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Il bambino intermittente – intervista di Francesca Angeleri sul Corriere della Sera (Torino)

Il bambino intermittente – intervista di Francesca Angeleri sul Corriere della Sera (Torino)

Ragagnin: «La mia Torino degli anni 70 e 80, vista con occhi di bambino»

Ragagnin: «La mia Torino degli anni 70 e 80, vista con occhi di bambino»

Lo scrittore Luca Ragagnin da bambino

«Berg sono io? Ha delle parti di me, un po’ come sempre. Ci sono degli elementi del mio vissuto, sicuramente, e poi c’è l’innesto dell’invenzione». È la prima intervista di un Luca Ragagnin super eccitato per l’uscita dell’ultimo suo romanzo, Il bambino intermittente, il primo aprile in libreria con Miraggi. Quasi 700 pagine di una storia cui ha dedicato molto tempo (l’ha cominciato un anno dopo la morte della mamma nel 2014) e che non definisce «un romanzo di formazione, per pudore» ma che a conti fatti lo è. Berg è figlio unico di genitori separati, la mamma è professoressa e il papà lo porta in giro su un maggiolino giallo a pois rosa. Ha dei nonni fantastici e un’immaginazione che lo porta a essere sempre qualcuno di diverso. S’inventa una sorella immaginaria e con l’amico Paul vive le scorribande notturne ed esoteriche in una Torino tanto riconoscibile quanto mai pronunciata. Ci sono le bombe dei terroristi, l’oratorio, l’adolescenza, l’età adulta, Dio che cerca e perde in una mensa e tutte le sue epoche. Intermittenti, come quelle di ognuno di noi.

Il romanzo finisce l’11 settembre 2001. Come mai?
«È una data di stop. La storia è diacronica, ci sono salti temporali avanti e indietro, la memoria non è lineare e il romanzo vuole preservare quella che attraversa gli anni 70, gli 80, i 90. Anni particolari, per l’Italia e per Torino, visti con gli occhi di un bambino».

Com’era quella Torino?
«Ricordo l’eroina. I grandi corsi alberati, le panchine nei controviali con questi corpi che sembravano statue e la siringa piantata nel braccio. E il terrore che provavi quando stavi fermo alla fermata del pullman, le borse abbandonate sul treno. Un mondo di sensazioni che andavano preservate».

Come si scrive con lo sguardo di un bambino?
«Ho trovato la mia voce di allora. Mi sono cercato. È stato un lavoro di scavo capillare, soprattutto nel decennio dei 70. Ci sono i bambini, quelli ritrovati nelle fotografie in casa, andavamo all’oratorio che era uno spazio protetto mentre fuori scoppiavano le bombe. È stato commovente e feroce, perché è uno scavo nella terra dei morti, quel bimbo non c’è più».

Non è triste pensarla così?
«L’idea era tracciare una netta linea di demarcazione che mettesse al sicuro qualcosa che il tempo ha sgretolato. Come dire: “Eccoti qui, ti ho ricostruito e ti tengo al sicuro in cassaforte. E non ti guardo più”. C’erano cose sulle quali mi premeva scrivere un punto finale».

Come si sente ora?
«Come uno che è emerso da una lunghissima apnea senza bombole. Che guarda oltre quella linea di demarcazione e vede una vita intera. E passare dall’altro lato è bellissimo, ma oltre dove? Ho finito le mie indagini. L’orizzonte è nebuloso ma c’è un gigantesco cosmico tergicristallo».

Il Maggiolino a pois c’era davvero?
«Era giallo e i pois rosa erano dell’antiruggine. A sette anni mi vergognavo tantissimo, se ci ripenso adesso era una figata pazzesca».

L’amicizia è un tema forte.
«Quando ero un ragazzo in città non c’era niente da fare. Ci si ingegnava, si bighellonava inventandosi cose. Berg ha Paul (che è ispirato a Max Casacci, ndr) per condividere le scorribande notturne nei locali affossati nella nebbia. Ci sono personaggi che ricordano Mixo, Gigi Restagno…avventure in una città dormitorio alla ricerca anche di suggestioni esoteriche. Si intrippano di un bellissimo libro, Il mattino dei maghi, e cercano magie in giro per le strade».

Alla fine Berg si risolve?
«Riesce a ricomporre l’iridescenza che lo accompagna e a diventare adulto tenendo dentro la sua parte variopinta. Penso che faccia anche sorridere. È un bambino che con la sua forza incespica davanti al muro della realtà e le cose non tornano, ma trova il modo di armonizzarle».

C’è un personaggio secondario particolare, vero?
«È al Metropolitan, un posto che stava in via Gioberti. Si chiama Luca Ragagnin, beve e manda tutti a fanculo».

QUI l’articolo originale:

https://torino.corriere.it/cultura/21_marzo_28/ragagnin-la-mia-torino-anni-70-80-vista-occhi-bambino-04040ae4-8feb-11eb-bb16-68ed0eb2a8f6.shtml?fbclid=IwAR1Mn9RFWFss-wx1ABpYjCoALC3J-PwX-qzYhflPuQRxEodABaq7QxhkyAY

Il bambino intermittente – segnalazione su Il Venerdì

Il bambino intermittente – segnalazione su Il Venerdì

La storia di un uomo dall’infanzia all’età adulta: una linea retta che spesso ha fatto da architrave a romanzi e film. Infrange completamente le regole di questa geometria Luca Ragagnin, che in Il bambino intermittente propone una biografia sminuzzata in piccolissimi tasselli e li rimescola in un libro componibile à la Cortázar, esperibile nell’ordine scelto dal lettore. Il gioco letterario non è gratuito: se la biografia di ogni uomo è una ricostruzione parziale elaborata a posteriori, perché non assecondarne la natura segreta, ludicamente ipotetica? (g.s.)

L’articolo originale:

PONTESCURO – recensione di Geraldine Meyer su L’Ottavo

PONTESCURO – recensione di Geraldine Meyer su L’Ottavo

Pontescuro è un ponte di pietra. Pontescuro è un paese della bassa padana. C’era una volta un fiume, due sponde unite da questo ponte che, all’epoca della sua costruzione, univa il nulla con il nulla. Poi, da una parte un castello del padrone e, dall’altra, il paese “della malora”.

Pontescuro, il bellissimo libro di Luca Ragagnin, pubblicato dalla sempre attenta Miraggi Edizioni, è un po’ storia, un po’ favola nera, un po’ leggenda. La nebbia avvolge ogni cosa in quel luogo. Sono gli anni ’20 del secolo scorso, anni di marce e violenze fasciste. Anni di paura e di rancori. In quel luogo dimenticato da Dio, ma non dal male, la giovane figlia del padrone, la sfacciata, libera, troppo libera, Dafne, viene trovata morta con un nastro rosso attorno al collo.

Attorno a questo fatto una storia corale, raccontata dai vari protagonisti ma anche dal fiume, dal ponte stesso, dalle blatte e dalle ghiande. Uomini e natura parlano una lingua che incanta ma che colpisce duro. E raccontano una storia, un ambiente in cui la cattiveria, il rancore, l’invidia, l’ipocrisia, avvolgono tutto, proprio come quella maledetta e insana nebbia che si infila nei polmoni, che taglia il respiro, che lascia il fiato corto della bugia, del non detto, del pettegolezzo usato per scaricare le responsabilità sempre su altri e altro.

Un mondo di male in cui ciò che non si conforma, ciò che provoca, ciò che non si sottrae allo scandalo diventa, inevitabilmente, colpevole. E poco importa che, in realtà, sia solo la proiezione dell’infamia altrui. Questa sarà dunque la sorte della giovane Dafne e di Ciaccio, bambino abbandonato sulla riva del fiume e poi divenuto lo scemo del villaggio. Un marchio che, se da una parte lo difenderà, dall’altra sarà la sua condanna, il pregiudizio che si porta addosso.

