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David Wojnarowicz, una lucida visionarietà – «Sul filo della lama» recensito dal «manifesto»

David Wojnarowicz, una lucida visionarietà – «Sul filo della lama» recensito dal «manifesto»

di Silvia Nugara

GEOGRAFIE «Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione», un memoir dell’artista e scrittore morto nel 1992 di Aids

Uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1991 e ora edito in italiano con il titolo Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione, Close to the Knives di David Wojnarowicz (Miraggi editore, pp. 364, euro 24, traduzione e prefazione di Chiara Correndo, postfazione di Jonathan Bazzi) è un mémoir sui generis in cui l’artista nato a Red Bank (New Jersey) nel 1954 e morto di Aids nel 1992, a soli 37 anni, sperimenta diverse forme di scrittura: dall’introspezione diaristica al manifesto, dai frammenti onirici al reportage, dall’intervista all’invettiva politica. Come se si misurasse con le potenzialità creative di uno strumento, l’artista statunitense pratica i diversi registri della parola alla ricerca di una forma con cui dare un senso, quanto più possibile trasformativo, al proprio vissuto.

Cresciuto in una disperata marginalità, con un padre abusante morto suicida quando lui era bambino, Wojnarowicz è stata una delle figure più originali e radicali della scena del Lower East Side newyorkese degli anni Ottanta. Fotografo, pittore, scrittore, attivista e testimone dell’epidemia di Hiv, scrive a partire da un corpo attraversato da dolore e desiderio, con una lucida visionarietà che tenta di resistere alla violenza e all’annientamento. Si era formato da autodidatta nella New York post-punk, praticando varie discipline che gli avevano permesso di combinare fotografia, collage, pittura, stencil, musica e scrittura per dare forma a un’estetica del tutto personale, con immagini-simbolo come la casa in fiamme o quei bufali che franano giù da una scarpata scelti dagli U2 per la copertina del singolo One. Animatore di numerosi progetti collettivi, dal 1983 Wojnarowicz aveva contribuito a trasformare alcuni spazi abbandonati lungo il fiume Hudson, in particolare il Pier 34, in luoghi in cui oltre a fare sesso occasionale si produceva ed esponeva arte. Attivista vicino ad Actup negli anni dell’epidemia, utilizzò ogni mezzo per denunciare la repressione del dissenso arrivando perfino a farsi fotografare con le labbra cucite per manifestare contro l’equazione silenzio=morte.

LO SGUARDO DI OPERE come la serie Arthur Rimbaud in New York, si traduce nel testo in una lingua tenera eppure tagliente: «Vivevo per strada e vendevo il mio corpo a chiunque fosse interessato. Gironzolavo in un quartiere che era così affollato di barboni che non ricordo nemmeno come fosse l’architettura dei palazzi.

Io almeno potevo distendere le gambe e rimediare un tetto sopra la testa, mentre tutte queste persone per strada avevano raggiunto il punto in cui il loro corpo e la loro anima non interessavano a nessuno se non a loro stessi».

Wojnarowicz si osserva con un occhio «fuori di sé» e uno «dentro di sé»: la sua è una scissione percettiva spesso innescata dall’uso di sostanze che diventa però strategia esistenziale. Lo si percepisce per esempio nei vagabondaggi che intraprende nel deserto dell’Arizona alla ricerca di una distanza dalla metropoli dolente, abbandonandosi a derive allucinatorie che aprono squarci di tregua e di connessione con corpi e anime di passaggio.

Come per Burroughs, che nel saggio introduttivo la traduttrice cita come riferimento estetico-poetico del libro, la droga non è tanto una via di fuga dalla realtà, ma strategia di sopravvivenza e, ancora di più, viatico per forme più profonde di conoscenza. La prosa mai pietistica si fa strada dalla soglia del baratro in cui langue un’umanità che è derelitta non per destino ma come esito di meccanismi sociali scientemente discriminatori. Nei suoi «raggi X dall’inferno», Wojnarowicz denuncia gli Usa che chiama «nazione monotribale», governata da un’ideologia cannibale che annienta tutto ciò che è altro.

LE SUE IMMAGINI apocalittiche, con quei «mucchi di carne marcia» che costellano il paesaggio urbano, portano alla luce la violenza della politica e la corruzione del linguaggio televisivo («non sottovalutare la pericolosità del politico alto trenta centimetri»), la brutalità della Chiesa, il proliferare sistematico della paura e dello stigma: «Il nemico è ovunque: nel corpo, nella razza, nella classe, nel governo, nella cultura, nel sistema giudiziario, nei media». La scrittura immaginifica delle pagine più biografiche si fa asciutta e documentata nelle analisi sociali su cui incide la volontà di lasciare una traccia oltre la morte. La denuncia delle politiche governative colpevoli nei confronti delle persone affette da Hiv/Aids risuona attuale nonostante il virus oggi non si presenti più in forma pandemica nei paesi ad alto reddito. Però, i tagli inferti ultimamente dall’amministrazione Trump ai fondi federali per la ricerca biomedica con in più il congelamento del sostegno ad agenzie di cooperazione internazionale come Usaid (United States Agency for International Development) avranno conseguenze dure. I finanziamenti statunitensi rappresentano, infatti, una parte cospicua delle risorse che in oltre cinquanta paesi del mondo permettono la diffusione delle cure antiretrovirali e della profilassi pre-esposizione da Hiv (PrEP). L’Unaids, organismo delle Nazioni Unite per il contrasto all’Hiv, ha addirittura fatto sapere che al momento è compromesso il piano che ambiva a porre fine all’infezione da Hiv entro il 2050.

Nel suo studio appena uscito in Francia con il titolo Une histoire mondiale du sida. 1981 – 2025, Marion Aballéa aiuta a fare il punto della situazione e a comprendere le dinamiche culturali, sociali ed epidemiologiche che hanno caratterizzato dagli anni Ottanta ad oggi il fenomeno Aids. All’alba di una svolta epocale, la ricerca scientifica e la cura potrebbero subire una drammatica battuta di arresto. Ecco dunque che l’opera di figure come Wojnarowicz non permette solo di rendere patrimonio storico comune la memoria dei morti di Aids così come accade per i morti di guerre e altre catastrofi. Quell’esperienza è un monito per l’oggi: il morbo che ha annientato una generazione esiste ancora e le sue cause non possono essere ignorate fingendo che riguardino solo l’altro da sé.

ANCHE IN QUESTA prospettiva si può situare la mostra che il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato attualmente dedica a Peter Hujar Azioni e ritratti / viaggi in Italia a cura di Grace Deveney con Stefano Collicelli Cagol (fino all’11 maggio). Hujar (1934 – 1987) fu amante e mentore di Wojnarowicz (presente in mostra) e i suoi scatti restituiscono le relazioni con una certa scena artistica e intellettuale newyorkese (Merce Cunningham, John Cage, Susan Sontag) corpi in azione, retroscena di esibizioni teatrali o coreutiche, di spettacoli drag. La sezione italiana del percorso ritrae un’Italia misteriosa, teatro di volti, paesaggi e corpi animali in chiaroscuri accesi pronti a inghiottire la vita nelle tenebre.

Lo stesso Centro Pecci ospiterà dal 4 ottobre 2025 al 1 marzo 2026, la mostra Vivono. Arte e affetti, Hiv-Aids in Italia. 1982 – 1996, curata da Michele Bertolino. Un percorso tra opere visive, video, poesie, paesaggi sonori, materiali d’archivio e oggetti personali che ricostruisce una storia internazionale dell’arte italiana negli anni dell’epidemia attraverso figure come Nino Gennaro, Corrado Levi, Lovett/Codagnone, Ottavio Mai, Porpora Marcasciano, Francesco Torrini e Patrizia Vicinelli.

QUI l’articolo originale: https://ilmanifesto.it/david-wojnarowicz-una-lucida-visionarieta

“Brace”: l’intervista a Jacinta Kerketta su il manifesto

“Brace”: l’intervista a Jacinta Kerketta su il manifesto

Daniela Bezzi

«Fin da bambina, era come se nel mio intimo ci fosse un tizzone di brace ardente. Crescendo, fui testimone della violenza domestica su mia madre e già in giovane età questa brace prese la forma di poesie…» Così si presenta Jacinta Kerketta nell’incipit alla sua prima raccolta di poesie dal titolo Angor, appena pubblicata dalla Miraggi Edizioni di Torino, con il titolo appunto Brace. Una quarantina di poems vibranti di tensione per quel continuo stupro di terre (oltre che di corpi) del quale è stata testimone fin da bambina nelle zone tribali del sud Jharkhand, in cui è nata. Land grabbing, sfollamenti, regolamento di conti tra minatori e caporali, dispute regolarmente risolte in favore del più forte, foreste teatro di ogni genere di saccheggio – e poi la fame, “che diventa fuoco”; campi impunemente sacrificati, magari a una diga. E la città che avanza, annulla/rimescola ogni identità: questi i temi che ricorrono nel lavoro di Jacinta, fortemente intriso di determinazione al riscatto e impegno a tutto campo, come animatrice di workshop di scrittura creativa nei villaggi, come role model per tante donne (e anche maschi) più giovani di lei, come esploratrice di quell’infinito field work che è il personale/politico – e quindi appunto scrittrice.

