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I perdenti – recensione di Alessandro Eric Russo su Mangialibri

I perdenti – recensione di Alessandro Eric Russo su Mangialibri

Louis Berenstein è contento che la stanza che ha preso in affitto nel Lower East Side sia buia: almeno questo è quello che ha detto al suo padrone di casa, Zed Palver, quando si sono visti per la consegna delle chiavi. A Zed ha detto anche che sta vagando in cerca una sistemazione fissa per via della crisi del Ventinove, ma a Zed non importa molto, a lui importa solo di piazzare le sue proprietà. Una volta rimasto solo, Louis è libero di guardare la sua stanza in tutta la sua umidità, come di un seminterrato all’ottavo piano, piena di mosche, con l’unico lascito del precedente inquilino che consiste in una scatola di biscotti, quegli stantii Girl Scout Cookies che qualche mese prima erano stati rifilati pure a lui a Philadelphia. Eppure non gli basta quella prima occhiata per far caso all’enorme neon a forma di fenicottero che dal palazzo di fronte manda una luce rosa. Louis dorme, beve, si dimentica di mangiare e conosce Theodore, la trapezista col nome da uomo che sta nell’appartamento a fianco al suo, insieme bevono e si addormentano. Poi c’è Bertha, che aspetta l’ascensore sul pianerottolo per andare a fare la cameriera all’ultimo piano del palazzo di fronte, quello col fenicottero rosa, anche detto Il Paradiso. Louis ci andrà a trovare Bertha a lavoro, ma certo non sarà facile salire all’ultimo piano perché pure lì non mancano le anime in pena che interrompono la salita, e non ne mancano neppure di labirinti e guardiani balordi sulle porte e sugli ascensori, messi lì per ostacolare l’ascesa di Louis, non un uomo probo, forse nemmeno un peccatore, ma certamente un disperso…

“Uno dei più grandi scrittori sconosciuti d’America”, così Hedda Hopper definì Aaron Klopstein in un articolo che Miraggi Edizioni propone come prefazione all’edizione italiana de I perdenti. Sempre leggendo quello che la Hopper scrisse di Klopstein si viene a sapere che fu amico di Hemingway e Fitzgerald, e che con loro passava le nottate nel Lower East Side, a volte raccontando a voce le sue storie, come un bardo che avesse ricevuto il dono della poesia. Poi ci fu il litigio con Hemingway e il rifiuto in blocco degli editori, i tentativi di diventare attore e i racconti sotto pseudonimo scritti per le riviste pulp, che per molto tempo furono l’unica fonte di reddito di Klopstein. E in effetti a leggere questo romanzo, specialmente nelle prime pagine, con le metafore che immettono qualcosa di disgustoso e squallido nella realtà, si ha la sensazione di leggere un romanzo hard-boiled in cui però manca il detective, la vittima, il ricattatore. Nei dialoghi sempre tesissimi c’è un conflitto onnipresente, che non è solo quello tra i personaggi, ma anche quello interiore in cui emerge la sofferenza esistenziale del disperso. Viene quasi da chiedersi come sarebbe la letteratura americana di oggi se al fianco di nomi influenti come quelli di Hemingway e Faulkner, si potesse aggiungere quello di Klopstein, che non poté mai godere della fama che meritava nonostante l’incredibile forza narrativa. Infatti, leggere I perdenti è come fare più esperienze in una: c’è il piacere di abbandonarsi al racconto perfetto; la voglia di scendere in profondità nel testo che solo i grandi classici sanno suscitare; e poi c’è quella sensazione di stare leggendo qualcosa di unico, un romanzo che mentre propone una storia indica anche un nuovo modo di fare letteratura.

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Di sangue e di ferro – recensione di Renzo Brollo su Mangialibri

Di sangue e di ferro – recensione di Renzo Brollo su Mangialibri

Andrea Ferro è nato a Udine nel 1965, ma all’età di tre anni ha perso i genitori in un incidente stradale, quando la loro automobile è finita dentro al lago di Levico in circostanze mai ben chiarite. Rimasto orfano, è vissuto con i nonni paterni che hanno seguito la sua strana curva vitale, trasformatasi da infanzia in adolescenza per poi lasciarlo andare. A quasi cinquant’anni vive a Torino, dove lavora come assistente universitario, collaborando anche con una casa editrice e suonando ogni tanto musica country in un piccolo pub della periferia. La sua vita prosegue in precario equilibrio, seguendo un filo che sembra doversi spezzare a ogni passo. Al ricordo del funerale dei suoi genitori si mescolano immagini e musiche di vecchi film, il passato si confonde con la finzione per lui che “vissuto nella voragine della loro assenza”, mentre il suo cervello continua a girare a vuoto, proprio come un funambolo che non riesce più ad andare né avanti né all’indietro. Qualcosa si smuove quando, avvisato telefonicamente dall’infermiera personale di sua nonna Antonia, Ferro viene richiamato improvvisamente a Udine a causa dell’aggravarsi delle condizioni dell’anziana donna. Il ritorno in città rischia di essere la pietruzza che smuove i primi macigni di una valanga che potrebbe diventare incontrollabile. Complici anche la lettura di uno strano manoscritto inviatogli dalla casa editrice, l’intenso scambio di mail con l’autore che diventa una sorta di ossessione e il complicato e spinoso rapporto con le donne, a cominciare da Silvia, una ex fidanzata dalle molte ombre troppo simili alle sue. Tornano a galla i trascorsi politici dei suoi genitori, la loro implicazione con la strage di Peteano del 1972, di matrice politica di estrema destra, e il conseguente tentativo di depistaggio che ne seguì e, di nuovo, le cause che portarono all’incidente mortale nella quale la loro auto finì nelle acque del lago…