Luca Ragagnin (Foto da LuciaLibri.it)

In questo odore stantio di nebbia, umido, sussurri e sospetti, Dafne e Ciaccio saranno proprio i più puri, coloro che non rinunciano al godimento e che, proprio per questo, si porteranno addosso una lettera scarlatta. Il marchio di chi ha tolto la pace a un luogo e a una comunità che, invece, più che di pace viveva di omertà, di desideri repressi, di gelosie striscianti e di aspirazioni sepolte.

Sepolte in quella terra che, nel sottosuolo è più pulita e autentica di quanto sia in superfice, come raccontano le blatte che, nel sottosuolo e negli anfratti si devono nascondere per non morire.

Pontescuro è una metafora, una denuncia leggendaria e fantastica di un’epoca e di una mentalità, di una violenza e di un regime che si preparava a distruggere, nascondere e colpevolizzare tutto ciò che poteva essere vita, gioia, ribellione, provocazione e sessualità. E il ponte è l’emblema di qualcosa che non si può e non si deve attraversare, pena scoprire che non vi è nulla di cui avere paura se non la scoperta di avere accettato un interdetto inutile, strumentale.

Pontescuro è il racconto di un mondo malato, di un mondo (e un’epoca) in cui non ci si preoccupa neanche di imbiancare i sepolcri marci di dentro perché lo stesso marciume è talmente evidente da non essere nemmeno più percepito come tale. E, per questo motivo, trova un colpevole di comodo per continuare a marcire in pace, tra menzogne e ipocrisia.

È bello, è bello davvero questo libro. Perché fa ciò che dovrebbe fare la letteratura: interrogare e non lasciare, in fondo, che vi sia certezza di speranza e redenzione.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.lottavo.it/2020/07/pontescuro-la-spoon-river-della-bassa-padana/?fbclid=IwAR2ZzJQgsyP7-AjjFjF89OooRXcZLlQTwNfdhmVyRVl9ksCFzLsajqfmtfU
Pontescuro – recensione di David Frati su Mangialibri

Pontescuro – recensione di David Frati su Mangialibri

PONTESCURO

1922. Nel piccolo borgo piemontese di Pontescuro, agglomeratosi attorno ad un ponte – appunto – sul fiume Po, abitano “cento anime (…) mal contate, cinquanta qui a sud, e altrettante sull’altra riva”, che vivono in case di pietra e paglia. Su di loro, dall’unica collina alta della zona, incombe il castello del signor Cosimo Casadio, il proprietario di tutte le terre dei paraggi e delle barche che solcano il fiume passando “così lente sotto il pontescuro”. Casadio è vedovo e ha tre figli: Giacomo, il primogenito, è una camicia nera di Mussolini ed è “uno dei trentamila puntini neri che stanno marciando su Roma”; Giovanni, il secondogenito, è sulle barricate sul fronte opposto, contro i fascisti; Gabriele, il terzogenito, è un sognatore che ancora non ha trovato né moglie né lavoro e ama disegnare fiori e insetti; Dafne, ultimogenita e unica femmina, da quando ha sedici anni scende in paese e si concede a tutti gli uomini del circondario, per noia, per amarezza, per rappresaglia nei confronti del padre e dei fratelli. Il vecchio parroco di Pontescuro, don Andreino, è stato pizzicato in atteggiamenti poco sacri e assai profani con la domestica Nella e quindi da Roma – preoccupati per le anime del paesino piemontese – hanno mandato un giovane prete padovano, don Antonio, per affrontare l’emergenza Dafne Casadio, “per redimere una sgualdrina, per toglierle i poteri, ché tutti laggiù vociferavano che quella era una strega e aveva rubato il senno ai mariti”…

Il prolificissimo poeta e scrittore torinese Luca Ragagnin (più di trenta libri pubblicati, qui tutti minuziosamente elencati in appendice) ci regala un piccolo gioiello, peraltro proposto al Premio Strega 2019 da Alessandro Barbero. Una fola contadina che ricorda il Pupi Avati più felice, con un tocco di realismo magico e un certo non so che di medievale nonostante sia ambientata nel 1922, l’anno della marcia su Roma e in un contesto ambientale che potrebbe addirittura richiamare Novecento di Bernardo Bertolucci. Sarà che la ragazza assassinata che è al centro della vicenda, la tormentata figlia del latifondista Casadio (nomen omen?) che ha deciso di mettere a ferro e fuoco il paesino di Pontescuro armata solo della sua sessualità rapace, è in un certo senso una “strega”, sarà che il ponte di pietra che dà il nome alla località è legato a leggende inquietanti, ma comunque l’atmosfera è più da Italian Gothic che da neorealismo o peggio ancora noir. Gli stilizzati, sghembi disegni dello scrittore Enrico Remmert, concittadino di Ragagnin, suo vecchio amico e spesso coautore, aumentano il senso di straniamento del lettore e contribuiscono a donare alla lettura un fascino arcano e potente. Il linguaggio è raffinato, immaginifico ma asciutto, fa ricorso sovente a onomatopee o a simbolismi. Non a caso Ragagnin è anche paroliere musicale, e non a caso dal romanzo il gruppo Totò Zingaro ha realizzato un suggestivo albumintitolato 1922 che merita un ascolto attento.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

http://www.mangialibri.com/libri/pontescuro

PONTESCURO. “Una favola moderna in cui i protagonisti e i punti di vista si mescolano in una girandola di condanne e assoluzioni sempre parziali” – recensione di Alberto Trentin

PONTESCURO. “Una favola moderna in cui i protagonisti e i punti di vista si mescolano in una girandola di condanne e assoluzioni sempre parziali” – recensione di Alberto Trentin

Pontescuro, di Luca Ragagnin

Nel suo ultimo romanzo, Luca Ragagnin ci delizia con una favola moderna in cui i protagonisti e i punti di vista si mescolano in una girandola di condanne e assoluzioni sempre parziali, in cui ciò che ha più voce è lì dove meno si sente.

Perché la prostituta è una fossa profonda

e la donna altrui un pozzo stretto.

Anch’essa sta in agguato come un ladro

e aumenta fra gli uomini il numero di quelli infedeli[1].

– Proverbi 23, 27-28

Frusto inquit panis conduci potest,

vel uti taceat vel uti loquatur[2].

– Aulus Gellius, Noctes Atticae, 1,10

Di testamenti, eredità ed eredi

Il romanzo di Luca Ragagnin, Pontescuro, da poco uscito per Miraggi edizioni, è un testamento. O meglio, è il racconto di un testamento, nella sua accezione etimologia di patto. Un racconto che ha l’andamento delle favola. O meglio, della parabola. Una parabola che ha attraversato secoli di storie e di modi di raccontarle e che procede grazie a un continuo nascondimento: l’istanza narrativa si moltiplica, la verità si fa sfuggente, accumulatoria e mai conclusa. Non affermata, non negata, piuttosto suggerita. È, in pieno afflato greco, scoperta[3]. Ma non viene detta. Bella lezione e inattuale quella di Ragagnin: si può sapere e ciononostante tacere.

Con i testamenti sacri della nostra tradizione, quello antico e quello nuovo, così come con i grandi testi della tradizione letteraria, Pontescuro ha più di qualche semplice assonanza, ma colpisce come le fonti siano comprese in una rielaborazione originale e affatto scevra da intenzioni moralizzatrici.

Siamo a Pontescuro, un paesello sperduto da qualche parte nella bassa padana e colto in un’immobilità stranita, come fissato in una lastra di vetro di una fotografia d’epoca. È il 1922 e l’Italia si sta scoprendo fascista e cattiva.

C’è una puttana[4], come l’anonima peccatrice nel Vangelo di Luca. Solo che questa un nome ce l’ha e non da poco: si chiama Dafne, al modo di quella cantata nei miti greci e latini.

C’è un bambino salvato dalle acque, come quel Mosè tirato a riva dalla figlia del faraone. Questo invece ha nome Ciaccio e gode, rispetto a quello, di una reputazione contraria: è lo scemo del villaggio. Abbandonato nell’acqua si porta addosso anche la sorte di scampato al diluvio, visto che la giovine madre l’ha lasciato su un relitto di barca. Che a trovarlo sia stato un avvinazzato non fa che chiudere il cerchio.