In questi giorni Jacinta è in Italia, protagonista di un lancio degno di una star: ieri era alla Ca’ Foscari di Venezia, per unalecture dal titolo quanto mai intrigante, Voices of Nature, Voices of Human Beings. Milano la vedrà oggi ospite della Libreria delle Donne, e lunedì dell’Università Statale; e poi Torino, Roma (tutti i dettagli nel Box) «e senza alcun bisogno di crowdfunding, perché ci sono situazioni, come questa che siamo riusciti a mettere in moto, dove bastano e avanzano le relazioni» commenta il suo editore/agente/amico Johannes Laping, che da anni frequenta quelle zone in rivolta in cui lei è nata, come attivista della piccola Adivasi Koordination che ha contribuito a fondare in Germania nel 1993 – quando le popolazioni indigene dell’India non se le filava nessuno…

Quel che segue è il succo di una lunga chiacchierata telefonica con Jacinta Kerketta qualche giorno fa, in attesa di incontrarla di persona.

Il tuo CV racconta di uno strepitoso debutto professionale come giornalista: borse di studio, premi, promettente carriera da inviata nelle zone calde del centro India, che poi interrompi per darti alla poesia…

Avevo deciso di diventare giornalista, iscrivendomi alla Facoltà di Mass Communication di Ranchi (e per questo devo ringraziare mia madre), dopo essere stata testimone di tanti abusi nella totale disattenzione dei reporters locali, e sarebbe fuorviante parlare di corruzione, spesso si tratta solo di pigrizia. Avevo voglia di raccontare come stavano veramente le cose e sono stati anni straordinari, prima come apprendista, poi inviata di qua e di là, e poi i Premi, alcuni importanti… al punto da farmi decidere a un certo punto di lasciare il quotidiano Prabhat Khabar (testata in lingua hindi con enorme seguito, ndr) e continuare come free lance. Una gioia alzarmi presto la mattina, fiondarmi dove mi pareva a bordo del mio scooter, il pomeriggio tutto per me, pubblicare quel che volevo, magari solo sulla mia pagina Facebook – ed è stato in quel periodo di totale libertà che la poesia ha cominciato a guadagnare spazio, non in alternativa al giornalismo, semmai come trasmissione più immediata di ciò che mi stava a cuore, e dritto al cuore di chi mi leggeva. Ha influito in questo cambio di registro la consapevolezza che il giornalismo, a determinati livelli, ha le mani legate – difficile non ricevere pressioni nella regione ricchissima di risorse minerarie, dove vivo io… Il che ha reso ancor più semplice la mia ritirata dalla stampa. I socials mi hanno aiutato.

 

Ho dato uno sguardo alla tua pagina FB: non c’è componimento che non registri centinaia di condivisioni, ti ho visto nominata “ambasciatrice della causa adivasi fuori dal Jharkhand”…

Sorprendente anche per me. L’unica spiegazione è che la poesia risuona con un’intimità speciale, in immediata sintonia con la musicalità rapsodica della gente per cui scrivo, che magari è inurbata da due generazioni ma nel suo intimo non ha perso il ricordo di ciò che nutre anche il mio scrivere: e parlo del sarna, quello che voi tradurreste come animismo, e che per noi è proprio un sentirsi dentro, ritrovarsi nella propria essenza dentro il creato, immaginare ciò che certi alberi o pietre hanno visto, in dialogo con il profilo delle colline, con la voce dei fiumi… un senso di viscerale appartenenza che nei miei versi si intreccia a fatti di inaudita brutalità, di cui tutti ormai sanno (grazie ai social networks) senza bisogno dei giornali. L’ultimo è di pochi giorni fa: decine di morti ammazzati, contadini innocenti, nell’ennesima battuta di caccia contro i naxaliti, in Bastar. Una guerra di cui nessuno parla da voi e che ha di nuovo traumatizzato quella terra di foreste da cui provengo.

