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Pasquale Panella: la piena dell’io. La recensione di Andrea Galgano su cittadelmonte.it

Pasquale Panella: la piena dell’io. La recensione di Andrea Galgano su cittadelmonte.it

Respirare la germinazione dell’io, appropriarsene per sentire tutta la profondità del fondo, incatenare le negazioni per affermare il mondo attraverso una forma antilirica che spodesta il viso aperto dell’indefinibilità e concentra il respiro delle parole in mostra, la loro forza, il loro abbandono di collezione.

È da questa vitalità nascosta che è possibile leggere Poema bianco[1] di Pasquale Panella, edito da Miraggi, ora ridisegnato e ampliato dopo essere stato pubblicato la prima volta nel 2007, per le edizioni IRI.

Autore tra i più importanti della musica italiana, dall’ultimo periodo di Lucio Battisti, passando per Zucchero, Mango e Amedeo Minghi, qui concede il suono elementare della parola nel verso, nel soliloquio che tende all’istantaneo, nel cadenzato bianco dello sguardo.

È il tono dell’intimità smussata, dove l’ascolto diventa più di una voce e attraverso la grammatica del senso si compone l’umano, si libera il suono e l’assenza, che invade il suono del corpo, unisce e lega indissolubilmente l’essere e la sua appartenenza, il suo doppio e il tu, la consequenzialità espressiva e l’accento della propria inner vision, come afferma Isabella Cesarini:

«Per Panella il timbro nel tatto, il suono nello sfioramento. Scrivere negando la poesia per accordare corporeità, ossia corpo, al verso. La sagoma di una scultura friabile, posta sul frangente di un corpo armonioso: il lemma. L’altro è il sé, ovvero un luogo. Un altrove dove accadono le cose, i sentimenti nel prima degli oggetti e nel dopo dei corpi. Il midollo nella parola sollevata dalla forma per far fiatare solo il sangue. Rosso di cuore e rosa di carne: bianco nello stato metatemporale del compiersi. Quel che è scritto è scritto, non accaduto, ma nel futuro del possibile. Nell’aura l’afflato di una rivoluzione scandita da due offensive; l’incursione a spoetizzare la parola e l’invettiva nel poema d’amore: la guerra è amore tra i sessi. Il non esserci figura l’edificio marmoreo dell’esserci: fondamenta di vocali e consonanti a scompaginare la lirica. L’amore è ossessione fuori dal ricordo e nella memoria agita solo la costruzione della reminiscenza. L’altrove è l’oltretempo di una voce che tuona su se stessa».[2]

L’intima rassegna dell’assenza che sfiora il congedo dalla parola per farsi respiro, commiato di carezze che stringe i sensi, afferma la storia e la piena dell’io fino al termine e alla destinazione, fino alla vista che vive come inchiesta sull’avvenimento delle cose, sulla loro datità e permanenza, e sulla fine nell’animo: «Faccio che non esisti / perché vorrei esistessi / non in questa vita della gente / ma in quella che non sta né in cielo né in terra / ma solamente nella nostra contentezza».

Descrivere la densità dell’istante che si propone significa avvertire la debordante consunzione della parola che non riesce a dire pienamente, nonostante sanguini e patisca, nonostante il dicibile è appena un non-detto, un respiro affiorato e arenato: «Respiravamo e basta / Le mani come il vento che si calma / sul ventre, su una coscia, su una spalla / Il viso ritornava a fare il viso, / il profilo la prora / di una barca incagliata / Era il tuo viso che ritornava / La tua bocca affiorata, / la mossa di un’ultima ondata, / il tuo corpo arenato / Quanta sabbia t’ho amato».

