Il clima è cupo, nella Francia appena liberata dalle forze alleate. Perché sono brucianti le scorie, non solo materiali, del conflitto ancora in corso. Il momento di fare i conti con quello che è accaduto è, infatti, arrivato. E tanti francesi non hanno la coscienza limpida. Così, in un campo di prigionia controllato dagli Alleati, esattamente nel 1944, si raduna un’umanità eterogenea di diseredati, relitti, prigionieri politici. Costretti ad una coesistenza forzata, in cui il caso può fare incrociare destini inconciliabili. Accade così che si incontrano due vecchi compagni d’infanzia, approdati per vie traverse alla medesima scelta politica. Il primo, François, ex comunista poi diventato collaborazionista dei nazisti al tempo della repubblica di Vichy; il secondo, Antoine, vecchio vicino di casa e fascista convinto. L’incontro innesca nel primo un flusso inarrestabile di ricordi, partendo proprio dall’infanzia, vissuta in un piccolo borgo francese. Qui matura le prime esperienze, passa dal cattolicesimo al comunismo, vive la lacerante condizione di orfano di guerra. E poi arriva Vichy…
Francesca Veltri dipana la trama del racconto lungo un arco spazio-temporale ampio. Lo fa concedendo lo spazio maggiore alla rievocazione memorialistica, condotta in prima persona dal protagonista-narratore. Lo sfondo è quello degli anni tumultuosi che vanno dal primo conflitto mondiale, vissuto in Francia in un’atmosfera di acceso patriottismo, fino all’occupazione nazista e all’arrivo degli alleati. Ciò che più conta è che il protagonista vive il suo processo di formazione in maniera intensa, facendo comunque delle scelte controcorrente. Così è quando abbraccia il verbo pacifista negli anni della Grande Guerra, e così è quando diventa comunista, prima, filonazista dopo. E perciò si stacca, talvolta in modo sinistro, dalla massa grigia degli ignavi, che preferiscono defilarsi. Rinunciare, cioè, a partecipare ai grandi rivolgimenti storici, restando così nell’ombra. Una scelta, questa, di viltà, che il protagonista rifiuta recisamente. La sua fisionomia caratteriale risulta quindi minutamente analizzata, ma sempre inerendola nel flusso degli eventi del suo tempo.
Hana è rientrata da poco a Praga, dopo aver vissuto alcuni anni in Germania. Alla madre e alla sorella ha detto di aver trovato un lavoro in banca e una casa che sta finendo di sistemare, per questo è ancora ospite dall’amica Jana. In realtà Hana ha mentito a tutti: non ha un posto dove andare, non ha un lavoro, è sola e non ha più nemmeno il denaro per mantenersi. La sorella, ignara di tutto, distrattamente le dice di doversi disfare di un armadio: Hana si offre di farlo portare da Jana. Trasportato l’armadio in strada insieme al cognato Standa, Hana rimane sul marciapiede con quel mobile ingombrante, non sapendo bene cosa farne. Ad un certo punto, con l’aiuto di un passante, porta l’armadio in un cortile all’interno di un condominio vicino a quello della sorella. Non avendo un alloggio e non volendo pesare ulteriormente sulla sorella e sull’amica, la ragazza prende una decisione assolutamente stravagante: decide di passare le notti dentro l’armadio, mentre trascorre il giorno girovagando. Comincia per lei una vita quasi da clochard, sfruttando l’aiuto di qualche negoziante e riducendo al minimo il rapporto con i familiari: nel suo passeggiare senza meta, Hana è immersa nei suoi pensieri, rivivendo frammenti di vita che l’hanno portata a sentirsi sempre più isolata dal mondo e incapace di chiedere aiuto a chi la ama. Tra questi ricordi piano piano si svela un trauma, l’evento misterioso che l’ha spinta dopo tanto tempo a tornare a casa…
Tereza Semotamová (1983) ha studiato a Praga e a Brno, conseguendo la laurea in sceneggiatura, drammaturgia e germanistica. È traduttrice dal tedesco, giornalista e autrice di radiogrammi e trasmissioni letterarie. Nell’armadio è il suo primo libro tradotto in italiano. Un romanzo non particolarmente ricco di eventi, perché in realtà ciò che viene raccontato è il percorso interiore vissuto dalla protagonista, alla ricerca sì di un luogo fisico, ma soprattutto di un posto psicologico-esistenziale in cui trovare rifugio. È la stessa Hana che ci svela il senso della sua vicenda quando afferma che “tutti dovremmo avere il diritto di chiuderci dentro un armadio, ogni tanto”. La strana storia della ragazza nell’armadio diventa pertanto la metafora di un profondo sentimento di inadeguatezza: Hana si sente assolutamente estranea al mondo che la circonda, anche se abitato da persone che la amano, come la madre, la sorella e l’amica che continuano a interessarsi a lei. Hana si isola sempre di più perché non trova uno “spazio” dove la sua esistenza abbia un senso e questa ricerca continua e logorante la fa chiudere sempre più in sé stessa, come un oggetto in un armadio, fino a quando il dolore profondo che la accompagna la convince ad accettare l’aiuto di cui ha bisogno. L’originalità dello spunto iniziale, il rifugio rappresentato dall’armadio, richiama da lontano la genialità di alcune situazioni dei racconti di Kafka, anch’egli ceco. Il romanzo poi è intessuto di molteplici riferimenti colti, ben resi in traduzione, anche se difficili da apprezzare nella loro valenza culturale, essendo legati alla lingua e alla letteratura ceche.
