Nonostante abbia imparato a leggere divorando giornaletti, che negli anni della mia infanzia e giovinezza riempivano le edicole, quando mi accosto alle forme attuali del fumetto lo faccio con l’animo del dilettante. Eppure, dopo aver letto Quattro giorni, il graphic novel tratto dal romanzo di Marino Magliani, pubblicato da Miraggi, con disegni di Marco D’Aponte e sceneggiatura di Andrea B. Nardi, sono rimasto affascinato dalla capacità degli autori di rendere quanto sembra più difficile esprimere in un fumetto: atmosfere e stati d’animo.
Il romanzo (Quattro giorni per non morire, uscito per Sironi Editore nel 2006), Gregorio Sanderi, che sta scontando in carcere una condanna per contrabbando internazionale di oggetti d’arte e che va incontro a morte certa; la sua unica speranza di salvezza è la terapia – nota solo a un medico di Città del Messico – che potrebbe salvarlo, ma a cui non gli è permesso di accedere. Così, durante la licenza concessagli per la morte della madre, decide di organizzare la fuga in Sudamerica dal paesino dell’entroterra ligure dove è nato e cresciuto. Il racconto dei quattro giorni che ha a disposizione per fuggire raccontano una Liguria di silenzi, luci e ombre del fondovalle, e il viaggio interiore dell’uomo nel proprio passato.
Un romanzo “letterario”, dalla trama esile, che attinge alle grandi lezioni di Calvino e Biamonti, e che costituisce una sfida temeraria per chi voglia trasferirlo nel linguaggio del graphic novel.
Eppure gli autori ci sono riusciti, utilizzando tra accorgimenti: un richiamo puntuale ed efficace a brevi frammenti del testo, il flashback come risorsa narrativa che dà corpo al travaglio interiore del protagonista, e un segno grafico che esalta il chiaroscuro degli anfratti del borgo, i primi piani del volto di Gregorio, la dimensione rarefatta dei ricordi infantili; così le atmosfere e gli stati d’animo che percorrono l’intero romanzo si ritrovano nella versione “graphic”, con una notevole forza e capacità di mobilitare emozioni nel lettore. Un romanzo che si ispira a certi canoni del noir (il personaggio principale è un pregiudicato, la storia è il tentativo di sottrarsi alla vigilanza delle forza dell’ordine), ma che è per gran parte giocato sulle continue corrispondenze tra paesaggio esterno e memoria )”C’erano già quelle palme? Non ricordo più nulla” dice Sanderi appena giunto a Imperia), e si snoda attraverso alcuni incontri fondamentali soprattutto quelli con il fratello e Lori, la ragazza amata in gioventù. La lettura cattura e avvince vignetta dopo vignetta, pagina dopo pagina, fino all’epilogo, senza dargli tregua. Un esempio riuscito di come la traslazione tra diverse forme espressive possa conservare l’essenziale e comunicare lo spirito dell’opera originaria.
Nuovo prestigioso riconoscimento letterario per lo scrittore Angelo Orlando Meloni. Il suo libro Santi, poeti e commissari tecnici (Miraggi Edizioni) ha ottenuto la “Segnalazione particolare” della Giuria nell’ambito del Premio Nazionale Coni Letteratura Sportiva, uno degli appuntamenti di maggior prestigio dell’editoria legata allo sport che si svolge a Roma.
«Sono molto lieto, – afferma Meloni – a conferma della buona riuscita del libro. Dedico questo riconoscimento alla memoria dei miei genitori».
Meloni offre una narrazione elegante e semplice (la compilazione, ammoniva Sciascia, è la forma moderna di stupidità ed è anche malafede), con un corpus di storie che mette in evidenza un calcio con evidenti segni di umanità: una statua votiva diventa la stratega per far vincere ad una squadra un campionato di paese, il bomber alcolizzato e l’arbitro dalla carriera pulita, giunto all’ultima tappa del suo cammino facendo i conti col passato. Microstorie ambientate in una Siracusa del passato dove i sogni di cuoio s’intersecano con gli amori dell’adolescenza, sfuggenti o mancati, cominciati in estate e finiti prima del rientro a scuola.
Il libro è un’elegia del calcio di provincia, spensierato o capace di regredire nel fango del dio pallone, facendo trasparire una fragilità di fondo che sfocia in una vena malinconica, con una narrazione che, tra sorrisi e lacrime, bussa alle pareti del cuore come il pifferaio barrettiano alle porte dell’alba. Meloni ci mostra nel suo libro l’eminente leggerezza e bellezza del calcio, sintesi perfetta tra dubbio costante e decisione rapida.
Esilarante quanto riflessivo, il nuovo romanzo del torinese, con radici parentali nel mascaluciese, Andrea Serra, sembra proprio bissare il successo di Frigorifero Mon Amour (Miraggi, Torino, 2018). Un legame importante quello con la terra siciliana, madre indiscussa degli albori filosofici (Lentini con Gorgia, Sgalambro e i sofisti, n.d.r.), per lo scrittore e filosofo che durante il lockdown e il grande rumoreggiare di piattaforme a presentare autori in streaming, ha battezzato la prima nazionale proprio nel nostro blog, cui questa pagina è la versione cartacea. Testamento per le figlie (non solo le sue), dalle quali nasce il nome del titolo, una si chiama Viola, l’altra Luna, Andrea Serra ripercorre la carriera di ometto al liceo annoiato da una disciplina che gli pareva non giovare a nulla. Un dì (di gioia, stupore e sputacchiate) la classe frequentata riceve la notizia che le lezioni della madre di tutte le scienze, non saranno più tenute dalla professoressa che della filosofia nulla faceva per farla amare ai suoi alunni, bensì da un supplente. Eccolo entrare per nulla imponente, col volto butterato un giovane che quando parlava emetteva lapilli di salivazione. Divertente in parte, con la sua serena e armoniosa dialettica, mista a quei missiletti che lanciava nolentemente, il giovane supplente, sbalordiva gli studenti con domande semplici per risalire a tesi e pensieri di filosofi col fine unico e indissolubile che la filosofia giovava a rendere libere le persone.
