Carlo Gozzini riflette sulla sua relazione con la bella e provocante Blandine: se ne rende conto, è un cumulo di macerie. Hanno trascorso insieme cinque anni, tra pochi alti e molti bassi, hanno costruito qualcosa solo per poi distruggerlo, hanno corso insieme, a perdifiato, solo per ritrovarsi improvvisamente e inevitabilmente al punto di partenza. Alla fine, soli. E infelici: lei sicuramente dato che si trova in cura presso una clinica psichiatrica. Lui non la può vedere, ma se la immagina camminare tra le altre pazienti afflitta e incompresa, senza mai rivolgere la parola ad alcuno, mantenendo quella freddezza da attrice consumata che tanto ha amato Carlo. A lui non va certo meglio. Non fa che pensare a Blandine, alla sua bellezza e a quanto gli manca, ai momenti passati insieme; in più, anche lui è controllato. Non da medici ed infermieri come la sua amata, ma da un Uomo che da qualche tempo lo sta pedinando. L’Uomo indossa una giacca di pelle nera, occhiali con la montatura argentata, una berretta di lana ficcata in testa, spesso ha un giornale sotto il braccio. Non fa molto per nascondersi, e Carlo lo spia a sua volta, dalla finestra di casa; crede che la base dell’Uomo e della organizzazione di cui fa parte sia proprio quell’edificio di fronte alla sua abitazione…
Annoso problema quello della realtà. Esiste una realtà oggettiva e veritiera, indipendente dal soggetto che la osserva oppure esistono tante realtà quante sono i soggetti pensanti? Ed è la mente che crea quanto ci sta intorno, la cultura da cui proveniamo, le nostre esperienze oppure dovremmo, al contrario -o proprio per questo- affidarci ai nostri sensi e alle nostre percezioni, le uniche che possono svelarci ciò che siamo e cosa stiamo vivendo? Se cominciamo a riflettere su cosa sia La realtà pura , entriamo in un vortice di pensieri dal quale difficilmente usciremo con la soluzione in tasca. La stessa sensazione estraniante e di appannamento la si prova leggendo questo romanzo di De Gennaro – fondatore e direttore della rivista trimestrale “il Reportage” – non a caso presente nella sezione Scafiblù di Miraggi (collana dedicata a romanzi italiani disobbedienti e controcorrente). E non è la scrittura a creare questo senso di annebbiamento, che al contrario è essenziale, pulita, diretta, ma i significati sottesi alla trama, anch’essa semplice ma impregnata di significati a diversi livelli di interpretazione. Il romanzo ha un finale ad effetto, piano piano si capisce quanto siamo artefici della nostra felicità e nello stesso tempo avversari di noi stessi, protagonisti e antagonisti del romanzo della nostra vita.