Futuro prossimo. Fabbrica Rossum’s Universal Robots. È giorno di presentazioni, si annunciano nuove invenzioni rivoluzionarie. Il direttore Domin domanda e si domanda: “Qual è, secondo voi, l’operaio migliore? Quello affidabile? Onesto? Niente affatto. Il più economico. Quello con minori bisogni. Il robot”. E cosa sono questi nuovi “robot”? Sono uomini senz’anima: uomini artificiali, meccanicamente perfetti. L’uomo è un “prodotto imperfetto”, forse perché Dio non era tecnologicamente così evoluto; i robot, invece, hanno un altro equilibrio. Sono parecchio più performanti. Stacco. Cocktail post presentazione. Ordini già in arrivo da mezza Europa. Helena Glory si presenta al direttore, con un biglietto di suo padre, il presidente Glory. Vorrebbe tanto poter vedere (in via eccezionale, si capisce) le segrete stanze della fabbrica. È figlia di un presidente: può entrare. Il direttore Domin promette che le mostrerà tutto: ecco le vasche (ciascuna contiene materiale per mille robot), ecco la storia della scoperta. Nel 1920, diverso tempo prima, il vecchio Rossum era sbarcato su quest’isola per studiare la fauna marina; voleva riprodurre, tramite sintesi chimica, la materia vivente detta protoplasma, finché non aveva scoperto un’altra sostanza che si comportava proprio come la materia vivente ma aveva una diversa composizione chimica. Ciò succedeva circa 12 anni più tardi, nel 1932. Quella scoperta era, concretamente e tecnicamente, un grumo di gelatina apparentemente senza senso. Rossum poteva, a quel punto, dare vita a qualunque genere di creatura, con quel grumo: aveva invece deciso di ricreare l’uomo. “Ma voi li fate davvero gli uomini?”, domanda lady Glory. “Più o meno”. Il vecchio Rossum era ateo, era materialista: pensava di poter spodestare Dio e ricreare ex novo un uomo, fino all’ultima ghiandola. Poi era arrivato suo nipote e gli aveva detto che era ridicolo impiegare addirittura dieci anni per replicare un uomo, serviva essere più veloci di madre natura. Quel giovane rappresentava la nuova epoca, davvero! Aveva capito che un bravo ingegnere poteva migliorare l’essere umano, perfezionandolo qua e là; cavando via qualche ghiandola, l’appendice, le tonsille, tutta una serie di cose inutili. Tipo i sentimenti, per capirci. “L’uomo ha bisogno di fare tante cose inutili”, spiega il direttore. “Fare passeggiate, suonare il violino, provare gioia. Sono cose inutili quando c’è da fare calcoli, tessere stoffe, lavorare…Vede, a un motore non servono ornamenti. E produrre robot è come produrre motori”. E così, il giovane Rossum aveva buttato via l’uomo per creare un uomo nuovo, chiamato robot: un operaio prodigioso dalla memoria eccezionale. Oppure una cameriera, una commessa, una dattilografa. Indifferente che fosse maschio o femmina. Il robot non aveva comunque passione e non aveva sentimento. “I robot sono più perfetti della natura ma non possono inventare niente di nuovo. Potrebbero benissimo insegnare all’Università”. Ogni giorno vengono prodotti quindicimila nuovi robot. I più longevi durano anche vent’anni. Poi si deteriorano e vanno rottamati come si deve. Non serve farsi scrupolo: non sono attaccati alla vita, non ne hanno motivo. Non provano più emozioni. Non vengono dotati di anima perché non è nell’interesse della fabbrica. Costerebbe troppo a livello di produzione…
1920. Nella distopia R.U.R. Rossum’s Universal Robots, opera di Karel Čapek, viene coniato il termine “robot”: viene dalla parola ceca “robota”, diventerà qualcosa di estremamente comune. L’invenzione della parola “robot” si deve al fratello di Čapek, Josef, pittore; Karel aveva pensato a un più didascalico “labor”. Questa la vulgata. 2020. Cento anni più tardi, Kateřina Čupová pubblica questa graphic novel, per la Argo di Praga. Secondo Luca Castelli del «Corriere della Sera», “di luce e colori abbondano le tavole della Čupová, che con l’autore dell’opera condivide la nazionalità, le iniziali e l’età in fase di creazione (è nata a Ostrava trent’anni fa). Il suo tratto elegante, gentile, quasi giocoso, discendente dalla tradizione dei cartoni animati dell’Est Europa, aiuta ad alleggerire una trama che spesso lambisce scenari cupi alla Metropolis di Fritz Lang (film che risentì parecchio dell’influenza di R.U.R.)”. A dar retta a Maurizio Di Fazio de «la Repubblica», si tratta di una “rivisitazione assolutamente originale ma rispettosa della pietra miliare. Il suo stile e la sua matita, rimandanti all’universo del cartone animato, affondano le radici in decenni di premiata animazione ceca”. Nella postfazione, il professor Alessandro Catalano puntualmente osserva che durante questi cento anni, a partire dall’invenzione di Čapek, “il robot, multiforme alter ego dell’uomo, sua copia infedele, spesso aggressiva, ha subito mutamenti sostanziali”: tanto che, paradossalmente, oggi è più famosa la parola “robot” che l’opera sua matrice, R.U.R. Rossum’s Universal Robots. “I robot hanno infatti da subito iniziato a vivere di vita propria, fino alla definitiva identificazione con l’essere artificiale antropomorfo di tipo meccanico, dominante a partire dalla fine degli anni Venti e infine istituzionalizzata da Isaac Asimov e dalle grandi saghe cinematografiche”. In R.U.R. Invece il robot è un essere umano “dalle ridotte esigenze e dalla maggiore efficienza lavorativa”. Cosa che, politicamente e simbolicamente, in genere, ha ben diverso peso e ben diversa consistenza. Direi che la distopia del notevole Karel Čapek (Malé Svatoňovice, 1890 – Praga, 1938) aveva parecchi elementi di visionaria critica ai totalitarismi figli del socialismo: i suoi “roboti” sembrano quei cittadini-sudditi cinesi della nostra epoca, estranei a qualunque forma di protesta e di ribellione, vuoti e obbedienti e quando serve aggressivi e famelici, come formichine. I robot di Čapek conosceranno una sorte differente da quella che avevano previsto i loro progettisti, in fabbrica: speriamo che sia così per gli “inconsapevoli automi” derivati e originati dai dispotismi asiatici e dai totalitarismi di nuova generazione. L’opera è stata pubblicata dalla Miraggi di Alessandro De Vito & c. nella nuova e promettentissima collana MiraggInk, con il contributo del Ministero della Repubblica Ceca. Siamo dalle parti di quei fumetti che scintilleranno di grazia e di intelligenza per diverse generazioni, nelle vostre biblioteche. Compratelo e fatelo leggere ai vostri bambini e ai vostri ragazzi, spiegate loro che i totalitarismi non sono un gioco e che l’anima e i sentimenti sono tutto quel che abbiamo. Chiudiamo con qualche cenno biobibliografico. Karel Čapek, giornalista, drammaturgo e narratore, è stato uno dei maggiori scrittori cechi del Novecento. Nelle sue opere antesignane e visionarie ha trattato temi delicati e oggi decisivi come l’intelligenza artificiale, le epidemie, l’energia atomica. Kateřina Čupová da Ostrava, Cechia, classe 1992, animatrice e fumettista, si è laureata presso il prestigioso Dipartimento di Animazione all’Università Tomáš Baťa di Zlín. A dar retta agli amici della Miraggi, “il suo stile accattivante e simile a un cartone animato è fermamente radicato in decenni di apprezzata animazione ceca”. Vediamo di apprezzarla a dovere anche quaggiù in Italia!