Prendere l’immagine femminile e impossessarsene, per essere altro da sé e in sé, dialogare con la sua frattura e la sua figurale gradazione affettiva, ricolma nei dettagli spaesati:

 

«Lo sai che le nostre / figure camminano / sui muri e sul soffitto? / E si potrebbe ridere / per questo / Ma quante ombre / abbiamo fatto insieme / Non è con il pensiero / che ti ricordo / Non è con il ricordo / che ti penso /  È un’altra cosa. / è il senso / Prima non era / necessario […] Trovo cose tue spaesate in casa / Come un orrore provo / – esagero, sì, ma dire le cose / (ovvero i sentimenti) è esagerarle – / e un freddo che fa tremare / la palpebra di un occhio / non voglio guardare / Se guardo è di traverso / Cerco di non vedere / Voglio allontanare / Fare sparire / Ma voglio anche / sapere dove / Di’ qualcosa anche tu / Fa’ finta che ti senta / Fa’ finta ossia fammi il poeta / (fallo tu) / Diventa marinista / (sennò che poeta sei): / “Orrore non è il timore che le cose / si possano animare come mostri, / orrore è il timore / che una tua cosa senza te / (rossetto, fermacapelli, / occhiali da sole), / muovendo da essa stessa / partendo da un capello o da un’impronta, / non possa dimostrarti, / come si dimostra un teorema – / tutta intera e animata, / anche, se vuoi, mostruosa, / mostruosamente amata”».

 

In questa distanza si compie un desiderio alto e finale di raggiungimento. Un soliloquio, dunque, che scrive la sua mancanza ultima, che declina le negazioni per affermare, che spinge il frattale del dissolvimento in una purezza levigata e sorgiva.

Nella prefazione Lucio Saviani scrive:

«Un soliloquio. Sorprendere qualcuno a parlare da solo crea imbarazzo, ci si sente come intrusi, uno parla da solo, si rivolge a se stesso. O a qualcuno che resta muto? Oppure a uno che è assente? È la parola nella solitudine, una parola agostiniana. Ma si parla, qui, di solitudine come condizione del corpo o come disposizione della mente? Parla da solo chi non ha nessuno intorno a sé o chi non parla a nessuno se non a se stesso, anche se in mezzo a una folla? Se parlo e sono solo non è detto che stia parlando a me, e se parlo a me non è detto che stia da solo. Eppure, se puoi parlare a te stesso, essere il tuo interlocutore è perché hai interiorizzato il parlare tra due, il dialogo, ossia il «pensare in due».[3]

Parlare a se stessi e alle proprie stanze, alla propria mancanza, al fondo estremo del pensiero che si riflette, si espone, dialoga con la propria ineffabilità e si apre alla indescrivibile ansa del raggiungersi, del compiersi, della vita che si dona per ultimarsi, commuoversi e diramarsi nel silenzio:

«Tra parentesi / (ti chiedo a me) / ti pare possibile / (a me sì, possibile che sì), / ti pare possibile che tu, / (tu no, non sei possibile) / come io ti parlo, sì, tu / mi stia parlando? / Ossia ti sento me / (ma non mi sento te) / Non so come altro / Non so come altro dirlo / Non so, come altro, te […] L’interpunzione, ecco: / questi due punti precedenti, / le virgole, / l’interrogativo poco fa / Il punto fermo, no / Quello, alla fine / Sai, sono segni».

Il silenzio che appartiene al fondo e alle separazioni, la piena del romanzo dell’io si scompone nelle fibre e nelle venature e trasuda. La scomposizione della grammatica si sposta così per l’altro io che appare, ascolta, vive, diventa coppia e vira al femminile («I fatti e le persone diventano / nel poema immaginari / e nella realtà non esistono più / La voce del poema è femminile» o ancora «se al maschile / abbiamo al mondo un fine/ è la fine che abbiamo al femminile»).

Qui la parola compie se stessa quando dice io, quando si coniuga nella sua mancanza e indocile scarsità, nel suo lampo unico e nella pioggia grondante cade dall’alto, come un ricordo di una scena che si ripete: la durata delle elisioni, le rime che si cercano, il corpo nudo e bianco e la lontananza che accade.

Sono i modi finiti del tempo nella sintassi ineludibile, nell’inciampo, nell’ombra che cammina. E le fratture dell’essere, fino al nascondiglio immaginato e al poema vacillano nell’assenza e nella perplessità dei corpi in amore. La loro incertezza, il loro bisogno a distanza, il pensiero che parla come se fosse un’altra stanza e una compagnia di solitudini: «La nostra non che fosse incerta, / anzi, ma sarebbe molto stupido / se ci si innamorasse per vivere / la vita / Morire insieme è il primo / Progetto sovversivo di chi / Si innamora da vivo».