Il 31 maggio 1972 a Peteano, una piccola frazione della provincia di Gorizia, una carica esplosiva posta all’interno di un’automobile provoca la morte di tre carabinieri. L’attentato è opera dell’estrema destra e uno degli esecutori materiali della strage, Vincenzo Vinciguerra, in un’intervista lo indica come il momento in cui i membri eversivi della destra radicale si rendono conto di essere manovrati dallo Stato. È il momento in cui si rendono conto anche che la rivoluzione fascista e la Repubblica sociale non sarebbero mai potute tornare. Ciò che invece nonna Antonia era certa sarebbe accaduta. E cioè che “la purezza di un’idea diventa realtà attraverso la forza”. Concetto ripetuto all’infinito al piccolo Andrea Ferro e che ha macerato dentro di lui senza però mai mettere vere radici, ma tormentandolo e uscendo dall’armadio come uno scheletro il giorno in cui Andrea fa ritorno a Udine. La città che lo ospita è perennemente grigia, piovosa, così come la casa buia di Antonia che lo trattiene umida e silenziosa. Predominante per il lettore, la sensazione di straniamento provocata dall’incontro di Ferro con Luca Quarin, che gioca ad essere al tempo stesso personaggio e autore, innescando una sorta di cortocircuito che lo fa saltare come un pesce fuori dall’acqua tra finzione narrativa e cronaca politica nera riportata all’interno del racconto con stacchi improvvisi. La medesima sensazione si prova leggendo il romanzo d’esordio di Luca Quarin, Il battito oscuro del mondo, uscito nel 2017 per Autori Riuniti. Sebbene le tematiche siano diverse, alcuni rimandi sono però comuni, come i riferimenti al Moby Dick di Melville che torna anche in di sangue e di ferro nel quale l’obbiettivo sembra quello di costringere il lettore, con le buone o con le cattive, a riprendere in mano un periodo buio della politica e della società italiane, concentrando il focus su quell’avvenimento tragico accaduto negli anni Settanta nella provincia friulana alla quale anche Luca Quarin appartiene. Indubbia la capacità dell’autore di evitare che il filo conduttore della storia si spezzi, poiché la lettura non risulta immediatamente semplice ma necessità di pause, di tornare sui passi appena percorsi per ripensare e riprendere di nuovo ciò che si era appena letto, come se la paura fosse quella di poter perdere qualcosa di importante lungo il cammino.

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Bolaño selvaggio – recensione di Massimiliano De Conca su Mangialibri

Bolaño selvaggio – recensione di Massimiliano De Conca su Mangialibri

Del compianto Roberto Bolaño, lo scrittore Rodrigo Fresán ricorda la frenesia della scrittura sempre ai margini dell’abisso, sempre lanciata dall’ultima frontiera: quella voglia di raccontare l’utopia che solo nella letteratura può diventare reale. Alan Pauls ne decanta la poetica dell’assenza: riuscire a raccontare e fare poesia parlando di presunti poeti particolarmente impegnati, politicamente impegnati, umanamente impegnati (I detective selvaggi) senza che di loro esista nemmeno un’opera. Si tratta di un’overdose prima ancora di un’intossicazione. Bolaño riesce attraverso i suoi racconti a creare una vera etnografia di personaggi inesistenti, di quadri e di possibili vite, nelle quali si è frammentato e suddiviso. L’amico e scrittore Enrique Vila-Matas, azzardando paragoni con Franz Kafka, Marguerite Duras e George Perec, ricorda l’attività fervida e ricca del Bolaño narratore che riesce a servirci le sue storie come un piatto forte della Cina distrutta, cioè con la stessa voracità che abbiamo di solito quando consumiamo un piatto originale, forte, serio e senza mezze tinte: bisogna conoscere e raccontare la tristezza della vita, ma saperla apprezzare ed amare anche con quella intensità così forte da farci dire che abbiamo davvero vissuto…

Roberto Bolaño è stato uno degli scrittori cileni, sudamericani, latini e mondiali più importanti della fine del XX secolo: nato in Cile, vissuto in Messico, esploso in Spagna, ha racchiuso nella sua scrittura la frenesia di chi ha fatto della letteratura un campo di sopravvivenza oltre ogni limite umano e fisico: “La letteratura somiglia molto alla lotta dei samurai, ma un samurai non combatte contro un altro samurai: combatte contro un mostro. Generalmente, poi, sa che sarà sconfitto. Avere il coraggio, sapendo fin da prima che sarai sconfitto, e uscire a combattere: questo è la letteratura”. Nella sua scrittura l’impossibile prende corpo e con lui tutte le nostre paure, i pregiudizi, le imperfezioni, le passioni ed i desideri che nel mondo cosiddetto normale non siamo in grado di concepire. Il volume, corposo, composto da quasi 500 pagine, raccoglie più di 25 contributi, un’amplia bibliografia sulle opere dello scrittore cileno e di tutte le opere citate. Dopo la presentazione di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau, i contributi sono divisi in quattro sezioni: la percezione del mondo, la sua politica, la poetica e le sue altre genealogie. Difficile, se non impossibile da catalogare, Roberto Bolaño sfugge ad ogni tentativo di critica positivistica: come dimostra eloquentemente nel Discorso di Caracas (introduzione al volume come sezione Le sue parole, I) e nell’intervista inedita che chiude l’intera raccolta (sezione Le sue parole, II), l’artista cileno non ha interesse a trovare una collocazione nella storia della letteratura, non ha interesse ad essere misurato con modelli, antecedenti o correnti letterarie, ha come obiettivo esprimere ed esprimersi nel modo più diretto possibile, nel tentativo di realizzare una narrazione che parli intanto a se stesso, quindi ai suoi lettori. L’iniziativa edita da Miraggi è importante e meritoria, perché permette all’apprendista lettore di avere sottomano tutti gli strumenti utili per sapersi orientare nella “galassia Roberto Bolaño”, ma anche al lettore di culto di potersi confrontare con interpretazioni delle più svariate su quell’arte di raccontare che oggi tanto manca a molti.