Eda è ad una festa di cinquecento persone quando d’un tratto si sente chiamare. Un uomo è caduto giù dalle scale ed è morto. Da uno squarcio invisibile del suo corpo sta sgorgando del sangue che si sparge sul parquet. Alcuni invitati non si sono accorti di nulla e continuano a ballare il valzer ma, all’arrivo del medico, si accalcano tutti intorno all’uomo. Era un venditore che proveniva dalla Moravia del Nord e aveva alzato un po’ troppo il gomito. Bisognerà avvisare la moglie prima che la notizia faccia il giro dei giornali e la responsabile della comunicazione decide che sarà proprio Eda ad andare a comunicarglielo. Lui prova a immaginare come reagirà la donna alla notizia e gli torna in mente l’altra volta che ha dovuto portare la notizia della morte di Eliska a sua madre… Nina è tornata nella sua casa d’infanzia per il funerale della mamma. Il signor Antos del piano di sopra suona ancora come quindici anni prima il suo clarinetto. Nina pensa che qualcuno dovrebbe dirglielo che non ha fatto progressi e che la solita routine (tre composizioni, rimozione dell’ancia, pulizia del clarinetto, tossetta e cena) è sempre più insopportabile. Gli armadi sono stracolmi di vestiti che come i copriletti, le lenzuola e le tende sono coperti di larve di tarma. Fa un gran freddo, c’è odore di chiuso e di piscio di gatto e prima di buttare via ogni cosa lei si fa prendere dai ricordi in quella casa con i genitori e la sorella Eliska, con la quale è sempre stata in competizione. In mezzo a loro tante figure ma due di loro, Eliska e il padre di Eda, decisamente disturbanti…
La vicenda si svolge nell’arco di 24 ore. Due persone – Eda e Nina – alternano la loro voce ad ogni paragrafo. Lui è messaggero di brutte notizie, lei deve mettere ordine in un’eredità. Sono uniti nel passato da memorie di esperienze condivise che però ognuno interpreta a modo suo. Un racconto che diventa il mezzo per scendere nel loro personale inferno, l’inferno dei segreti di famiglia che porta con sé la perdita dell’innocenza, nella vita di chi è cresciuto alla fine del regime cecoslovacco. Un’intersezione di voci su una struttura narrativa che si regge in equilibro perfetto. Libro d’esordio di Bianca Bellová, ma sua terza opera uscita in Italia, Romanzo senti/mentale rivela già l’impronta di una delle voci più interessanti del panorama letterario ceco. Nel romanzo si scoprono i temi cari alla scrittrice: infanzia perduta, condizione femminile, legami familiari, solo per citarne alcuni che sono tenuti insieme dalla sua scrittura con una maestria ben riconoscibile. Una voce potente in un gran bel racconto.
Praga, anni Venti. Il giovane ingegnere Prokop barcolla sul marciapiede della strada che costeggia il fiume Moldava. Ha i brividi e la schiena inzuppata di sudore, gli gira la testa, vorrebbe sedersi su una panchina ma ha paura di attirare l’attenzione di qualche poliziotto e quindi raccoglie le poche forze che ha e tira dritto. Si sente svenire, si accorge che un passante lo fissa con insistenza allora cerca di accelerare il passo ma vacilla, quasi cade a terra, è costretto a poggiarsi ad un albero e a chiudere gli occhi ansimando. Il passante lo raggiunge, a quanto pare lo conosce, dice di essere Jirka Tomeš, un suo collega del Politecnico. Si sente male? Può aiutarlo? Prokop accetta, è ferito: farfuglia qualcosa riguardo a un esplosivo sperimentale che ha battezzato “krakatite” in onore del vulcano Krakatoa, soltanto una piccolissima quantità di polvere ha distrutto la stanza dove si trovava Prokop, lo ha scaraventato a terra come un fuscello. Poi Prokop sviene. Tomeš lo raccoglie, lo fa salire su un calesse e lo porta a casa sua, dove gli dà un’aspirina, lo sveste e lo mette a letto. Prokop dorme e sogna. Sogna di incontrare Plinio in una fabbrica e di spiegare a lui il meccanismo d’azione della letale krakatite, poi di cadere, di fuggire, di rivelare la formula del nuovo esplosivo ai suoi colleghi accademici. Quando si sveglia, nota che Tomeš accanto a lui ha preso appunti: vuole rubargli la scoperta dunque? Dopo tanto lavoro, tanta sofferenza sarebbe un vero disastro… Crolla di nuovo in un sonno stavolta senza sogni. Si sveglia che si è fatto giorno, sono passate molte ore: si sente confuso, debole, ha un mal di testa lancinante. È solo in casa, Tomeš a quanto pare è uscito. Suonano alla porta, è una ragazza con il viso coperto da un velo. Prokop la fa entrare in casa, inebriato dal suo intenso profumo…
Finalmente pubblicato in italiano a quasi un secolo dall’uscita a puntate sul quotidiano “Lidové Noviny” nel 1923 (modalità narrativa che peraltro si rintraccia nella struttura un po’ frammentaria del romanzo), Krakatite è uno dei due grandi romanzi “pessimisti” di Karel Čapek assieme a La fabbrica dell’assoluto. In uno l’energia che tiene unita la materia viene sfruttata per causare esplosioni di potenza catastrofica, nell’altro per creare una divinità. In entrambi i casi però le conseguenze sono apocalittiche. Del resto Čapek, profondamente segnato dall’esperienza della Prima guerra mondiale – definita dagli storici il primo vero conflitto “tecnologico” della storia – era sinceramente preoccupato per le sorti del genere umano di fronte all’incalzare di una scienza solo raramente utilizzata per scopi pacifici (“A me la forza non piace, né quella bellica, né quella elettrica”, scrisse). Così, dopo il successo strepitoso delle pièces teatrali R.U.R. (nella quale viene coniato il termine “robot”) e L’affare Makropulos decise di regalare ai suoi lettori un inquietante, minaccioso apologo sulle armi di distruzione di massa che anticipa quasi profeticamente il tema dell’escalation nucleare. Ma non c’è solo questo in Krakatite. Come la quarta di copertina della bellissima edizione Miraggi vuole suggerire con la citazione riportata, c’è anche una metafora sociale nel romanzo, non solo un plot fantascientifico geniale: al mondo per Čapek “tutto è esplosione”, “tutto sfrigola come una compressa effervescente”, anche i pensieri e le emozioni, persino l’erotismo. Il rombo delle esplosioni è il suono della modernità, della frenetica cultura urbana che prende il posto di quella tradizionale contadina e travolge la vecchia morale. Nel 1948 il regista cecoslovacco Otakar Vávra girò una pellicola tratta dal romanzo che è passato alla storia per essere il primo film al mondo in cui è descritto un olocausto atomico.