C’è il signore locale, di tutto padrone e governatore, anche delle acque dalle quali viene raccolto Ciaccio; è su queste acque che viaggiano le barche di Cosimo Casadio, signore locale, capace di arche, come Noè e come Noè padre di tre figli maschi che sono in fuga e non daranno però alcuna discendenza. E di Dafne, una sgualdrina.

E poi ci sono gli altri, i moltissimi altri che fanno il paese Pontescuro, perso tra la nebbia feroce della bassa padana, dove regna la miseria, dove l’unica alternativa possibile è tra l’essere svegli e il dormire, dove la fame getta la sua ombra disperata e vorace sulla pulizia e sull’ordine.

Di nomi e soprannomi, destini e mestieri

Man gave names to all the animals

In the beginning, long time ago

(Bob Dylan)

Si chiamavano Giovanni, Tonio, Puccio, Giorgione. Si chiamavano Luigi, Mario, Bandiera, che credeva gli avessero dato un nome da femmina e cercava vendetta. Si chiamavano Guglielmetto, Rico, Luciano. E c’era la grassa, sensuale, infelice Nella. […] Si chiamavano Michelino, Franchino, Enrico. E c’erano Paolo di Ca’ Bassa e Paolo di Ca’ Alta, non si potevano soffrire. Poi c’era uno che viveva ancora più in alto di Paolo di Ca’ Alta, si chiamava Cosimo e aveva tre figli maschi e una femmina. La femmina si chiamava Dafne, che significa pianta di alloro, o di lauro. Si chiamavano Gené, che non sapeva che cosa sono i pensieri, e si chiamavano Emilio, detto il Zuntura, l’aggiustatutto, che tutto sapeva aggiustare tranne il suo cuore. Si chiamavano Làinfondo, perché il nome non gliel’avevano mai dato e allora indicava dove viveva, e si chiamavano Ciaccio, come il verso degli uccelli, don Andreino e don Antonio perché erano dei preti, e c’era furàza, la vongola, una cosa che non si può aprire senza il prezzo di ucciderla. […] Il paese si chiamava Pontescuro. C’era una volta Pontescuro. E tutti, dal primo all’ultimo, anche quelli che non avevano un soprannome, erano simili al Furàza. Si chiamavano in tanti modi, erano tutti chiusi, e ad aprirli morivano[5].

I nomi hanno importanza a Pontescuro, sono il bozzolo che ricopre le persone, le cose. Sono un destino, un’indicazione di senso. Sono quello che rimane dopo tutto. Un abito, un’abitudine, un’abitazione.

Abbiamo già conosciuto Dafne, la sgualdrina. Partiamo da lei. Nel mito era una Naiade, questa, una ninfa dei fiumi e delle acque dolci in generale, protettrice del matrimonio, nientemeno. Si dice che avesse acceso d’amore il dio Apollo che prese a inseguirla. Non la raggiunse, pur contando su forza e brame e velocità illimitate, perché Dafne chiese aiuto ai genitori che vinti dalle preghiere filiali la trasformarono in una pianta, l’alloro, che da quel giorno è sacra al dio della poesia. Il contrasto è stridente: nel romanzo Dafne non scappa da nessuno a tutti concedendosi. Una puttana di fatto, se non di diritto, non guadagnando alcunché dalla sua attività, lei che di denari non ne abbisogna essendo la figlia di Cosimo Casadio, e sorella di Giovanni, Giacomo e Gabriele. Uguali nel rapporto con la natura, per entrambe la brama voluttuosa è qualcosa da disprezzare: attraverso la fuga, per la Naiade; con l’esibizione di un potere sessuale smisurato, per la Dafne di Pontescuro. Medesima è infine la ragione ultima della morte, portata da chi ama e perciò salva.

Di Ciaccio potremmo dire che è niente più che un’onomatopea, un verso fattosi nome proprio, che è un altro modo di dire che un verbo si è fatto carne. La carne, a proposito:

La carne è una casa, o un attrezzo. È un rastrello, un badile, la venatura di un legno. È una cucina, un pollaio, un cassetto, un raggio chiaro che scalda una finestra, oppure polvere e inchiostro sbavato, lettere nascoste e ragnatele, qualcosa che scricchiola e non si sa dove. Nell’amore carnale c’è il pensiero della specie, corredi ricamati, pranzi all’aria aperta, con tutti i risparmi volatilizzati. C’è il denaro nella carne, ma anche l’odio, il disprezzo, la ripugnanza, la vendetta. Ci sono gli anni che comandano e ti prendono a male pieghe, e una parata di vestiti, di buon sapone e cenere bianca[6].

Ciaccio, lo scemo, è tutto questo insieme perché abita nella differenza dagli altri e dal padre putativo che ha avuto, Zuntura l’aggiustatutto, quella differenza che accompagna chi sopravvive alla morte, diventandone in seguito un alfiere, un sacerdote, un ministro.

Un ministro della carne, altrui, che dopo essere stato salvato viene rifiutato dalla casa-del-signore, da quel Cosimo Casadio che tutto possiede, tranne proprio la carne.

Sergio, a capo basso, assentiva, pronto a fare ciò che il suo padrone gli richiedeva. S’incamminò precedendo il suo padrone. Fece strada a un padre senza lacrime, i lineamenti di pietra, la schiena eretta e, per un attimo, ebbe paura[7].

Paura come se fosse il male, che pure non è, lo abbiamo visto. Non si dà male assoluto né bene assoluto nelle cose piccine del mondo. Che poi nemmeno di fronte al male assoluto, al buio, è buona idea avere terrore. Meglio piuttosto inchinarsi e scendere a patti.

Di patti, rischi e scommesse

When I was just a little girl / I asked my mother, what will I be

Will I be pretty / Will I be rich / Here’s what she said to me

Que será, será / Whatever will be, will be

The future’s not ours to see / Que será, será

(Ray Evans e Jay Livingston)

L’acqua precede il ponte. Il ponte precede il paese. La divisione precede l’unione. Sembra, in fondo in fondo, che per le cose umane non si scappi da qui. Prima c’è il diabolico, poi il simbolico. Per sanare la divisione il ponte ha avuto come garante, paradossalmente, lo stesso Satana[8], solerte nell’assicurare al costruttore la riuscita della sua impresa, la costruzione del ponte, e, in conseguenza, lo sviluppo del paese, cinquanta anime su una riva, cinquanta anime sull’altra riva. Equo. Solidale. E il costruttore accetta di avere un simile mecenate, accetta l’alleanza, il patto. Nel quale non balugina che un riflesso stantìo di quello che già fu di Faust e di altri, epifenomeni di una lunghissima tradizione letteraria. Non siamo di fronte alla folle ambizione del frigido Adrian Leverkuhn dipinto da Thomas Mann, né certo al tenacissimo amore di Margherita nei confronti del Maestro che la spinge a farsi strega del diavolo; d’altra parte, in ballo c’è solo la costruzione di un ponte. Un ponte che unisce due aree di un paese ancora da fare. È un patto spurio perché da un lato il costruttore non guadagna conoscenze né una vita eccezionale; anzi: morirà vecchio e stupido. Dall’altro lato, egli non garantisce con qualcosa di suo, ma stabilisce un patto che saranno altri ad assolvere, le nuove generazioni, dalle quali Satana esigerà la riscossione del credito.

Nel romanzo di Ragagnin non è tanto in gioco l’incapacità di discernere il vero dal falso, né la necessità di proclamare il bene e farlo vincere sul male, termini che rimangono ontologicamente ignorati dall’uomo:

«E allora, ditemi, un essere scaraventato nella vita, scucito e strappato dalla continuità e reso smemorato, come potrebbe avere coscienza assoluta del Male? O del Bene, se è per quello?[9]»

Ancorato a una dimensione umana, ciò che pare essere la posta in palio della scommessa dei protagonisti del racconto e, con loro, di ognuno di noi lettori che intenda cavarne una morale, è la responsabilità ultima delle proprie azioni. Scegliere il 1922, l’anno della marcia su Roma, ha un significato preciso, ricorda che ogni netta separazione tra bene e male, tra giusto e sbagliato rimanda a una realtà che non è quella umana, né può esserlo. Il patto col diavolo che inizia la storia di Pontescuro ripropone la situazione umana troppo umana che ci fa insieme sommersi e salvati, vittime e colpevoli, assolutori e punitori, in una girandola infinita che si perpetua scegliendo al bisogno il capro espiatorio che la storia può sopportare.