Lucia si definisce “una delle persone più sole sulla faccia della Terra”. Lavora come traduttrice per diverse case editrici ma un brutto incidente d’auto le ha lasciato una antipatica zoppia e quella strana sensazione di bastare a sé e di non volersi far coinvolgere dal mondo. Ancor più da quando suo marito è andato via, sostituendola con un’altra donna. Carlo è stato ‒ per una parentesi di tre anni ‒ l’uomo della sua vita, la sua famiglia, il suo grande amore. Ora davvero non le rimane più nulla. La monotonia delle sue giornate è interrotta da numerose telefonate di sconosciuti che a causa del suo numero di telefono chiamano lei erroneamente. L’ultima telefonata è di un tale Francesco, ex carabiniere appassionato di caccia, ossessivo e geloso tanto da confessare di aver ammazzato la sua compagna. Fingendosi Marta, ex dello sconosciuto, Lucia rimprovera a lui tutto quello che avrebbe voluto rimproverare al suo Carlo. Ma la curiosità, si sa, è femmina e il desiderio di saperne di più porta Lucia ad avviare una ricerca ai limiti del pericolo su questo misterioso interlocutore. Sarà davvero un assassino? Riuscirà a trovarlo o sarà lui a trovare inaspettatamente lei? E intanto, ha tra le mani i documenti da firmare per il divorzio. Chiudere un capitolo della propria vita non è affatto semplice ma può voler dire ripartire e ricominciare, a dispetto di tutto e di tutti…
Lucia non sopporta le cose fuori posto, la mancanza di pulizia e di ordine, le cose lasciate a metà. Eppure Amor è un sussurro interrotto, è la cesura a ciò che sarebbe stato e non potrà più essere, è l’ultima speranza tranciata di netto: Lucia interrompe Carlo proprio quando sta per chiamarla “amore”, per chiudere definitivamente con il passato. Ma passato e presente, in questo caleidoscopico romanzo di Eva Clesis, pseudonimo di una quarantenne scrittrice barese, sembrano mescolarsi, rincorrersi, in un gioco di specchi che tiene alta la tensione, soprattutto emotiva. Il flusso di pensieri della protagonista è interrotto da eventi che Lucia sembra subire, fino a che si risveglierà dal suo torpore esistenziale per riprendere le redini della sua vita. Con uno stile frizzante e fluido, il lungo monologo della protagonista tiene legati alle pagine, fino all’ultima parola. Eppure al lettore resta un dubbio: il mondo della protagonista, ciò che racconta, è reale o è solo frutto della sua mente? Un mondo interiore raccontato come se fosse vero, tanto da far pensare a tratti autobiografici perché, come la stessa Lucia ammette “Chi scrive deve sempre partire da qualcosa che sa per arrivare a descrivere quel che non sa”. E che non sa dove porterà.
“Le ragazze stan sedute/ I ragazzi le osservano in piedi/ Attaccano bottone” oppure “Una volta lo facevamo/ Allora lo tengo io?/ Sì sì tienilo tu/ Pronto?/ Una cosa storica sull’Italia/ Della lavanda/ Mi manda l’email dopo, ha detto” oppure ancora “Bruciata a bruciapelo/ Ce l’aveva adesso in mano/ Ognuno ha le proprie/ Quanto?”. E infine: “È molto facile contrarre la malattia e l’opposizione deve essere pronta fin delle prime ore del mattino. Non è semplice opporsi ma è il livello minimo e anche massimo di soluzione nota. Anche se in realtà, almeno fino a oggi, non ha quasi mai veramente rappresentato una soluzione”. La tensostruttura di quest’opera vive nella temporaneità della posizione nella quale i materiali sono mantenuti. Guardandola dal basso uno si può chiedere come diamine si regga in piedi. Ma ecco ci viene in auto la citazione iniziale: “non sentirti in imbarazzo, puoi leggere in tutti gli ordini / come? / indicazioni preziose / come?” La risposta era già nella prima frase. Porsi ulteriori domande o meravigliarsi non ci porterà beneficio. Prestando l’orecchio alla rete-realtà, o alla reale realtà, come una grattugia con il formaggio, ecco che cosa cade dentro al piatto. Frammenti di un tutto e non briciole, che sono gli avanzi. Hanno forse una propria vita e una propria dignità, questi frammenti? Sono tessere di un puzzle in grado di sopravvivere se staccate dal resto del gregge? Ed è come se prendessi tutte le tessere di questo puzzle e le disponessi a casaccio sopra un grande tavolo. La figura intera c’è, è tutta lì, solo che ancora non si comprende e non si vede e, forse, non si vedrà mai del tutto, eclissata dall’incapacità della mano o dalla volontà di completarla o meno, semmai un puzzle disposto in tale modo completo non lo sia già…