“Rettangolo di muri di pietra / un quadrato di ferro il cancello / serrato dal cielo lontano, / in alto il filo spinato: / questo è il nostro giardino, questo il nostro campo”: così il poeta descrive, con la forza della poesia, la sua prigionia, che non è solo fisica ma interiore, metafora del corpo recluso ma anche della mancata libertà morale, di espressione, giacché il regime nazista era già al potere, e aveva iniziato a colpire gli intellettuali dissidenti. Altro riferimento agli avvenimenti che stavano formando la Storia di quel tempo: “…tu vorresti che questo mondo fosse più felice / che vi si possa discernere il bene / e non dover gridare di terrore…/”, un “tu” generico che prende tra le sue braccia tutti gli individui, un “tu” universale. Sembra esistano due velocità del tempo: “Il tempo si trascina sui miei giorni troppo lento, / così pesante che a terra li schiaccia…niente porta via e indugia/tempo troppo, troppo lento” quando si è rinchiusi in uno spazio circoscritto che rende angusto anche lo scorrere dei giorni mentre, potendo godere della libertà, del lusso di vivere il quotidiano comune la velocità è diversa “Tempo…dov’è il tuo passo feroce…dov’è la fretta e la furia”. Cosa può ristorare questo tempo che va a velocità dimezzata, se non le piccole cose, quelle che seppur minime, toccano e per un istante risollevano l’anima del poeta prigioniero? Anche solo un cielo terso, dove le nuvole sono “visioni di paradiso!…promesse di portenti, peccato però, /peccato che così fuggitive… / si disperdano subito in un niente”, una pausa troppo breve “mentre la miseria senza sponde e fondo / non si disperde, non svanisce, ma quaggiù immota dura”, in un luogo dove anche la poesia sovente perde il suo valore, la sua utilità (Smettila, grillo, con quel tintinnio / cosa cerca qui la tua canzone? / qui, tra le mura della prigione il tuo gaio canto / pace e calma finge ove è rinchiuso muto compianto”)…
Il poeta ceco Josef Ĉapek nasce nel 1887. Artista eclettico, si dedica prima alla pittura (dopo un soggiorno a Parigi dove frequenta l’ambiente del postimpressionismo, tornato in patria è tra i fondatori del gruppo dei Testardi), poi alla scrittura: pubblica qualche racconto e saggio sulla pittura, ma il suo contributo più importante resta il romanzo/trattato Il pellegrino zoppo (1936). Parallelamente diventa redattore del quotidiano “Lidové Noviny”, organo di stampa del partito nazional-liberale da dove mette in guardia dall’avanzata del nazismo. I suoi interventi attirano l’attenzione della Gestapo che, nel settembre 1939, lo arresta. Ĉapek subisce diversi trasferimenti, in prigioni e campi di concentramento. Morirà di tifo nel campo di Bergen-Belsen nel 1945. È proprio durante la sua detenzione che scrive tutte le sue poesie, giunte a noi grazie ai suoi compagni sopravvissuti che le hanno portate con loro una volta liberati. Ciò che colpisce, leggendole, è la grande capacità di far “vedere” i versi, di visualizzare le immagini che descrive, di sentirle parte di una realtà vissuta che, proprio perché vissuta, ha una potenza davvero rilevante. Pur essendo una poesia soprattutto descrittiva, non perde la sua valenza lirica e mantiene un lessico interessante, variegato, non scade nel languido o nel vittimismo. Non è uno stile barocco, l’aggettivazione è dosata. Da sottolineare inoltre l’assenza di versi rivolti agli aguzzini, il centro delle sue poesie è l’uomo, spolpato della sua libertà, immerso nella sporcizia e nel fango dei campi di concentramento, ma ancora capace di stupirsi della natura (vedi la poesia Nuvole), che mantiene ancora la sua dignità perché attento a mantenere la sua anima salda e presente, viva e pulsante. Poesie che restano dentro, come deve essere.
