Rigorosamente in minuscolo. Perché l’espediente scelto per il titolo (“d’Amore. di Rabbia. di Te”) vuole mettere in evidenza i sentimenti e la persona. E’ l’opera seconda di Andrew Faber, dopo “Non ho ancora ucciso nessuno”. Formula vincente non si cambia: poesie e racconti, più o meno brevi. Cambia però, aspetto fondamentale, il filo conduttore di fondo. Come racconta Faber: “E’ il proseguimento del primo libro, uscito a luglio 2016, ma il tono è meno serio. Strizzo l’occhio alla leggerezza evitando di scivolare, spero, nella banalità”.
Che cosa è successo in questi mesi? “Il primo l’avevo scritto dopo essere uscito, in maniera pesante, da una storia lunga. Ero anche andato a vivere da solo. Ora sono più sereno, si vede nella scrittura: più spensierata, più leggera, più libera”.
E’ venuto fuori di getto oppure meditato? “Di getto. Dopo “non ho ancora ucciso nessuno” ho scritto tutti i giorni, pubblicando su Facebook. A marzo mi chiama Miraggi e mi chiede di immaginare un volume che sia pronto in tre mesi. Io rispondo di no. Mi dicono di pensarci sopra, di prendermi qualche giorno. Ho valutato quanto avevo scritto, ho visto che era pubblicabile. In tre mesi ho irrobustito il materiale ed ecco “d’Amore. di Rabbia. di Te”.
C’è un tema che predomina? “L’ho sempre detto: sono un gran fanatico della donna e anche in questo si parla d’amore, sia pure in maniera differente. E’ molto introspettivo e molto più maturo di quello precedente”.
Hai avuto modo di “testare” le poesie prima dell’uscita del libro? “Non immaginando un secondo volume, ci sono cose che portavo negli spettacoli da tempo, conosciute da chi mi segue. Diciamo che ho già verificato sul campo e che è piaciuto”.
“Ultimamente usciamo insieme” è il titolo dell’evento in cui coinvolgi Federico Sirianni, cantautore e scrittore. Come è nato il vostro rapporto? “Io vivo a Roma, ho conosciuto Federico (un genovese) a Torino attraverso Catalano. Poi mi ha invitato a una sua serata quando è venuto nella mia città, ho letto alcune poesie. Ci siamo conosciuti e ci siamo presi. Volevo restituirgli il favore e sono felice che abbia accettato”.
La stand-up comedy in forma scritta: è “Non disturbare”, di Claudio Marinaccio, torinese, scrittore (Linus, Il Mucchio Selvaggio, Gq, Donna Moderna) e lavoratore (ma mantiene il più stretto riserbo su cosa faccia nella vita: nulla di illegale, comunque…). Se negli States si tratta di uno dei generi di maggiore successo – e di maggiore difficoltà, visto che la presa sul pubblico non deve mai calare, uno contro tutti a teatro come negli show televisivi -, in Italia è una forma di intrattenimento ancora poco frequentata, se non ignorata (o evitata) del tutto. Marinaccio ha accettato la sfida, passando dal romanzo d’esordio (“Come un pugno” del 2016) a un libro costruito su descrizioni fulminanti e dialoghi nonsense. Un susseguirsi di ritratti e situazioni nato dalle sollecitazioni su Facebook.
“Scrivevo dei post, in cui prendevo in giro quelli che ti scocciano al citofono oppure al telefono. I Testimoni di Geova che vogliono convertirti o i call-center delle aziende che vogliono farti firmare un contratto. Erano dialoghi surreali. Sono piaciuti, ne ho ideati altri ed è nato il libro. Volevo creare una stand-up comedy scritta. Da noi non tira, negli Stati Uniti va alla grande: c’è un professore di lettere che ha definito la stand-up comedy un genere letterario e la insegna così. E’ libera, racconta la realtà per come è sporca. Negli States sanno ridere di tutto in maniera intelligente, partendo dalle situazioni di vita quotidiana. Come ho provato a fare io”.
Perché il titolo “Non disturbare”? “Siamo sempre in comunicazione 24 ore su 24, tra internet e WhatsApp. Non rimaniamo più da soli. Riceviamo milioni di input, tutti possono avere un’opinione e oggi manca un’intimità dell’opinione. Non sono obbligati a dirmela, invece lo fanno. Adoro una citazione di Palahniuk: “Quando ti chiedono come è andato il week-end è perché non vedono l’ora di raccontarti il loro week-end”.
Riflette il tuo modo d’essere? “Amo stare in mezzo alla gente, la mia famiglia è numerosa e nel libro spuntano nonne e zie. Ma mi piace anche la solitudine in mezzo alle persone, senza uno scambio di parole. Si tratta di spazi vitali da difendere, si deve poter ritagliare la propria solitudine”.
E’ la posizione da cui guardi chi diventa protagonista dei tuoi racconti? “Mi piace osservare quello che succede: entrare in una bar, vedere le persone, anche ascoltarle. Lo adoro. E poi mi piace passeggiare, ti dà la misura della realtà. Ti costruisci un’idea della gente e vedi le cose”.
Riveli una passione per i Testimoni di Geova… “Ora mi scrivono quando al citofono si presentano i Testimoni di Geova. Non ho niente contro di loro ma mi fa ridere questo essere fuori del tempo, questa idea di convertire al citofono”.
E’ stato complicato il passaggio dal romanzo al racconto? “Il romanzo è più vincolante nello sviluppo della trama, i racconti sono molto più liberi. A me sono sempre piaciuti i grandi classici: Hemingway, Dostoevskij, Bukowski. In loro è presente un’ironia di fondo, la mia è più cinica, quella che maggiormente si addice ai pezzetti di vita di “Non disturbare”.
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