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La pianura degli scherzi – recensione di David Frati su Mangialibri

La pianura degli scherzi – recensione di David Frati su Mangialibri

L’uomo ha un lavoro normale, una vita ordinaria e tranquilla. Vive a Buenos Aires, ha una famiglia che mantiene dignitosamente. Ma la sua normalità non riesce a cancellare la vergogna che prova da sempre per la forma delle sue natiche eccessivamente polpose, quasi femminili. Superando a fatica tale vergogna, l’uomo partecipa ogni tanto alle partite di calcio tra Scapoli e Ammogliati organizzate dai suoi colleghi di lavoro. Gioca come portiere, gioca “per pura consuetudine, per stringere legami, per aumentare il livello d comunicazione”, come suggerisce di fare il vicedirettore delle Relazioni Pubbliche Interne. Anche questa volta (come tutte le sante volte) terminata la partita iniziano le freddure e gli scherzi di cattivo gusto nello spogliatoio. Heredia, volendo fare il simpatico, dice al collega Mancini: “Ti voglio così tanto bene che, te lo giuro su mia madre, ti succhierei il cazzo se fossi frocio” e Mancini, per non essere da meno, risponde al collega Heredia: “E tu sai che io sarei a tua disposizione: la prima cosa che farei la mattina sarebbe ficcartelo in bocca”. Allo scambio di complimenti segue una discussione da ubriachi sulla omosessualità di uno o dell’altro che degenera presto in una specie di rissa che il nostro mite chiappone di cui sopra cerca di sedare, suscitando l’ira funesta di un ingegnere elettronico giapponese presente nello spogliatoio. Costui inizia a demolire tutte le panche di legno a colpi di karate perché “Chi viene meno alla parola viene meno all’onore” e pretende che Heredia adesso succhi l’uccello di Mancini come promesso, o in nome dell’Imperatore lui lo ucciderà. Tutti cercano di farlo ragionare ma finiscono per farlo infuriare ancora di più, soprattutto lui, il culone, reo secondo il fanatico giapponese di eccitare gli animi dei suoi colleghi con le sue forme femminili. Il Direttore Generale Mariano Soria, convocato per dirimere la questione, se la prende anche lui con l’incolpevole portiere e decreta che sia lui a sostituire Heredia nella fellatio, tanto con quel culo che si ritrova deve per forza essere gay. Ma il giapponese non è d’accordo…

Un incubo fantozziano che si dipana tra i vapori di uno spogliatoio maschile (La causa giusta, 1983), un’orgia splatter di sesso e sangue che infuria negli ambienti del sindacalismo rivoluzionario argentino (Il fiordo, 1967), una galleria onirica di personaggi incredibili nell’ambiente omosessuale di Buenos Aires (Sebregondi retrocede, 1973) e una ballata appassionata e visionaria che celebra alcune donne le cui esistenze in qualche modo si intrecciano alla storia argentina (Le figlie di Hegel, 1982). Quattro racconti (due editi e due postumi) per celebrare il talento anticonformista di Osvaldo Lamborghini, poeta e scrittore porteño di grande importanza a dir poco trascurato in Italia, dove finora era apparsa solo una raccolta di poesie curata da Massimo Rizzante, Il ritorno di Hartz (Scheiwiller, 2012). Proprio Rizzante nella sua prefazione a quella silloge raccontava: “Lamborghini era ontologicamente incapace di assicurarsi le più elementari condizioni di sopravvivenza. Per questo non riuscì mai a trovare un impiego per più di qualche mese – nel sindacato, in una redazione di giornale, in un’agenzia pubblicitaria. Per questo tutta la sua vita fu un errare di casa in casa – genitori, sorella, amanti, amici – e di hotel in hotel, tra Buenos Aires, Mar de Plata, Pringles e, infine, Barcellona. E odiava star solo. In ragione forse del suo antico e disperso lignaggio, non si capacitava del perché qualcuno non dovesse prendersi cura della sua persona, visto che egli era completamente assorbito dal suo destino di scrittore”. I testi qui raccolti dai curatori Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montalto – che nella loro introduzione cercano (probabilmente invano) di far capire ai lettori quanto è stato arduo tradurre Lamborghini e la sua scrittura tanto disinteressata al punto di vista del lettore da essere insieme sublime e irritante – travolgono, scandalizzano, commuovono, indignano, disgustano, eccitano, esaltano e disperano a pagine alterne. Ma in nessun momento leggendo La pianura degli scherzi – che ovviamente è l’Argentina, e la definizione è fulminante a ben pensarci – si ha finanche il mero sospetto di una mancanza di talento, di una scrittura di maniera o di mestiere, di una pigrizia, di una fatica. È lo spontaneismo armato del talento, la rivolta del vero anticonformismo, il masochismo della sincerità. Di Lamborghini, scrisse César Aira: “(…) Aveva un che di signore antiquato, con qualche tratto di scaltrezza da gaucho, occultato sotto una severa cortesia. Inoltre, aveva letto tutto, e aveva un’intelligenza meravigliosa, soggiogante. Venerato dagli amici, amato – con una costanza che pare ormai non esistere più – dalle donne, è stato universalmente rispettato come il più grande scrittore argentino. Ha vissuto circondato di ammirazione, affetto, stima e buoni libri – una delle cose che non gli sono mai mancate. Non è stato oggetto di ripudio né di esclusioni: semplicemente si è sempre mantenuto ai margini della cultura ufficiale, e con ciò non ha perso granché”.

