, negozi di dischi, editori coraggiosi, vino, servizio militare, letteratura ad alta gradazione, vinili, infinite jam session e ancora sogni: un esaltante percorso in compagnia di due grandi autori. 
Ascolti da Brian Eno, Gabriella Ferri, Wire, The Raconteurs, XTC e Deep Purple.

ASCOLTA QUI la puntata.

Il bambino intermittente – intervista a Luca Ragagnin di Lorenzo Germano sulla Gazzetta d’Alba

Il bambino intermittente – intervista a Luca Ragagnin di Lorenzo Germano sulla Gazzetta d’Alba

Il bambino di Ragagnin

Nel cortiletto della libreria Milton sono tornate a risuonare le voci dei libri grazie al coraggio di Carlo, Serena e della casa editrice Miraggi. È stato presentato Il bambino intermittente: diretta streaming e firma copie per i lettori di Luca Ragagnin, già candidato allo Strega 2019 con Pontescuro (proposto da Alessandro Barbero). Torinese, dotato di estro poliedrico, dopo aver esordito come poeta negli anni ’90 (vincendo il premio Montale) Ragagnin ha proseguito come autore di romanzi, racconti, testi teatrali e canzoni (anche per Mina, Antonello Venditti e Subsonica). Nella sua ultima opera ha racchiuso le memorie di una vita.

Com’è nato il romanzo?

«Quattro anni fa, mentre stavo scrivendo altre cose, ho sentito l’esigenza di raccontare un periodo abbastanza lungo della mia vita di Berg, personaggio che in qualche modo mi appartiene. Con molto pudore potremmo definirlo un romanzo di formazione: in fondo si segue la crescita di Berg, nome principale del protagonista che nel libro ne assume diversi altri. Una delle sue caratteristiche più importanti, comune a tutti i bambini, è una sorta di esubero di fantasia, per cui vive le sue esperienze e i fatti che gli capitano stravolgendoli. Di solito lo scarto che si crea tra la sua interpretazione e la realtà è buffo e divertente. Manterrà la caratteristica fino all’età adulta, producendo una serie di eventi agrodolci, che sono un po’ la mia cifra stilistica».

Chi è il bambino intermittente?

«L’intermittenza riguarda i pensieri di Berg sul mondo, le persone, i bambini che incontra all’asilo, poi a scuola, all’oratorio, poi anche nella vita adulta, durante il primo scontro-incontro con l’altro sesso, ma anche le problematiche sociali che gli si presentano quando è adolescente, dato che ci troviamo alla fine degli anni ’70. Nel romanzo si attraversano gli anni di piombo, delle droghe, fino ad arrivare alla data simbolica dell’11 settembre 2001, che rappresenta la morte dell’Occidente. Con questo disincanto e intermittenza, Berg vorrebbe agire, fare, collocarsi nel mondo, ma poi finisce spesso per fare l’opposto».

Con quale approccio hai ricostruito quel periodo?

«Ho cercato di ricordare il mio passaggio in quegli anni, Berg è un po’ un mio coetaneo (leggermente più giovane), è un bambino e poi un adolescente che ha pochi mezzi conoscitivi, come pochi ce n’erano in quegli anni. Non capisce, chiedi lumi a sua madre che è una professoressa e che ha a che fare anche con ragazzi problematici. In fondo i terroristi che incontra sono appena più grandi di lui, ma sono irraggiungibili per la sua comprensione. Neanche la madre ha delle risposte, cerca solo di approntare delle difese, mettendogli dei divieti minimi per evitare rischi (no treni, no mezzi pubblici, no manifestazioni)».

Il tuo romanzo precedente aveva un aspetto favolistico. Hai mantenuto anche qui quel tipo di narrazione?

«In questo libro lo scopo principale è preservare la memoria, per quanto aberrata dalle caratteristiche del personaggio che l’attraversa. In pandemia a malapena ricordiamo un mondo che è scomparso 15 mesi fa, immagina lo sforzo per ricostruire il mondo degli anni ’70 e ’80, anche nel modo di vivere la gioventù in una città industriale con pochi spazi».

Che rapporto hai con le Langhe e i suoi scrittori?

«Un rapporto stretto. Ci vengo spesso. Considero Milton di Carlo Borgogno una seconda casa. Con Enrico Remmert abbiamo scritto per Laterza L’acino fuggente, una scorribanda nei territori del vino tra cui soprattutto il Roero e la Langa. Gli scrittori come Pavese, Fenoglio, Lajolo li ho amati e li apprezzo molto, ma vorrei citare anche Marco Giacosa, che è originario di qui e ha appena pubblicato lo splendido Langhe inquiete».