Vezze sul Mare. La Vigor Vezze è una squadra scarsissima e milita da sempre nei bassifondi di ogni campionato a cui partecipa. A un certo punto, sembra accadere un miracolo: la Vigor inizia a vincere. Una, due, tre partite consecutive. I cuori si scaldano, le speranze crescono e finalmente si inizia a pensare in grande. Ma questo cambiamento ha una matrice: la statua votiva della beata Serafina suggerisce al parroco del paese, padre Ruggero, la via per vincere le partite. Ninni De Maio, proprietario, direttore generale, allenatore e magazziniere della squadra, non riesce a crederci ma è proprio così: sta accadendo qualcosa di mistico. Chissà come andrà a finire il derby contro i cugini dell’A.S. Marina, lo squadrone del comune gemello di Marina di Vezze… Lino, Fausto e Gimmi sono amici da sempre e hanno una passione in comune: il Siracusa, che è stato promosso in serie B, puntando tutto sul mister Tito Recchia e su un nuovo centravanti, Lindo Martinez detto “el ratón”. La prima giornata va alla grande: doppietta, fortunatissima, di Martinez e tutti a casa. Poi le cose cambiano… Una squadra di giovani calciatori. Un ragazzino talentuoso che sfrutta la sua prima occasione con una prestazione da urlo. I sogni che s’infrangono per colpa del presidente, che deve far giocare qualcun altro per ragioni di convenienza… Siracusa: un torneo rionale, il “Piazza Belgio Trophy”, viene influenzato da una partita di serie A, Inter-Ternana, arbitrata da Leonardo Liberato, detto “il professore”… Catania. Fabrizio Speraben, ex calciatore, è giunto in città per una vendetta… Il calcio italiano, dalla serie D alla serie A, rischia di implodere e crollare su sé stesso. Il motivo? Alfonso Pipitone, vicedirettore della Polisportiva Ora et Labora di Palermo, ha ricevuto una telefonata dalla ex moglie, la quale pretende gli arretrati degli alimenti. Così, si scatena un effetto domino devastante…
Angelo Orlando Meloni, autore catanese trapiantato a Siracusa, torna con Santi, poeti e commissari tecnici, raccolta di sei racconti che ruotano attorno al mondo del calcio e lo declinano in maniera personalissima. Le storie raccontate da Meloni sono infatti costruite attraverso il filtro dell’ironia e della deformazione espressionistica, dissacrando quello che in Italia viene ritenuto un vero e proprio tempio, quasi una religione: il calcio, appunto. Si parte dal titolo, che riprende in chiave ironica l’espressione mussoliniana del 1935 che oggi troneggia sul Palazzo della Civiltà Italiana a Roma, il cosiddetto Colosseo quadrato: “Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori”. Così, ci si addentra in storie di passione, di dolori, di speranze disattese, di illusioni, di malaffare; storie che ci mostrano il bello e il brutto del calcio, attraverso uno stile originale, ironico e frizzante, e una scrittura che spesso fa ricorso al mimetismo linguistico e alla deformazione grottesca, con personaggi che ricordano quelli delle novelle pirandelliane. Santi, poeti e commissari tecnici è un libro che, mescolando generi diversi, dal noir al fantastico al pulp, suscita emozioni diverse, contrastanti; un libro che, citando di nuovo Pirandello e il suo saggio sull’umorismo del 1908, provoca risate e riflessione, coniuga comico e tragico, e tocca il cuore di ognuno di noi.
A volte non abbiamo bisogno che di parlare con qualcuno, soprattutto per essere ascoltati. Mona ha bisogno di parlare: è stanca, spossata, stremata, il lavoro e la guerra la abbattono, ogni giorno di più, ma lei resiste. E così parla con Mun. Mun è il nome del bue che porta al pascolo. O perlomeno Mun è il nome che Mona dà al bue quando, portandolo al pascolo, gli parla. Mun le vuole bene, si vede, o perlomeno è Mona a cui sembra di vedere ciò, che si sforza di capire i discorsi che lei gli fa, anche quando sono troppo impegnativi per lui, che è solo un povero bue, e le è così affezionato che quando lo vendono non vuole che nessun’altra persona al mondo lo conduca fuori dalla stalla se non Mona stessa. Mun è un bel ricordo per Mona, che ogni tanto si estrania da tutto ciò che la circonda e torna a parlare con Mun, a confidarsi con lui, anche se gli argomenti spesso sono inquieti come la sua anima. Mona, infatti, non ha tempo per riposarsi un attimo, intorno a lei brulica la frenesia di un ospedale in tempo di guerra, dove si urla per salvare vite o per il dolore: adesso, per esempio, Mona è da sola in mezzo agli strilli. Il medico di turno ha avuto una giornata impegnativa al fronte, non vuole svegliarlo (sì, è distrutto tanto da riuscire nonostante tutto a dormire), può cavarsela benissimo con le sue forze. La sua esperienza è tale che saprà certamente dare una mano a quel povero ragazzo amputato e disperato: legge il nome sulla targhetta del letto, Adam…
Lei ha scritto moltissimo, e con ogni probabilità, quantomeno è quello che tutti i suoi lettori certamente si augurano, continuerà a farlo, ma soprattutto hanno scritto moltissimo su di lei, in quanto è non solo fra le autrici più interessanti, originali, anche se dalla prosa ricca di riferimenti artistici e filmici, oltre che letterari, liriche, intense e particolari, ma anche fra le più premiate della Repubblica Ceca, nazione dalla tradizione letteraria di tutto rispetto, centrale per quel che concerne la cultura mitteleuropea ponte fra l’esperienza occidentale e i paesi che vivono ancora i retaggi della lunga appartenenza al grappolo di stati satelliti sovietici: Il lago è la sua opera certamente più nota, tradotta in molte lingue, ma Mona segna un punto di svolta nella produzione di Bianca Bellová. Si tratta infatti non solo di una riuscita allegoria del potere salvifico della parola, capace di valicare ogni ostacolo, ma è anche una riflessione sentita, composta, profonda e potente sull’abiezione della guerra, la violenza della dittatura, la fragilità dei rapporti umani, le conseguenze che ogni azione determina nella vita di ogni singolo individuo che la compie o la subisce e della collettività alla quale egli appartiene, la cognizione del dolore, il senso di straniamento che dà la sofferenza, la speranza generata dall’amore, in questo caso quello fra l’infermiera di un ospedale devastato da un conflitto e il soldato, adolescente o poco più, che arriva, col suo carico di paura e d’impudenza dovuta all’età acerba, gravemente ferito dal fronte.