Di cosa stiamo parlando? Di un tipo di ricerca poetica sviluppatasi dopo gli anni Novanta in un contesto che succede alla tradizione delle avanguardie storiche e nel quale i nuovi autori, in pratica, si trovano in un ambiente editoriale vuoto che essi stessi intendono riempire. Flarf poetry, googlism, minimalist concrete poetry, cut up e cose così. Metto subito le mani avanti: non conoscevo l’argomento, la tecnica, il dietro le quinte, ho cercato di saperne di più. Sono cioè un lettore popolare al quale questo volumetto è capitato tra le mani. Perché è questo quello che accade ai libri. Vengono presi in mano. Da chi? Da lettori senza pregiudizi e così devono fare anche i libri nei confronti di chi li legge: essere senza pregiudizi. Farsi cioè leggere da chiunque. Logico, direte voi. Non è così semplice. Tornando a noi, Marco Giovenale in questo mondo di ricerca poetica è uno degli esponenti più noti, facente parte del gruppo GAMM, attivo dal 2006 assieme ad Alessandro Broggi, Gherardo Bortolotti, Massimo Sannelli e Michele Zaffarano. Ma tornando alla domanda iniziale: di cosa stiamo parlando? Di una ricerca poetica che rinuncia al lirismo, smembra i testi (nella postfazione di Paolo Zublena la si paragona a una ventata fredda come l’asetticità di un’operazione chirurgica) trasformandoli in frasi volanti che prendono quasi la forma di spezzoni di conversazioni captate in mezzo alla gente. L’autore rifiuta uno stile qualsiasi, una struttura qualsiasi, allo scopo di ottenere un componimento non assertivo e una poesia no-logo, mi verrebbe da dire, a cominciare dalle maiuscole che non esistono più. Un approccio “caviardage” del poeta nel cosmo delle parole possibili, non ancora scritte e fluttuanti. Almeno questa è la sensazione del vostro lettore popolare.
Leggi la recensione di Marco Brollo anche qui
http://www.mangialibri.com/poesia/quasi-tutti?fbclid=IwAR3kfkT4MO6VGu6fidH1X7kkK1LdM3IIw7uE4nuK68dH27NS1YdjzJlt9Sc
Lo chiamano Scriba, perché “ha la fissa di scrivere tutto, con ossessione, ovunque si trovi”. Ormai da anni dorme tre ore per notte, il resto lo passa a vedere i sogni degli altri. Non sa perché gli succede, ma i sogni delle persone che dormono nelle sue vicinanze gli invadono la testa, mostrando i loro desideri marci, le paure, le ossessioni. Scrivere lo aiuta a capire. Conoscere i sogni degli altri lo aiuta a capire. Eppure “ora che la Notte dei Botti è scoppiata il casino è davvero grande”, è difficile orientarsi. C’è un senso in quello che sta accadendo, oltre al “gusto della sopraffazione e all’euforia del pestaggio?”. Esplosioni, scontri, panico, morti e feriti, cariche della polizia, “fumo da non vederci più nulla”. Non è ben chiaro cosa sia successo davvero e perché, forse molte cose insieme: “per strada, oltre alle ambulanze e alle sirene, oltre ai pompieri per i primi incendi, festosi si erano riversati in molti. Grandi e piccini, intere famiglie, in molti gridavano (…) evidenze protese, più o meno alte, più o meno mature, (…) protese comunque, squadernate, rivendicate, falliche evidenze acuminate, acuminate e urgenti, inderogabili, sfinenti”. In cielo è tutto un volare di elicotteri, le strade sono invase da ingorghi colossali, le autostrade sono chiuse da posti di blocco. Molti vengono ammassati in un autogrill – è da lì che Scriba è fuggito quando la puzza di piscio, sudore e merda si è fatta intollerabile – si parla di Resistenti che si oppongono alle forze che guidano la Notte dei Botti (che ufficialmente si chiama la Notte della Libera Espressione), ma esistono davvero? Scriba non lo sa, nessuno lo sa…
