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Krakatite – recensione di David Frati su Mangialibri

Krakatite – recensione di David Frati su Mangialibri

Praga, anni Venti. Il giovane ingegnere Prokop barcolla sul marciapiede della strada che costeggia il fiume Moldava. Ha i brividi e la schiena inzuppata di sudore, gli gira la testa, vorrebbe sedersi su una panchina ma ha paura di attirare l’attenzione di qualche poliziotto e quindi raccoglie le poche forze che ha e tira dritto. Si sente svenire, si accorge che un passante lo fissa con insistenza allora cerca di accelerare il passo ma vacilla, quasi cade a terra, è costretto a poggiarsi ad un albero e a chiudere gli occhi ansimando. Il passante lo raggiunge, a quanto pare lo conosce, dice di essere Jirka Tomeš, un suo collega del Politecnico. Si sente male? Può aiutarlo? Prokop accetta, è ferito: farfuglia qualcosa riguardo a un esplosivo sperimentale che ha battezzato “krakatite” in onore del vulcano Krakatoa, soltanto una piccolissima quantità di polvere ha distrutto la stanza dove si trovava Prokop, lo ha scaraventato a terra come un fuscello. Poi Prokop sviene. Tomeš lo raccoglie, lo fa salire su un calesse e lo porta a casa sua, dove gli dà un’aspirina, lo sveste e lo mette a letto. Prokop dorme e sogna. Sogna di incontrare Plinio in una fabbrica e di spiegare a lui il meccanismo d’azione della letale krakatite, poi di cadere, di fuggire, di rivelare la formula del nuovo esplosivo ai suoi colleghi accademici. Quando si sveglia, nota che Tomeš accanto a lui ha preso appunti: vuole rubargli la scoperta dunque? Dopo tanto lavoro, tanta sofferenza sarebbe un vero disastro… Crolla di nuovo in un sonno stavolta senza sogni. Si sveglia che si è fatto giorno, sono passate molte ore: si sente confuso, debole, ha un mal di testa lancinante. È solo in casa, Tomeš a quanto pare è uscito. Suonano alla porta, è una ragazza con il viso coperto da un velo. Prokop la fa entrare in casa, inebriato dal suo intenso profumo…

Finalmente pubblicato in italiano a quasi un secolo dall’uscita a puntate sul quotidiano “Lidové Noviny” nel 1923 (modalità narrativa che peraltro si rintraccia nella struttura un po’ frammentaria del romanzo), Krakatite è uno dei due grandi romanzi “pessimisti” di Karel Čapek assieme a La fabbrica dell’assoluto. In uno l’energia che tiene unita la materia viene sfruttata per causare esplosioni di potenza catastrofica, nell’altro per creare una divinità. In entrambi i casi però le conseguenze sono apocalittiche. Del resto Čapek, profondamente segnato dall’esperienza della Prima guerra mondiale – definita dagli storici il primo vero conflitto “tecnologico” della storia – era sinceramente preoccupato per le sorti del genere umano di fronte all’incalzare di una scienza solo raramente utilizzata per scopi pacifici (“A me la forza non piace, né quella bellica, né quella elettrica”, scrisse). Così, dopo il successo strepitoso delle pièces teatrali R.U.R. (nella quale viene coniato il termine “robot”) e L’affare Makropulos decise di regalare ai suoi lettori un inquietante, minaccioso apologo sulle armi di distruzione di massa che anticipa quasi profeticamente il tema dell’escalation nucleare. Ma non c’è solo questo in Krakatite. Come la quarta di copertina della bellissima edizione Miraggi vuole suggerire con la citazione riportata, c’è anche una metafora sociale nel romanzo, non solo un plot fantascientifico geniale: al mondo per Čapek “tutto è esplosione”, “tutto sfrigola come una compressa effervescente”, anche i pensieri e le emozioni, persino l’erotismo. Il rombo delle esplosioni è il suono della modernità, della frenetica cultura urbana che prende il posto di quella tradizionale contadina e travolge la vecchia morale. Nel 1948 il regista cecoslovacco Otakar Vávra girò una pellicola tratta dal romanzo che è passato alla storia per essere il primo film al mondo in cui è descritto un olocausto atomico.

QUI l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/krakatite?s=09

IL BRUCIACADAVERI – recensione su Il collezionista di letture

IL BRUCIACADAVERI – recensione su Il collezionista di letture

“Il bruciacadaveri” è il secondo romanzo dello scrittore ceco Ladislav Fuks. Pubblicato a Praga nel ’67, apparve in Italia nel ’72 nei Coralli dell’Einaudi, tradotto da Ela Ripellino e con un’introduzione di Angelo Maria Ripellino. Dopo quell’edizione, peraltro non più ristampata, non vi sono state altre successive edizioni e quindi quella è stata, sino ad oggi, l’unica da noi esistente. Finché, nel marzo di quest’anno, la casa editrice Miraggi edizioni, all’interno della sua collana di letteratura ceca, ne ha pubblicato una nuova edizione, con una nuova traduzione curata da Alessandro De Vito e una postfazione di Alessandro Catalano. A distanza quindi di circa cinquant’anni viene riproposto, in modo aggiornato, questo libro straordinario, rendendolo nuovamente disponibile.

Riproporre Fuks e “Il bruciacadaveri” è non solo un’iniziativa editoriale assolutamente meritoria ma è un tributo a un grandissimo scrittore e ad un’opera geniale che è da considerare a tutti gli effetti un capolavoro della letteratura del ‘900. Nel segnalare pertanto l’uscita di questa nuova edizione che colma con la sua presenza un vuoto nel panorama di quei libri di assoluto valore, ingiustamente dimenticati, propongo contestualmente, qui di seguito, due contributi per “avvicinare” o “riavvicinare”, per chi già lo conosce, “Il bruciacadaveri”.

Il primo, così da avere anche un riscontro della nuova edizione, è il testo di presentazione de “Il bruciacadaveri” contenuto nella bandella di copertina della edizione della Miraggi a firma di Alessandro De Vito che ringrazio per avermene concesso la pubblicazione. Segnalo inoltre la nuova traduzione di Alessandro De Vito che, rispetto alla precedente, è più diretta, più cruda e realistica laddove quella della Ripellino, senza nulla togliere, era più “fantasiosa” e più spinta sul grottesco. In questo senso la nuova traduzione restituisce di più il nudo e metallico meccanismo che scandisce tutta la vicenda de “Il bruciacadaveri” senza perdere nulla di quell’assurdo che pervade il testo. Sicuramente un’evoluzione e un aggiornamento della precedente traduzione con un linguaggio più contemporaneo.

E, a seguire, come secondo contributo, il mio commento de “Il bruciacadaveri” (che lessi anni fa nella precedente edizione) già pubblicato e presente in questo blog che ripropongo per l’occasione.

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Bandella di copertina de “Il bruciacadaveri” di Ladislav Fuks edito da Miraggi edizioni, a firma di Alessandro De Vito

Praga, 1938-39. La storia del Novecento marcia a passo forzato verso uno dei suoi momenti più critici: il magniloquente Nuovo Ordine nazista, la guerra imminente, la “questione ebraica”, le persecuzioni pianificate, l’invasione dell’ Europa.

Chi è il signor Kopfrkingl, protagonista di questa storia nera praghese? Un tenero, sdolcinato padre di famiglia, impiegato al crematorio, un uomo che sorride sempre. Si, in apparenza. Interiormente, invece, è una marionetta dall’animo monodimensionale, dalla volontà larvale, dalla morale astratta e limitata, che vede tutto e tutti come stereotipi. Un uomo intimamente servile per cui il bene è indifferentemente cura e sterminio, felicità e olocausto, la cui idea di paradiso in terra condanna gli altri all’inferno.

Lo stile ossessivo e preciso di Fuks sottolinea perfettamente questo aspetto e gli è funzionale. “Il bruciacadaveri” procede come una partitura con il frequente contrappunto di ripetizioni di nomi e intere espressioni. Lo sguardo alienato e distorto del protagonista, con tracce di macabro divertimento, amalgama un testo di cui si può apprezzare la struttura profonda e la caleidoscopica creatività: siamo a tutti gli effetti di fronte a un capolavoro del Novecento. Ma forse ha un senso ulteriore, oggi, riproporre questa figura di “volenteroso carnefice”, che accoglie in sé le parole d’ordine naziste con leggerezza e conseguenze paradossali, opportunista, perbenista e superficiale.

“…la violenza non paga per nessuno. Con essa si può tirare avanti solo per un breve periodo, ma non si può scrivere la storia. Viviamo in un mondo civilizzato, in Europa, nel Ventesimo secolo” si dicono più volte i personaggi, nel 1938. La storia ha provato loro il contrario a stretto giro, e ormai, anche molti anni dopo, passato l’inizio del Ventunesimo secolo, sappiamo che nulla può essere dato per scontato, che l’angusto abisso del signor Kopfrkingl non si è richiuso per sempre con la fine delle ideologie e grazie al benessere, e che far finta di niente può precipitarci nuovamente dentro di esso.”

Alessandro De Vito

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Il mio commento de “Il bruciacadaveri”

Karel Kopfrkingl (K.K.) è il protagonista de “Il bruciacadaveri”. Che fa K.K.? E’ impiegato al Crematorio di Praga o, come dice lui, al Tempio della Morte. K.K. non solo è un consumato esperto delle pratiche crematorie ma ne è un fervente paladino.

Non perde occasione per sottolinearne i vantaggi e i pregi: la rapidità e asetticità del processo, la sua non aggressività, in quanto la cremazione non intacca i corpi in modo diretto col fuoco ma agisce per effetto del solo calore, insomma, come dire, non è invasiva e poi l’intrinseca democraticità della cremazione che ci riporta tutti, indifferenziatamente, alla nostra originaria condizione di polvere da cui proveniamo senza lasciare in giro sgradevoli tracce dei nostri corpi, ma lasciando libera la nostra anima di andarsene dove e come vuole perché K.K. crede pure, bontà sua, nella reincarnazione: legge da sempre lo stesso libro, un volume sul Tibet.

Ma non si deve credere che per questa sua passione mortuaria oltre che abnegazione professionale K.K. sia un sinistro e lugubre figuro, nossignore, al contrario è un amorevole, anzi, diciamolo, un zuccheroso e mellifluo signore: “Tenera” è la parola con cui inizia “Il bruciacadaveri” ed è per l’appunto K.K. che la pronuncia rivolgendola alla moglie Lakmè che, in realtà, si chiama Marie ma K.K. ha deciso che si chiama Lakmè, così come lui che si chiama Karel si è ridenominato Roman. E alla moglie, alla figlia e pure alla gatta non risparmia vezzosi aggettivi quali: “maliarda”, “eterea”, “celeste”, “soave”, “diletta”, “purissima” e il suddetto “tenera”.

“Sono romantico” dice ”ed amo la bellezza”, non si fosse capito. Colma i familiari di regalini, li porta spesso a spasso, stravede per la propria casa che ama arricchire di ninnoli e oggettini, teche, quadri e quadretti tra cui spiccano: la tabella degli orari delle cremazioni nonché una nera Drasophilia funebris. E nella sua smania di ribattezzare tutto pure il quadro col faccione del presidente del Guatemala diventa per K.K. il ritratto di un famoso ministro delle pensioni francese, anche se sotto, nel quadro, c’è scritto Presidente del Guatemala. Insomma tutto ha un ordine e un senso per K.K., il suo.

Ma tant’è, cosa volete che sia, in fondo in fondo, nel suo intimo, K.K. è un buono: “Non dobbiamo far torto a nessuno, nemmeno col pensiero” dice, e poi non ha vizi e debolezze di sorta, è un premuroso sostenitore del matrimonio, del suo matrimonio: “Non c’è matrimonio, mia celeste, che sia così bello e felice come il nostro”, salvo poi andare regolarmente a farsi vedere dal Dottor Bettelheim, esperto in malattie veneree, suo vicino di casa, di nascosto dalla moglie, chissà come mai? Si fa pure scrupoli sulle percentuali che deve riconoscere a due suoi collaboratori che incarica di procurargli “clienti” per il “suo” crematorio, mosso a pietà per le loro tristi condizioni familiari, salvo, di quelle condizioni, non occuparsene affatto.

Ma K.K. ha anche un amico, un certo Willie Reinke, un fervente e accanito filonazista (la storia si svolge durante l’occupazione tedesca) il quale, in modo pomposo e borioso, quale egli è, dipinge attrattivamente al nostro K.K. i vantaggi e i piaceri che lui, K.K., potrebbe avere aderendo al partito nazista: nomina certa alla direzione del crematorio, anche perché di un esperto come lui c’è un crescente bisogno, e poi la possibilità di frequentare belle donne, l’ingresso garantito allo sfarzesco Casinò tedesco di Praga e in generale l’essere ben visto e ben accolto tra i “nuovi padroni”.

K.K. non è un vero e proprio ambizioso però capisce che qui c’è un nuovo ordine con cui fare i conti e siccome all’ordine, alle forme, alle regole lui ci tiene, alle profferte di Reinke ci fa più di un pensierino. Ma c’è un problema, la moglie e quindi anche i figli (ne ha due) hanno sangue ebreo e questo è un neo grave gli dice l’amico Willie, che va affrontato, pena il non accesso ai benefit nazisti. E quale miglior modo per affrontarlo ma, ovviamente, facendo fuori moglie e figli: perché non soffrano, poverini.

E così porta il figlio in visita al crematorio, lo spranga, lo infila in una bara con un altro morto già pronto per la prossima cremazione, di cui quindi beneficerà anche il figlio e, non visto, si allontana andando, come se niente fosse, a denunciare la scomparsa del figlio. Per far scomparire la mite e inconsapevole moglie organizza un’impiccagione–finto suicidio, ne denunzia irreprensibilmente il fatto alle autorità dando ovviamente il benestare per la cremazione dell’amata Lakmè. La figlia si salverà solo perché a K.K. fa visita un monaco tibetano che, venuto direttamente dal Tibet, gli dice che lui, K.K., è il nuovo Dalai Lama quello che “Budda ha scelto e in cui si è reincarnato”. Il finale è ancor più grottescamente tragico e lo risparmio.

Adesso viene da chiedersi ma in conclusione chi è veramente K.K.? Angelo Maria Ripellino nella sua introduzione lo definisce così: “L’immagine calcolatissima di un benpensante e ipocrita cerimoniere, uno schizoide impigliato nelle consuetudini di un macabro rituale, un saccente becchino-filantropo, che l’epoca incline alle stragi e la sicumera esequiale e la sciocca ambizione e la flaccidità del carattere e la tenerezza, si’ la tenerezza tramutano in un dispensatore di eutanasia” (A.M. Ripellino – “Fuksiana” in Ladislav Fuks – “Il bruciacadaveri” – Einaudi – 1972 – Pg. XV)

E tutto questo va perfettamente bene. Ma qui c’è dell’altro secondo me. Perché Fuks ha realizzato non solo un’opera geniale per il suo macabro surrealismo grottesco ma, a mio parere, ha soprattutto individuato e sviluppato un modello, un archè, che è sia estetico che concettuale, che si basa sull’idea di forma. Se infatti rileggiamo tutta la storia e il modo in cui vengono raccontate le cose ci accorgiamo che tutto in K.K. risponde, deve rispondere, al rispetto delle forme, sia come immagini che la narrazione stessa suscita, sia per il tipo di atteggiamenti e comportamenti di K.K., per il valore intrinseco che hanno.