“Se mi chiedi da dove vengo… / precisi bene da quale paese vieni? / …freno la tua paura per i documenti / e ti racconto che ho preso un aereo / sono atterrato e ne ho preso un altro / sono atterrato e ne ho preso un altro / sono atterrato e sono arrivato”. Lasciare la propria terra, le proprie radici per costruirsene altre ha un prezzo da pagare: il prezzo è dover giustificare la propria presenza in un Paese dove non assomigli a nessuno, per tratti somatici, colore, e qualsiasi altro elemento che ti rende un “diverso”. Anche se “ti parlo nell’unica lingua che conosci”, “ti racconto la storia del tuo Paese” la risposta è sempre “e mi rispondi che non basta” perché “bisogna nascere qui per appartenere a tutto ciò”. Poiché non si è nati nel paese in cui si vive, l’insulto diventa lo stigma del razzismo (“il primo vattene / l’ho subito su questa terra / il primo qui non ti vogliamo / l’ho subito su questa terra / il primo tornatene a casa tua / l’ho subito su questa terra”. E quando, dopo quattordici anni, ritorni nel tuo paese di nascita, la tua identità non la trovi nemmeno lì, nemmeno “Nel posto in cui speravo di sentirmi finalmente completo / nel posto in cui mi ero immaginato di sentire / le mani di mio nonno ricucire tutti i miei pezzi sparsi”; ti senti “diviso in due: / una parte que habla en este idioma / e l’altra che si riascolta in silenzio” e ti ritrovi “sconosciuto, / straniero, / ovunque nel mondo straniero”. Chi vive questa condizione e inoltre possiede il dono della poesia, non può sottrarsi all’immedesimazione con altri che lasciano la propria patria, lasciandosi alle spalle guerre, povertà e fame, per trovare una patria sostitutiva. Quanti sono i migranti che finiscono il loro viaggio inghiottiti dal mare? “Non esistono più settecento circa / nomi da pronunciare /…e mai sapranno le madri e i padri / dello sprofondare / in quel canale di Sicilia / grande come settecento circa oceani, / dei loro figli assetati / e spogliati dal sale / settecento circa / immigrati, ingrati, profughi, / negri / clandestini, / primitivi / o settecento circa / persone, con settecento circa / voci da sempre / e per sempre / costrette a strozzarsi nel silenzio”…
Non si dovrebbero leggere le poesie di Jaime prima di addormentarsi, non si ha il tempo di metabolizzare a sufficienza la responsabilità che ti viene buttata addosso. La responsabilità della bellezza e del disagio, della rabbia, del dolore e della verità. Che sia la sua storia personale (nascita, appartenenza etnica, radici, amore, solitudine, discriminazione), che siano i corpi dei migranti che si sciolgono nel Mediterraneo o la disperazione di una madre che offre erba come cibo alla propria figlia perché altro non possiede (poesia struggente a pag. 18) ti senti il pedone investito sulle strisce. Così la rabbia e la frustrazione diventano le tue, così la poesia ha raggiunto il suo scopo. Jaime Andrés De Castro è un giovane poeta, giovane di età ma con già una discreta “anzianità” poetica. Nato a Barranquilla, Colombia (ecco perché ha dovuto pagare il prezzo del giustificare la propria presenza nel nostro paese), vive nella provincia milanese. Alla sua seconda pubblicazione (la prima è stata ¡Afuera Todos Saben Vivir! uscito per Matisklo nel 2016), è anche poeta/slammer di grande intensità. Non segue la metrica nelle sue poesie, poesie fisiche dove coesistono versi brevi e versi lunghi, quelle più arrabbiate sono ricche di anafore. La sua è la rabbia sacrosanta per le ingiustizie, provate personalmente, provate come individuo vivo e consapevole, che sembra cosa detta e ridetta, scritta e riscritta ma mai abbastanza. Poveri noi se ci arrendiamo alla nostra impotenza. Che chi sa scrivere le scriva, le ingiustizie e le barbarie che vede perché, come scrive Jaime nella poesia conclusiva di questa raccolta “vorrei scrivere una poesia/che alla fine/ti faccia capire/che c’è ancora una speranza/e che quella speranza/ è la poesia”. Consigliato? Certo che sì!
L’istruttore smonta dalla Java 250 a doppio manubrio, si accende una sigaretta e guarda il suo allievo in maniera truce. Non ci siamo proprio, pensa, mentre il ragazzo tenta in modo frenetico di mettere in folle la moto: è stato un vero disastro, soprattutto in prossimità degli incroci. Quand’è che si deciderà seriamente a studiare il codice della strada? L’esame è alle porte, e sono ormai nove mesi che frequenta le lezioni. Il pomeriggio, al rientro dal lavoro, sarebbe un buon momento per dedicarsi allo studio, azzarda l’istruttore. Ma tra il pisolino, la lettura di un libro mozzafiato da cui non riesce a staccarsi – Il bruto dottor Quartz e la leggiadra Zanoni, è fortissimo, se vuole glielo porto! – e le uscite con la sua ragazza super accessoriata (che tutti gli invidiano), il giovanotto non avanza neanche un briciolo di tempo. Rimane la notte, ma a quel punto è così carico di adrenalina, che il miglior modo per rilassarsi è accendere la radio: Bing Crosby, Eartha Kitt, Luis Armstrong… musica che graffia il cuore! Ad ogni modo, il ragazzo promette che l’esame verrà superato con successo. Ora tocca ad Hrabal: lui è un uomo attempato, già pratico di moto, suo padre le ha guidate per una vita intera. Viscosità, compressione, pistoni, camera a scoppio. Hrabal sa tutto, ma l’istruttore, sebbene compiaciuto, lo mette in guardia: “Si accorgerà presto che gli zucconi, completamente a digiuno di