Arriva finalmente in libreria questo fascinoso romanzo breve scritto tra 1993 e 1997 da Biagio Cepollaro – poeta e pittore, teorico del “postmoderno critico” e tra i promotori del Gruppo 93 – su indicazione di Nanni Balestrini, che stimolava continuamente l’autore a cimentarsi con la prosa. Dopo qualche abboccamento non andato a buon fine, il romanzo è rimasto però inedito, pubblicato solo online sul sito di Cepollaro, fino a quando Francesco Forlani (che nella bandella definisce felicemente La notte dei botti “un viaggio davvero al termine della notte”) lo ha proposto a Miraggi. Ed ora eccolo qui: un piccolo gioiello a metà tra avanguardia letteraria e pamphlet politico, ambiti apparentemente inconciliabili ma la cui ibridazione Cepollaro governa con maestria e passione, evitando sia la cerebralità sia l’ingenuità. Nato in un periodo di ricerca linguistica molto intensa dell’autore, La notte dei botti è espressione di un laboratorio linguistico: il testo oscilla continuamente tra realismo scarno e visionarietà poetica, ogni parola è scelta con cura, ogni immagine o metafora è rigorosamente non casuale, il linguaggio racconta – o per meglio dire incarna – il passaggio traumatico tra moderno e postmoderno. Si era negli anni ’90, per definizione il decennio della fine delle ideologie, della agonia del Novecento, della ricerca di nuove identità sociali e politiche, della fusione e della confusione. L’alba di una presunta nuova era, i primi vagiti della Seconda Repubblica. La notte dei botti coglie alla perfezione il nucleo di angoscia di quei momenti, sfrondato di tutte le sovrastrutture, le (false) speranze, le farse mediatiche. Con sensibilità da poeta Cepollaro qui scarnifica il reale, ne mostra l’anima nera. La notte che ci descrive è un violento tutti contro tutti, è un sinistro redde rationem. Lo ha spiegato lui stesso alla trasmissione radiofonica “Fahrenheit” qualche tempo fa: “C’è un equivoco fondamentale, anche nel linguaggio comune, che negli anni si è andato aggravando: e cioè che parole che una volta significavano qualcosa – tipo libertà e riforma – hanno cominciato a significare un’altra cosa, anzi a significare l’opposto di prima. Questa notte della Libera Espressione sembra essere finalmente la realizzazione di un sogno, e in realtà è l’inizio della fine, l’inizio di una dittatura di tipo cileno”. Libro apparentemente di non facile lettura, ma se ci si approccia a livello puramente emozionale, regala un’esperienza potente ed epifanica.
Leggi la recensione di David Frati anche qui
http://www.mangialibri.com/libri/la-notte-dei-botti?fbclid=IwAR0dKzE6BibGInFEsYIAoX3Jf6R1iKy8gD0arQm3uURSJHWOQ05PX37GZxo
La ragazza non sa come vestirsi. Ha un appuntamento. Continua a guardare i suoi vestiti e a scartarli mentalmente. È sempre più agitata. Sempre più angosciata. Chi ti credi di essere? Si chiede nella sua mente. Cerca di tenere a bada l’ansia muovendosi, il movimento allevia la tensione. Aspetta. L’uomo arriva. È in ritardo. Lei sa che le deve delle scuse e delle spiegazioni. È il suo allenatore e non ha permesso che giocasse da tempo. Lui le spiega il perché: è invidioso della sua bravura. Lei è incredula. Lui le dice che è il modo più facile di fermarla quella di ripeterle che non è capace di fare bene nulla, che nella vita saranno in tanti a cercare di fermarla utilizzando questo modo. Lei non deve arrendersi. Mai. E lui non sarà mai più il suo allenatore. La ragazza si ferma. Immobile. Piange… È la sera di Capodanno. C’è frenesia, al centro di Roma. Tutti in metro si spostano per festeggiare l’inizio dell’anno nuovo. Lei è seduta al suo posto vestita da geisha. Una donna che non conosce le si avvicina. Si siede al suo fianco. Cominciano a parlare. Il tempo diventa liquido. Scorre come acqua. Le due donne arrivano al capolinea ed è ormai già mezzanotte… Quando lei ha conosciuto lui ha imparato una lezione di vita fondamentale: bisogna fidarsi del proprio corpo. Sempre. Ascoltarne i segnali. Non bisogna far sì che sia la paura a vincere. Bisogna combatterla la paura. Lui è stato in coma per sei mesi. Al risveglio metà del suo corpo è paralizzata. Lui sfida la paura ogni giorno…
