Che spettacolo Endecascivoli di Patrizio Zurru!!! Mentre si sfogliano i “sessantacinque” racconti non si può fare altro che ammirarne la genialità travestita da semplicità.
Una finestra sul passato, un passato che potrebbe essere il mio; tanto è bella la scrittura di Patrizio Zurru, tanto è vera che vi sembrerà di leggere i vostri ricordi. Siete lì, tra bottiglie di latte dimenticate, la miniera, la terra rossa. Una terra rossa che avrete come l’impressione di calpestare in quel momento. Endecascivolisono dei ricordi che non mi appartengono ma che faccio miei.
“15 anni di sottosuolo a spalare carbone, e a un certo punto ha deciso che poteva esserci un’altra possibilità, si è messo a studiare per laurearsi, facendo registrare a mia madre le lezioni su un Geloso, che ascoltava nella strada che da casa ogni notte lo portava in miniera. Avanti e indietro. Play, stop, rewind. Play again, sto, rewind, return home. Ha fatto la strada quasi dormendo, ascoltando la voce di mamma che invece di dirgli “ti amo” gli diceva Scisti, Concrezioni, formule chimiche, Carote, che non erano da mangiare ma da esaminare per verificare strati e stratificazioni. Eppure, anche se lei diceva Quarzi, Quarzite, Falde, Cristalli, lui ha sempre sentito lei che gli diceva Sono Qui, Amore, Tieni Duro, Arriva Alla Miniera Anche Oggi. Torna anche oggi.”
Difficile scegliere un estratto, se volessi riportare ogni frase che mi ha colpito mi toccherebbe ricopiare l’intero libro, e credetemi non esagero. La scrittura di Patrizio Zurru è un fluire continuo; un mare di storie in cui immergersi viene naturale. Endecascivoli è la storia di una famiglia, di un’isola, la Sardegna, che fa da sfondo ma è anche essa protagonista.
Racconti con echi lontani, una magia unica che si percepisce dalla prima all’ultima pagina.
Patrizio Zurru ci fa assaporare l’affetto della famiglia, le gioie della giovinezza e le avventure che ne seguono. Una lettura come questa serve a viaggiare nel tempo e nell’anima, una lettura come questa aiuta a ritrovare le proprie radici e farne un vanto.
Se avete voglia di leggere qualcosa di profondamente bello ma allo stesso tempo maledettamente malinconico, questo è il libro che fa al caso vostro… attenzione, perché la malinconia che Patrizio Zurru vi trasmetterà è una malinconia che tocca il cuore e fa sorridere. In Endecascivoli c’è una magia che ormai sembra estinta, distrutta e uccisa dal dio progresso. C’è una frase che a mio parere si associa perfettamente all’autore “Spacciatore di colori” perché è questo che fa Patrizio Zurru, spaccia colori e voglia di vivere con i suoi racconti. Inutile dire che ne consiglio la lettura, ho già detto abbastanza.
Alla sua terza raccolta di racconti dopo L’ora migliore e altri racconti (Il Foglio, 2011) e Non risponde mai nessuno (Miraggi, 2017), Simone Ghelli raccoglie qui una teoria di narrazioni brevi collegate tra loro dall’atmosfera rarefatta e onirica, in cui i protagonisti si muovono galleggiando a metà tra le trasfigurazioni di cui è capace l’inconscio e una realtà talvolta amara da digerire.
I dieci racconti di La vita moltiplicata (Miraggi, 2019) ci proiettano in un universo in cui la nota di fondo è malinconica, fin dai titoli, che risuonano di un’eco sognante e ineluttabile – “L’ineluttabile” è tra l’altro il titolo dell’ultimo racconto, tra i più belli, dedicato a un ex studente di Siena che vi ritorna per un posto da ricercatore e, in un locale di via Pantaneto che ha ormai cambiato gestione, ha una intensa conversazione notturna con un bizzarro personaggio che si intende di cinema e filosofia.
Il titolo della raccolta sembra volerci introdurre, in maniera sintetica quanto incisiva, alla materia che troveremo affrontata nella raccolta: spezzoni, frammenti in perenne mutamento, stati di transizione, momenti clue – o meglio, epifanie –, una vibratile costellazione di esistenze sempre sul punto di “spiccare il volo”, come la figuretta in copertina, da una fase all’altra della vita o da un piano all’altro della propria essenza profonda.