teoria, guidano da dio, mentre lei prima o poi farà una bella caduta”… Quasi mezzanotte. All’acciaieria, dopo aver predisposto tutto per il sistema di colata, Kudla, Jenda e il caposquadra si concedono una pausa. Jenda si appresta a mangiare le sue fette di pane imburrato, e Kudla, tolti dalla sua borsa forbici e macchinetta, è pronto a tagliare i capelli al caposquadra. Accomodatosi su una cassa di cromo vuota, l’uomo si raccomanda: niente taglio drastico, che poi rischia di sentire freddo in testa. Kudla opta per un taglio all’americana, più corto ai lati, mentre Jenda asserisce a gran voce che mai nessuno toccherà i suoi capelli tranne Theodor Olivieri, il francese che lavora al “Parrucchiere dei giovani”. Quello sì che è un grande: un vero maestro, un uomo elegante, e che fa esattamente ciò che gli viene richiesto. Nel raccontare Jenda si toglie il berretto e china la testa, così da mostrare le morbide onde fattegli da Olivieri. Non l’avesse mai fatto: Kudla ne approfitta per soffiare via dal rasoio i capelli del caposquadra, che finiscono dritti a farcire il pane di Jenda. Panino che tra l’altro, si è riempito di polvere poco prima, quando Kudla, togliendo da sotto il sedere la cassetta a Jenda, lo ha fatto ruzzolare a terra. Per Jenda va così, ormai è abituato ad essere lo zimbello: ridono sul suo modo di approcciare le donne, sul suo piedino piccolissimo, sui suoi capelli da fraticello. E quando qualcuno in acciaieria urla, Jenda è sempre convinto che ce l’abbiano con lui… Il ragazzo entra in birreria e ordina trenta sigarette e una birra. Nessuno sa chi è: è un bel giovane, indossa un maglione di lana pesante, di quelli fatti ai ferri; al collo ha annodato un fazzoletto rosso e la sua chioma corvina splende. Da quando è entrato è chino su un libro, niente lo distoglie dalle pagine, nemmeno il chiasso degli avventori esaltati, che sostano al locale prima di dirigersi allo stadio a vedere la partita. Lo guardano tutti con disprezzo, convinti che stia leggendo un libro pornografico o qualche storia sanguinaria. Che gioventù, eh? Intanto il volto del giovane assorto passa invariabilmente dalle lacrime alle risa. Qualcuno gli dà pure della femminuccia, ma il giovane non se ne cura, non interrompe la lettura nemmeno quando va in bagno…
Ironica, grottesca, vivace, anticonformista: la narrativa di Bohumil Harabal (Brno 1914 – Praga 1997) è spiazzante, e difficilmente confinabile in un preciso canone letterario. Sproloqui da taverna che dicono tutto e il contrario di tutto, monologhi sfiancanti che apparentemente non portano da nessuna parte, ma che danno vita a storielle esilaranti; è interessante vedere come racconti banali sul calcio, il sesso o i motori riescano a raggiungere una dimensione quasi epica attraverso le bocche di personaggi stralunati. Sono i pábitel: i cosiddetti sbruffoni, gli straparloni tanto cari ad Hrabal, protagonisti indiscussi di tutte le sue opere. “Quando non scrivo, è allora che scrivo di più. Quando passeggio, quando cammino, quando faccio un monologo interiore, quando assorbo non solo quello che sento e che è interessante ma anche ciò che matura dentro di me… E allora di nuovo esco e vado in giro per le birrerie, è solo nella taverna che i discorsi si muovono”. Assiduo frequentatore delle taverne praghesi, uomo dai mille mestieri – “Ho escogitato per me stesso la teoria del destino artificiale, mi sono andato a cacciare lì dove non avrei mai voluto essere. Io, timido, offrivo assicurazioni sulla vita, vendevo cosmetici, lavoravo nelle miniere, e continuavo a scrivere e scrivere” – Hrabal si è nutrito della vita vera e della creatività della gente comune, riportando sulla carta il linguaggio della strada, fatto di slang ed espressioni dialettali. “Ho reso umani i pettegolezzi da ballatoio e il vituperio e l’ingiuria, ho lanciato in situazioni estreme lo splendore dei chiacchieroni e il loro sollazzarsi, che talvolta finisce alla polizia o all’ospedale”. Una scrittura colorita, palpitante, priva di orpelli letterari a lungo riposta nel cassetto, imbrigliata nel grigio conformismo del regime socialista a partire dal 1948 (anno in cui viene bloccata, a spese dell’autore, la pubblicazione delle sue prime poesie) poi liberata con forza prorompente, proprio con La perlina sul fondo, nel 1963, anno in cui la cultura riprende a respirare e le opere di Hrabal cominciano finalmente a circolare alla luce del sole: l’autore ha quasi cinquant’anni, e per quindici di essi ha vissuto, narrativamente parlando, come un clandestino. Fortissime, le reazioni di alcuni lettori di fronte all’originalità delle sue opere: gli hanno dato del maniaco, del pervertito, del maiale, invocando addirittura la forca. Una narrativa osteggiata da più parti, a ben vedere, un successo arrivato in tarda età, ma che non ha impedito a Bohumil Harabal di diventare a pieno titolo uno dei più acclamati scrittori cechi del Novecento. Diverse sue opere sono state trasposte a teatro e al cinema, e gli è stato intitolato persino un asteroide (Hrabal, n°4112). Un consiglio ai lettori: un approccio troppo leggero ai racconti può essere destabilizzante, necessitano di totale concentrazione per essere davvero apprezzati. Infine, da leggere anche le preziose note al testo della traduttrice, Laura Angeloni, e l’accurata postfazione di Alessandro Catalano, curatore della raccolta: l’esperienza sarà completa.