Qui Panella addensa la scrittura per farne essenzialità di altrove, controversia, pagina non scritta e luogo stesso della pagina, doppia negazione e dissoluzione franta dell’io, gli apostrofi, i bersagli mancati, le cadute di suono e rumore, l’invisibilità, l’attraversamento di una sparizione e la bellezza:

«Insomma, è ovvio, dico / E cos’è l’ovvio? È la possibilità, / in questo caso, / che le cose ossia le persone, / noi due, per essere precisi, / noi, gli unici abitanti della terra, / per quanto ne so io di te e di me / (gli altri sono le solite voci che girano / vocìo, notizie, ossia troppa invenzione)… / la possibilità (dicevo) che in quella sparizione / (dico) eventualmente noi poi ci incontriamo, / là dove gli spariti vanno e stanno / (e chi è più sparito di noi?, mi domando / conoscendo la risposta, e questa, / per inciso, è l’unica risposta che conosco […]».

 

In questo agone quotidiano, Panella ridesta le soglie e le linee della quotidianità, i paradisi della vocalità, avrebbe detto Mario Luzi, le voci perdute nei dettagli. L’amore plurale di ogni cosa, lo stesso amore da lontano. È il gioco dei pronomi, la loro attestazione finale che precede il loro infittimento: «Come sarebbe il mondo se noi veramente sapessimo, / potessimo ascoltare il parlar da solo dell’altro».

Il procedimento linguistico dell’autore ricorda molto il Milton Model, strumento del linguaggio che Milton Erickson utilizzava con i pazienti e che poi Richard Bandler e John Grinder[4] hanno codificato, individuando pattern linguistici, come scrive Samuele Corona:

«Il Milton Model contiene una serie di locuzioni e schemi di linguaggio che comprendono generalizzazioni, affermazioni ambigue linguaggio indiretto. Tali schemi linguistici possono risultare indirettamente evocativi; in pratica permettono di “portare” la persona a guardarsi dentro di sé in modo che possa utilizzare l’immaginazione creativa.

E ancora:

«Con il Milton Model il soggetto entra in uno stato alterato in cui la mente conscia è distratta, mentre quella inconscia è libera di ascoltare le parole del proprio interlocutore. La mente inconscia interpreta il linguaggio del modello come un’istruzione per accedere a nuove risorse e creare nuovi comportamenti. Le istruzioni sono mantenute deliberatamente vaghe in modo che la persona debba scavare in profondità fra le proprie risorse inconsce e produrre così un cambiamento in modo facile e senza compiere sforzi. Il Milton Model utilizza simboli, metafore, immagini e un linguaggio positivo che attrae la mente inconscia e può indurre uno stato di trance, scatenando le risorse inconsce e il potere dell’immaginazione».[5]

L’amore superstite, l’acqua feconda, il silenzio che nasce come se fosse esilio, mondo leggero, il viso inclinato, la bocca scalfita dal sorriso, ultimità serrata come il mare.

«Ho mentito che t’amavo / Capiscimi / Avrei voluto versarmi / sul tuo viso, sul tuo petto / come crema umana / invece la mia voce parlava / Avrei voluto tu fossi / fango, una melma
nella quale affondare / soffocando / Invece, restando in superficie, / ci dicevamo a parole l’amore / come due villeggianti nuotando / (nell’acqua le bracciate / sono come all’asciutto/ gli abbracci: ci fanno / galleggiare; anche le gambe: / tu a delfino, io a rana, / e nella stessa acqua) / Avrei voluto speronarti / entrando in te, / le braccia nelle braccia, / le gambe nelle gambe / come in una tuta / da meccanico con la chiusura / lampo serrata come il mare / sul nostro affondamento / Come in una muta / Invece vociavo senz’acqua / nella bocca, anzi, ricordo, / poi, dopo, bevevamo / da una bottiglia l’acqua / che, fresca, accanto a noi / si intiepidiva sapendo / di temperatura umana  / Con l’acqua in bocca per volerla bere / perdemmo l’occasione di annegare / e di tacere».

Perché l’amore è il punto deserto, dove non passa nessuno, il punto fermo del corpo nel deserto. E poi ancora i gesti soli come i ricordi, i suoni, i posti che scorrono e si palesano nel mondo che dura in quel tempo, per continuare a vivere. I tempi non coincidono, la sintassi amorosa non ha tempo, non trova scorrimenti, si ferma, si scambia, diventa il gemito di un lascito indenne, come una vacanza dal testo o la testimonianza di una resa:

«il mondo esiste / per le coincidenze / tra gli avvenimenti / e i nostri segreti / nella violenza di una repressione / nelle urla, in una maglia strappata, / (e il corpo apparso pare avere fretta), / nello strazio e nell’uscita stranita / di una voce, avverto i tentativi / di riprodurre il nostro godimento, / le mani addosso, le cariche, attentati / lo sfondamento, quella mescolanza / di forze dentro forze, / di ordine e disordine, / di bocche e di vestiti / e teste spinte sotto / dalla mano sopra / (come la polizia / fa entrare in macchina / i fermati / così io te, tu me, / noi, nostri sospettati».

La fine delle parole quando si ama. Come se dovessero essere prese da una rete, un sintagma spezzato, una nervatura di suono che inquieta, estasia, deraglia il subconscio. I collages, i patchwork, le pastiches, i paradossi, gli aforismi fittizi, le asimmetrie dettate uniscono emozioni oscure. La parola ne esce levigata, non mutila ma essenziale, non cerebrale ma spogliata: «L’acqua non scorre più, scorre l’anta. La frizione di un asciugamano, un tirar su col naso, il contrasto tra il corpo e il tessuto dell’accappatoio, ciabattine senza tacco come nacchere morbide. Fuori è spiovuto, gli pneumatici sul bagnato imitano gli scrosci. L’imitazione, il come e la somiglianza sono il lascito di quel che è finito di accadere».

È traccia lasciata dopo il diluvio, come dall’inaudito, come il per sempre che è eversione, così sia, universo.

Andrea Galgano

[1] Panella P., Poema bianco, Miraggi Edizioni, Torino 2018.

[2] Cesarini I., Vertigine della parola, (http://www.lintellettualedissidente.it/letteratura-2/poema-bianco-pasquale-panella/), 25 febbraio 2018.

[3] Saviani L., Nel verso del bianco (nota minima), in Panella P., cit., p.6.

[4] Vedi: Bandler R. – Grinder J., I modelli della tecnica ipnotica di Milton H. Erickson, Astrolabio, Roma 1984.

[5] Corona S., Il Milton Model (https://www.samuelecorona.com/il-milton-model/), 9 giugno 2016.

Panella P., Poema bianco, Miraggi Edizioni, Torino 2018.

Bandler R. – Grinder J., I modelli della tecnica ipnotica di Milton H. Erickson, Astrolabio, Roma 1984.

Corona S., Il Milton Model (https://www.samuelecorona.com/il-milton-model/), 9 giugno 2016.

Cesarini I., Vertigine della parola, (http://www.lintellettualedissidente.it/letteratura-2/poema-bianco-pasquale-panella/), 25 febbraio 2018.


Pasquale Panella: la piena dell’io. La recensione di Andrea Galgano su cittadelmonte.it

“Poema bianco”: la recensione di Lorenzo Mazzoni su ilfattoquotidiano.it

Poema bianco, di Pasquale Panella (contributi di Lucio Saviani e Francesco Forlani; Miraggi Edizioni), è un soliloquio poetico che prende spunto dalle costanti immagini della quotidianità e le trasforma in un originale linguaggio iperrealista. È l’analisi di un gioco di coppia che si trasforma in solitudine, un’immagine allo specchio fissata a lungo nella speranza che si sdoppi e porti nuovi significati: “L’acqua non scorre più, scorre l’anta. La frizione di un asciugamano, un tirar su col naso, il contrasto tra il corpo e il tessuto dell’accappatoio, ciabattine senza tacco come nacchere morbide. Fuori è spiovuto, gli pneumatici sul bagnato imitano gli scrosci. L’imitazione, il come e la somiglianza sono il lascito di quel che è finito di accadere”.

Lorenzo Mazzoni

“Poema bianco”: la recensione di Anna Vallerugo su scriveresenzaparole.com

“Poema bianco”: la recensione di Anna Vallerugo su scriveresenzaparole.com

Villasanta mi provoca, chiedendomi di scrivere di scrittori che scrivono “da donna”.
Questa è domanda che potrebbe suscitare levate di scudi, indignazione, Dario.

Forse non sono la persona giusta a cui chiedere due parole su “uomini che scrivono –  bene – sotto spoglie femminili” perché io per prima ho grosse resistenze nel credere in un’ipotesi di letteratura strettamente di genere. Si rischierebbe di scivolare con facilità nel cliché obsoleto – e francamente odioso – di una supposta e non provata maggiore com-prensione del sentimento di pertinenza femminile, naturale quasi, fisiologica: se posso, una scemenza di proporzioni colossali: pensa, per dire, alla meraviglia di acutezza e linguaggio dei Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, di penetrazione impareggiabile.

Sarebbe voler confinare l’alfabeto dei sentimenti, l’abilità di decodificarli e riconsegnarli al lettore in purezza e interezza solo se in stretta, sola adesione al proprio genere, negandone l’universalità.

Siamo tutti madame Bovary, ammetteva e ricordava Flaubert, sancendo in maniera ufficiale ciò che di autobiografico e di iperidentitario si insinua comunque nella stesura di un romanzo, anche solo in potenza. Come non individuare una comunione, lettrici o lettori, coi dubbi, tormenti, ombre di frustrazione che agitano la sua protagonista, soffrire per le sue aspettative disattese, riconoscere infine le sequele di scarti di moti dell’animo impercettibili eppure registrati e riportati con misura somma. Pagine che hanno una grazia miracolosa della parola, di perfezione massima e inarrivabile, e a cui solo l’autore stesso può permettersi di trovare una – a noi invisibile – limitatezza, difficoltà di resa: la parola umana è come una caldaia incrinata su cui battiamo musica per far ballare gli orsi, quando vorremmo commuovere le stelle”, scrive.

Di uomini che scrivono (bene, sempre questo è il punto) “da donne”, poi mi vengono in mente tra gli altri due libri italiani che ho letto proprio di recente, un romanzo e una silloge poetica.

Il romanzo è La ragazza che andò all’inferno di Stefano Bon, pubblicato da Castelvecchi. Nella storia di una moglie e madre che perde improvvisamente il marito e che si “mette seduta, in attesa del dolore” c’è una visione femminile di fato avverso e precipizio di particolare intensità e forza introspettiva. L’autore ravennate sceglie con efficacia di spostare il nucleo di tutte le vicende sulla sua protagonista, ed è attraverso il filtro della sua visione di donna che cogliamo tutta la portata dello sgomento di fronte all’ingovernabilità di alcune fasi della vita.

L’altro, infine, è un libro straordinario, Poema bianco di Pasquale Panella uscito ora per Miraggi.

Qui la visione al femminile è palese e dichiarata: Panella (scrittore magnifico, tra i tanti talenti paroliere di Lucio Battisti nel periodo post-Mogol) si appropria di un’identità che non è la sua già in prima pagina La voce del poeta è femminile, afferma, per consegnarci assenze, e amore, e amore in assenza, versi di delicatezza e intimità accennata, mai violata.

Si fa donna “mistica, barocca, visionaria”, Panella, per concedersi di dire tutto e fa donne anche le parole:

se al maschile
abbiamo al mondo un fine
è la fine che abbiamo al femminile. 

La superficie è quella del ribaltamento, del gioco verbale: ma divertissement, sola superficie (vedrà chi vuole accostarsi a questa lettura che raccomando anche per la ricchezza delle pagine – in prosa, stavolta – che chiudono il libro) non è.