Dafne ci aveva offesi, tutti noi. Aveva offeso le nostre madri, le nostre mogli, le nostre future donne che sono le misere figlie che abbiamo, le figlie della miseria, perché ha sbattuto in faccia l’avvenenza, ha guardato la miseria delle nostre donne e ci ha sputato sopra con la bellezza. […] Ma non è nel nostro destino, la bellezza[10].

Dafne e il Diavolo sono omologhi, hanno in sorte di sbattere in faccia agli uomini di Pontescuro ciò che questi non avranno mai: immortalità e bellezza. Nella loro comune dannazione riluce l’assoluzione degli innocenti.

[1] La Nuova Diodati (LND)

[2] “Con un pezzetto di pane, disse, puoi essere convinto a parlare o a tacere”.

[3] «Domandiamo ora, senza alcun riguardo per questa definizione abituale, come venne intesa la verità all’inizio della filosofia occidentale, e cioè che cosa pensassero i Greci di ciò che noi chiamiamo «verità». Quale parola avevano per nominarla? La parola greca che sta per «verità» – non lo si sarà mai ricordato abbastanza, e bisogna sempre tornare a farlo, quasi ogni giorno – è alètheia, svelatezza. Qualcosa di vero è un alethès, uno svelato», Martin Heidegger, L’essenza della verità, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1997, «Considerazioni introduttive», pp. 32.

[4] «Con il mio nastro rosso stretto intorno al collo. È così che sono morta: con un nastro rosso stretto intorno al collo. Strangolata, diranno. E non è nemmeno di seta, diranno. D’altronde la seta non le sia addiceva. Quella sgualdrina», p. 24.

[5] Pp. 8-9

[6] P. 80

[7] P. 109

[8] Diavolo deriva dal greco διαβάλλω (diabàllo), che significa separare, fratturare.

[9] P. 33

[10] P. 139

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.albertotrentin.it/post/pontescuro-di-luca-ragagnin

PONTESCURO “La vita spezzata, la ballata triste di Ragagnin” – recensione di Margherita Ingoglia su LuciaLibri

PONTESCURO “La vita spezzata, la ballata triste di Ragagnin” – recensione di Margherita Ingoglia su LuciaLibri

Una vita spezzata, la ballata triste di Ragagnin

Luca Ragagnin

Come un cantastorie Luca Ragagnin scrive una storia dagli echi deandreiani, che restituisce l’eco di un tempo sospeso e la risata degli Ultimi: una ragazza bellissima e chiacchierata, raccontata dal coro greco delle malelingue, e un destino segnato…

«Mi chiamo Dafne Casadio e avrò per sempre ventiquattro anni. Sono morta da sette ore»

Pontescuro (160 pagine, 16 euro) di Luca Ragagnin, edito da Miraggi, con illustrazioni a cura di Enrico Remmert, (qui abbiamo scritto del suo La guerra dei Murazzi) attraverso voci, sentimenti e caratteri dei personaggi, ricama con filo noir una storia di morte e leggenda. Proprio come un cantastorie, un cantautore o forse un puparo capace di mettere in scena soggetti apparentemente privi di anima e sangue, quella raccontata dallo scrittore torinese (qui abbiamo scritto del suo Agenzia Pertica) è una splendida ballata triste dagli echi deandreiani capace di restituire al lettore l’eco di un tempo sospeso e la risata degli Ultimi.

La figlia scandalosa

A Pontescuro poche vicende, e di rado, sopraggiungono per sconvolgere il naturale fluire del tempo, eppure quando qualcosa accade, banale o eccezionale che sia, diviene per tutti il pretesto per discuterne a lungo, aggiungendo o accorciando la trama a discapito del risvolto desiderato, ciascuno a Dio giurando di non proferirne parola con nessuno.

« (…) gli uomini e le donne di Pontescuro avevano bisogno di vedere la sfortuna, la miseria e la stupidità premere sulle spalle di qualcun altro(…).»

Un giorno però, del 1922, la serenità del piccolo paese viene turbata dalla morte della scandalosa figlia del padrone locale, Cosimo Casadio. La giovane, bellissima e assai chiacchierata Dafne, bionda e dall’aspetto luminoso, decisamente fuori luogo per un borgo inghiottito dalla malsana nebbia e soffocato dalle vesti a lutto delle donne che lo abitano, a causa della sua condotta esuberante e scabrosa, troppo presto rimasta orfana di madre, già all’ età di sedici anni, per il coro dalle malelingue del villaggio, diventa la ninfetta che si concede a tutti, “la sgualdrina”. Lei, la Bocca di rosa .

«Dopo pochi mesi (…) il paese incominciò a disprezzarmi dritto negli occhi. E forse, se fossero stati almeno un poco intelligenti, tutti avrebbero capito dall’unico sorriso ebete, che ogni giorno cambiava volto ma non caratteristiche, chi era stato l’ultimo a slacciarsi la cinghia».

Un capro espiatorio?

Quando il suo corpo viene trovato senza vita lungo le sponde del torrente, proprio come la Marinella di De Andrè, nessuno prova rimorso nel puntare il dito contro Ciaccio, lo scemo del villaggio («perché al villaggio lo scemo deve essere maschio») che da qualche tempo, con fare sospetto, ha stretto amicizia con la troppo bella per lui, Dafne Casadio. L’accusa trova tutti concordi nel giudicare il taciturno Ciaccio, unico colpevole dell’atroce delitto. Pensano infatti che l’ingenuo si fosse invaghito della giovane e che, insoddisfatto nell’avere da lei forse solo la compassionevole amicizia, avesse preso con forza ciò che naturalmente non avrebbe mai potuto ottenere. Dunque, in un raptus di follia, l’avesse uccisa.

In questo coro di voci greche intente a ricostruire la vicenda intervengono tutti, anche coloro che a quel delitto non hanno preso parte e che quindi possono solo supporre le dinamiche. La verità però, come spesso accade, è affidata a chi non ha autorevolezza per farla emergere: ai pazzi, agli scemi, alla nebbia.

«Felice di essere una ghiandaia, lo scemo del villaggio e la sgualdrina ribelle. Felice di non avere soldi ma solo corde, stupore e aria, maledetti o compatiti da tutti. Felici di farci scappare il tempo dalle mani e dalle ali senza accorgerci nemmeno il tonfo che fa cadendo per terra».

Tragedia e poesia

Pontescuro di Ravagnin è una storia tragica raccontata col garbo della poesia, il rosso dello scandalo, la primitiva innocenza del bosco, intricato e voluttuoso come Dafne (il cui nome è un chiaro riferimento alla leggenda), la libertà delle ghiandaie e il coraggio degli Ultimi che inconsapevolmente osano sfidare la nebbia, varcare i ponti e andare oltre.

Una vita spezzata, come un paese spezzato necessita di strade per riunire ciò che è rimasto nella nebbia, in sospeso così, durante il cammino, mentre si va incontro al sole, affidare al vento la magia di un’ultima risata.

«Tutto ciò che si smarrisce o si vuole dimenticare, le parole scartate, i passi non compiuti, le scelte non fatte, un giorno emergeranno dalla corda dell’orizzonte e prenderanno il posto del sole».

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Una vita spezzata, la ballata triste di Ragagnin

Pontescuro. “Di questo romanzo di Luca Ragagnin ho amato tutto…” – recensione di Enrica Bardetti su Off Topic Magazine

Pontescuro. “Di questo romanzo di Luca Ragagnin ho amato tutto…” – recensione di Enrica Bardetti su Off Topic Magazine

Articolo di Enrica Bardetti

«C’era il paese e altri che vivevano nel paese, non molti, qualche bambino, un po’ di vecchie, gli animali. Il paese si chiamava Pontescuro».
«Si chiamavano Gené, che non sapeva cosa sono i pensieri, e si chiamavano Emilio, detto il Zuntura, l’aggiustatutto, che tutto sapeva aggiustare tranne il suo cuore. Si chiamavano Làinfondo, perché il nome non gliel’avevano mai dato e allora indicava dove viveva, e si chiamavano Ciaccio, come il verso degli uccelli, don Andreino e don Antonio perché erano dei preti, e c’era Furàza, la vongola, una cosa che non si può aprire senza il prezzo di ucciderla».
Siamo nella bassa padana, anno 1922. Gli avvenimenti storici che hanno interessato l’Italia in questo e negli anni a venire, fatti di camicie nere di tentativi di resistenza e di passi che marciano sulla capitale, sono solo echi che non oltrepassano la cortina di nebbia che qui delinea il contorno delle cose e delle persone.

«La nebbia da queste parti è sempre stata molto importante, una di quelle cose impalpabili che però determina, per il solo fatto di osservarla da un punto o da un altro, o di starci dentro, chi sei, perché porti il tuo nome e com’è fatta la casa nella quale dormi, e su quale letto dormi, se è un letto».
Pontescuro è un paese che prende il nome dal ponte che fu costruito per unire due sponde del fiume Po fino a quel momento disabitate.
«Perché volete collegare due nulla” chiedevano le donne di quei costruttori». Loro rispondevano che se avessero edificato solo su una sponda, l’altra sarebbe rimasta disabitata; il paese si sviluppò così in forma circolare intorno al ponte.
La nebbia e il ponte sono solo alcuni degli esseri “non umani”, tanto determinanti nel racconto, da divenire voci di questo romanzo corale che con linguaggio poetico ci immerge nella meschinità dei non detto di un piccolo borgo di provincia dove molti degli abitanti non hanno occhi capaci di vedere la bellezza, perché «la bellezza non è nel nostro destino» e «Noi lavoriamo la terra da generazioni e la terra non è pulita, anzi sotto fa schifo, e non è pulito il padrone».
Sono rozzi contadini gli abitanti di Pontescuro sfruttati dal signorotto del paese dal quale dipendono, che non conoscono il significato delle parole possibilità, evasione e amore, parole capaci solo di dare inutili illusioni. Per questo «quelli incantati da tutte le bellezze che non ci appartengono, che siano di proprietà dell’uomo o della natura stessa, noi li rendiamo innocui, li neutralizziamo, li spingiamo ai margini della nostra terra, che siano un ubriacone muto o un declamatore di libertà, un poeta ignorante, un sognatore».
Ecco allora che quando la figlia del padrone locale, una ragazza ribelle che si concede per rabbia e per sfida diventando “la sgualdrina”, viene assassinata, i paesani, riuniti in chiesa sotto la guida del parroco reticente, non fanno altro che puntare il dito contro l’unico colpevole possibile: lo scemo del villaggio, quel giovane trovatello che si erano sforzati di accettare, ma sempre guardato con sospetto perché “fuori dagli schemi” del loro squallido vivere.
Di questo romanzo di Luca Ragagnin – Miraggi edizioni – ho amato tutto: la scrittura evocativa che ti fa “sentire” i suoni e i colori della terra in cui è ambientata, i personaggi così ben costruiti che te li porti dietro anche a lettura finita e le illustrazioni in bianco e nero di Enrico Remmert, semplici ed efficaci nel farti calare ancor più nella storia.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Pontescuro di Luca Ragagnin (Miraggi edizioni, 2019)

Pontescuro di Luca Ragagnin è un libro che ho divorato! – Recensione di La lettrice controcorrente.

Pontescuro di Luca Ragagnin è un libro che ho divorato! – Recensione di La lettrice controcorrente.

RECENSIONE: Pontescuro (Luca Ragagnin)

RECENSIONE: Pontescuro (Luca Ragagnin)Valutazione: four-stars

Pontescuro di Luca Ragagnin
Illustratore: Enrico Remmert
Pubblicato da: Miraggi Edizioni il 15 febbraio 2019
Genere: Fiction, General, Narrativa italiana, Narrativa contemporanea
Pagine: 160
ISBN: 9788833860411
ASIN: B07NQ4BT76

La trama

C’era una volta, nella bassa padana, un pontescuro costruito con pietre, sangue e nebbia, in mezzo al vuoto dei campi. Intorno al ponte, sulle due rive che annoda, sono sorti poi un castello, dove abitano da sempre i padroni, e un villaggio

– Poesia – 

Presentazione Pontescuro di Luca Ragagnin - Miraggi edizioniPontescuro di Luca Ragagnin (Miraggi edizioni) è un libro che ho divorato. Durante la presentazione a Una Marina di libri sono rimasta molto colpita da Pontescuro. L’autore, presentato da Angelo Di Liberto, ha letto dei passi del romanzo e la natura, le foglie e gli uccelli, hanno accompagnato la lettura. Un momento che non scorderò.

Quando ho cominciato il libro, terminato in un solo giorno perché nulla poteva distogliermi dalla storia, da quelle voci che non potevo ignorare, me lo aspettavo proprio così: intenso, dalla prima all’ultima riga.

Ho vissuto sensazioni molto diverse. Da una parte sono stata cullata da una prosa che è poesia, e dall’altra mi sentivo costantemente turbata.  Proverò a raccontarvi Pontescuro  anche se non sarà facile.

Avete presente la nebbia? Dicono che faccia del male alle persone. Sono quelle dicerie che nascono un giorno, non si sa come, e poi quel giorno si perde nel tempo. Nella notte del tempo, anzi, nella nebbia del tempo. E così le origini di un’affermazione così forte, così perentoria, svaniscono, come dire, nel tempo.

Pontescuro - Luca Ragagnin - Miraggi edizioniPontescuro è un luogo in cui ogni elemento ha la sua voce. A chi piace pensare che le cose che abbiamo toccato, vissuto,  conservino tracce di noi?  A me sicuramente. Questo è un argomento che mi sta molto a cuore e che mi fa tornare in mente Pavese e la sua famosa citazione sui paesi che restano ad aspettarti perché hanno qualcosa di tuo, persino l’erba si ricorda di te. E a Pontescuro è così: i ponti, gli alberi, gli uccelli e persino gli scarafaggi hanno una storia da raccontare. Ed è proprio la natura a descriverci l’atmosfera che si respira in quel paese  di campagna nel 1922. Ed è sempre l’ambiente circostante a dare una lezione agli abitanti e a noi…

Dafne è troppo diversa dagli abitanti di Pontescuro che sono grigi, ignavi, schiavi della mediocrità. Prigionieri di loro stessi non comprenderanno mai che la bella Dafne si concede a tutti per disprezzo. E’ un concetto che non li sfiora nemmeno lontanamente. Perché? Perché sono incapaci di immedesimarsi, l’empatia non esiste.  (Vi ricorda qualcosa?)

«Mi chiamo Dafne Casadio e avrò per sempre ventiquattro anni.
«Sono morta da sette ore.
«No, non quel sentiero, prendete a destra. Sì,  questo. Fate attenzione, si scivola. No, non è ancora acqua, gli argini del fiume tengono bene. E anche se mi piacerebbe, se farebbe di me ciò che in vita non sono riuscita ad essere, non sono nemmeno le mie lacrime. È la nebbia che se ne va, sbavando. Tra poco sarà chiaro e qualcuno mi troverà. Con il mio nastro rosso stretto intorno al collo. È così che sono morta: con un nastro rosso  stretto intorno al collo. Strangolata, diranno. E non è nemmeno di seta, diranno. D’altronde la seta non le sia addiceva. Quella sgualdrina.»

Dafne però non è sola. E’ vero, quando ci racconta la sua storia è già morta, ma non ci sono solo elementi negativi. E’ amica di Ciaccio: lo scemo del villaggio. A Ciaccio voglio bene subito. E’ stato abbandonato da neonato sulla riva del fiume e il suo nome glielo dà il verso degli uccelli (galeotto fu il passo letto a Palermo che mi ha fatto innamorare) . E’ ritardato ma ha il cuore buono e Dafne se ne accorge. La loro amicizia viene descritta con  purezza e incanto. La stessa che adopera Ciaccio per addobbare gli alberi:

Visti da lontano assomigliavamo a un quadro, che per qualche diavoleria si fosse improvvisamente animato. Uno di quei quadri esposti nelle gallerie importanti delle grandi città.