La sua intenzione non è quella di stabilirsi, di “installarsi” a casa del padre; sta solamente passando per quelle zone -per impegni di lavoro, naturalmente- e sarebbe poco cortese non andare a trovarlo; giusto una visita di cortesia, per educazione. Al massimo potrebbe fermarsi per una notte, certo non di più. Alla fine, si tratta sempre di suo padre. Chissà che faccia farà, pensa Pellicani figlio, dopo vent’anni di assenza. Sarà stupito, sorpreso di vederlo in quel suo completo grigio con la valigetta ben salda in mano. “Affari, un’impresa import-export” gli spiegherà, ponendo ben in mostra la valigetta, mentre il padre si adopererà per mettere a suo agio il figlio, rispettabile uomo in carriera. Certo, il vestito non è perfettamente stirato, appena un po’ sgualcito -ma sono gli effetti dei continui viaggi di lavoro, le trasferte, i voli. Ed è vero, la valigetta contiene solo qualche oggetto di cancelleria di cui Pellicani figlio si è appropriato prima di andarsene dalla sua occupazione precedente e, che altro? Ah sì, una mutanda pulita come ricambio, che non si sa mai. Il palazzo non è, però, come se lo ricordava. Tutta la via, in realtà, si mostra come un cumulo di macerie e pilastri e tubi ed il caseggiato nel quale viveva Pellicani da giovane si staglia come unico edificio sopravvissuto, quasi vergognosamente, tra i resti di altre costruzioni. Pellicani figlio entra nel caseggiato attraverso il portone d’entrata tenuto aperto da un mattone e imbocca le scale…
Partiamo dai fatti: il romanzo in questione è stato finalista alla XXXII edizione del Premio Italo Calvino e in questa occasione ha avuto la Menzione Speciale Treccani: in effetti, l’elemento che forse maggiormente caratterizza e conquista di questo romanzo è l’utilizzo della lingua, puntuale e affascinante. La scrittura è davvero equilibrata, sapiente e il lettore si sente rassicurato, guidato dall’autore cui si affida pienamente: tale precisione e armonia cozzano irrimediabilmente con la storia raccontata, che narra di decadenza sociale, personale, fisica. Il tema centrale è il rapporto fra padre e figlio (o, per la precisione, fra Pellicani figlio e quello che si presume essere suo padre) che implica il conoscersi e il riconoscersi, comprende la necessità di fare i conti con il ciclo della vita, la necessità di dialogo e l’incomunicabilità fra diverse generazioni o ruoli sociali. Mentre i personaggi – limitati, essenziali – sembrano non riuscire a instaurare una comunicazione alla pari, gli oggetti attorno a loro hanno una potenza espressiva e iconica sorprendente (la valigetta, la carne Simmenthal, i fumetti e i giocattoli). Pur svolgendosi effettivamente e quasi completamente entro quattro pareti, il romanzo parla di una realtà (e follia) attualissima e universale, incrociando sensi di colpa e voglia di riscatto, malattia fisica e squilibrio mentale, disagio sociale subito e incapacità di adattarsi alle norme imposte. Un romanzo consigliatissimo.
Se non fosse stato per il supplente con le guance butterate, Andrea non l’avrebbe mai studiata all’università. Fu lui infatti a fargli capire che l’unico modo per evadere dal carcere dell’ignoranza era lo studio della filosofia. Così dopo la laurea, consegue un dottorato di ricerca e ottiene un assegno di ricerca. Poi conosce Croccola, così chiama Roberta, e la sua vita sentimentale cambia. Andrea riesce a conquistarla con l’aiuto di Platone, che lo esorta a pensare all’Idea di Prospettiva, utilizzando la periagoghè di Socrate, e all’Idea di Bellezza. E le racconta la storia dei figli della Luna Viola e della morte di bacio di Atteone, uno degli Eroici Furori di Giordano Bruno. Dopo il primo bacio arrivano le difficoltà con Croccola, perfino la separazione, ma poi nasce Viola. La situazione è complessa, non hanno una casa, c’è un mutuo, lui è senza stipendio. È grazie ai consigli di Gustav Jung (sempre così pieno di dubbi e amante di Kant), che gli suggerisce di continuare con il processo di individuazione e di integrazione dell’Ombra, che Andrea continua a volare in un cielo infinito, a rigenerarsi dal Ventre Vuoto della Luna Viola. Quando nasce Luna i problemi aumentano, e la vita si trasforma tutta in un dovere, finché Friedrich Nietzsche non gli ricorda la magia della “metamorfosi dello spirito” e la storia del cammello che porta il peso della vita sulla schiena. Trascorrono gli anni, e Andrea cerca di seguire il monito di Philipp Freiherr von Hardenberg che ne I discepoli di Sais, spiega che solo quando ci si sveglia dal sonno e ci si volta, inizia il viaggio verso l’unione degli opposti. E alla fine le bambine crescono, e non sono più bambine. Andrea non sa come concludere la fiaba che sta raccontando alle figlie, e per questo si azzuffano, Socrate, Platone, Nietzsche, il dott. Novalis, Giordano Bruno, Giacomo Leopardi, finché Jung gli ricorda la storia della piuma, che Andrea aveva scritto quando Viola e Luna erano piccole…
“La filosofia inizia quando la terra ti frana sotto i piedi. Quando intuisci il lato nascosto di un problema. Quando dopo un viaggio osservi una persona in un altro modo. Quando un dubbio ti divide in due”. In fondo è questa la morale della fiaba filosofica di Andrea Serra. La storia di una vita, anzi di quattro, insieme a Croccola, Viola e Luna, in cui Andrea, novello padre, immagina di dialogare con i maggiori filosofi della storia. Sono loro che dispensano consigli per affrontare alcuni snodi problematici affrontati nel corso degli anni, servendosi dei concetti e delle teorie che essi hanno elaborato. C’è dunque grande concretezza nella filosofia, non è solo amore (filos) per il sapere (sophia), ma “un percorso interiore, un viaggio dell’anima”. Lo stile semplice e molto ironico predispone ad un approccio ricettivo verso concetti e nozioni che forse non si ricordano, o che sono sommersi di polvere dopo gli anni della scuola. L’Idea di Prospettiva e l’uso della periagoghé, per vedere le cose in modo diverso e avvicinarsi alla verità, ma anche la storia dei figli della Luna, di cui scrive Platone nel Simposio, pulsano in tutto il loro fascino e la loro attualità. Così come la realizzazione del Sé, la “metamorfosi dello spirito” di Nietzsche e soprattutto l’unione degli opposti. E il viaggio fiabesco ci avvicina alla Luna Viola, che partecipa del fuoco del Sole e dell’acqua della Terra (ricorda Platone), così come il viola rappresenta l’unione della natura divina e umana (rammenta Gustav Jung). Non serve sfogliare alcun manuale di filosofia per leggere questa fiaba avvincente, per arricchirsi delle storie raccontate da Andrea Serra, ma essere disposti a incontrare la Luna Viola, per rinascere. Perché “i sentieri si costruiscono viaggiando”, come scriveva Franz Kafka.
Usiamo cookie per garantirti un servizio migliore.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.