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Pontescuro – recensione di David Frati su Mangialibri

Pontescuro – recensione di David Frati su Mangialibri

PONTESCURO

1922. Nel piccolo borgo piemontese di Pontescuro, agglomeratosi attorno ad un ponte – appunto – sul fiume Po, abitano “cento anime (…) mal contate, cinquanta qui a sud, e altrettante sull’altra riva”, che vivono in case di pietra e paglia. Su di loro, dall’unica collina alta della zona, incombe il castello del signor Cosimo Casadio, il proprietario di tutte le terre dei paraggi e delle barche che solcano il fiume passando “così lente sotto il pontescuro”. Casadio è vedovo e ha tre figli: Giacomo, il primogenito, è una camicia nera di Mussolini ed è “uno dei trentamila puntini neri che stanno marciando su Roma”; Giovanni, il secondogenito, è sulle barricate sul fronte opposto, contro i fascisti; Gabriele, il terzogenito, è un sognatore che ancora non ha trovato né moglie né lavoro e ama disegnare fiori e insetti; Dafne, ultimogenita e unica femmina, da quando ha sedici anni scende in paese e si concede a tutti gli uomini del circondario, per noia, per amarezza, per rappresaglia nei confronti del padre e dei fratelli. Il vecchio parroco di Pontescuro, don Andreino, è stato pizzicato in atteggiamenti poco sacri e assai profani con la domestica Nella e quindi da Roma – preoccupati per le anime del paesino piemontese – hanno mandato un giovane prete padovano, don Antonio, per affrontare l’emergenza Dafne Casadio, “per redimere una sgualdrina, per toglierle i poteri, ché tutti laggiù vociferavano che quella era una strega e aveva rubato il senno ai mariti”…

Il prolificissimo poeta e scrittore torinese Luca Ragagnin (più di trenta libri pubblicati, qui tutti minuziosamente elencati in appendice) ci regala un piccolo gioiello, peraltro proposto al Premio Strega 2019 da Alessandro Barbero. Una fola contadina che ricorda il Pupi Avati più felice, con un tocco di realismo magico e un certo non so che di medievale nonostante sia ambientata nel 1922, l’anno della marcia su Roma e in un contesto ambientale che potrebbe addirittura richiamare Novecento di Bernardo Bertolucci. Sarà che la ragazza assassinata che è al centro della vicenda, la tormentata figlia del latifondista Casadio (nomen omen?) che ha deciso di mettere a ferro e fuoco il paesino di Pontescuro armata solo della sua sessualità rapace, è in un certo senso una “strega”, sarà che il ponte di pietra che dà il nome alla località è legato a leggende inquietanti, ma comunque l’atmosfera è più da Italian Gothic che da neorealismo o peggio ancora noir. Gli stilizzati, sghembi disegni dello scrittore Enrico Remmert, concittadino di Ragagnin, suo vecchio amico e spesso coautore, aumentano il senso di straniamento del lettore e contribuiscono a donare alla lettura un fascino arcano e potente. Il linguaggio è raffinato, immaginifico ma asciutto, fa ricorso sovente a onomatopee o a simbolismi. Non a caso Ragagnin è anche paroliere musicale, e non a caso dal romanzo il gruppo Totò Zingaro ha realizzato un suggestivo albumintitolato 1922 che merita un ascolto attento.

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QUANDO I PADRI CAMMINAVANO NEL VUOTO – recensione di Erminio Fischetti su Mangialibri

QUANDO I PADRI CAMMINAVANO NEL VUOTO – recensione di Erminio Fischetti su Mangialibri

QUANDO I PADRI CAMMINAVANO NEL VUOTO

Nello studio, oltre, con ogni evidenza, alla laurea, risalta un’istantanea. Una foto in formato gigante, quasi a grandezza naturale, che lo ritrae giovane in divisa, per la precisione una di quelle da allievo ufficiale, in atteggiamento forzatamente militaresco, con tanto di stivali e spada. Spiccano gli occhi rotondi e le labbra carnose, marcate da punti angolosi decisi. Gli occhi del bambino che osserva l’immagine però si focalizzano su un oggetto intruso in quello studio di posa, che ha lo sfondo di una tela dipinta: un libriccino. Piccolo, quasi invisibile, spunta appena da dietro il tacco dello stivale, gettato in apparenza frettolosamente sul tappeto, forse scalciato verso il retro, per nasconderlo alla vista. Da bambino, quando guarda quella foto, il narratore sogna, o forse vede davvero, chissà che non sia così, la figura staccarsi dal fondo e avanzare verso di lui, a velocità impercettibile, come quella alla quale si muovono le lancette delle ore…