Incuranti delle etichette, felici di abbellire gli alberi con i pezzi di stoffa, Ciaccio e Dafne colorano e stravolgono Pontescuro. Incantano la nebbia, il fiume e tutto ciò che toccano.

Finché… finché Dafne non viene trovata morta. Ovviamente è stato Ciaccio, poteva essere soltanto lo scemo del villaggio. Lo sanno i preti, le pettegole, persino l’investigatore inviato da Roma. Perché farsi ulteriori domande?

Caso chiuso, anche per noi lettori. D’altra parte il punto non è trovare o non trovare l’assassino, far andare d’accordo la realtà dei fatti con quella degli abitanti. L’intento di Ragagnin è un altro. E’ il racconto delle azioni incompiute, delle strade non intraprese,  delle possibilità dimenticate. Ragagnin ci ha descritto l’incompiuto, l’immobilità dell’essere umano.  E alla fine scopriamo che il colpevole lo conoscevamo già dalle prime righe: l’invidia  (sociale, sessuale, sentimentale) accompagnata dalla pigrizia.

Pontescuro di Luca Ragagnin è…

Pontescuro - Luca Ragagnin - Miraggi edizioniPoesia, racconto, riflessione. Ragagnin ci stupisce mescolando elementi diversi: ci sono frasi simili a versi, rumori che rimandano a canzoni… tenerezze e descrizioni che mi hanno fatto pensare ai racconti per bambini ( tra l’altro la storia è accompagnata dalle illustrazioni di Enrico Remmert) e riflessioni dal sapore del saggio. Primo libro che leggo di Ragagnin e di Miraggi, credo che non potessi aspettarmi di meglio.

In Pontescuro ci sono tantissimi temi, è vero la storia è ambientata nel 1922 ma guardando più a fondo si nota che Pontescuro è il luogo oscuro di ognuno di noi. E’ il rovescio della medaglia dei social, è la vita nei paesi ristretti e bigotti, è la malignità che si affaccia ogni tanto dentro di noi. Siamo fatti di azioni incompiute, spesso di ignavia, e  meno male che ogni tanto la natura riesce a riportarci sulla retta via.

Consigliato per chi ha voglia di immergersi in un mondo solo all’apparenza lontanissimo. Per chi ha voglia di tuffarsi in una storia senza pregiudizi. Pronti a lasciarvi togliere la maschera da Ragagnin?

 

four-stars

Luca RagagninLuca Ragagnin (Torino, 1965) è uno scrittore e paroliere italiano.
Incomincia a scrivere racconti e poesie nei primi anni ’80 e a pubblicare su rivista all’inizio dei ’90. Nel 1992 il testo teatrale “Eclisse del corpo” viene rappresentato a Torino e a Bologna presso il Teatro di Leo de Berardinis. Dal 1994 collabora come paroliere con musicisti di varia estrazione. Nel 1995 vince il Premio Montale per la poesia con una silloge inedita, letta nello stesso anno da Vittorio Gassman nel ciclo televisivo “Cammin leggendo” e pubblicata l’anno successivo dall’editore Scheiwiller. Nel 1996 viene invitato al Festival Internazionale di Poesia di Bar, in Montenegro, e un’antologia di sue poesie viene tradotta in serbocroato. Collabora con quotidiani e riviste di vario genere e, dal 1998 al 2003, ha tenuto una rubrica fissa su “Duel”, mensile di cinema e cultura dell’immagine. Nel 2007, insieme a Enrico Remmert, adatta per ii teatro il libro Elogio della sbronza consapevole”. Lo spettacolo viene portato in tournée in Italia e in Francia da Assemblea Teatro. Nel 2009, sempre con Enrico Remmert, scrive “2984”, testo teatrale ispirato a “1984” di George Orwell. Lo spettacolo debutta al Festival delle Scienze di Genova con la regia di Emanuele Conte e la produzione del Teatro della Tosse. Nel 2011 collabora alla stesura di “Operetta in nero”, testo teatrale scritto e musicato da Andrea Liberovici e scrive, con Michele Di Mauro, “Alla fine di un nuovo giorno”, spettacolo commissionato da Torino Spiritualità e portato in scena dallo stesso Di Mauro e dal compositore messicano Murcof. Nel 2012 scrive per Lella Costa “Elsa Shocking”, monologo basato sull’autobiografia di Elsa Schiaparelli Shocking Life, che va in scena il 20 ottobre al Teatro Carignano di Torino. Nel 2014 scrive per Angela Baraldi lo spettacolo “The Wedding Singers”, che debutta al Teatro della Tosse di Genova, con la regia di Emanuele Conte. Le sue poesie sono tradotte in Francia, Svizzera, Portogallo, Polonia, Romania e Montenegro.
È autore di romanzi (Marmo rosso, Arcano 21), racconti (tra gli altri, Pulci e Un amore supremo), testi teatrali (Misfatti unici, Cinque sigilli) e poesie (tra le altre, le raccolte Biopsie e La balbuzie degli oracoli) e testi di canzoni (tra gli altri, per Subsonica, Delta V, Serena Abrami e Antonello Venditti). Con Miraggi ha pubblicato il volume di racconti Musica per Orsi e Teiere, il saggio Capitomboli e, insieme ai Totò Zingaro, la trilogia musicale Imperdibili perdenti, composta dai dischi «Il fazzoletto di Robert Johnson», «Salgariprivato» e «Fiodor», di cui è autore di tutti i testi.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE: https://www.lalettricecontrocorrente.it/recensioni/recensione-pontescuro-luca-ragagnin/

 

Pontescuro di Luca Ragagnin – Recensione di Loredana Cilento su Mille Splendidi Libri e non solo

Pontescuro di Luca Ragagnin – Recensione di Loredana Cilento su Mille Splendidi Libri e non solo

«I veri pericoli a Pontescuro sono sopra, nella ricerca difettosa di pulizia e ordine.

Preferisco il popolo delle radici. Lìalmeno nessuno ammazza nessuno. Nel carnaio di sopravvivenza e nutrimento, dove sto io, nessuno farebbe quello che hanno fatto a Dafne. »

Dafne Casadio, figlia del signorotto di Pontescuro viene ritrovata morta con stretto al collo un nastro rosso: è facile incolpare lo scemo del paese, Ciaccio l’ amico sincero della scandalosa e spudorata  ragazza.

Pontescuro di Luca Ragagnin, edito da Miraggi Edizioni, è una favola noir, dove il male dimora nelle persone,  dove la nebbia, il fiume, una blatta e lo stesso cadavere di Dafne danno voce al male.,

« Mi chiamo Dafne Casadio e avrò per sempre ventiquattro anni. Sono morta da sette ore.»

Immaginate ora di essere nel lontano 1922 in un  piccolo paese di campagna dove il tempo resta sospeso, un paese diviso a metà da un ponte dove la continuità di questo luogo è data dall’interruzione, come le persone che sono nate e cresciute  qui, interrotte dai lori segreti o da peccati inconfessabili, ma del resto negli anni Venti tutto taceva sotto una coltre di piccoli e nefandi segretucci di paesi.

Un paese che non risente dei tempi che stanno cambiando, le case restano di paglia e pietra, il cuore di cento anime, poco più, è di paglia e pietra.

Tutti colpevoli, ma solo uno pagherà, l’unico innocente.

Una narrazione, quella di Pontescuro, semplice e diretta, ma che ti stupisce: un coro di voci astanti a dir poco  inconsueto, si fanno carico  di raccontare la morte e la vita della sfrontata Dafne.

Una ragazza nata con la luce nei capelli, un affronto per quel paese incolore e nebbioso.

Per le donne che chiudevano gli scuri al suo passaggio, per gli uomini che la desideravano, ma a Pontescuro i desideri non sono contemplati.