QUI l’articolo originale:

Il bambino intermittente – intervista di Francesca Angeleri sul Corriere della Sera (Torino)

Il bambino intermittente – intervista di Francesca Angeleri sul Corriere della Sera (Torino)

Ragagnin: «La mia Torino degli anni 70 e 80, vista con occhi di bambino»

Ragagnin: «La mia Torino degli anni 70 e 80, vista con occhi di bambino»

Lo scrittore Luca Ragagnin da bambino

«Berg sono io? Ha delle parti di me, un po’ come sempre. Ci sono degli elementi del mio vissuto, sicuramente, e poi c’è l’innesto dell’invenzione». È la prima intervista di un Luca Ragagnin super eccitato per l’uscita dell’ultimo suo romanzo, Il bambino intermittente, il primo aprile in libreria con Miraggi. Quasi 700 pagine di una storia cui ha dedicato molto tempo (l’ha cominciato un anno dopo la morte della mamma nel 2014) e che non definisce «un romanzo di formazione, per pudore» ma che a conti fatti lo è. Berg è figlio unico di genitori separati, la mamma è professoressa e il papà lo porta in giro su un maggiolino giallo a pois rosa. Ha dei nonni fantastici e un’immaginazione che lo porta a essere sempre qualcuno di diverso. S’inventa una sorella immaginaria e con l’amico Paul vive le scorribande notturne ed esoteriche in una Torino tanto riconoscibile quanto mai pronunciata. Ci sono le bombe dei terroristi, l’oratorio, l’adolescenza, l’età adulta, Dio che cerca e perde in una mensa e tutte le sue epoche. Intermittenti, come quelle di ognuno di noi.

Il romanzo finisce l’11 settembre 2001. Come mai?
«È una data di stop. La storia è diacronica, ci sono salti temporali avanti e indietro, la memoria non è lineare e il romanzo vuole preservare quella che attraversa gli anni 70, gli 80, i 90. Anni particolari, per l’Italia e per Torino, visti con gli occhi di un bambino».

Com’era quella Torino?
«Ricordo l’eroina. I grandi corsi alberati, le panchine nei controviali con questi corpi che sembravano statue e la siringa piantata nel braccio. E il terrore che provavi quando stavi fermo alla fermata del pullman, le borse abbandonate sul treno. Un mondo di sensazioni che andavano preservate».

Come si scrive con lo sguardo di un bambino?
«Ho trovato la mia voce di allora. Mi sono cercato. È stato un lavoro di scavo capillare, soprattutto nel decennio dei 70. Ci sono i bambini, quelli ritrovati nelle fotografie in casa, andavamo all’oratorio che era uno spazio protetto mentre fuori scoppiavano le bombe. È stato commovente e feroce, perché è uno scavo nella terra dei morti, quel bimbo non c’è più».

Non è triste pensarla così?
«L’idea era tracciare una netta linea di demarcazione che mettesse al sicuro qualcosa che il tempo ha sgretolato. Come dire: “Eccoti qui, ti ho ricostruito e ti tengo al sicuro in cassaforte. E non ti guardo più”. C’erano cose sulle quali mi premeva scrivere un punto finale».

Come si sente ora?
«Come uno che è emerso da una lunghissima apnea senza bombole. Che guarda oltre quella linea di demarcazione e vede una vita intera. E passare dall’altro lato è bellissimo, ma oltre dove? Ho finito le mie indagini. L’orizzonte è nebuloso ma c’è un gigantesco cosmico tergicristallo».

Il Maggiolino a pois c’era davvero?
«Era giallo e i pois rosa erano dell’antiruggine. A sette anni mi vergognavo tantissimo, se ci ripenso adesso era una figata pazzesca».

L’amicizia è un tema forte.
«Quando ero un ragazzo in città non c’era niente da fare. Ci si ingegnava, si bighellonava inventandosi cose. Berg ha Paul (che è ispirato a Max Casacci, ndr) per condividere le scorribande notturne nei locali affossati nella nebbia. Ci sono personaggi che ricordano Mixo, Gigi Restagno…avventure in una città dormitorio alla ricerca anche di suggestioni esoteriche. Si intrippano di un bellissimo libro, Il mattino dei maghi, e cercano magie in giro per le strade».

Alla fine Berg si risolve?
«Riesce a ricomporre l’iridescenza che lo accompagna e a diventare adulto tenendo dentro la sua parte variopinta. Penso che faccia anche sorridere. È un bambino che con la sua forza incespica davanti al muro della realtà e le cose non tornano, ma trova il modo di armonizzarle».

C’è un personaggio secondario particolare, vero?
«È al Metropolitan, un posto che stava in via Gioberti. Si chiama Luca Ragagnin, beve e manda tutti a fanculo».

QUI l’articolo originale:

https://torino.corriere.it/cultura/21_marzo_28/ragagnin-la-mia-torino-anni-70-80-vista-occhi-bambino-04040ae4-8feb-11eb-bb16-68ed0eb2a8f6.shtml?fbclid=IwAR1Mn9RFWFss-wx1ABpYjCoALC3J-PwX-qzYhflPuQRxEodABaq7QxhkyAY

Il bambino intermittente – segnalazione su Il Venerdì

Il bambino intermittente – segnalazione su Il Venerdì

La storia di un uomo dall’infanzia all’età adulta: una linea retta che spesso ha fatto da architrave a romanzi e film. Infrange completamente le regole di questa geometria Luca Ragagnin, che in Il bambino intermittente propone una biografia sminuzzata in piccolissimi tasselli e li rimescola in un libro componibile à la Cortázar, esperibile nell’ordine scelto dal lettore. Il gioco letterario non è gratuito: se la biografia di ogni uomo è una ricostruzione parziale elaborata a posteriori, perché non assecondarne la natura segreta, ludicamente ipotetica? (g.s.)

L’articolo originale: