Nella sala multimedia delle ex scuole di via Bassi, il Comune e la Biblioteca civica di Ormea organizzano l’anteprima della presentazione nazionale di un libro, fresco di stampa, che sarà poi presentato al Salone del libro di Torino. È la traduzione italiana della biografia di Roberto Arlt, vissuto tra il 1900 e il 1942, ritenuto insieme al contemporaneo Borges uno dei padri della letteratura argentina. Nato a Buenos Aires, in romanzi, racconti e articoli di giornale per primo scrisse del popolo, del suo ambiente (suburbi di Buenos Aires, fabbriche, pampa), delle sue difficoltà e lotte.
«Arlt, lo scrittore nel bosco di mattoni. Una biografia» è opera della ricercatrice e scrittrice argentina Sylvia Saitta, che sarà collegata in videoconferenza. Alla presentazione di sabato a Ormea saranno presenti i traduttori italiani, Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi, oltre al viceconsole argentino in Italia, Manrique Altavista. P.S.
Revelli e Magliani spiegano il mondo di Roberto Arlt
Incontro letterario lo scorso 27 febbraio al bar Ligure di Arma di Taggia promosso da Casa Balestra, di Molini di Triora, che scende così, per una volta, in riva al mare.
Ci saranno gli scrittori Giacomo Revelli e Marino Magliani, che ha appena tradotto (con Riccardo Ferrazzi) la biografia del collega argentino Roberto Arlt. Si soffermeranno inizialmente su questo testo. Toccherà quindi alla presentazione del libro «Arlt-Lo scrittore nel bosco di mattoni» di Sylvia Saitta (Miraggi Edizioni, Torino). Opera pubblicata nell’ambito del programma Sur di supporto alle traduzioni del Ministero degli Esteri. Conclusione con il libro «Il cannocchiale del tenente Dumont», uno delle rivelazioni dello scorso anno, scritto dallo stesso Marino Magliani. Quest’ultimo, scrittore di Prelà che si divide fra l’Italia e l’Olanda, sta vivendo un momento felice negli Stati Uniti dove i suoi libri sono saliti nella Top 20 dei più venduti. E, nelle versioni in inglese, sono venduti in Cina. Il suo ultimo libro è stato recensito, un termini molto favorevoli, da tutti i maggiori organi di informazione. M.C.
Quando a Barolo il vino si beveva dai pintoni, non nei calici alla moda
Marco Giacosa è uno scrittore che parte dalle cose piccole per raccontare la grandezza della vita. Lo aveva già fatto anni fa con «L’occhio della mucca» o con la rubrica «Cose che ho visto oggi», prima su Facebook e poi sull’edizione torinese della «Stampa». Piccole storie quotidiane capaci di diventare «narrativa» solo nel momento in cui il narratore sapeva riconoscerle come storie da raccontare. Con «Langhe inquiete» (Miraggi Edizioni), Giacosa compie la stessa operazione su se stesso. Ha recuperato una serie di post usciti sui blog e sui social, li ha cuciti insieme, ne ha fatto un libro che nel sottotitolo definisce «appunti per un romanzo». Una sorta di autobiografia che, attraverso le memorie personali e familiari, diventa anche uno specchio delle Langhe «di prima». Prima del turismo, della moda, delle colline cool e patinate.
Giacosa, attraverso i ricordi della sua famiglia, lei ci riporta alle campagne piemontesi del primo Novecento, quando i bambini andavano a lavorare dopo due-tre anni di elementari, quando la religione era più dei bigotti che dei credenti. Una vita scandita da tradizioni che lasciano tracce ancora oggi. Che cosa è rimasto in lei in tutto questo?
«Molto. A quelle tradizioni sono stato legato in modo quasi malato per molto tempo. Sono cresciuto con il codice del “si fa così” e del “non si fa”, l’ho suburra per anni senza neppure chiedermi se mi piacesse o no. Ci ho sofferto parecchio finché c’ero dentro. Poi me ne sono staccato, e a quel punto ne ho riconosciuto il fascino. Adesso che non ci vivo più sono davvero libero di sentirmi figlio delle Langhe».
Le sue pagine raccontano un rapporto stretto, ma a volte conflittuale con la famiglia. Specie con suo padre, a cui ha dedicato il libro e di cui parla spesso su Facebook. Rimpianti?
«È una cosa che succede a molti: cresci nella convinzione di essere molto diverso da tuo padre, e poi con il passare del tempo ti accorgi di assomigliargli sempre di più: te lo fanno notare, i gesti, gli atteggiamenti, il modo di camminare sono uguali ai suoi. Mio padre aveva la mania di tenere diari, scriveva, raccoglieva fotografie. È come se facesse Facebook prima di Facebook: nei suoi album non ci sono solo le foto, ci sono ritagli di giornale, commenti, poesie che aveva scritto per qualche ricorrenza, appunti dei discorsi che teneva ai matrimoni».
Lei ha scritto che l’anno passato nell’Alessandrino a fare il carabiniere di leva è stato il «migliore della sua vita». Perché?
«Perché per la prima volta ero e mi sentivo legittimato a stare lontano da casa. Mio nonno aveva fatto la guerra negli Alpini, mio padre era veterinario ma era stato ufficiale di complemento. In famiglia c’era l’idea del cittadino che deve rispondere quando lo Stato chiama».
Lei però ha studiato a Torino. Non bastava l’Università per sancire il «distacco»?
«Nel weekend rientravo ad Alessandria, mia mamma mi preparava il cibo e mi stirava i vestiti. C’era sempre l’idea, anche metaforica, del “tornare a casa”».
Lei si descrive come un bambino solitario. Era così?
«Io ho avuto la fortuna di crescere con mio nonno, in una piccola borgata come Pela, a sette chilometri da Alba. Quando da piccolo giochi in un cortile di campagna la tua socialità è data dalle persone che passano in quel cortile. E di bambini, in genere, ne passano pochissimi. Così il mondo lo scoprivo da solo: il muschio, l’uva, gli animali. A volte i contadini pagavano mio padre veterinario in natura, con un cambio-merce: ricordo che un giorno arrivò con un asino. La mia infanzia ha avuto un senso di avventura».
Non le mancava qualcuno con cui giocare?
«No. In fondo io non ho perso qualcosa, non l’ho mai avuta».
Nel libro, però, racconta di una vacanza con altri bambini in cui si sentiva isolato perché lei «non era di Alba, ma di un paese vicino». Bastavano i 7 chilometri tra Pela e la città per sentirsi diverso?
«Era come essere la provincia della provincia. Ad Alba c’erano i figli dei professionisti: a casa parlavamo in italiano, mentre noi usavamo il dialetto. La differenza era evidente, specie più avanti, al liceo: io avevo amici che lavoravano da idraulici o da muratori, molti studiavano negli istituti professionali. Erano i tempi in cui andare a bere il vino non faceva ancora figo: c’erano i pintoni, non i calici».
Le sue Langhe «inquiete» oggi sono diventate un’altra cosa. Viste da Torino, dove vive da anni, che effetto le fanno?
«Da ragazzo andavo a Barolo con i miei amici, in motorino. Ci fermavamo in piazza a parlare, compravamo la focaccia, qualche birra di nascosto al bar. Ci sono passato qualche tempo fa: ogni dieci metri un negozio che vende vino, cantine, qualcosa di turistico».
Meglio allora?
«No, no. Mi fa piacere che ci siano dei piccoli imprenditori, che non siano solo Ferrero e Miroglio ad aver trasformato le terre della Malora di Fenoglio. Però lasciatemi un po’ di orgoglio: io ho visto l’anima di questi luoghi, chi ci passa un weekend e se ne va non la vedrà mai».
Eccola lì, la provocazione in forma di refuso che ha reso leggendario Hrabal. Si legge in fondo a La morte del signor Baltisberger, che racconta un pomeriggio motociclistico a Brno, nel 1956. Durante la corsa delle 250 Hans Baltisberger, come davvero successe, ha un incidente mortale. La sua moto, Nsu Sport-Max, viene coperta da un telo come il corpo dello sfortunato pilota. Il buon Bohumil, che se ne infischiava del potere e dei suoi mostri sacri, aggiunse una «r». E scrivere che Ma(r)x giace cadavere in un fosso poteva essere pericoloso anche se a Praga cominciava a tirar una lieve aria di «primavera». La casa editrice se ne accorse in ritardo e costrinse sette solerti ragazze a cancellare a mano quella «r» malandrina, con un puntino di penna su tutte le copie già stampate. Lui se la rideva e si vantava della bravata in birreria (e poi nel libro Spazi vuoti). Fu con quella beffa, e con altri racconti di degna iconoclastia, che Hrabal debuttò nel panorama letterario praghese. E che per la prima volta, ora, escono in italiano, tradotti da Laura Angeloni, con dotta postfazione di Alessandro Catalano.
Il titolo, La perlina sul fondo, allude a quella gemma preziosa di umanità che brilla negli abissi di ogni essere, anche il più reietto, anche il meno fedele alla linea. Fannulloni, sabotatori, mascalzoni sbruffoni, piccoli fantasticatori, svitati, parassiti (li definiva Ripellino). Quei tipi che nel capitalismo sono la manifesta conseguenza dell’alienazione. Ma che nel paradiso dei lavoratori diventati padroni dei mezzi di produzione, e quindi di se stessi, non possono esistere, perché sarebbero un ossimoro, la dimostrazione che il marxismo fa cilecca. Hrabal invece non solo li incontrava nelle birrerie, nei parchi, ovunque si potesse sbevazzare e «stramparlare», ma li trasformava in (anti) eroi simpaticissimi del sottobosco praghese.
Anche se le maglie della censura si erano allentate dopo la morte di Stalin e la denuncia dei suoi crimini, la reazione della critica fu dura. Estenuanti, le trattative con l’editore per smussare toni e situazioni. Dopo la pubblicazione arrivarono a decine le lettere di proletari indignati. A quel tempo (meraviglia!) gli haters erano costretti a spargere la loro bile sulla carta e con la penna. Ma i toni non erano granché differenti dagli odierni post sul web. «Sporco maiale, quando la smetterai di avvelenare le anime umane con le tue perversioni disgustose!». «Sulla forca!, La letteratura è un letamaio, un allevamento per la produzione in serie di perversi assassini bestiali». La sua colpa era raccontare la «realtà» non il «realismo» socialista. Praga vera, per niente magica. Bordelli, bische clandestine, acciaierie dove si cazzeggia invece di imitare il compagno stakhanov, piloti di tram che abbandonano il mezzo per bere un caffè e lo lasciano girare pericolosamente senza guida al capolinea.
Nel ’63, quando il libro uscì, Hrabal era già abbastanza attempato. 49 anni. Non aveva mai pubblicato nulla, a parte qualcosina in samizdat, eppure, sempre per quelle meravigliose contraddizioni del socialismo reale, era stipendiato per fare lo scrittore. Prima, però, aveva inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, era stato commesso viaggiatore, operaio, macchinista teatrale. Perché voleva «sporcarsi» con la gente comune per raccontarla meglio.
Fu anche, imballatore di carta da macero. Da cui nacque il meraviglioso Una solitudine troppo rumorosa. L’Haňťa, che lavorava alle presse e, involontariamente, si istruiva con Nietzsche, Goethe, trattati di micologia, compare già qui, nel racconto Il barone di Münchhausen, e corteggia tutte le donne che incontra regalando romanzi rosa salvati dal macero. Fa impazzire il suo principale. E con il candore saggio dei paria spiega cos’è che manda a ramengo la società totalitaria e rende la burocrazia un mostro potentissimo. «Sa signor capo, a volte abbiamo solo bisogno di sentire di aver un potere sugli altri. Non dev’essere un potere eccessivo, ma un pochino, giusto per fargli abbassare un po’ la cresta». Era per questo che qualunque burocrate, funzionario, graduato, stellato, falcemartellato, con un sadismo tanto inutile, quanto deleterio rendeva ogni cosa un’avventura kafkiana (il Franz del Processo, con Hasek, si colloca nello stesso filone di Hrabal).
Hrabal sapeva esattamente quanti gradini bisogna scendere o salire per accedere a tutte le birrerie di Praga; come è bello sfrecciare in motocicletta e provocare incidenti; giocare a rugby e fare il tifo ai derby Sparta-Slavia; abbracciare le donne con seni grandi. Insomma raccontava la vita normale, che non può e non vuole essere redenta dal partito perché ci pensa da sola a redimersi con un boccale di birra o una bigliettaia con il rossetto sulle labbra. E soprattutto insegnava che il potere, qualunque esso sia, si scioglie di fronte all’assurdo come burro al sole. Prendete quel ragazzo che si chiamava Gangala.
«Quanto fa tre più tre?», gli ha chiesto un giorno il maestro. E Gangala ha risposto sette. Si è beccato un paio di sberle e di nuovo: «Quanto fa tre più tre?», e lui di nuovo sette. E tutta la classe ha dovuto fustigarlo a turno con la verga… e: «quanto fa tre più tre»? e sempre sette. Gangala sembrava così sicuro di sé che il maestro è andato di corsa nella sala professori a contare col pallottoliere. E ha continuato a chiudersi lì dentro per tutto l’anno e alla fine dubitava persino del pallottoliere. Ed è finita che Gangala e quella semplice addizione lo hanno fatto impazzire».
Hrabal se ne andò nel ’97 cadendo da una finestra del quinto piano. Secondo la versione ufficiale si era sporto troppo per cibare i piccioni, come un protagonista di qualche suo libro. E ne scrisse di meravigliosi, (Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare, Treni strettamente sorvegliati, Ho servito il re d’Inghilterra…). Leggetelo e rileggetelo. E capirete che nulla va preso sul serio. Perché su questa umana terra non è affatto vero che 3+3 non faccia sette. Né tantomeno che la scienza sappia come debellare un minuscolo virus.
«Musica solida», un colossal, si direbbe al cinema, sulla storia dei supporti fonografici da fine Ottocento ai giorni nostri. Ne è autore il torinese Vito Vita, giornalista e musicista leader della band Powerillusi. In quel “solida” c’è tutto l’amore per il vinile, per l’oggetto disco, a 78, 33 o 45 giri che sia, contrapposto alla bufera di musica liquida che non risparmia nessun angolo del mondo.
«L’idea mi venne dieci anni fa a Roma – racconta l’autore – durante un pranzo di lavoro in trattoria con la redazione del periodico “Musica Leggera”. Mi dissero che un tempo in quei locali si ritrovavano gli artisti della famosa RCA Records, indicandomi i punti della sala in cui De Gregori realizzò il primo provino di Rimmel e l’angolo in cui scriveva i pezzi Rino Gaetano». Ora l’ambiente è una trattoria, e solo gli specialisti sanno cosa accadeva lì dentro negli Anni ’70: «In Francia l’avrebbero trasformato in un museo, e così pure gli uffici della RCA, che ora sono un anonimo magazzino di scarpe. Qui non ne siamo capaci, così decisi di raccogliere la sfida: salvare la memoria della discografia italiana». Partendo anche da una suggestione personale: proprio “Rimmel” di Francesco De Gregori fu il primo disco che l’autore del libro acquistò a 11 anni rompendo il salvadanaio.
Non è materia da poco. Tagliando al massimo sulle illustrazioni l’oggi cinquantacinquenne studioso torinese è riuscito a stare nelle 400 pagine, fitte di notizie, interviste, ricostruzioni storiche. Con un’altra missione in cuore: rendere giustizia al ruolo della sua città in questa vicenda: «L’etichetta più famosa era la Cetra, ma intorno a essa si svilupparono altre vicende significative. Penso alla Emanuela Records, cui va il merito di aver fatto decollare i Brutos, con lo storico album Destinazione Luna, come pure alla Shirak Records di Jonny Betti, cui si deve un gioiello ingiustamente dimenticato della canzone d’autore italiana, il 33 giri di Carlo Credi». Si intitola “Chi è Carlo Credi”, e chi lo ha di solito se lo tiene stretto.
Regola che dovrebbe sempre valere per il vinile, additato da qualcuno come inquinante: «Certo, è pur sempre un derivato del petrolio. Ma per noi appassionati il problema dello smaltimento non si pone: non si buttano mai via i dischi. E non dimentichiamo che possono essere custodi del suono anche il giorno in cui venisse a mancare la corrente elettrica: bastano un cavo e un corno per sentore, girando a mano, la musica che comunque i solchi contengono. Il cd senza elettricità è morto».
Quella della discografia italiana è anche una storia industriale, e come tale viene trattata nel corposo tomo di Vita: «Torno alla RCA, un’azienda che dava lavoro a circa tremila dipendenti. E poi c’era tutto l’indotto, un fiorire di piccole aziende anche di dimensione artigianale che con l’avvento del monopolio delle multinazionali sono andate a rotoli. Una grande, lunga avventura iniziata dai rulli e passata dalla gomma-lacca per poi approdare al vinile che tutto conosciamo. E che è in ripresa, i dati sono inoppugnabili. Sta finendo l’era dei cd, è al top la musica digitale, ma come supporto fisico 33 e 45 giri sono alla riscossa. Rispetto a Stati Uniti e Inghilterra l’Italia è più lenta, ma sta a sua volta dando segnali importanti.
Nella città che prepara l’annessione alla Germania nazista, un bonario impiegato diventa un serial killer del regime trovando giustificazione nella cultura tibetana: uscito ai tempi della Primavera cecoslovacca, il romanzo divenne celebre anche per il film di Jurai Hertz
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Un economista è ossessionato da una donna che lo maltratta e lo abbandona di continuo, intanto osserva con il binocolo uno strano personaggio che sembra spiarlo e pedinarlo
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