Vi è, in questi racconti, un senso dell’attesa, dello stare a guardare, come nel primo, “Oboe d’amore”, che parla del difficile rapporto con la musica e con la madre di un bambino e poi adulto invaso dalle proprie personalissime muse.
«Accadeva che io fossi un’ombra, e che perciò strisciassi silenzioso tra i tappeti di foglie autunnali; e che ricoperto in testa d’un cappuccio di pelliccia, restassi a fiutarla tra i folti cespugli, a respirarla di lontano».
Ci sono situazioni allucinate, come nel caso di Vera, dove dai ricordi, dalle fotografie, dalle memorie di vita di coppia lei scompare, lasciando al compagno il dubbio che non sia mai esistita («Vera divenne ben presto Era, terza persona singolare del verbo essere, passato imperfetto»), sullo sfondo di una città post-apocalittica in cui stuoli di uccelli imperversano sull’orizzonte «gravido di antenne».
Molto emblematici sono i personaggi di “La somma dei secondi e dei sogni” e “L’ultima vetrina”, rispettivamente uno stagista di casa editrice e un libraio indipendente. Il primo, seppur consapevole che sarebbe stato più saggio imparare, fare esperienza, è irrimediabilmente attratto solo dai manoscritti che continuano a fioccare in casa editrice nella speranza di esser valutati (metafora delle aspirazioni di sconosciuti e velleitari scrittori), il secondo, che ha ereditato carattere fumantino e piccola libreria dal genitore, è colto nel terribile momento in cui decide di chiudere per sempre, facendo calare per l’ultima volta la saracinesca sulla vetrina del suo eroico negozietto.
Vi sono poi i postini anti-Internet, il professore di provincia triturato dai social per aver voluto lasciare i suoi pestiferi ragazzi liberi di esprimersi aggirando le disposizioni ministeriali, ragazzi spenti a casa ma indisciplinati a scuola, risucchiati dai loro telefonini in un’illusione di vitalità. «E come dargli torto?», osserva questo professore. «Per loro la scuola dev’essere una specie di mondo in bassa definizione».
In “La grande divoratrice” e “La sentinella di ferro” troviamo invece la critica sociale, uno sguardo più lucido su alcune realtà scomode del nostro tempo, il lavoro spersonalizzante dei call center – in generale dei servizi di assistenza/vendita ai clienti, con i loro annessi e connessi di postazione pc, credenziali di accesso, team leader e piani produzione – e le vecchie fabbriche che mangiano sia il paesaggio sia gli operai che ci lavorano.
Nel primo il protagonista «prendeva appunti sul portatile e provava a scrivere qualcosa che non sapeva se sarebbe diventato mai un libro o se sarebbe rimasto soltanto un lamento in prosa, il tracciato emotivo di un soggetto defraudato di qualcosa». Nel secondo un vecchio operaio osservando la ex fabbrica si rammenta «del tempo in cui contava soltanto produrre, e poi di quello in cui se n’erano vergognati, ma in cui era comunque necessario continuare».
I personaggi che Simone Ghelli sceglie sono tutti specchi di qualcos’altro, emblemi e maschere utilizzati per proiettare momenti e sentimenti stratificati nel tempo. Sono sentinelle costantemente in bilico tra l’infanzia e l’età adulta, tra quel che volevano fare e quel che invece fanno, tra l’incredibile qui e ora in cui l’azione sembra possibile e il successivo attimo di dispersione.
Queste figure, il postino, il professore, lo stagista, l’operaio, l’impiegato, il libraio, il pianista coatto, appaiono nello stesso tempo molto reali e assolutamente avulse. Nell’economia della raccolta, servono però a veicolare pensieri e significati che convergono tutti in una stessa direzione, quella di una velata critica al vivere contemporaneo, una sensazione di “fuori sincrono”, di spaesamento. Che senso ha farsi fotografie da soli? Per testimoniare cosa? Non sarà che questo grande universo di dati e informazioni in cui tutti sono immersi è una grande illusione, il miraggio di una vita piena? Non sarà che alle persone ora basta un’idea, la possibilità di questa libertà illimitata? Perché nessuno scrive più lettere e riceviamo solo estratti conto e pubblicità, sarà che non abbiamo più niente da dirci? Perché dobbiamo farci venire delle crisi di rabbia guidando per strada dietro a una persona lenta, e arrivare in ritardo a un lavoro da automi in cui non conosciamo neanche tutti i nomi degli altri dipendenti?