K.K. fa tutto quello che fa non perché c’è una relazione che egli instaura con le cose e con gli altri, ma perché tutto deve rientrare in un suo schema formale. Tutto deve corrispondere ad una forma prestabilita e inalterabile: si pensi al delirio di cambiare i nomi propri o di cambiare i nomi agli oggetti. E tutto ciò che può alterare questa forma: per assurdo in primis proprio la realtà, quella vera, va eliminato. Anche l’adesione al nazismo diventa per K.K. un problema di adesione alla forma nazismo, non al nazismo in sé, cosa che invece fa l’amico Willie. Ma questo dominio della forma in K.K. è il dominio di una forma vuota di contenuti, è mera apparenza, è il nulla.

E’ una cosa già in sé defunta, è un’iterazione solipsistica della morte che così come nella catena di montaggio del crematorio si ripete sistematicamente negli atti, nei gesti e nelle parole da inutile idiota di K.K. La forma è per K.K. l’unico senso della vita. Per K.K. tutta la vita si consuma nella forma e nelle forme e come tale si nega la vita, in quanto tutto in lui si riduce ad un insieme di pratiche meticolose, ordinate, coerenti, perbene ma inutili. Pratiche solo formali dove anche la morte è ridotta a procedura asettica ed “igienica”.

E adesso si insinua una domanda affascinante nella sua tragicità, ma non è forse che il nazismo è stato, in ultima istanza, un mostruoso, orripilante, agghiacciante tentativo di affermazione del dominio della forma? Se infatti affermiamo, assumendo lo schema de “Il bruciacadaveri”, che la forma nel momento in cui si nega di contenuti e di senso e perciò si sclerotizza in sé stessa, traducendosi in cosa morta, nega la vita, altrettanto possiamo dire del nazismo, laddove esso si afferma come delirio onnipotente che vuole mettere ordine, il suo ordine, nel mondo ripulendolo da tutto ciò che è diverso da sé e, pertanto, imponendo la sua forma che non consente alcun grado di libertà, alcuna possibile tolleranza in più o in meno rispetto al modello fissato dalla forma nazismo.

E’ evidente che al di là delle volontà soggettive il dominio della forma diventa assolutamente prevalente e ovviamente aberrante e per imporsi ha bisogno di affermarsi a scapito della vita la quale invece presuppone diversità, eterogeneità, differenze, movimento invece che fissità, rigidità, iconicità, ripetitività, propri della forma fine a se stessa e, peraltro, tipici del nazismo. In questa ipotesi il nazismo assume, in conclusione, le sembianze di un’orrenda gestalt autoreferenziale e autoriproducentesi in quanto pura espressione solo di se stessa. Ed è forse questa la grande metafora contenuta ne “Il bruciacadaveri” che ci illumina con un sinistro bagliore che ci arriva direttamente dal forno crematorio della Storia.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

“Nozioni di base”: la recensione di Violetta Giarrizzo su polonicult.com

“Nozioni di base”: la recensione di Violetta Giarrizzo su polonicult.com

di Violetta Giarrizzo

“”È la nostra cecità, cecità esistenziale, che rende il mondo che ci circonda così misterioso. Petr Král, con discrezione, ce lo svela”. Così si apre questa prima edizione italiana di Nozioni di Base, con un’introduzione di Milan Kundera che ci fa presagire un libro certamente sui generis.

Petr Král è uno scrittore e poeta ceco nato a Praga ed emigrato a Parigi nel 1968, dopo l’invasione sovietica. È stato una figura di spicco dell’editoria clandestina fiorita a Parigi nonché dell’intelligenza praghese antisovietica. Diplomato alla FAMU di Praga, ha contribuito a veicolare la cultura non ufficiale svolgendo l’attività di critico letterario e cinematografico, ma anche di interprete, traduttore e insegnante, dedicandosi alla scrittura di saggi, sceneggiature, diverse raccolte di versi in ceco e in francese tra cui Enquête sur des lieux (Flammarion, 2005). Ha contribuito anche alla traduzione e alla diffusione della letteratura ceca in Europa, curando importanti antologie come Le Surréalisme en Tchécoslovaquie (Gallimard 1983) e Anthologie de la poésie tchèque contemporaine 1945-2002 (Gallimard 2002).