 

Di tutto questo scrivi in hindi, che non sarebbe la tua lingua madre…

Ti sorprenderà sapere che l’hindi è la mia prima lingua, benché io appartenga all’etnia Oraon la cui lingua sarebbe ilkuruk. Ero piccola quando i miei genitori si spostarono dal villaggio di Khudpos alla più vicina cittadina, Manoharpur. Mio padre era entrato nei ranghi della polizia (un sogno per un giovaneadivasi di allora, come per tanti giovani di oggi, ahimè) e la mia educazione fu in hindi e poi in inglese, neppure a casa si parlava il kuruk. L’ho dovuto quasi imparare, quando ho cominciato a tenere i miei corsi di scrittura creativa per le ragazzine del villaggio di Kacchabari, nella zona di Khunti. Esperienza straordinaria, dalla quale ho ricevuto moltissimo, che mi ha messo a confronto con un mondo di cui sapevo ma di cui non immaginavo la felicità, per quella totale consonanza con la natura, e una natura che ovunque guardi letteralmente ti parla… e poi le feste, per ogni momento del ciclo agrario, con le danze, donne e uomini, tutti in circolo, al suono dei tamburi, fin dentro la notte, unica luce quella della luna che non hai idea quanto riesce a illuminare. Letteralmente una gioia scappare dalla città per sentirmi a casa lì, perché è lì che so di avere le mie radici…

 

Su questo tema è appena uscita infatti la tua seconda raccolta poetica, Land of the Roots, Terra di Radici,che presenterai in Germania subito dopo questo tour italiano.

Importanti le radici, questo ho scoperto rivivendomi nella mia identità più ancestrale di donna adivasi – questo cerco di trasmettere con le mie poesie. Esattamente come per quegli alberi secolari, quei campi che sono stati ricavati disboscando solo alcune zone, quegli esseri che armonicamente ci vivono dentro, partecipi di quello stesso humus che continuamente si arricchisce proprio in virtù di quella infinitamente rinnovata convivenza, l’umanità dovrebbe capire che, nel profondo, we are all one, figli della stessa terra. La politica cercherà sempre di dividerci, per dominarci meglio: hindu contro mussulmani, dalits contro adivasi,e all’interno del mondo adivasi ecco che stanno fomentando il risentimento contro i cristiani. Anche la violenza contro le donne rientra in questa strategia: non è solo violenza di genere, è violenza istigata per dividere ancor meglio uomini di comunità diverse che fino a ieri riuscivano a convivere e oggi conviene che siano in guerra, perché in questo modo ci si appropria più facilmente di territori che magari fanno gola – ed ecco che anche il corpo delle donne diventa campo di battaglia. Ma come dimostrano i corpi rimasti sul terreno nel massacro di pochi giorni in Bastar, questa è una guerra che non risparmia nessuno.

(il manifesto, 5 maggio 2018)

 

 