Da questo incipit la vita dell’autore/protagonista cambia. Dalla conoscenza della compagna, oggi moglie nonché madre della Luna di colore Viola, ai dialoghi con alcuni suoi amici, coi quali ad oggi mantiene strettissimi legami nonostante ve ne siano alcuni nati a.C., la vita di Andrea, ‘scivola a cunette’: chiede consiglio a Giordano (Bruno) su come si agisce in certi momenti, o si ubriaca con Søren (Kierkegaard) quelle volte che si incontrano e non tornano più a casa per l’ora di cena, perché si iniziano a bere nozioni di inquietudine per risalire allo svelamento che tutto può trovare una via, una strada ben oltre quella che si pensa di conoscere. Uno scrittore coltissimo che dell’ironia ha fatto la chiave del suo successo, facendo amare la filosofia per ciò che giova: essere liberi, senza calpestare l’altro.
Dopo il successo di Il lago, tradotto in più di 20 lingue, Bianca Bellová, autrice ceca, torna con Mona, tradotto da Laura Angeloni ed edito da Miraggi Edizioni. Protagonisti sono Mona e Adam. Lei è un’infermiera di un ospedale travolto dalla guerra, lui un giovane soldato che ha una grave ferita alla gamba, procurata al fronte. S’innamorano, e le loro giornate sono scandite da racconti del passato. Il racconto è intervallato da molti flashback che ci svelano la vita difficile della protagonista che da piccola è stata rinchiusa per mesi in una botola per nascondersi da chi aveva portato via i suoi genitori. In quel luogo buio e angusto inventa una scrittura segreta che le darà forza giorno per giorno. La scrittura assume così un potere curativo, così come narrare, e riesce a rimarginare le ferite. Mona supera tutto componendo poesie, e con le parole si salva. Ma cosa attira Mona verso Adam? Forse l’accettazione l’uno dell’altro e l’uscita dall’invisibilità in cui si sentono costretti. Il raccontarsi ha forza così forte per Mona? Il potere salvifico delle parole viene trasmesso da lei al capezzale di Adam. Con l’ascolto vi è una sorta di transfert tra i due, come da psicoterapeuta a paziente, così il rapporto diventa sempre più intimo.
Ella rinascerà da una sorta di immobilismo e di apatia, scoprendosi più consapevole di che tipo di donna sia. Ricordando Hemingway in Addio alle armi, ritroviamo i sentimenti come vero tema dominante. L’ambiente non è solo uno sfondo, ma personaggio reale e vivente della storia. In 176 pagine vengono narrate tre epoche della vita e 5 o 6 personaggi con una precisione certosina che rimangono nella memoria. Tutto viene condensato e amalgamato senza digressioni filosofiche o giudizi personali, ma ricavato naturalmente e semplicemente dai dialoghi e dalla trama. La sua scrittura trascina il lettore con consapevolezza di essere guidato da una mano attenta alle emozioni. Non c’è bisogno di dettagli spazio-temporali, poiché tutto quello che viene descritto è extrasensoriale: lo vedi e lo senti. La Bellová pone attenzione con i suoi romanzi a problemi contemporanei che forse, presi dal nostro quotidiano, possiamo dimenticare.
Recensisco con immenso piacere questo volume scritto da Vito Vita, redattore delle riviste «Vinile» e «Prog Italia», ed autore di alcuni interessanti volumi sulla musica italiana. Musica solida, questo il titolo del volume, ha due importanti particolarità, è senza dubbio il primo (o quasi) libro pubblicato in Italia dedicato alla storia dell’industria fonografica italiana, inoltre attraverso la nascita del 78, 45 e 33 giri, Vita ci racconta una parte della storia del nostro Paese. Il volume partendo dall’invenzione del supporto fonografico e dall’evoluzione del giradischi, ci guida attraverso lo sviluppo, prima artigianale poi industriale, della realtà discografica italiana tra le due guerre inserendo nomi e marchi – FonitCetra, Pathè, Parlophon, Odeon, Durium etc. – molto noti a chi frequenta da anni il mondo del vinile. Si arriva poi al secondo dopoguerra con la nascita di alcune etichette che per decenni rimarranno regine incontrastate del mercato quali CGD (Compagnia Generale del Disco fondata da Teddy Reno), la Durium di Krikor Mintanjan, la SAAR dei fratelli Gurtier, la Ricordi, la famiglia Carisch, che oltre a Peppino Di Capri ha in catalogo per il mercato italiano i Beatles, per arrivare infine ai primi cantanti-discografici. Da sottolineare già da queste prime società, la forte presenza straniera che comprende immediatamente la possibilità del mercato e crede fortemente nella ripresa economica del Paese dopo lo sforzo bellico.
Negli anni Sessanta poi il 45 giri toccherà l’apice del successo e anche in questo caso nuove società imporranno autori e generi diversi quali la Vedette, la Bluebell, la Phonogram, il Clan di Celentano, la RCA romana (voluta fortemente dagli Americani e dal Vaticano), i Dischi del Sole, la Carosello e molte altre. Negli anni Settanta si arriva infine all’avvento del Long Playing ma questa per alcuni di noi dalle tempie imbiancate è storia recente – la Numero Uno di Mogol/Battisti, la Produttori Associati, la Ascolto di Caterina Caselli, la PDU di Mina, la Polygram etc. – fino ad arrivare agli anni Ottanta ovvero al declino del vinile. Qui termina la parabola del vinile: le multinazionali si accorpano per far fronte alla crisi, la disco music avanza e molte case celebri gettano la spugna.
All’orizzonte si intravede il CD che dovrebbe cambiare il mondo invece dopo pochi decenni sarà costretto alla sconfitta dalla musica liquida (che si contrappone alla Musica solida, non a caso il titolo del volume) per affermare non solo un differente stato della materia ma per celebrare i fasti di un passato remoto di solide certezze. L’autore ha impiegato alcuni anni per preparare questo volume e infatti Musica solida è ricchissimo di informazioni, aneddoti, storia musicale ma anche Storia con la esse maiuscola, e numerosi ritratti di personaggi che hanno abitato e reso affascinante questo mondo. Oggi si parla di rinascita del vinile ma i numeri in gioco sono ancora troppo esigui, è molto in parlare di LP ma la realtà è purtroppo ammara come testimonia la chiusura di molti negozi di dischi. Concludendo, considero questo volume uno dei più importanti libri musicali di quest’anno sia per l’unicità del soggetto sia per aver fatto luce su uomini e società che hanno regalato gioia ed emozioni a tutti noi, vinilmaniaci italiani. Un ottimo lavoro.
La presente versione di Quasi tutti (Miraggi ed., 2018), da considerare definitiva, emenda qualche ingenuità e refuso della prima edizione, e si presenta in alcuni punti riveduta, a livello macro- e microtestuale.
Gianluca Garrapa: ci racconti la genesi del testo? E dei microscopi e telescopi testuali come fanno direzionati per curarsi del reale e simbolizzarlo sulla pagina?
Marco Giovenale: Il libro cerca di mettere insieme molti materiali nati quasi essenzialmente per spazi web a partire dal 2005, grosso modo. L’intenzione era ed è quella di fissare su carta esperimenti di googlism, cut-up, eavesdropping (=ascolto e trascrizione di frammenti di conversazione altrui).
Forse più che della composizione del libro può essere interessante parlare del click che scatta – sperabilmente – nella ricezione o manipolazione di materiali che poi entrano nel libro: si tratta sempre di qualcosa di indefinito e allo stesso tempo certissimo. Si ascolta qualcuno che sta organizzando banalmente il proprio discorso intorno a una routine quotidiana, per esempio, e non ci si riesce a staccare dall’esperienza di produzione di senso che contro tutte le aspettative quella banalità emette. Una simile esperienza percettiva, per niente dolorosa, e poi di alta o bassa manipolazione, e infine scrittura o semplice trascrizione, non è affatto lontana dalle esperienze e dal modo di operare del primissimo Joyce, quello delle Epifanie, brevi prose “drammatiche” o “narrative” (a seconda se formalmente strutturate come dialoghi o come frammenti di racconto) scritte nei primi anni del secolo scorso.
Quanto ho appena detto vale in particolare per l’eavesdropping. C’è poi ovviamente una diversa (più forte) intenzionalità o aggressività autoriale, verso il testo, nel manovrare googlism e cut-up, ma la sostanza non cambia: il testo stesso a un certo punto comunica di essere compiuto, e ci si ferma. Non è definibile, credo, come e perché, né quando (you know, “come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore”, Prima lettera ai Tessalonicesi, V, 2). (Una cosa simile, insomma).
Questi modi di scrittura (ma Quasi tutti ne contiene anche altri; e anche scrittura diretta, senza procedure, senza ‘macchine’) vengono talvolta scambiati per incongrui con la poesia, o la prosa, o la scrittura tout court. A me sembra semplicemente miope questa critica. (Per la poesia, passi: penso ci si trovi in tanti oramai, e gioenti, in un territorio post-poetico, e per me amen: bene così).
Però quel che voglio dire è che:
si tratta sempre e principalmente (se il lavoro è fatto con serietà) di dislocare il proprio inconscio, metterlo in un punto non (interamente) governabile e sovrascritto dal superIo, dall’ipoteticamente adamantino Moi lacaniano, o da quel che si vuole.
Si tratta cioè di tagliare il guinzaglio al soggetto dell’inconscio. Lasciarlo andare. A suo modo (un modo ancora altro) Carmelo Bene spiegava la ‘normalità’ (geniale) di constatare e mettere a valore e al lavoro un “linguaggio che si articola come un inconscio”.
Io dico che bisogna proprio dislocare l’inconscio, piazzarlo in un’altra scatola, far parlare l’Altro come altro. Per quanto possibile. Ovviamente la pesantezza della mano che poi agisce sul materiale che arriva, giocoforza, agisce e cambia il flusso e cristallizza frasi passaggi fraseggi e paraggi. Ma questa inevitabilità si applica a un materiale i cui vieti addentellati con l’ego sono smussati o proprio cancellati in incipit da quella dislocazione.
Delocalizzare l’inconscio. Sbatterlo con infame protervia in un quarto mondo a cucirsi il buio.
Poi, certo, in più, possono essere applicate slogature, fantascienze varie di movimentazione della pagina. Però se in partenza l’inconscio sta da un’altra parte, “io” credo, è meglio.
Nella ipercaverna di google, nella altrui chiacchiera da bar, in una pagina di giornale. Eccetera.
“Fons amoris.”
dentro hai molto ed i soldi sono essenzialmente il freddo.
stare fuori dai ratti. penso al bisogno delle cose, che tutti vogliono.
G.G.: che rapporto c’è tra la tua pratica plurima e non narrativa e una visione politica anti-razzista? A proposito… per moltissimi aspetti il tuo è un poema che cerca oggetti narrativi non identificati, la natura aliena del reale, impossibile, è il filo, o meglio il nastro di Moebius della tua non narrazione: non v’è altro che soggetto che scrive intorno al non so cosa del non prestabilito. È quello che sento, ascoltando le tue forme narrative: un altro a proposito: che oralità ci si aspetta da tali strutture non letterarie?
M.G.: Il rapporto è personale, probabilmente. Nel senso che negli anni Novanta ho svolto diversi lavori – diciamo così – “nel sociale”. E questo, oltre ad altre esperienze, ha inciso in modo netto sulla mia identità e sui suoi rami e rametti.
Poi dal punto di vista anche (volendo) teorico, e relativo alla plurivocità delle scritture, e alla loro non-narratività, bisogna dire due cose. Innanzitutto, che lo spostamento dell’inconscio nell’altrove, nell’Altro, volendo, è una buona ginnastica per la prassi dell’“imparare la lingua degli altri”, che (anche) è cosa che mi viene dai primissimi anni dell’università, dalle lezioni di Letterature comparate, dal lavoro redazionale per la rivista “Babele”, tra fine anni Ottanta e primi Novanta. In secondo luogo, la non-narratività è sempre relativa (e avversa) a quello che si può con una certa oggettività considerare il pensiero unico della letteratura, specie nella sua versione e pesantezza occidentale. Non dunque una narratività generica, ma quella delle marchese che escono alle cinque, e quella, in particolare, di un certo tipo cristallizzato di romanzo.