Il tempo del secondo dopoguerra è la mitologia dei tempi più recenti, un po’ come è stato il Risorgimento per diverse generazioni tempo addietro: è come se l’epoca del boom fosse ammantata di una sorta di aura di felicità, come se improvvisamente l’Italia fosse divenuta la terra promessa dove scorrevano latte e miele. Certo, i progressi, in ogni campo, dalle infrastrutture alla società, sono innegabili, e davvero per non trovare lavoro bisognava non aver voglia di farlo, ma gli avanzamenti sono pure minori di quanto avrebbero potuto essere, e se sono apparsi così sfavillanti è anche perché si partiva da una situazione di grande arretratezza, oltre che di orrore dittatoriale e bellico: gli anni Sessanta del Novecento, dunque, non sono quasi mai raccontati con toni meno che iperbolici ed entusiastici. Curti, classe ’43, torinese, laureato in fisica, docente di matematica, autore di poesie, racconti, gialli, testi drammaturgici, direttore di festival, teatri e compagnie, porta invece con mano sicura il lettore, per così dire, a visitare la faccia nascosta della luna, descrivendo lo smarrimento della generazione che ha fatto la guerra – in piena sintonia col tema primonovecentesco dell’alienazione dell’uomo moderno – rappresentata da un latinista di provincia piuttosto sfortunato e al tempo stesso lo sguardo dei figli, che non solo cominciano a vivere i primi palpiti del cuore, ma sempre più cercano la propria strada lontano dal solco tracciato da chi li ha preceduti.

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MAZZARRONA – recensione di Fabio Dell’Armi su Mangialibri

MAZZARRONA – recensione di Fabio Dell’Armi su Mangialibri

MAZZARRONA

AUTORE: Veronica Tomassini

GENERE: Romanzo

EDITORE: Miraggi 2019

ARTICOLO DI: Fabio Dell’Armi

 

“Romina fumava il fumo delle case gialle, che era sempre buono, diceva. Smetteva. Poi riprendeva a fumare. Le promesse non si mantengono. Non a Mazzarrona”. Mazzarrona è un quartiere alla periferia di Siracusa fatto di case popolari, condomini miseri di panni stesi al sole, le case dei Mao Mao e un sentiero irto di cardi, graffi per i polpacci, verso un mare negato che serve solo a fissare un punto lontano. Le baracche con il tetto di eternit dove ci si buca, le fabbriche in lontananza ed una ferrovia che inquieta. Un’Apecar abbandonata, copertoni e una collina di lamiere. Ad attraversarlo c’è una ragazza ed è lei, ormai donna, a raccontare i pomeriggi con Romina, che dell’adulta ha la concretezza e la disillusione amara. E i giorni di scuola persi aspettando Massimo: “Massimo, quando mi amerai?”. Massimo, pallido e gentile che ha un’altra amante che lo divora. La ragazza lo accompagna al Sert o alle case gialle dove si spaccia, oppure alle baracche dove la spada entra in vena e Massimo torna all’abbandono dei suoi sonni apatici. Nei giorni perduti di Mazzarrona la ragazza è in compagnia costante di un senso di inadeguatezza e la disperata rivendicazione di un’assenza indecifrabile. Romina smette di studiare presto per andare a lavorare, lei invece ha il suo liceo, le sue letture adulte e le compagne alla moda dalle quali si tiene in disparte. Ma poi torna sempre a Mazzarrona dove il cielo non è mai azzurro ma solo accecante biancore. È azzurro solo alcune mattine di gennaio, il mese più crudele. “Massimo, quando mi amerai?”…

“Sedevo all’ombra del sicomoro, guardavo il mare. Guardare un punto lontano laggiù verso la fine del mondo sbagliato era la mia giovinezza”. Procedendo con abili manovre cronologiche, alternando marcia avanti e motori indietro, Veronica Tomassini muove l’imponente nave del racconto tra adolescenza e giovinezza come solo un Capitano esperto sa fare. E da Capitano navigato sa benissimo che di parole non ne servono molte: servono solo quelle giuste. E l’autrice le trova tutte, sempre. È per questo che in ogni pagina la narrazione risulta autentica e intensa, arrivando a passi di grande letteratura pervasa di poesia. Senza neanche un fronzolo. Nella lettura riesce a regalarci gli occhi sofferenti della protagonista aiutandoci con le suggestioni di una mente acuta che sa osservare le cose ed un cuore che sa patire. Sapendo, ormai donna, che l’esperienza è quello che rimane quando s’è perso tutto il resto. “Ero ridicola, rivendicavo attenzione, calpestavo gramigna, in un cimitero di eroinomani”. No. La protagonista non è mai ridicola eppure sa trasmetterci quel senso di incertezza e goffaggine che pervade chi ama e rivendica qualcosa che sfugge. Una storia minima come ce ne sono tante in una Mazzarrona come ce ne sono mille diventa un racconto che è difficile non amare profondamente. Bellissimo.