Il lettore italiano può avvicinarsi a Král poeta con la raccolta di Tutto sul crepuscolo (Mimesis Edizioni 2014) e alcune poesie tradotte dal ceco e dal francese (rispettivamente da Annalisa Cosentino e da Massimo Rizzante).

Non è, invece, facile incasellare Nozioni di Base (Základní pojmy nell’edizione originale) in un genere letterario predefinito. Edito da Miraggi Edizioni nella collana Tamizdat (pubbicato ”tam” ovvero ”là”, ”altrove”) e tradotto dal ceco da Laura Angeloni, si presenta come una raccolta in prosa di 123 brevi e incisivi pensieri che riguardano svariati oggetti e situazioni della quotidianità dell’autore, che assumono all’interno del libro quasi una connotazione universale.

Definito da Milan Kundera come ”una bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana” si tratta di un collage frammentato di immagini, sensazioni fugaci, epifanie fulminee che lacerano per un istante il tessuto grigio e uniforme della nostra vita quotidiana. Král osserva il mondo, si concentra sugli elementi che appaiono semplici e comprensibili e ne distorce il significato e la funzione. La prima nozione di base riguarda il caffè, una delle immagini più familiari e senza fronzoli per eccellenza, che rappresenta per Král quasi un’improvvisa rivelazione, la coscienza improvvisa della propria esistenza:

”Lasciarsi portare verso se stessi da un sorso bollente, inaspettatamente preciso, della bevanda che ci scorre in corpo insieme ai residui del buio notturno, significa concentrarsi di colpo e affermare chiaramente la propria presenza, nonostante la momentanea indefinitezza dei nostri gesti e la sonnolenza del momento”.

Da questo risveglio scaturiscono gli altri micromondi di Nozioni di base, a partire da un’osservazione attenta degli oggetti comuni e apparentemente futili che ci circondano: ed ecco che Král scrive di una camicia pulita ma anche della zuppa di pesce (”…e la gustiamo con cura, ognuno per sé, la coccoliamo e ci attardiamo con lei come con il nostro destino”), dell’attaccapanni e del cestino per la carta che diventa d’un tratto il custode della nostra esistenza. Ma ci narra anche dei nostri luoghi: il bagno degli uomini e il bagno altrui, l’hotel, la Spagna e l’Italia, l’impellente urgenza di rifugiarsi altrove per fuggire dal qui e ora.

All’interno di queste minuscole avventure, raccontate in tre righe o in due pagine appena, affiorano sensazioni e stati d’animo universali e ben conosciuti: il vizio, l’inerzia, la solitudine, l’incompletezza, l’assenza, ma anche la ridondanza, le aspettative deluse, il desiderio e il sollievo.

L’avvicendarsi dei pensieri di Král ricorda e immagini multiformi di un caleidoscopio: l’autore gioca con le gli oggetti in modo imprevedibile, assembla svariati frammenti di vita, osserva le cose da una prospettiva differente, vaga con la fantasia e l’immaginazione. E così l’ordinario si fa straordinario. Scorgere una sagoma dal finestrino di un treno e pensare all’improvviso a tutte le le vite che non saranno mai le nostre, attraversare una strada e rendersi conto delle possibili scelte che ci lasciamo dietro, l’incontro fugace con una donna sconosciuta con la quale avremmo potuto trascorrere tutta una vita, le inevitabili delusioni (”la cavità in cui precipitano senza scopo le nostre mentine rinsecchite non è solo una trappola misteriosa nella stretta di due fianchi, ma è lo sbadiglio dell’intero deserto cosmo”)

Tutto ciò con cui ci scontriamo ogni giorno sembra avere un’essenza nascosta che Král cerca di rivelare e di interpretare attraverso l’introspezione. Ogni cosa ha la potenzialità, quindi, di rivelarci qualcosa di profondo sulla nostra esistenza, di ”svelare il vero bagliore delle cose nella loro usura”, se solo la osserviamo attentamente. E così una giornata passata a languire nella quiete domestica può portarci a delle conclusioni inaspettate sulla nostra vita.