Allora può essere che un personaggio, stufo di tutto, per reazione, non desideri altro che «vivere in mezzo ai boschi […] diventando semplicemente terriccio per i funghi».
Che pace. Che pensiero vitale anche se raccoglie un’idea di scomparsa. Soprattutto se a fare da contraltare vi è una città del genere (è Roma): «Si era a tal punto elevata sul proprio passato da assomigliare a una millefoglie: strati e strati di asfalto, di laterizi poggiati l’uno sull’altro, di fondamenta accavallate tra loro. E ogni volta che si apriva una voragine sulla strada, lui si affacciava di sotto con la speranza di vedere l’inferno, o almeno un antico centurione sulla biga, mentre invece non c’era che qualche centimetro di nulla in cui si sentiva l’odore del catrame bruciato».
Lo stile di Ghelli è ben calibrato, piano ma con aperture al ricercato, e nel tessuto della narrazione sono frequenti le incursioni di sensazioni e stati d’animo. Talvolta si accumulano passaggi disorientanti in cui il filo si aggroviglia, strati di parole che conducono a una stanza sempre diversa del labirinto. La forma preferita è quella della brevità senza troppo indulgere al dialogo, che è invece protagonista nel già citato ultimo racconto, quello che accoglie anche, nelle parole dell’uomo misterioso incontrato dall’ex studente, il pensiero che pervade e attraversa l’intero libro:
«È difficile aderire all’immagine che gli altri pretendono da noi. È il piccolo o grande dramma dell’adattamento dell’individuo ai canoni sociali. La forma comica sancisce l’appartenenza alla società, così come la forma tragica ne sancisce l’esclusione».
Dal frivolo al più profondo, i racconti, ben 65, sono tutti a tinte forti, ben delineati, pur nella estrema brevità sono pieni di dettagli che li rendono sorprendentemente articolati.
Nell’insieme, a fine lettura, si rivelano come i singoli, minuscoli frammenti di un discorso unico.
Zurru semina questa unitarietà in ciascun racconto e lascia il lettore trovare il suo fil rouge.
Una parola, un luogo, una scena, comporrà il tutto in un unico affresco.
Non a caso i racconti non hanno un titolo; forse proprio per non spezzare quel filo che li lega. Per non dare loro un’indipendenza, lasciando che sia il lettore a unire i piccoli indizi, come puntini che formano una sola figura.
La voce di Zurru è molto precisa. Ha caratteri univoci è ironica, ma sa essere anche dura, drammatica. Il registro cambia spesso lungo i racconti e questo rende la lettura oltremodo piacevole, mantenendo alta l’attenzione alle tante storie raccontate.
Lui stesso parla della propria voce di scrittore. Nel racconto 44 confida al lettore che, dopo mille ricerche, osservando le cose, la natura, e dopo l’ascolto dei suoni e delle voci altrui, è stata proprio lei a trovarlo e a rimanergli fedele “la voce scava da sola, se vuole, le parole sanno la strada che parte e arriva sicura”.
Ed è bellissimo anche il racconto 43, nel quale accosta lo scrittore a un direttore d’orchestra, la scrittura alla musica. Scrivere è come riempire uno spartito. La ricerca della parola perfetta è come il tocco del musicista sui tasti d’avorio; la lettura del proprio testo finito è come suonare la musica che si è creata. Un racconto elegantissimo.
Per questo Endecascivoli non è solo un’antologia di racconti. Sembra piuttosto un insieme di frammenti dello stesso romanzo, una storia unica distinta in flash, in istantanee. Piccole fotografie che possono essere scattate o disegnate e inserite nel riquadro vuoto che il lettore trova all’inizio di ciascun capitolo, come una cornice pronta a ospitare l’immagine evocata leggendo in racconto. Gradevole e molto fantasiosa questa idea editoriale di far interagire, sotto diversi punti di vista, chi legge.
Spesso, chi scrive, lo fa partendo da un’immagine; che sia un passaggio volontario, un’operazione contemporanea o meno alla stesura, è un’operazione comune a molti scrittori. Si parte da un’immagine e poi ci si scrivono su le parole; in questo caso, l’incontro è doppio e intrecciato. La prima immagine è Zurru a metterla, scrivendo un racconto che poi il lettore potrà tradurre in un’altra immagine ancora. Due immagini e in mezzo le parole a veicolarla.
Con questi racconti il lettore è ricondotto in un mondo che non esiste più. Quando si legge dei frammenti di una vita rurale ormai dimenticata, quando l’autore ricorda le merende di pane e zucchero per i bambini preparate dalle nonne, “in campagna, riuniti nei giorni di festa. Parlavano poco, ma questo è già detto. Mangiavano l’aria che avevano intorno. Mangiavano l’aria, almeno quel giorno”, i ritmi lenti, i sapori forti di sentimenti e rapporti umani.
In altri racconti, a uscire nitido è invece il rapporto viscerale con il mare. Descritto come una creatura sensuale la cui brezza è un essenza conturbante, il respiro è l’artefice di un movimento che diventa seduzione “mi fermo su un granello di sabbia che rimane sul letto anche se ho fatto la doccia al ritorno dal mare.”
E ancora, c’è la vita circense come metafora usata spesso da Zurru per divertire il lettore e suscitare in lui una riflessione profonda con un’atmosfera onirica, dal sapore quasi felliniano, per descrivere una realtà tragicomica.
Ma è nei racconti che sono filastrocche, in cui l’autore dà il meglio di sé. Divertissement con un fondo di riflessione che addolciscono l’anima in uno spazio effimero; il loro ritmo giocoso si esprime e comprime in una pagina o poco più. Il racconto 45, ad esempio, in cui lo scrittore usa una filastrocca ironica che fa ridere di gusto, malgrado la tematica sia tutt’altro che scherzosa nel far riflettere sulle persone che si perdono, lasciando un retrogusto amaro nel lettore più attento.
Da metà libro in poi si trovano, forse, i racconti più profondi, più intimistici; la voce dell’autore si fa confidenziale, calda, la sua visione del mondo si rivela appieno ed esce l’attenzione ai rapporti umani, in particolare all’amicizia come istante in grado di durare tutta una vita e unire nel profondo le persone, pronto a rinnovarsi.
E c’è anche l’attualità. La pandemia, che pervade, ma non invade il campo. Rimane come elemento incidentale, fa da sfondo nel racconto 50. Un pezzo particolarmente esilarante e critico al tempo stesso. Nell’intervallo esiguo di una pagina, vi trova posto un’acre critica ai social, mondo inventato, dove si riciclano frasi e comportamenti che prima trovavano posto “nei cessi”. Un racconto che è quasi un sonetto, per struttura e morale.
In altri casi invece, i racconti assomigliano a ballate; ritmi e contenuti che, ancora con una metafora musicale, potrebbero esprimersi in fraseggi alla De Andrè, coi quali condividono il ritratto dolce-amaro dell’umanità.
In Endecascivoli c’è anche tanto della terra natìa dell’autore: la Sardegna con le sue miniere, la vita dei minatori, dura, essenziale e ricca di valori, descritta con tinte meno vivaci, forse più cupe, ma sempre schiette.
Complimenti a Patrizio Zurru, che incontra la realtà e ne scrive con vigore e nuance variegate, conservando una voce personale, a tratti tinta di poetico, dove la realtà è ricordo, evocazione o durezza del quotidiano. Questa raccolta fa riflettere in modo talvolta leggero, talvolta impegnativo sull’esistenza, sul passato e sui valori attuali della vita.
Un libro da leggere anche in questa estate bizzarra, sia nel meteo che nel quotidiano, che si lascia scorrere in modo scorrevole e piacevole; con la consapevolezza che qualsiasi cosa si possa leggere “appena finisce il racconto è finito l’amore che hai ascoltato, che hai letto, o immaginato”.