Anna Vallerugo 

 

Pasquale Panella: la piena dell’io. La recensione di Andrea Galgano su cittadelmonte.it

Vertigine della parola: la recensione di “Poema bianco”. Isabella Cesarini su lintellettualedissidente.it

Pubblicata per la prima volta, e in poche preziosissime copie, nel 2007 per le edizioni IRI, è uscita a dicembre 2017 per i tipi di Miraggi edizioni l’opera Poema bianco di Pasquale Panella. Invero non si tratta di una riedizione, come afferma l’autore stesso, ma di una prima edizione che vede l’estensione nei capitoli “E due”, “E tre” e termina – solo sulla pagina – con “Rumori”, quest’ultimo in prosa. Il Bianco si intrattiene nelle comuni venature. Pasquale Panella è dentro l’impossibilità di un suono che lo definisca. È voce nel verso, silenzio nel soliloquio e poema in quel bianco che cadenza la parola. Giunge prima della poesia stessa, nel tono (suo) dell’intimità: la lirica precede la pagina. Il giro è fuori dall’umano, lontano dall’elemento di genere per compiersi in un’altra dimensione: invalidarsi per pervenire alla liberazione e far cantare il rumore. L’assenza è intima corporeità di una intesa tra due forme: il doppio trascorre nell’uno assoluto e definitivo.

Il Poema non si legge, si ascolta. Nell’Ode si ode la vibrazione di lei in lui e il tono di lui il lei, insieme nella voce femminile.

Tu credi che tu, che io, credi
Che siamo noi i protagonisti
(ma di che, delle parole?)
Qui la protagonista è una,
è la mia voce a me
(insomma, un singolare femminile)

 

Il timbro nel tatto, il suono nello sfioramento. Scrivere negando la poesia per accordare corporeità, ossia corpo, al verso. La sagoma di una scultura friabile, posta sul frangente di un corpo armonioso: il lemma. L’altro è il sé, ovvero un luogo. Un altrove dove accadono le cose, i sentimenti nel prima degli oggetti e nel dopo dei corpi. Il midollo nella parola sollevata dalla forma per far fiatare solo il sangue. Rosso di cuore e rosa di carne: bianco nello stato metatemporale del compiersi. Quel che è scritto è scritto, non accaduto, ma nel futuro del possibile. Nell’aura l’afflato di una rivoluzione scandita da due offensive; l’incursione a spoetizzare la parola e l’invettiva nel poema d’amore: la guerra è amore tra i sessi. Il non esserci figura l’edificio marmoreo dell’esserci: fondamenta di vocali e consonanti a scompaginare la lirica. L’amore è ossessione fuori dal ricordo e nella memoria agita solo la costruzione della reminiscenza. L’altrove è l’oltretempo di una voce che tuona su se stessa.

È il Poema del sentire nell’assenza, di lambire nell’addio. Il congedo è testimone sensoriale del sentimento che accade. Accarezzare la possibilità, comune alla brama dell’umanità, di morire insieme nell’amore.

La nostra non che fosse incerta,
anzi, ma sarebbe molto stupido
se ci si innamorasse per vivere
la vita
Morire insieme è il primo
Progetto sovversivo di chi
Si innamora da vivo

L’universale senso del patire si impone alla pagina per venirne consumato e infine espulso. Tutto si perde nell’atto del dire, rigorosamente come il libro lasciato al lettore. Il soliloquio non accade per alcuno: è una storia immortale, e come tale, priva di trame. Vive per sempre nell’istante dello sguardo, nell’infinito di un’indagine all’interno dell’animo. La descrizione non abita, ma risiede nell’istantanea immortalata dalla parola.

L’amplesso di un vocabolo che si compie una sola volta: il momento eterno di Poema bianco. L’amore è nell’immobilità, all’interno di un comando che si strugge nel non fare: l’unico sentiero per raggiungersi. Spazio bianco a scrivere il senso della mancanza. La distanza è un cecchino caricato a passione: il solo collante ammesso. Tutto accade come non dovrebbe poiché si è dentro l’accadere. La dissolvenza è nera. Il Poema si ascolta nell’incrociata bianca. Un montaggio di negazioni autentiche sino alla purezza e feroci sino al bianco.