Alessandra Perna, musicista, ha suonato per quattro anni nel gruppo punk italiano Luminal, si dedica alla musica e alla scrittura, è eclettica e dichiara di “fare quello che vuole, sempre”. Ha già pubblicato un romanzo (Non farti fregare di nuovo) e ora rilancia la sua scommessa con la letteratura pubblicando questa intensa raccolta di racconti. Trentatré storie estremamente brevi: esattamente come le canzoni punk che scorrono nelle vene dell’autrice. Le storie mettono a fuoco dei brevi momenti nella vita dei protagonisti: sono epifanie, momenti di estrema lucidità in cui i protagonisti analizzano la loro vita, cercano di capire quale direzione imboccare, quale strada percorrere e come affrontare le difficoltà che faticano a superare. I racconti sono scritti in maniera paratattica, con frasi brevi e taglienti, sembra di leggere tanti frammenti, schegge di realtà che colpiscono al cuore il lettore. Ed è proprio questo modo di scrivere in maniera frammentata che è assieme il punto di forza e di debolezza del lavoro di Alessandra Perna. Non riusciamo a provate empatia con i suoi personaggi, tutto ci travolge con grande forza e tutto scorre troppo rapidamente. Sarebbe stato bello approfondire, limare, fornire un quadro più ampio delle situazioni e invece ci pare di leggere degli haiku.Tutto dovrebbe essere migliore si legge a ritmi serrati, il tempo di un pogo ed è tutto finito.
Sono passati sei mesi dall’ultima operazione, dal letto di metallo, dall’anestesia, dal candore tutt’intorno, dall’ospedale, dalla voce dell’infermiera, dalla totale asepsi. Andrea guarda il tutor a forma di sesso. Sorride. Apre l’armadietto sotto il lavandino e lo getta nella pattumiera. Ringrazia, ma non ne ha più bisogno. I giorni sono scivolati, uno dopo l’altro, come i grani del rosario di quella nonna il cui unico ricordo è proprio raccolta in preghiera col velo in testa in chiesa. Il caffè borbotta sul fuoco. Allunga una mano, spegne il gas e si ritrova a riflettere sul fatto che compie sempre gli stessi gesti. Tutto è uguale a prima. Eppure ora tutto è completamente diverso. Prende le chiavi di casa. Prima di uscire si guarda nello specchio. Le gambe sono lunghe. La muscolatura è morbida. Sono io, si dice. A volte alta. Di fronte alla sua immagine riflessa. Non appena sul marciapiede inizia a correre. E pensa che se ne vorrebbe andare. Del resto perché si trattiene in quella città che non ama? Non ha nulla lì, ha un padre che si imbarazza della sua presenza, e la madre…
L’arte è un settore in continua evoluzione e ormai, anche se in realtà l’idea del fare della propria esistenza un capolavoro non è certo nuova, si è imposto all’attenzione dei più il concetto di performance: ogni aspetto della vita viene considerato un tassello nella costruzione di una persona/personaggio. Batsceba Hardy è una fotografa, vive a Milano, a lungo è stata a Berlino, parla dell’arte dell’imperfezione, della sottrazione e della definizione e sostiene testualmente nel suo manifesto ‒ che non ama le maiuscole ed è poliglotta come tutto il suo sito Internet, spazio che più d’ogni altro la rappresenta e in cui, solo, sembra vivere davvero ‒ che “l’arte è morta. concettualmente deprivata della sua necessità di esistere. argomentazioni vuote. inutili dissertazioni. bla bla disperante. ma l’artista non morirà mai. l’artista è colui che non sa fare altro che quello che fa: pensare per astrazione ed esprimere astrazione con ogni cosa lo circonda. il diverso non per scelta ma per essenza. colui che sta al di fuori. il raccontatore di storie. l’inefficace”. In questo suo romanzo corale, caleidoscopico e psichedelico, in cui sono fondamentali l’immagine e l’immaginazione, descrive bene e in modo avvincente con la forza di un diario polifonico la storia di due gemelli, Annalia e Andrea, prima fratello e sorella, ora entrambi di sesso femminile, in cerca di sé e di un nuovo reciproco rapporto.