Pontescuro è una storia di male viscerale, di uomini e di donne, di bigotti che non percepiscono la vera essenza del bene, inneggiando senza scrupoli, puntando il dito, e sentenziando dal pulpito o dal banco di un tribunale di anime nere. Una bellissima storia amara, la spinta della gelosia fa commettere crimini orribili, oscurando il cuore degli uomini, che saziano la loro sete di vendetta, stringendo un nastro rosso, non di seta, non sarebbe stato adatto a sgualdrina. E infine l’amicizia tra Ciacco e Dafne e di una bellezza straordinaria…come straordinarie sono le pagine di Pontescuro che via via si lasciano leggere e amare…ti lasciano sospesi felicemente.

«Visti da lontano assomigliavamo a un quadro, uno di quei dipinti che le gallerie importanti delle grandi cittàrifiutano perché ce ne sono di migliori, nel genere, e nessuno ha bisogno di un paesaggista ubriaco. «Ma non eravamo ubriachi, soltanto sospesi, e nella sospensione, felici.

« Felici di essere una ghiandaia, lo scemo del villaggio e la sgualdrina ribelle. Felici di non avere soldi ma solo corde, stupore e aria, maledetti o compatiti da tutti. Felici di farci scappare il tempo dalle mani e dalle ali senza accorgerci nemmeno del tonfo che fa,

cadendo a terra. « Non piacevano a nessuno, quei due, ma a me sì»

 Luca Ragagnin è scrittore e paroliere.

Inizia a scrivere racconti e poesie nei primi anni ’80 e a pubblicare su rivista all’inizio dei ’90. Nel 1992 il testo teatrale “Eclisse del corpo” viene rappresentato a Torino e a Bologna.

È autore di romanzi (“Marmo rosso”, “Arcano 21”, “Agenzia Pertica”, “Pontescuro”), racconti (tra gli altri, “Pulci”, “Un amore supremo”), testi teatrali (“Misfatti unici”, “Cinque sigilli”) e poesie (tra le altre, le raccolte “Biopsie” e “La balbuzie degli oracoli”), tradotte in Francia, Svizzera, Portogallo, Polonia, Romania e Montenegro.

Nelle vesti di paroliere ha scritto testi di canzoni, tra gli altri, per Mina, Antonello Venditti, Garbo, Subsonica, Delta V, Totò Zingaro e Mao e la Rivoluzione.

 

Qui l’articolo originale: https://millesplendidilibriblog.wordpress.com/2019/05/16/pontescuro-di-luca-ragagnin-recensione/

PONTESCURO secondo la lettura di Carlo Borgogno della libreria Milton di Alba

PONTESCURO secondo la lettura di Carlo Borgogno della libreria Milton di Alba

Era da tanto tempo che leggendo un libro non mi ritrovavo a sentire nitidamente dei rumori. Luca Ragagnin è riuscito a restituirmi questa bellissima sensazione. In Pontesuro tutto parla, direttamente, o come nel mio caso, lasciandoti una sensazione. Così la nebbia, gli uccelli, il ponte il fiume, gli insetti mi restituiscono un mondo, un tempo, rumori e colori che incoraggiano la fantasia e mi guidano nel loro universo. Ne riemergo commosso e scosso.

Un gran bel corollario è costituito anche dai disegni di Enrico Remmert. Semplici, divertenti ed efficaci!

Pontescuro è una favola nera, indaga la malvagità dell’animo umano senza sconti; la scrittura di Luca è precisa e potente, colta e avvolgente. Come i suoi personaggi ti accompagna senza ergersi a protagonista e, lasciandoti cullare, ti ritrovi a piangere e ridere, ad amare e a odiare.
Si potrebbe pensare ad un mondo senza luogo e senza tempo, ma un luogo ed un tempo ci sono eccome, seppur non invadenti, ad ammonirci col ricordo di tempi scuri.
Un’ultima cosa: non avessi saputo l’identità dell’autore avrei attribuito questo romanzo a Leskov o a Gogol, e per me beh…

Vi lascio con un consiglio: Pontescuro a differenza di tanti libri si può leggere anche la sera, prima di addormentarsi, perchè accende sogni pieni di gioie e di lacrime che fanno bene al cuore.

Carlo Borgogno

Libreria Milton
Via Pertinace 9/c
12051 Alba (Cn)

+39 0173 293444

La nebbia di Ragagnin e quella della nostra società – di Darwin Pastorin su Huffington Post

La nebbia di Ragagnin e quella della nostra società – di Darwin Pastorin su Huffington Post

La nebbia manca da tempo, soprattutto qui in Piemonte. Come manca la pioggia. E la neve, in pianura, è quasi un giovanile retaggio. Nei romanzi, invece, la nebbia, come fenomeno metereologico e, nel contempo, esistenziale, è presente: in “Pontescuro“, per esempio, di Luca Ragagnin (candidato al Premio Strega 2019, Miraggi editore, illustrazioni di Enrico Remmert).

Una storia, avvolta nel mistero e nel dolore, che si svolge in un paese della passa padana, Pontescuro, un pugno di anime perse, con un ponte che collega “due nulla”. Siamo nel 1922, l’anno di una marcia che porterà l’Italia nel buio. Dafne, figlia del padrone locale, proprietario di un castello, è una ragazza ribelle, che si concede per rabbia e per sfida, diventando “la sgualdrina”.

YUDHISTIRAMA VIA GETTY IMAGES

Viene strangolata e la colpa ricade su Ciaccio, abbandonato appena nato nel fiume da una ragazza venuta da lontano, “non era stupido, Ciaccio, tutt’altro, soltanto aveva una modalità tutta sua di interpretare lo spazio, simile forse a quella dei volatili di cui era diventato amico”. Ma per tutti è soltanto “lo scemo del villaggio”.

Altre persone, preti, pettegole, fattori, agiscono nell’ombra. A “parlare” sono, soprattutto, le ghiandaie, il ponte, il fiume, la blatta e la stessa nebbia. Sono loro a farci capire il “male”, oscuro e atavico, di un luogo che sembra abbandonato, tra immensi rancori e pochissima pietà.

Per trovare il colpevole, arriverà da Roma l’ispettore Eugenio Romanelli, nato a Romano Canavese, vicino alla pensione, uno che si “concentrava sui margini, sui punti morti” per cercare una soluzione ai casi più difficili. Sarà così anche per questo delitto? Alla resa dei conti, Dafne e Ciaccio risulteranno “le anime più pulite e innocenti”. E, su tutto e tutti, una domanda: “Avete presente la nebbia? Dicono che faccia del male alle persone”.

Ragagnin ha scritto un romanzo originale, forte nella scrittura e nella trama, con Dafne e Ciaccio che continueranno, sempre e per sempre, nel loro segreto girotondo, mano nella mano, sperando di ritrovarsi in un definitivo raggio di sole, in una luce di semplice e pura Bellezza.

La nebbia, già. Quella non manca nella nostra politica. E in questa Italia che non sa più dove andare, confusa e smarrita. Incapace, troppo spesso, di comprendere i valori della tolleranza, del bene verso gli altri, i disperati gli invisibili gli emarginati. Un Paese tristemente “annebbiato”. Troppo. E il futuro è soltanto un’ipotesi.

Funambolico Ragagnin, un ritratto cubista di sé. La recensione di Alessandra Chiappori su LuciaLibri

Funambolico Ragagnin, un ritratto cubista di sé. La recensione di Alessandra Chiappori su LuciaLibri

“Agenzia Pertica” dello scrittore torinese è un libro irriverente nei confronti del lettore, un falso thriller che – digressione dopo digressione – si rivela un esercizio di consapevolezze metaletterarie, un viaggio un po’ onirico, un po’ alcolico e un po’ spericolato nel mondo della narrazione

Agenzia Pertica (176 pagine, 16 euro) è il nuovo lavoro di Luca Ragagnin edito dalla torinese Miraggi. Non a caso, questo romanzo-non-romanzo inaugura una nuova collana che la casa editrice ha deciso di chiamare Scafiblù: così infatti a Napoli erano chiamate le imbarcazioni utilizzate per il contrabbando di sigarette. A ispirare Scafiblù è dunque un’idea di clandestinità applicata a quegli autori italiani che hanno il coraggio di portare sulla pagina messaggi scomodi, disobbedienti, perché no anarchici, in un anticonformismo che può esser di stile, oppure di contenuti. Un contrabbando che diventa un obiettivo nei confronti del confine implicito che distingue ciò che si è soliti trovare in libreria dai libri che invece, probabilmente, non ci finiranno mai.
E a ben vedere – anzi, a ben leggere – il libro di Ragagnin approda in libreria carico del suo contenuto di contrabbando, fuori da ogni schema, insofferente alle regole della narrazione e irriverente nei confronti del lettore, fedele alleato al quale dovrebbe, con buona probabilità, affiancarsi agevolando quell’esercizio così naturale e spontaneo da apparire forse scontato: la lettura.