“La notte dei botti”: la recensione di Mauro Trotta su il Manifesto

“La notte dei botti”: la recensione di Mauro Trotta su il Manifesto

Forse sono solo i poeti a possedere quello sguardo che riesce a illuminare il presente e, a volte di luce nera, quello che si appresta ad arrivare. Biagio Cepollaro, napoletano, ma da tempo residente a Milano, è un poeta; tra i fondatori dell’esperienza del Gruppo 93, successivamente – e su stimolo di Nanni Balestrini – decide di cimentarsi con la forma romanzo. Nasce così, nella seconda metà degli anni Novanta, La notte dei botti, dai primi anni Duemila disponibile solo in rete sul suo sito, oggi, finalmente, diventato libro cartaceo grazie alla Miraggi edizioni (pp. 143, euro 14).
Erano anni, quelli, in cui, come dice lo stesso Cepollaro nella nota posposta al testo, si annunciava «un ventennio politico che per alcuni di noi si profilava oscuramente come una notte lunga, la vera notte della Repubblica, un tunnel interminabile».
Si trattava, allora, di gettare lo sguardo in quell’abisso, utilizzando il solo strumento a disposizione del poeta, la scrittura. Ed è appunto quello che fa Cepollaro, il quale, però, la utilizza anche in una sorta di raddoppiamento. Quasi come in un gioco di specchi non è solo l’autore a scrivere il libro, ma anche il personaggio principale, non a caso chiamato lo Scriba, a registrare quello che vede ma anche i suoi sogni, i suoi incubi insieme a quelli altrui.
A un certo punto si convince di aver compreso quello che è realmente accaduto e cosa si prepara, il suo problema è comunicarlo agli altri, trovare una lingua in grado di farlo.
Il tutto mentre in bicicletta si allontana dall’autogrill dove è stato indirizzato e rinchiuso – insieme a tanti altri – dopo quella notte particolare e misteriosa, la «Notte dei Botti», in attesa di mitici accertamenti. Già, perché dopo quella notte segnata da esplosioni e boati, quella notte che alcuni chiamano della «Libera Espressione», sembra sia saltato ogni equilibrio, ogni forma di violenza si è scatenata, mentre gli elicotteri delle forze dell’ordine volteggiano, l’odio si impadronisce delle «brave persone» e si appunta contro ogni luogo antagonista, come il Centro di Nanna, Mommo, Singa o le librerie di quartiere. Alle spalle di tutto, poi, sembra ci sia un’organizzazione che vuole impadronirsi non solo del potere ma dell’intera vita, dell’intera esistenza dei cittadini.
Nella narrazione, emergono quelle caratteristiche che segnano ancora oggi la nostra esistenza: la frammentazione del lavoro, la flessibilità, l’autosfruttamento, per cui lavori di più e guadagni di meno, ma non ti ribelli e poi contro chi vuoi ribellarti se sei convinto che sei tu il padrone di te stesso, sono tuoi i mezzi di produzione? E allora il rancore, l’odio verso l’altro, verso il diverso che è sicuramente tutta colpa sua. È una storia nuova che assomiglia tanto a quella vecchia. «Solo che questa ci vuole convinti. Ci vuole giù con la testa piegata. Non basta più il prete non basta più la mamma. Ci vuole da soli a piegare la testa. Anzi ci vuole contenti di piegare la testa».
E se nel sogno dello Scriba arriveranno i Resistenti sui loro cavalli, quei mitici Resistenti che pare si siano radunati alla fine dell’autostrada dove lui si sta dirigendo pedalando senza sosta, nel suo incubo il mondo non ha più l’orizzonte.
Biagio Cepollaro, insomma, ha raccontato vent’anni fa una storia che continua a riguardare tutti e che, anzi, col passare del tempo sembra aver acquisito ancora più forza. Il tutto con una scrittura davvero particolare e poetica, ricca di simboli e di anafore. E di allitterazioni indimenticabili come: «Perché s’imboscano l’abbondanza». E alla fine il lettore può anche ritrovarsi come il Sadri che, leggendo i versi che lo Scriba manda continuamente non sa «se c’è un codice o sono le solite minchiate dei poeti».

Mauro Trotta

“La notte dei botti”: la recensione di Mauro Trotta su il Manifesto

“La notte dei botti”: la recensione di Luciano Del Sette su il manifesto-Alias

Su “La Repubblica” del settembre 1989, Alfredo Giuliani, in “Nasce il Gruppo 93?”, scriveva, “Ecco che cosa sta rinascendo…: il bisogno di una vera discussione letteraria, di poetiche operanti e di retorica da parte di trentenni-quarantenni che s’interrogano su quanto vanno facendo: poesie, scritture dove i generi si intersecano e si corrompono inseguendo una percettività precipitosa e dispersa”. Tra i fondatori del gruppo, il napoletano Biagio Cepollaro, che nel 1993 inizia la scrittura di “La notte dei botti”, completata quattro anni dopo. Il romanzo esce finalmente per Miraggi, riscuotendo un credito trentennale a torto negatogli. Quella notte, la notte dei Grandi Accertamenti, l’Organizzazione avvia il piano per impadronirsi dell’esistenza dei cittadini. Scatena l’odio nei quartieri, nei condomini, nei luoghi di aggregazione, alimentando l’ipotetico diritto alla singola, personale, utopia. Rastrella la gente per radunarla in un autogrill, come nello stadio del golpe di Pinochet. Solo Scriba, alter ego di Cepollaro?, riesce a fuggire, vagando in sella alla sua bicicletta. L’uso del presente conferisce al testo la forma di una cronaca assurda, ironica, feroce, che mai dà tregua al lettore.

Luciano Del Sette

“Brace”: l’intervista di Daniela Bezzi a Jacinta Kerketta su il manifesto

“Brace”: l’intervista di Daniela Bezzi a Jacinta Kerketta su il manifesto

Una quarantina di poems vibranti di tensione per quel continuo stupro di terre (oltre che di corpi) del quale è stata testimone fin da bambina nelle zone tribali del sud Jharkhand, in cui è nata. Land grabbing, sfollamenti, regolamento di conti tra minatori e caporali, regolarmente risolti in favore del più forte, foreste teatro di ogni genere di saccheggio – o poi la fame, ‘che diventa fuoco’; campi impunemente sacrificati, magari a una diga. E la città che avanza, annulla/rimescola ogni identità

Su il manifesto del 5 maggio 2018 è stata pubblicata una splendida intervista di Daniela Bezzi a Jacinta Kerketta, autrice di “Brace”