Scrivere, al meglio,
è finire di far testo
E il meglio di ogni testo
È immaginarlo:
sostituire la memoria
con una impalcatura ariosa in aria,
che avverrà, che avverrebbe,
ossia con l’antistoria

Il giocoliere scommette con le sfere in volata, mediante sapienza, disciplina e ilarità. Il funambolo gioca alla vita con la corda. La poesia è in ogni luogo, latita – non qui – il poeta che è giocoliere, funambolo e infine grondaia. Sì, la grondaia che raccoglie le parole piovute del cielo, le versa nell’inchiostro e in questo fluiscono per gemicare luce. Il silenzio custodisce una voce. Il direttore d’orchestra è Pasquale Panella. Il bacio della parola a farsi bacchetta di direzione dentro la fibra di vetro. Il soliloquio è voce silente che mormora dentro le creature. L’amore è riconoscibile poiché non gode di favori espressivi per palesarsi. L’amore è sentito nella parola “fine” poiché il sentimento è opera e nell’opera vive e trova la chiusura. Da tracce sparse di un ascolto. La chiusura in un imperativo: ascoltare Poema bianco.

Isabella Cesarini

 

Pasquale Panella: la piena dell’io. La recensione di Andrea Galgano su cittadelmonte.it

Poema bianco: la recensione di Nicola Vacca su senzaudio.it

Pasquale Panella non si definisce uno scrittore, ma neanche poeta e paroliere. Rinuncia a qualsiasi etichetta, però non declina mai l’invito che le parole gli rivolgono e le sfida a viso aperto.

È appena uscito per Miraggi edizioni Poema bianco. Un testo di controversi, ma anche di antipoesia pura in cui Panella si cimenta con la demolizione di tutti i luoghi comuni della scrittura.

In un soliloquio antilirico («perché nel soliloquio c’è il silenzio, che nella realtà ossia nell’atmosfera del pianeta Terra non esiste») qui si legge ma soprattutto si sente la forza della negazione, che dovrebbe essere della scrittura la sua forza dirompente.

Poema bianco è una collezione di negazioni. In ogni parola «la doppia negazione è prepotente».

Negazioni in buona compagnia di paradossi di cui il bianco è la metafora che richiama alla mente il senso di un’ossessione, quello della pagina non scritta.

« … un libro bianco sulla mia / fame del  mondo» potrebbe essere questa la definizione dell’indefinibile Poema bianco.

Ma la nostra è solo un’ipotesi. Panella scrive con un ritmo incalzante le parole di questo poema, si lascia travolgere dall’ascolto delle sue stesse parole e ne propone uno a chi legge perché « Alle volte si scrive /sapendo solo cosa /non si scrive / esattamente /o  cosa esattamente / non si scrive / (pare la stessa cosa / ma non è la stessa)».

Davanti alle parole  la scrittura diventa spesso un vizio e quasi sempre chi scrive non si mette in ascolto che del proprio ego.

Panella si affida a tutte le negazioni anticonvenzionali dello scrivere: «Il bello delle parole scritte / è che, intanto, io posso tacere/ mente esse fanno il loro dovere / (e  intanto io posso piangere ridendo / come quando piove con il sole)».

Nelle soluzioni impensate delle parole si muove la riflessione dell’autore. Il suo Poema bianco, come giustamente scrive Lucio Saviani nella prefazione, è un rivolgersi la parola come rivolgendola a un altro.

Tra una negazione e una mancanza nella scrittura bisogna dissolvere l’ego e lasciare spazio all’altro. «Come sarebbe il mondo se noi veramente sapessimo, / potessimo ascoltare il parlar da solo dell’altro».

Poema bianco è un soliloquio antiretorico sull’ inutilità utile delle parole. Un testo antipoetico e impoetico in cui prevalgono le esagerazioni della scrittura. Pasquale Panella ci regala un testo illuminante che decostruisce tutte le ipotetiche certezze dello scrivere.

Nicola Vacca

Pasquale Panella -Poema bianco