Livio finalmente abbandona l’autostrada per inerpicarsi tra i tornanti dissestati che lo portano nel paese dove ha trascorso la sua infanzia. Entra nella sua vecchia abitazione. Tutto sembra intatto. Come se il tempo non fosse mai passato. Eppure Livio può ancora distintamente percepire la presenza dei suoi nonni nella vecchia casa. Sua madre si è raccomandata di non “perdere” troppo tempo: una rapida occhiata e via. Eppure ci sono cose che, anche con uno sguardo apparentemente superficiale, tornano alla memoria e fanno male… Il signor Tamberi e la sua famiglia passano l’estate sempre nella stessa cittadina di mare. Ogni anno arrivano a giugno e vanno via a settembre. La moglie è schiva. Lui più solare, aperto. In spiaggia ha paura che suo figlio, che mostra i segni evidenti della malattia, si faccia male o disturbi qualcuno. Gli sta sempre vicino, gioca con lui, coinvolge gli altri ragazzi per non farlo restare solo. Ma gli anni passano, il signor Tamberi non è più quello di prima. È un uomo ormai anziano che porta a spasso accanto a se un ragazzo che resterà sempre un bimbo tra lo scherno degli abitanti della cittadina… Cesare accudisce suo padre, ormai afflitto da demenza senile, aspettando l’aiuto degli assistenti sociali. È stanco. Suo padre è tornato bambino. Lui non può permettersi una badante né suo padre può essere lasciato solo. Gli assistenti sociali regolarmente gli fanno visita, promettono che arriveranno aiuti concreti, ma – si sa – la burocrazia è lenta…
Non risponde mai nessuno è l’ultimo lavoro di Simone Ghelli, classe 1975, autore de L’ora migliore e altri racconti e di un romanzo, Voi, onesti farabutti. Dopo qualche anno di silenzio Ghelli torna con una nuova raccolta di racconti – dieci – che mette a nudo la parte più vulnerabile del nostro essere umani. I suoi protagonisti sono uomini e donne sofferenti, che arrancano, portano dentro di loro ferite indelebili, segni della loro vita, senza cedere mai alla facile debolezza. Il dolore lo si sopporta con un sorriso amaro sulle labbra, con la schiena dritta e lo sguardo rivolto verso la bellezza delle piccole cose. Dieci storie che commuovono, che coinvolgono il lettore, che parlano alla nostra anima. Ghelli utilizza uno stile immediato, paratattico, diretto. Possiamo sentire parte della nostra vita ogni suo personaggio. Il suo occhio si sofferma su un sentimento in particolare che accomuna tutti i protagonisti dei suoi racconti: la vergogna. La vergogna di aver abbandonato un parente che la gente considerava “non normale”, la vergogna per avere un figlio che “cresce solo in altezza” restando un bambino per tutta la vita, la vergogna per avere un padre afflitto da demenza senile e non sentirsi in grado di proteggerlo, di fargli condurre una vita dignitosa. In esergo Ghelli cita Deleuze “La vergogna di essere uomo: c’è una ragione migliore per scrivere?” ed in nuce è tutto qui: è in fondo questa vergogna, questa nostra debolezza, che ci rende umani, bellissimi e sofferenti.
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