Ho amato molto questa raccolta, un vero e proprio compendio della vita, con la sua struttura frammentaria, il linguaggio asciutto e a tratti corrosivo, in cui ognuno può perdersi e ritrovarsi. Un approccio molto singolare a questo autore di certo da riscoprire.

trovi la recensione di Violetta Giarrizzo anche qui
https://polonicult.com/nozioni-di-base-di-petr-kral/

 

La bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana. La recensione de Il Foglio

La bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana. La recensione de Il Foglio

Petr Král non ha bisogno di tante presentazioni, essendo uno dei maggiori poeti cechi contemporanei che lasciò l’amata Praga nel 1968, all’arrivo dei carri armati sovietici dopo la fin troppo breve “Primavera”, per poi tornarci solo nel 2006, poco più di dieci anni fa. Nozioni di base è la raccolta di tanti sguardi, personalissimi e originalissimi, su oggetti della vita quotidiana e momenti che scandiscono il passare ineluttabile delle ore. Appunto, si tratta di “nozioni di base” che – come ha scritto la traduttrice Laura Angeloni – ci guidano attraverso un viaggio di scoperta e riscoperta della realtà, “insegnandoci che ogni istante della vita, anche il più fugace e apparentemente futile, può riempirsi di significato se solo abbiamo la pazienza e l’abilità di osservarlo più a lungo, lasciandoci trasportare dalle nostre suggestioni”.

“E’ sorprendente come tutte queste situazioni quotidiane, tanto insignificanti quanto elementari, si lascino così poco influenzare dall’originalità di una psicologia. Esse ci attendono, ci sottomettono. E’ una lezione di modestia che la bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana di Král impartisce al nostro individualismo”, scrive Milan Kundera nelle prime pagine del volume. Ma quali sono queste “nozioni di base” su cui si sofferma il poeta? Una, tra le prime che compaiono nella rassegna (ragionata) è il caffè, e dalla sua lettura si comprende bene lo stile che pervade l’intera opera: “Lasciarsi portare verso se stessi da un sorso bollente, inaspettatamente preciso, della bevanda che ci scorre in corpo insieme ai residui del buio notturno e affermare chiaramente la propria presenza, nonostante la momentanea indefinitezza dei nostri gesti e la sonnolenza del momento”. Lo starnuto, invece, fa a dire a Král che grazie a esso “di colpo fendiamo l’aria e penetriamo più nel profondo con una determinazione proporzionale alla sua forza; nell’impatto ritroveremo noi stessi, ma meno insoddisfatti”.

I treni, che “da quando esistono sappiamo che quelli su cui viaggiamo non sono mai quelli in cui siamo seduti”. Lo spettacolo, che è quello “del posacenere, dei bicchieri e della caraffa che immobili misurano la pianura del tavolo”. Insomma, sono alcune delle centoventitré “nozioni” che compongono il volume. Scrive Massimo Rizzante che “la regola d’oro di Král è che basta guardare a lungo una camicia per distorcerla di un nonnulla e gettarla nella pianura sconosciuta dove vi abbraccia come un’amante dimenticata”. E’ grazie al suo stupore, che poi è ciò che dà linfa e vita alla composizione, “davanti agli oggetti e alle situazioni della vita quotidiana, concepiti come apparenze, che il poeta scopre una dimensione nascosta della prosa del mondo”. Terminata la lettura, soprattutto se veloce e non a sufficienza “concentrata”, si potrebbe rimanere perplessi, non capendo cioè cosa in realtà si abbia letto. Una raccolta? Qualche aforisma? Ben di più, sostiene Yves Hersant, che evidentemente ha condiviso tale suggestione. “Petr Král non è affatto incompatibile con la saggezza del romanzo. Di questo romanzo che scrive in pieno cammino, come una storia multipla e frammentaria, senza smettere di scrivere nemmeno in curva. Non è stato forse proprio lui a dirlo chiaro e forte: la missione del poeta non è affatto quella di fine dicitore, quanto più semplicemente d’un topografo (agrimensore, per dirla con Franz Kafka) dell’esistenza?”.