Il romanzo, lo ricordo sempre, è un predatore. Dove fa la sua comparsa (cito Franco Moretti) fa anche strage delle forme minori, delle leggende, delle fiabe, delle novelle, delle fantasie da tradizioni micronarrative, delle contraddizioni implicite nel racconto mitologico. Eccetera. Magari le ingloba, e così – coccodrillo che piange – assicura loro una ‘continuazione’. Ma a quale prezzo? La pulizia etnica è tecnicamente già avvenuta. (Moretti cita il caso dell’America del sud, del patrimonio di storie e tradizioni, orali o meno, che un intero continente vede erose o sommerse a favore dell’emergere e diffondersi virale del mostro romanzo).
Una opzione non-narrativa, antiromanzesca, può avere valore di alterità e spostamento (dagli andamenti suddetti del predatore) anche in aree, come quella europea, nelle quali la distruzione è avvenuta ormai da tempo, e la storia ha attraversato più innesti e mutazioni. (E il romanzo stesso si è adattato per farsi accettare. Ha messo la maschera della sperimentazione, dell’incongruo, del complesso. Il vile, il porco).
Sempre e in ogni caso, tipico della macchina romanzesca e anche di altre entità schiacciasassi, è il gesto divorante, a ganasce aperte, il flusso largo, la verbigerazione, l’andare avanti per paginate e paginate senza misericordia.
Seicento pagine. Seicentocinquanta. Prima di salire sul treno il viaggiatore si àncora a terra comprando in edicola l’ultimo o il primo foratino della nota saga. Settecento pagine, mille. Leggi, leggi: ti coinvolge nella riproduzione mondana, speculum mundi, e nell’immedesimazione. Sei suo dalla genesi.
Mentre al contrario è proprio svellendosi violentemente da sé, dallo schiacciamento del sogno e dal Wille del flusso, che ci si ricolloca e rimodula nell’Altro. (Anzi: si disloca l’inconscio, con tutti i suoi echi di empatia).
L’altro delle strutture ampie è, al contrario, il medesimo. Una calamita. Ore di viaggio che non sai di star facendo, cullato dai ritmi, dalle vicende, e già sei al delta, hai percorso tutta la stolidità del fiume, ti sei letto (in) un romanzo. Senza guadagnare altro che acqua, altra acqua, imbarcandone, affondando, affondandoci. Fidandoti.
Non si tratta della disindividuazione, si tratta semmai al contrario dell’esser colonizzato e mangiato. Usato come specchio altrui. Stai fermo, non muoverti, lasciati andare, facciamo tutto noi, le parole. Tante, troppe.
Leggiti questo romanzo, guardati questo bel film.
Sulla esecuzione dei testi di Quasi tutti: da qualche anno ho assunto una postura che sottolinea vocalmente alcuni passaggi, con inflessioni colori scivolature, perfino gesti. Ma devo asciugarla ulteriormente. Togliere orizzonte e dare orizzontalità. Sottrarre spazio alla tentazione dello spettacolo, senza per questo far morire di noia chi ascolta.
provo un’infinita malinconia e uno schietto desiderio di suicidio. e un ragionamento che ha portato i ricercatori ad una soluzione molto drastica.
G.G.: scrittura desiderante : scrittura immaginaria dell’io = non assertivo : assertivo? E quanto importa il desiderio nel soggettivo percorso? Inconscio dilatato, quasi la scrittura fosse una protesi o i tentacoli di una medusa che si allunga all’esterno per osmosi, per riempire, per poco, la realtà, attratta dal reale impossibile. Non ho ben capito quel che ho scritto ma sento che è questo quel che volevo dire: cosa è la volontà dell’io in una scrittura di genere Marco Giovenale?
M.G.: La proporzione mi garba abbastanza: la scrittura desiderante sta alla scrittura immaginaria del Moi come il non assertivo sta all’assertivo.
Cosa aggiungere?
Penso, certo, di aver parlato più di inconscio – e di soggetto dell’inconscio – che di Io o SuperIo. E non credo si possa fare altrimenti, lavorando con la parola scritta e parlata. Scritta ed eseguita. (E perseguita, e perseguitata).
Tutta la scrittura che non si rende conto di questo passaggio copernicano è, a mio avviso, tolemaica. Ma va bene (forse il mondo occidentale gira, e gira così, precisamente perché si fa centro: si punta il compasso addosso).
Ossia tutta la scrittura di grande distribuzione e grande accoglimento è scrittura di genere. Alza il cartello “Qui poesia” come altre scritture alzano il cartello “Qui giallo” o “Qui fantascienza”. Fanno le mossette, i lettori le riconoscono, e si accodano al cartello.
Sulla scrittura di ricerca non ci sono scritte, perché tutti i tentativi più o meno abbozzati di darle una vestina per coprire le curve falliscono e in tanti lo ammettono. Quindi sono felice quando mi dicono “anatema! scrittura di ricerca no, scrittura di ricerca non significa una fava!”, oppure “non-assertivo no! ἀνάϑεμα n’ata vòta, categorizzatore esecrando! tutto è assertivo, come fai a non asserire?” (Eh. Pensa tu che allora uno non potrebbe nemmeno dire “incolore”, perché ovviamente per la meninge di genere, generosa, “tutto ha colore”). Che fioritura flarf! che rigoglio di contumelie. E io sono contento: soprattutto quando queste “critiche” vengono dall’interno più comico della sperimentazione. Proprio noi che sperimentiamo, hélas, nescimus?
Già già.
Benedetti, come pensate possa essere diversamente, se serissimi s’è nel ricercare?
E allora: nella scrittura di genere (all’ingrosso, spaccando tutte le formine della critica da spiaggia o da cattedra: fantascienza, poesia, giallo, fantasy) è del tutto evidente che l’io con la “i” maiuscola, l’Io, spanda e spalmi la propria volontà – e il proprio irraggiare istruzioni & istituzioni su come debba il lettore specchiare l’auctor – nell’opera. Era un’opera. Fu. L’hanno or ora operata per piantarci dentro un ripetitore: un riferitore, un riproduttore, che al dicitore o scrivitore rimandi il suo medesimo detto e medesimo scritto. Mai il dire, mai lo scrivere, sempre il già stabilito, il detto, ri-detto, scritto, ri-scritto.
il governo sembra puntare sull’approva l’antimateria. il pacchetto arrivato alle camere ha risolto. prima di passare al senato. basta che tocchi la materia. fine dei problemi. che gli ci vuole al mediterraneo per rimarginare? da nizza alla dalmazia fai il giro o salti. e uguale. e l’uovo.
G.G.: è un estratto da «differx.it»: che rapporto hai con l’antimateria?
M.G.: Ah, guardi, ognuno a casa sua.
La sera andavano in via Veneto. Lì un distributore di uranio aperto giorno e notte. Si diventava brillanti senza saperlo.
G.G.:Quasi tutti: con quale criterio hai suddiviso la tua raccolta? E perché non scrivi come tutte le persone normali, invece di usare prose che non sono prose e poesie che non sono poesie? Prima di congedarci… in che direzione sta proseguendo la tua scrittura?
M.G.: La divisione interna, come spesso mi accade dando di lama ai libri, è istintuale e lascio un po’ fare alle insofferenze che saltano su mentre leggo o rileggo il dattiloscritto. A un certo punto metto punto. Segmento. Qui finisce pinco e inizia pallino. Cose così.
A posteriori, purtroppo, devo constatare che questo bassissimo grado di professionalità non è stato in grado di arrivare a rovinare veramente la partizione, rendendola aleatoria. Sembra infatti che ahimè la suddivisione interna della raccolta segua abbastanza fedelmente la divisione delle fonti: eavesdropping per cominciare, poi cut-up, materiali da film, eccetera. Per arrivare alla sezione grande (una specie di secondo tempo del libro) intitolata “differx.it”, che semplicemente mette insieme materiali scelti da un blog che avevo fino a non molti anni fa. C’è dunque una regola in tutto ciò, ho sbagliato anche stavolta.
Perché non scrivo come tutte le persone normali? Perché vivaddio tutte le persone normali, o quasi tutte, non sono normali. E se le lasciassero libere di sbattere in pagina quello che veramente le costruisce e le impalca tutti i giorni, non farebbero né il diarietto né l’instagram, bensì la prosa in prosa. Anzi già la fanno qualche volta, magari.
Dove vo? – domandi.
La mia scrittura prosegue grosso modo sui canali di Quasi tutti. Ma con una virata verso il sillogismo e la finta narrazione, sgretolata, che al momento sto concentrando in due o tre raccolte, di cui la più ampia è Oggettistica.
M.G.: Il frontespizio dello Speculum Mundi (“Speculum Mundi or a Glasse Representing the Face of the World; Shewing Both that is Did Begin, and Must Also End: The Manner How, and Time When, Being Largely Examined. Wheretunto is Joyned an Hexameron, or a Serious Discourse of the Causes, Continuance, and Qualities of Things in Nature”) di John Swan, 1635, è immagine ripresa dal sito d’aste Bonhams: https://www.bonhams.com/auctions/18847/lot/137/
Fin dalle prime righe di Mona, il romanzo verità di Bianca Bellová per Miraggi Edizioni, ci si addentra in una vicenda in cui gli eventi, così drammaticamente raccontati nella loro crudezza, rivelano un mondo dove le donne vengono considerate esseri non solo secondari, ma spregevoli.
Ma la protagonista non si arrende.
Mona è un’infermiera che accoglie, cura e si dedica con grande passione alla cura dei feriti di guerra e deve essere abituata a gestire le situazioni tragiche cui versano i malati che giungono al campo. L’ambiente è estremamente maschilista. Parecchi uomini la disprezzano. Le persone arrivano in ospedale con ferite profonde, dolori lancinanti, amputazioni e necessitano di qualsiasi cosa. Anche Adam, un giovane gravemente ferito, ha bisogno di cure specifiche perché ha una brutta ferita alla gamba.
Sullo sfondo di una guerra segnata dalla dittatura, guerra che irrompe con violenza inaudita nella vita della comunità e di ogni singola persona, ecco dipanarsi il percorso di crescita di questa donna. Certi ricordi tornano vivi nella memoria e rivelano una verità dominata dalla brutalità umana.
Quello che maggiormente colpisce in questa storia è l’aspetto orripilante dell’altra faccia femminile: sono le stesse “anziane”, o altre donne a compiere gli atti più crudeli nei confronti del loro stesso sesso. Sono loro infatti a decidere le mutilazioni genitali delle bambine; sono sempre loro a rispedire in casa le mogli picchiate a sangue dai mariti.
E sono state sempre loro ad aver insultato e ad aver deprecato la stessa protagonista rinchiudendola quando “loro” ritenevano fosse stato doveroso.
È questa la tragedia nella tragedia. L’orrore perpetuato da chi dovrebbe stare dalla tua parte per difenderti.
La nonna non le badava. Quattro donne la tenevano bloccata sopra una semplice branda sul pavimento, mentre la nonna guardava dalla porta. “Aspettiamo che tornino mamma e papà! Loro non lo permetterebbero! Loro non vorrebbero!” La nonna scosse la testa. Tocca a te stupida!
Mona è sposata con un uomo che per fortuna non la picchia. Si considera fortunata ad aver avuto pochi figli e ad aver in qualche modo allontanato l’interesse sessuale del marito per lei. Un appagamento che per queste donne è negato da sempre. La tradizione impone e vuole altro e non servono molti commenti a riguardo.
È un brav’uomo Kamil. Non la picchia, non la prende mai con la forza. La loda sempre per quello che cucina, anche quando non è un granché. Il marito di Mara la sua amica, l’ha trascinata per i capellie le ha dato un calcio in pancia così forte da farle uscire gli escrementi. Invece il marito di Azum ha ingaggiato un drogato per strada perché le buttasse addosso dell’acido in cambio di una dose.