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ROMA di Nicola Manuppelli – recensione di Fabio Dell’Armi su Mangialibri

ROMA di Nicola Manuppelli – recensione di Fabio Dell’Armi su Mangialibri

Roma

 

Tommaso ha vent’anni quando arriva a Roma, nell’estate del’70. Viene da una modesta famiglia di impiegati milanesi e il trasferire storie è sempre stato il suo gioco preferito da quando il padre, un mite dattilografo, gli aveva insegnato la magia di trasformare la parola in immagine regalandogli una Olivetti con la quale il piccolo Tommaso si esercitava a scrivere facendosi raccontare storie dagli amici. Storie che impara ad aggiustare, calibrare, osservare, vivere, sentendosene al contempo estraneo e partecipe. Dopo un breve tirocinio al “Corriere della sera” si trasferisce a Roma dove ambirebbe ad una carriera di sceneggiatore a Cinecittà. Il suo primo impatto è col Pigneto, dove alloggia temporaneamente presso conoscenti in un tumulto di umanità variegata che lo travolge. A guidarlo nei meandri del tumulto e della città sarà il nipote della padrona di casa Emanuele che, durante un delirante banchetto a Trastevere lo introduce alla corte di Satchmo, misterioso personaggio che gravita attorno al mondo del cinema costruendo e vendendo gossip dei quali Tommaso diventerà redattore. Entra così in un turbine di stravaganze e miserie popolate da intellettuali, attori famosi, artisti o sedicenti tali, protagonisti e testimoni di fatti veri o presunti, tutti con storie più o meno probabili. Ognuno con una storia da raccontare. E poi c’è Judy, aspirante attrice di vent’anni come lui, entrambi sul limitare tra l’essere spettatori e protagonisti della vita…

 

 

Invitante la copertina di Marco Petrella, impegnativo il titolo, immane la voglia di Nicola Manuppelli di mettere nel libro il più possibile. Impresa ardua. Ci riesce con la semplicità apparente con cui Pirlo calcia una punizione o Paco de Lucia ti sorprende con un passaggio musicale. Nell’impossibilità di menzionare tutti i pregi del romanzo basta dire che è un racconto che trasuda il sentire della narrazione con l’evidenza che si è narratori efficaci quando si è a propria volta osservatori, lettori e spettatori partecipi. Negli innumerevoli riferimenti cinematografici nessun nome, anche se citato di sfuggita, è casuale. Il Walter Chiari incontrato da Tommaso ce l’hai davanti ed è quello de “Il giovedì”, capolavoro seminascosto della cinematografia italiana. Il padre di Tommaso è una figura che in molti altri romanzi sarebbe stata relegata a quella di grigio e mediocre piccolo borghese, invece no. Il padre è privo di ambizioni per il semplice fatto di essere un uomo in cui è assente il conflitto e sembra guardato da un Maigret che sa che in fondo “ognuno fa quel che può”. In epigrafe troviamo “Il romanzo è una mescolanza di frottole e realtà, anche la vita”. E qui siamo in un romanzo pieno di storie in cui l’autore manipola i fatti come farebbe un regista, finendo per raccontare molto di sé. Così una storia diventa veramente la storia di chi la racconta. Si potrebbe affermare con ragionevole certezza che in quel Prenestino “ndo ce stanno solo li servaggi” dei primi anni ’70, Manuppelli che è nato nel ’77 ed è milanese, ci sia stato.

 

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LA CONFUSIONE NON È MAI STATA COSÌ BELLA recensione di Mariangela Taccogna su Mangialibri

LA CONFUSIONE NON È MAI STATA COSÌ BELLA recensione di Mariangela Taccogna su Mangialibri

Davanti al mare crollano le barriere e si apre lo scrigno delle emozioni. Tra il desiderio di essere trascinati via dall’amore e la realtà, restano le domande e la nostalgia. Nostalgia di un amore intenso fatto di piccoli gesti, di quotidianità. A nulla serve cancellare ogni traccia se nella mente indelebili restano i ricordi. Fuggire via ma insieme, godersi il mare, i baci e gli abbracci, le risate e gli sguardi. Passeggiare mano nella mano, dormire teneramente vicini e struggersi dal desiderio. Nottate ad occhi spalancati e cuore ferito, pensare e ripensare a chi è lontano ma non smette di essere lì, nello stesso letto che odora ancora d’amore. Un amore che non è mai abbastanza, una fame di baci che non saziano, un desiderio di ‘per sempre’ che ritorna prepotente ad ogni sguardo. L’amore è tutto ciò che serve, è il luogo dove far riposare il cuore dalle scorribande della giovinezza, è il sogno che si avvera, è un corpo da esplorare. Ma anche vuoto da colmare, dolore che non permette di reagire, attendere e sperare in un ritorno. Ritrovarsi a cercare ancora lei e illudersi di trovarla in una bottiglia di Jack Daniels o nelle braccia di un’altra. Fermare il tempo nel ricordo dell’ultimo bacio fino a smettere di aspettare…

Quattro capitoli (Il mare, Io e te, Il cuore spezzato e Il tramonto) per dipingere, attraverso più di cinquanta poesie, una storia d’amore contemporanea, fresca e giovane come i protagonisti. Stefano Colucci, classe 1995, rappresenta certamente la “generazione 2.0” e racconta, con una scrittura liquida e veloce (espressione di una instancabile frequentazione di numerosi social network), l’amore attraverso gesti, luoghi ed oggetti anche banali: le sigarette, le felpe oversize, il Mc Donald’s. Un autore giovane e molto ‘social’, un linguaggio schietto e concreto, un tema evergreen, una pioggia di ‘like’ sui social che precede la pubblicazione e la raccolta di poesie è presto fatta. Successo garantito tra i giovani lettori che possono rispecchiarsi in un linguaggio fatto di brevi, lapidarie frasi (lo stesso che sperimentano quotidianamente fuori e dentro i social network) e di uno stile con interessanti potenzialità ma che risulta ancora acerbo. Esattamente come la generazione che rappresenta. Istantanee di una quotidianità che chiede di andare oltre e di sperimentare sentimenti ed emozioni che non hanno tempo. La raccolta si conclude con un monito che diventa quasi uno slogan, un consiglio, una speranza: “Innamorati di tutto”. Più che una dichiarazione d’amore, una dichiarazione all’amore.