Scrittore o investigatore privato?
Ma di scontato in questo romanzo non c’è niente: nemmeno il fatto che si possa parlare di un romanzo. Domizio Pertica è il protagonista di questa strampalata storia, è un autore fallito, al cui attivo ci sono ventisei romanzi diversissimi per temi, struttura e genere, per soluzioni editoriali e per editori, via via cambiati fino all’auto-pubblicazione. Una sola cosa accomuna tutte le sue opere: l’insuccesso di pubblico. Ragione per cui, dopo tanto lavoro inutile, Domizio ha pensato di lasciar perdere la scrittura e di dedicarsi a un’altra attività, un’agenzia investigativa privata, che si chiamerà Domizio Pertica Divinazioni & Sbugiardamenti & Alibi. Collaboratori dell’impresa, Venus Diomede, praghese bionda e in abiti succinti conosciuta in un bar di dubbia fama e diventata la compagna con cui condividere la triste mansarda torinese e una merla indiana alcolista di nome Zappa. Niente è scontato, nemmeno il fatto che, in quanto animale, Zappa non parli. Infatti la merla è più che loquace, e sul cedro del Libano davanti casa, dove ama svolazzare, fa amicizia con altri esseri tra cui Pepe la gazza e Trambusto il gatto poeta che si esprime in rima.
Obiettivo tutto particolare dell’agenzia, sarebbe quello di fornire alibi ai delinquenti, casi risolti a cui il romanzo dovrebbe dare spazio, raccontandoli. “Sei qui per leggere un thriller”, scrive Pertica, attivando un’attesa incessante e la suspense tipica del genere. Ma poi apre, divaga, non torna, non spiega, non chiude, nella disattesa totale è lui stesso a fornire gli alibi, sbugiardandosi e smontando la sua stessa scrittura, in una rivelazione un po’ alcolica, un po’ onirica e forse un po’ disperata a cui la lettura, interruzione dopo digressione, finisce per assomigliare.

Un non-romanzo tortuoso e irriverente
C’è un inizio della storia, anzi no, è un falso inizio, come rassicura la voce narrante. Da quel momento, cioè da subito, appare chiaro come la storia non inizi, ma si avvii invece un tortuoso percorso tra le voci di Domizio, del narratore, di qualcun altro che fa le sue veci e irrompe nel testo. Il lettore cerca, attende, immagina e passeggia nei boschi narrativi colto di sorpresa a ogni capitolo. Perché naturalmente, in questo romanzo tutto speciale, anche gli elementi paratestuali contravvengono alle regole, e dunque i titoli dei capitoli parlano, scherzano e giocano. Il disinvolto appello al Prezioso Lettore diventa una delle cifre distintive del testo di Ragagnin, disinibito e al contempo sagace, inaugura un capitolo zero che scivola dalla libreria sotto casa a Céline e a Mallarmè, con strizzate d’occhio ironiche di tanto in tanto, spruzzi di realtà che inserita sulla pagina bianca diventa elastica, si adatta. E poi sberleffi al mondo dell’editoria, che Domizio ben conosce. “Scemo mi ci sento”, ammette, salvo poi correggere il tiro e interrogarsi sul fatto che forse scemi erano tutti gli altri, i lettori che non lo capivano e ancora di più gli editori. Un modello da cui allontanarsi, magari sperimentandone altri, e ancora altri, in un pastiche-metaromanzo come questo, che mescola tutto, e in continuazione mette in dubbio, disattende le aspettative del lettore portandolo fuori dai cliché interpretativi, e chiedendogli complicità.
Prezioso lettore dice la voce narrante di volta in volta diversa, mutante e velata di quella finzione che, altrove, in un romanzo classico, sparirebbe dopo la prima riga. È uno spericolato gioco a zig zag, su e giù per le scale dei congegni narrativi, in barba al pubblico, e soprattutto a quelle regole editoriali (ma, ancora prima, narrative) che ben poco tra le righe sono criticate per la propria rigidità, il proprio essere inespugnabili e inattaccabili. Del resto, Pertica le ha provate proprio tutte, anche pubblicare un libro bianco, ma non c’è stato niente da fare, il successo di scrittore non lo ha incoronato mai. Epilogo inevitabile, l’appendice, che raduna stralci dei ventisei romanzi di Pertica che hanno segnato il fallimento della sua carriera, ognuno con relativo esergo e commento di improbabili e divertenti recensori

Un funambolico esercizio narrativo
È un florilegio di generi, stili, forme e soluzioni narrative che, tutte insieme, scompaginano la narrazione, destrutturando l’attesa del lettore e costruendo invece un mirabolante esempio di romanzo il cui cuore è proprio il suo stesso essere un non-romanzo. Magie della scrittura, punti di forza di una metanarrazione che, seppure anch’essa parte di quel mondo da bistrattare, è la chiave di apertura del congegno di Ragagnin per il lettore. Tra dialoghi assurdi, voci e narratori, il lettore è lanciato in mezzo al campo pluristratificato di una metanarrazione che racconta di sé, del suo farsi ma anche del non riuscire a farsi, delle abilità da scrittore affatto improvvisato, dei giochi tra enunciatori ed enunciatari di quella riprovevole letteratura da scribacchini furbi, che agganciano il lettore e lo portano con sé fino in fondo, decretando il successo. Invece qui non c’è aggancio ma costante sgancio, inciampo, non-narrazione costruita con arguzia dentro una cornice narrativa, dove anche gli elementi paratestuali concorrono al tempo stesso ad abbozzare una cornice di insieme e a smontarla, rivelandone con ironia e un po’ di amarezza la consistenza nulla.
Ma chi è poi, davvero, Pertica? Basta una manciata di pagine e già ci è chiaro che la voce che ci si rivolge in presa diretta è un prodigio della scrittura, mutevole, scrittore fallito, coscienza alta, trasformista, dialoghista, filosofo e persino fine poeta e rimatore. Domizio Pertica, un po’ autore, un po’ maschera, un po’ narratore, un po’ essenza pura della fantasia di uno scrittore a cui crediamo di avvicinarci sempre più, scoperchiando matrioske, smontando falsi inizi, incipit e attese fomentate e mai raggiunte.
“Avete mai visto un romanzo thriller incominciare con una digressione una divagazione di carattere squisitamente letterario” si domanda il nostro Domizio Pertica, o chi ne fa le veci. La vicenda thriller, misteri e colpi di pistola, tarda ad arrivare. Il dubbio, alla fine, è che davvero si possa parlare di vicenda e non, invece, di viaggio un po’ onirico, un po’ alcolico e un po’ spericolato nel mondo della narrazione. E se è vero che talvolta, per essere capiti, i romanzi giunti alla fine devono essere ripresi dall’incipit, tornando all’inizio palesemente finto e ingannevole, sembra chiaro come questo primo esperimento inaugurale di Scafiblù sia un funambolico esercizio di consapevolezze metaletterarie, registri, voci e apparati narrativi piegati all’ironia un po’ pessimista e un po’ divertita di un autore, che dipinge in modo cubista il ritratto di sé scrittore come cliché: uno, nessuno e forse centomila Domizio Pertica.

http://www.lucialibri.it/2017/10/29/funambolico-ragagnin-ritratto-cubista-se/