Uno spiraglio di luce arriva dalla scuola per infermiere in città, ancora in funzione nonostante i bombardamenti. In ospedale si devono prendere le decisioni più difficili e risolutive per la sopravvivenza dei giovani. Il sovraffollamento nelle corsie e nei vari reparti diventa, man mano che si prosegue nella lettura, molto estenuante. La donna dedica molte ore ad un lavoro che ama. Ed è proprio in corsia che si instaura un rapporto particolare tra lei ed Adam: l’uomo deve subire un’altra delicata operazione.
Se è possibile, voglio vivere.
È ciò che vogliamo tutti. Ciò che desideriamo da sempre. Abbiamo il diritto di essere felici. Dovremmo esserlo senza mettere al primo posto sempre gli altri. Ma per Mona non è così. La tradizione culturale, le brutalità umane, il contesto sociale, le guerre, le devastazioni, le mancanze materiali hanno sempre fatto in modo che a prevalere per lei sia qualcos’altro.
Per lei, in tutte le crepe della vita, l’unica luce emergente è quella per Adam; il solo vederlo le dà sollievo, il dato di fatto che lui sia ancora lì le rischiara la giornata al punto che riesce a lavorare incessantemente per ore e quando sedendosi con un bicchiere di granita alla frutta qualcuno le rivolge la parola disprezzandola con un
Perché non sei accompagnata donna immorale?
lei con grande fermezza e coraggio riesce a rispondere: Scusi, mi fa ombra.
Molte volte abbiamo letto e sentito racconti simili. Leggendo questa storia non solo ci si affeziona alla protagonista, ma la sensazione netta è che esista un’altra via.
Rimaniamo inorriditi di fronte a questi eventi così vicino a noi. Ed è anche per questo che serve la letteratura come testimonianza. Non possiamo solo commentare. È arrivato il momento che le parole diventino azioni concrete. I romanzi come questi non rappresentano per chi legge solo evasione.
“Strano potere hanno le fiamme, come l’acqua che scorre; le guardi e ti incanti, resti immobile, non pensi più, non sai e non ricordi più niente, ma rivedi dentro di te tutto ciò che hai vissuto, tutto ciò che è stato, al di fuori di ogni forma e tempo.”
Krakatite dello scrittore, drammaturgo e giornalista Karel Čapek pubblicato dapprima a puntate sulla rivista Lidové noviny e poi in un libro unico nel 1924, è un romanzo fantascientifico che rappresenta i temi utopistici dell’epoca, gli effetti devastanti di una polverina esplosiva creata dal chimico Prokop, capace di radere al suolo interi paesi.
Krakatite è tradotto per la prima volta in Italia grazie alla casa editrice Miraggi, nell’esplosiva traduzione di Angela Alessandri, con una esaustiva postfazione di Alessandro Catalani.
Prokop, un geniale chimico, mette appunto una rivoluzionaria polvere esplosiva, ma se usata impropriamente può avere effetti catastrofici. La Krakatite esplode solo il Martedì e il Venerdì, ma non solo, la Krakatite ha un altro effetto sugli uomini e le donne: la polverina bianca ha la capacità di decifrare le vibrazioni degli atomi, scaturendo passioni incontrollabile.
Prokop, nella sua estenuante peregrinazioni vissuta come una vera e propria odissea, come ci spiega Catalani, è riconducibile ai miti dell’antica Grecia. Le donne di Prokop come le donne incontrate dall’eroe greco, si insinuano raffinatamente nella sua vita sconvolgendo il buon chimico.
In Krakatite sono presenti dunque innumerevoli riferimenti allegorici, tra deliri febbrili, sogni e realtà, Prokop affronterà una serie di peripezie per scappare da chi vuole impadronirsi della potente polvere, per un insano potere, per tenere in pugno uomini e nazioni.
Siamo difronte a un libro con la straordinaria capacità di attirate l’attenzione del lettore, non è solo un romanzo fantascientifico – sarebbe banalmente considerato così da un occhio poco attento – ma è soprattutto una estenuante ricerca intima ed esistenziale del proprio io: Prokop cerca l’amore, un amore idealizzato, infatti la donna con il velo che inizialmente incontra, non ha volto: è solo un’illusione o esiste realmente? Anche la spregiudicata principessa del castello, per quanto innamorata non basterà a colmare la sua sete d’amore.
“il cuore di Prokop era già in imbarazzo, colto da dubbi infami e umilianti; io sono, Gesù io per lei sono un servo, per il quale…probabilmente…si infiamma nel…nel…momento del delirio, quando…quando è sopraffatta dalla solitudine o cosa.”
Kralik lo ha definito “la più raffinata poesia sessuale della letteratura ceca” ed è così, Karel Čapek ha rivoluzionato sia le caratteristiche del romanzo fantascientifico, sia quelle del romanzo sentimentale, un libro dunque geniale e moderno che rispecchia la natura umana e la sua sete di esistenza, ma anche di assenza, in una ricerca tormenta, convulsa e dolorosa dell’amore.
Karel Čapek (Malé Svatoňovice 1890 – Praga 1938), giornalista, drammaturgo e narratore, è stato uno dei maggiori scrittori cechi del Novecento ed è stato ripetutamente tradotto in italiano fin dagli anni Venti. Grande sperimentatore di nuove forme e generi letterari, ha affrontato nella sua opera temi di grande attualità: l’intelligenza artificiale, l’energia atomica, la diffusione di epidemie etc. Deve la sua consacrazione internazionale all’opera teatrale R.U.R. Rossum’s Universal Robots (1920), che ha introdotto nella cultura mondiale il termine “ robot ” ed è stata di recente riproposta in una nuova traduzione da Marsilio.
Se raccontare è mettere ordine nella vita e trovarne un senso, i personaggi di Monaricorrono alla narrazione per prendere possesso della propria storia, mettere in fila gli accadimenti che ne hanno delineato l’andamento e riappropriarsi così della propria identità.
Come nel precedente Il Lago, Bianca Bellová ambienta questo romanzo in un tempo e in un luogo non definiti: un paese senza nome straziato dalla guerra e vessato da una dittatura religiosa.