La confusione non è mai stata così bella

LA REALTÀ PURA – recensione di Raffaella Romano su Mangialibri

LA REALTÀ PURA – recensione di Raffaella Romano su Mangialibri

AUTORE: RICCARDO DE GENNARO
GENERE: ROMANZO
EDITORE: MIRAGGI
ARTICOLO DI: RAFFAELLA ROMANO

Carlo Gozzini riflette sulla sua relazione con la bella e provocante Blandine: se ne rende conto, è un cumulo di macerie. Hanno trascorso insieme cinque anni, tra pochi alti e molti bassi, hanno costruito qualcosa solo per poi distruggerlo, hanno corso insieme, a perdifiato, solo per ritrovarsi improvvisamente e inevitabilmente al punto di partenza. Alla fine, soli. E infelici: lei sicuramente dato che si trova in cura presso una clinica psichiatrica. Lui non la può vedere, ma se la immagina camminare tra le altre pazienti afflitta e incompresa, senza mai rivolgere la parola ad alcuno, mantenendo quella freddezza da attrice consumata che tanto ha amato Carlo. A lui non va certo meglio. Non fa che pensare a Blandine, alla sua bellezza e a quanto gli manca, ai momenti passati insieme; in più, anche lui è controllato. Non da medici ed infermieri come la sua amata, ma da un Uomo che da qualche tempo lo sta pedinando. L’Uomo indossa una giacca di pelle nera, occhiali con la montatura argentata, una berretta di lana ficcata in testa, spesso ha un giornale sotto il braccio. Non fa molto per nascondersi, e Carlo lo spia a sua volta, dalla finestra di casa; crede che la base dell’Uomo e della organizzazione di cui fa parte sia proprio quell’edificio di fronte alla sua abitazione…

Annoso problema quello della realtà. Esiste una realtà oggettiva e veritiera, indipendente dal soggetto che la osserva oppure esistono tante realtà quante sono i soggetti pensanti? Ed è la mente che crea quanto ci sta intorno, la cultura da cui proveniamo, le nostre esperienze oppure dovremmo, al contrario -o proprio per questo- affidarci ai nostri sensi e alle nostre percezioni, le uniche che possono svelarci ciò che siamo e cosa stiamo vivendo? Se cominciamo a riflettere su cosa sia La realtà pura , entriamo in un vortice di pensieri dal quale difficilmente usciremo con la soluzione in tasca. La stessa sensazione estraniante e di appannamento la si prova leggendo questo romanzo di De Gennaro – fondatore e direttore della rivista trimestrale “il Reportage” – non a caso presente nella sezione Scafiblù di Miraggi (collana dedicata a romanzi italiani disobbedienti e controcorrente). E non è la scrittura a creare questo senso di annebbiamento, che al contrario è essenziale, pulita, diretta, ma i significati sottesi alla trama, anch’essa semplice ma impregnata di significati a diversi livelli di interpretazione. Il romanzo ha un finale ad effetto, piano piano si capisce quanto siamo artefici della nostra felicità e nello stesso tempo avversari di noi stessi, protagonisti e antagonisti del romanzo della nostra vita.

Qui l’articolo originale: http://www.mangialibri.com/libri/la-realtà-pura

“Amor” il nuovo romanzo caleidoscopico di Eva Clesis – di Mariangela Taccogna su mangialibri.com

“Amor” il nuovo romanzo caleidoscopico di Eva Clesis – di Mariangela Taccogna su mangialibri.com

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Lucia si definisce “una delle persone più sole sulla faccia della Terra”. Lavora come traduttrice per diverse case editrici ma un brutto incidente d’auto le ha lasciato una antipatica zoppia e quella strana sensazione di bastare a sé e di non volersi far coinvolgere dal mondo. Ancor più da quando suo marito è andato via, sostituendola con un’altra donna. Carlo è stato ‒ per una parentesi di tre anni ‒ l’uomo della sua vita, la sua famiglia, il suo grande amore. Ora davvero non le rimane più nulla. La monotonia delle sue giornate è interrotta da numerose telefonate di sconosciuti che a causa del suo numero di telefono chiamano lei erroneamente. L’ultima telefonata è di un tale Francesco, ex carabiniere appassionato di caccia, ossessivo e geloso tanto da confessare di aver ammazzato la sua compagna. Fingendosi Marta, ex dello sconosciuto, Lucia rimprovera a lui tutto quello che avrebbe voluto rimproverare al suo Carlo. Ma la curiosità, si sa, è femmina e il desiderio di saperne di più porta Lucia ad avviare una ricerca ai limiti del pericolo su questo misterioso interlocutore. Sarà davvero un assassino? Riuscirà a trovarlo o sarà lui a trovare inaspettatamente lei? E intanto, ha tra le mani i documenti da firmare per il divorzio. Chiudere un capitolo della propria vita non è affatto semplice ma può voler dire ripartire e ricominciare, a dispetto di tutto e di tutti…