Tutto, qui dove siamo, sembra fatto per cancellare l’identità personale: le grida di soldati senza nome, l’annullamento delle donne, che possono uscire solo accompagnate e con il capo coperto, la miseria di chi ha perso tutto, le sparizioni politiche e una natura inclemente che si riprende ciò che l’uomo cerca di strapparle.
Mona lavora come infermiera nel reparto militare dell’ospedale ed è qui che incontra Adam, poco più che un ragazzo, che oscilla tra la veglia e il delirio della febbre in cui continua a sprofondare in seguito all’amputazione della gamba. Gli analgesici scarseggiano, gli antibiotici sembrano non avere alcun effetto; Mona ha solo le parole per tentare di trattenere Adam nel mondo dei vivi e le usa come le ha già usate per tenere attaccata alla vita sé stessa in passato, ricorrendo al potere salvifico della narrazione.
Adam si attacca alla voce di Mona come all’eco di una felicità scomparsa per sempre: la mamma francese di Mona così simile alla sua nonna che, avendo lavorato per una famiglia francese, aveva ricreato per la sua famiglia, con il duro lavoro, lo stesso clima elegante che il ragazzo ritrova nei ricordi di Mona, a tenere lontano lo squallore e la distruzione che avrebbero divorato la città.
Bianca Bellovà non risparmia nulla di questa crudezza nelle sue pagine, ci mostra gli arti cauterizzati e le bende che trasudano sangue, le discariche dei rifiuti medici saccheggiate dai derelitti della città, l’ospedale che cede all’incuria, il silenzio rassegnato della gente comune.
C’è un cielo immenso che pesa sopra le teste dei personaggi di questa storia, che si muovono impotenti sotto di esso. “Fa caldo” si dicono, ed è una constatazione che resta sospesa, non c’è azione possibile, solo l’enorme fatalità delle cose.
Con questa accettazione Mona ha vissuto gli stavolgimenti che sono stati la sua vita, passivamente, come qualcosa di troppo grande per poterla provare a contrastare; e solo adesso, raccontando la propria storia a Adam, può riappropiarsene, scrollandosi di dosso l’apatia che la immobilizza. Mona passa quindi dalla passività del subìto al racconto attivo, valutando gli esiti e rimettendo in discussione il suo presente. Lo fa come una rivolta, come una scelta che non le può essere rubata, non stavolta.
La trama di questo romanzo non è l’ordito che allontanandosi mostri un disegno più vasto e preciso, è sfilacciata e discontinua, invece; se un disegno è presente non è per i nostri occhi coglierlo per intero. L’autrice ci mostra i suoi personaggi per frammenti, lasciando al lettore il compito di intuirne le traiettorie. C’è un prima e un dopo, però; Mona è una storia di trasformazione.
E c’è una levità particolare nel rappresentare, a pennellate lievi, i momenti di cambiamento profondo della protagonista; ed è qui che traspare tutta la maestria di Bianca Bellová.
In questa raccolta di dodici racconti, Bohumil Hrabal fa parlare la gente comune che lavora, passeggia, prende il sole, beve birra; gente comune che, in una parola sola, vive e che proprio nell’atto stesso di vive, racconta. Scrive la traduttrice Laura Angeloni: “è attraverso la parola che cercano di emergere dall’invisibilità in cui sono relegati e svelano la loro identità più profonda, composta di ciò che sono e che sono stati, ma anche di ciò che avrebbero voluto, o hanno sognato, di essere. Ed è in quel momento che il riflettore di Hrabal li illumina, mostrandoceli nell’attimo in cui « si sono strappati di colpo la camicia e mi hanno mostrato il cuore ».”
Hrabal quindi da scrittore diventa un trascrittore, taglia e monta dialoghi, per riprodurre “i discorsi della gente comune, assemblandoli in un susseguirsi di voci che con la tipica genuinità e vivacezza della lingua orale danno vita alla polifonia di ciascun racconto.”
Scrive lo stesso autore alla fine dei racconti: “La perlina sul fondo non racconta le avventure di un orecchino di perla precipitato sul fondo di un pozzo secco, né di un uomo soprannominato Perlina che ha toccato il fondo. La perlina sul fondo non contiene nemmeno testi che nel loro sovratesto e sottotesto nascondono allegorie o simboli. E tanto meno racconti che si basano su un punto di svolta. Piuttosto ne La perlina sul fondo ho spostato la perlina al di là del fondo del libro. Volevo piuttosto indurre il lettore a riflettere sul fascio di luce di questi racconti, in cui le persone entrano all’improvviso per poi uscirne altrettanto all’improvviso, come se, avendo percorso insieme un pezzo di strada sul tram, da frammenti di conversazione e pochi gesti fossimo riusciti a conoscerli in profondità. Lasciando poi al lettore, nel caso ne abbia voglia, il compito di depositare sul proprio fondo le proprie perline. Grazie a quest’esperienza così forte i valori delle biblioteche universitarie riprendono vita e ogni più incredibile avventura umana rappresenta di per sé un’allegoria, un simbolo, e nasconde il punto di svolta e la perlina sul fondo anche al di là del suo fondo.”
Non avevo mai letto Bohumil Hrabal prima di questo libro. A ben predispormi nei confronti di questa lettura è stato il fatto che ami sia gli scrittori cechi sia leggere racconti. Leggerò sicuramente altro di questo autore.
Etnabook 2020 – Presentato oggi il programma e svelati i nomi delle sezioni ‘A ‘e ‘B – Enrico Morello’ del premio annesso “Cultura sotto il vulcano”
Il programma con gli ospiti
Venerdì 25 settembre, dove spicca anche un collegamento con Parigi con Giacomo Sartori a dialogare con Salvatore Massimo Fazio.