Lucia non sopporta le cose fuori posto, la mancanza di pulizia e di ordine, le cose lasciate a metà. Eppure Amor è un sussurro interrotto, è la cesura a ciò che sarebbe stato e non potrà più essere, è l’ultima speranza tranciata di netto: Lucia interrompe Carlo proprio quando sta per chiamarla “amore”, per chiudere definitivamente con il passato. Ma passato e presente, in questo caleidoscopico romanzo di Eva Clesis, pseudonimo di una quarantenne scrittrice barese, sembrano mescolarsi, rincorrersi, in un gioco di specchi che tiene alta la tensione, soprattutto emotiva. Il flusso di pensieri della protagonista è interrotto da eventi che Lucia sembra subire, fino a che si risveglierà dal suo torpore esistenziale per riprendere le redini della sua vita. Con uno stile frizzante e fluido, il lungo monologo della protagonista tiene legati alle pagine, fino all’ultima parola. Eppure al lettore resta un dubbio: il mondo della protagonista, ciò che racconta, è reale o è solo frutto della sua mente? Un mondo interiore raccontato come se fosse vero, tanto da far pensare a tratti autobiografici perché, come la stessa Lucia ammette “Chi scrive deve sempre partire da qualcosa che sa per arrivare a descrivere quel che non sa”. E che non sa dove porterà.

Qui l’articolo originale: http://www.mangialibri.com/libri/amor

“Quasi tutti”: la recensione di Renzo Brollo su mangialibri.com

“Quasi tutti”: la recensione di Renzo Brollo su mangialibri.com

di Renzo Brollo

“Le ragazze stan sedute/ I ragazzi le osservano in piedi/ Attaccano bottone” oppure “Una volta lo facevamo/ Allora lo tengo io?/ Sì sì tienilo tu/ Pronto?/ Una cosa storica sull’Italia/ Della lavanda/ Mi manda l’email dopo, ha detto” oppure ancora “Bruciata a bruciapelo/ Ce l’aveva adesso in mano/ Ognuno ha le proprie/ Quanto?”. E infine: “È molto facile contrarre la malattia e l’opposizione deve essere pronta fin delle prime ore del mattino. Non è semplice opporsi ma è il livello minimo e anche massimo di soluzione nota. Anche se in realtà, almeno fino a oggi, non ha quasi mai veramente rappresentato una soluzione”. La tensostruttura di quest’opera vive nella temporaneità della posizione nella quale i materiali sono mantenuti. Guardandola dal basso uno si può chiedere come diamine si regga in piedi. Ma ecco ci viene in auto la citazione iniziale: “non sentirti in imbarazzo, puoi leggere in tutti gli ordini / come? / indicazioni preziose / come?” La risposta era già nella prima frase. Porsi ulteriori domande o meravigliarsi non ci porterà beneficio. Prestando l’orecchio alla rete-realtà, o alla reale realtà, come una grattugia con il formaggio, ecco che cosa cade dentro al piatto. Frammenti di un tutto e non briciole, che sono gli avanzi. Hanno forse una propria vita e una propria dignità, questi frammenti? Sono tessere di un puzzle in grado di sopravvivere se staccate dal resto del gregge? Ed è come se prendessi tutte le tessere di questo puzzle e le disponessi a casaccio sopra un grande tavolo. La figura intera c’è, è tutta lì, solo che ancora non si comprende e non si vede e, forse, non si vedrà mai del tutto, eclissata dall’incapacità della mano o dalla volontà di completarla o meno, semmai un puzzle disposto in tale modo completo non lo sia già…

Di cosa stiamo parlando? Di un tipo di ricerca poetica sviluppatasi dopo gli anni Novanta in un contesto che succede alla tradizione delle avanguardie storiche e nel quale i nuovi autori, in pratica, si trovano in un ambiente editoriale vuoto che essi stessi intendono riempire. Flarf poetry, googlism, minimalist concrete poetry, cut up e cose così. Metto subito le mani avanti: non conoscevo l’argomento, la tecnica, il dietro le quinte, ho cercato di saperne di più. Sono cioè un lettore popolare al quale questo volumetto è capitato tra le mani. Perché è questo quello che accade ai libri. Vengono presi in mano. Da chi? Da lettori senza pregiudizi e così devono fare anche i libri nei confronti di chi li legge: essere senza pregiudizi. Farsi cioè leggere da chiunque. Logico, direte voi. Non è così semplice. Tornando a noi, Marco Giovenale in questo mondo di ricerca poetica è uno degli esponenti più noti, facente parte del gruppo GAMM, attivo dal 2006 assieme ad Alessandro Broggi, Gherardo Bortolotti, Massimo Sannelli e Michele Zaffarano. Ma tornando alla domanda iniziale: di cosa stiamo parlando? Di una ricerca poetica che rinuncia al lirismo, smembra i testi (nella postfazione di Paolo Zublena la si paragona a una ventata fredda come l’asetticità di un’operazione chirurgica) trasformandoli in frasi volanti che prendono quasi la forma di spezzoni di conversazioni captate in mezzo alla gente. L’autore rifiuta uno stile qualsiasi, una struttura qualsiasi, allo scopo di ottenere un componimento non assertivo e una poesia no-logo, mi verrebbe da dire, a cominciare dalle maiuscole che non esistono più. Un approccio “caviardage” del poeta nel cosmo delle parole possibili, non ancora scritte e fluttuanti. Almeno questa è la sensazione del vostro lettore popolare.

Leggi la recensione di Marco Brollo anche qui
http://www.mangialibri.com/poesia/quasi-tutti?fbclid=IwAR3kfkT4MO6VGu6fidH1X7kkK1LdM3IIw7uE4nuK68dH27NS1YdjzJlt9Sc