Ore 10.00-12:30 (Arcipelago delle storie online): Scrivere di sé, Laboratorio per adulti
Ore 10.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Baret Magarian, Le macchinazioni (Ensemble). Modera Antonio Ciravolo
Ore 11.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Raffaele Montesano, Il cratere Dostoevskij (Lekton Edizioni). Interviene l’editore Emanuela Anna Calì. Modera Simone Belvedere
Ore 12.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Marisa Fasanella, Il male in corpo (Castelvecchi).Modera Valentina Carmen Chisari
Ore 15.00 (Palazzo della Cultura, Sala CCP): “Una scuola del fumetto in Sicilia: la metamorfosi, da passione a opportunità lavorativa”, incontro a cura della Scuola del fumetto di Palermo
Ore 15:00-17:00 (Arcipelago delle Storie online): Scrivere di sé, Laboratorio per ragazzi
Ore 16.00 (Palazzo della Cultura Auditorium Concetto Marchesi): Incontro con Luca Quarin, Di sangue e di ferro (Miraggi Edizioni). Dialoga con l’autore Daniele Zito
Ore 17.00 (Campus Athena): “Metamorfosi fumettose: inventiamo un personaggio!”. Incontro Etnakids – Fumetto Junior. A cura di Matilde Leonforte e della Scuola del Fumetto di Palermo
Ore 17.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Luca Vullo, L’Italia s’è gesta. Come parlare italiano senza parlare (Ultra). Modera Fernando Massimo Adonia
Ore 18.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): EVENTO SPECIALE, video intervista esclusiva a Giacomo Sartori, Baco (Exorma). A cura di Salvatore Massimo Fazio
Ore 18.30 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Franco Di Guardo, I siciliani I dolci I Savoia. Dai fasti del Regno d’Italia all’avvento della Repubblica: una tradizione dolciaria viva che ancora oggi permane (Algra Editore). Modera Fabia Mustica
Ore 18.30 (Attimi Lounge Bar – Sant’Agata li Battiati): incontro con Andrea Serra, La luna viola (Miraggi). Modera Salvatore Massimo Fazio.
Ore 21.00 (Palazzo della Cultura, Corte): serata inaugurale con premiazione del Premio Letterario Etnabook – Cultura sotto il vulcano. Presentano: Ester Pantano e Paolo Maria Noseda
Sabato 26 settembre
Ore 09:00-11:00 (Arcipelago delle Storie online): Scrivere di sé, Laboratorio per ragazzi
Ore 10.00 (Palazzo della Cultura, Sala CCP): incontro con Giorgia Landolfo, insegnante di Kundalini Yoga, “Medita, Scrivi, Trasformati”
Ore 11.00 (C.C. Katané): incontro con Gloriana Orlando, Un inconfessabile segreto (Algra Editore). Modera Lisa Bachis
Ore 12.00 (C.C. Katané): incontro Etnakids, “Color spots”. A cura di Matilde Leonforte
Ore 12.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Claudio Pelizzeni, In viaggio (Rizzoli – Illustrati). Modera Lucio Di Mauro
Ore 15:00-17:00 (Arcipelago delle Storie online): Scrivere di sé, Laboratorio per adulti
Ore 15.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): Catania Book Party, “Siamo tutti farfalle, la terra è la nostra crisalide”. A cura di Valentina Carmen Chisari
Ore 16.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Rosario Palazzolo, La vita schifa, (Arkadia Editore). Modera Luciano Modica
Ore 17.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Anna Giurickovic Dato, Il grande me, (Fazi Editore).Modera Lucio di Mauro
Ore 17.30 (CC Katanè, Libreria Mondadori): incontro con Sarah Donzuso, Da sempre e per sempre. Due amiche, un viaggio e un segreto, (Algra Editore). Modera Katia Scapellato
Ore 18.00 (Palazzo della Cultura, Corte): incontro Etnakids, “Color spots”. A cura di Matilde Leonforte
Ore 18.00 (Salone Russo – CGIL Catania): “Insegnare la Storia, insegnare la cittadinanza”. Incontro con Salvatore Adorno(curatore) e Andrea Miccichè (autore), Pensare storicamente (Franco Angeli). Modera Rosa Maria Di Natale
Ore 18.30 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Costanza Di Quattro, Donnafugata (Baldini+Castoldi). Modera Mario Incudine
Ore 20.00 (Palazzo della Cultura, Corte): incontro con Daniele Di Frangia (curatore) e Daniele Lo Porto (autore), Catanesi per sempre (Edizioni della Sera). Modera Francesca Calì. Al termine dell’incontro è prevista la consegna del Premio Etnabook a Daniele Lo Porto
Ore 21.00 (Palazzo della Cultura, Corte): incontro con Sara Rattaro, La giusta distanza, (Sperling&Kupfer). Modera Paolo Maria Noseda
Domenica 27 settembre
Ore 10.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Giovanna Spitaleri, Il sole dentro me (Edizioni Lett. Il Tricheco); Salvatore Gazzara, Luce perenne (Edizioni Lett. Il Tricheco)
Ore 11.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Vera Ambra, Catania, alla scoperta della catanesità in forma di parole (Akkuaria Edizioni). Dialogano con l’autrice Daniele Lo Porto e Santino Mirabella
Ore 12.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Andrea Mauri, Contagiati, (Ensemble). Modera Simone Rausi
Ore 15.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): Catania Book Party, “Siamo tutti farfalle, la terra è la nostra crisalide”. A cura di Valentina Carmen Chisari
Ore 16.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Antonella Nocera, Metafisica del sottosuolo (Divergenze). Modera Marco Patrone
Ore 17.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Barbara Bellomo, Il libro dei sette sigilli (Salani).Modera Paolo Maria Noseda
Ore 18.30 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): incontro con Antonio Caprarica, La regina imperatrice (Sperling&Kupfer), interviene l’avv. Piero Lipera Modera Federica Duello. Al termine dell’incontro è prevista la consegna del Premio Etnabook ad Antonio Caprarica
Ore 20.00 (Palazzo della Cultura, Auditorium Concetto Marchesi): proiezione e premiazione della Sezione Booktrailer. Proclamazione dei vincitori e premiazione della sezione C del Premio Letterario Etnabook – Cultura sotto il vulcano
Ore 21.00 (Palazzo della Cultura, Corte): incontro con Dora Marchese, Nella terra di Iside. L’Egitto nell’immaginario letterario italiano (Carocci Editore). Dialogano con l’autrice Marilina Giaquinta e Maria Antonietta Ferraloro.
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