Vezze sul Mare. La Vigor Vezze è una squadra scarsissima e milita da sempre nei bassifondi di ogni campionato a cui partecipa. A un certo punto, sembra accadere un miracolo: la Vigor inizia a vincere. Una, due, tre partite consecutive. I cuori si scaldano, le speranze crescono e finalmente si inizia a pensare in grande. Ma questo cambiamento ha una matrice: la statua votiva della beata Serafina suggerisce al parroco del paese, padre Ruggero, la via per vincere le partite. Ninni De Maio, proprietario, direttore generale, allenatore e magazziniere della squadra, non riesce a crederci ma è proprio così: sta accadendo qualcosa di mistico. Chissà come andrà a finire il derby contro i cugini dell’A.S. Marina, lo squadrone del comune gemello di Marina di Vezze… Lino, Fausto e Gimmi sono amici da sempre e hanno una passione in comune: il Siracusa, che è stato promosso in serie B, puntando tutto sul mister Tito Recchia e su un nuovo centravanti, Lindo Martinez detto “el ratón”. La prima giornata va alla grande: doppietta, fortunatissima, di Martinez e tutti a casa. Poi le cose cambiano… Una squadra di giovani calciatori. Un ragazzino talentuoso che sfrutta la sua prima occasione con una prestazione da urlo. I sogni che s’infrangono per colpa del presidente, che deve far giocare qualcun altro per ragioni di convenienza… Siracusa: un torneo rionale, il “Piazza Belgio Trophy”, viene influenzato da una partita di serie A, Inter-Ternana, arbitrata da Leonardo Liberato, detto “il professore”… Catania. Fabrizio Speraben, ex calciatore, è giunto in città per una vendetta… Il calcio italiano, dalla serie D alla serie A, rischia di implodere e crollare su sé stesso. Il motivo? Alfonso Pipitone, vicedirettore della Polisportiva Ora et Labora di Palermo, ha ricevuto una telefonata dalla ex moglie, la quale pretende gli arretrati degli alimenti. Così, si scatena un effetto domino devastante…
Angelo Orlando Meloni, autore catanese trapiantato a Siracusa, torna con Santi, poeti e commissari tecnici, raccolta di sei racconti che ruotano attorno al mondo del calcio e lo declinano in maniera personalissima. Le storie raccontate da Meloni sono infatti costruite attraverso il filtro dell’ironia e della deformazione espressionistica, dissacrando quello che in Italia viene ritenuto un vero e proprio tempio, quasi una religione: il calcio, appunto. Si parte dal titolo, che riprende in chiave ironica l’espressione mussoliniana del 1935 che oggi troneggia sul Palazzo della Civiltà Italiana a Roma, il cosiddetto Colosseo quadrato: “Un popolo di poeti di artisti di eroi / di santi di pensatori di scienziati / di navigatori di trasmigratori”. Così, ci si addentra in storie di passione, di dolori, di speranze disattese, di illusioni, di malaffare; storie che ci mostrano il bello e il brutto del calcio, attraverso uno stile originale, ironico e frizzante, e una scrittura che spesso fa ricorso al mimetismo linguistico e alla deformazione grottesca, con personaggi che ricordano quelli delle novelle pirandelliane. Santi, poeti e commissari tecnici è un libro che, mescolando generi diversi, dal noir al fantastico al pulp, suscita emozioni diverse, contrastanti; un libro che, citando di nuovo Pirandello e il suo saggio sull’umorismo del 1908, provoca risate e riflessione, coniuga comico e tragico, e tocca il cuore di ognuno di noi.
Le memorie di un padre (minatore poi laureato) accendono le narrazioni di Patrizio Zurru
Se al termine della lettura di ciascuno dei 65 racconti arriva l’impulso di cercare il pollicesù per mettere un mi piace, non c’è da preoccuparsi. È solo uno dei sani effetti collaterali di “Endecascivoli” scritto da Patrizio Zurru e pubblicato per Miraggi edizioni. Storie ritmate e brevi, come dentro un social network, da leggere con la libertà di non seguire l’ordine proposto nel libro.
Vita social
Il nostro tempo, pesante di preoccupazioni, con questi racconti sembra prendersi una tregua, e così si fa largo un’oasi di leggerezza e giocosità che offre riparo soprattutto in ciascuna pagina dispari del libro dove è presente un riquadro bianco concepito per raccogliere pensierini, appunti o disegni. Anzi, scarabocchi come succedeva ai tempi del telefono grigio a rotella della Sip. L’evoluzione di quei ghirigori diventa la vita social del volume: è stato infatti creato un hashtag, #endecascivoli, per interagire con l’autore e magari esprimere un giudizio.
Istruzioni per l’uso
In apertura un bugiardino offre qualche spiegazione sul testo e sul senso della narrazione. «Tutto nasce», spiega l’autore, «dalle storie raccontate da mio padre e dalla successiva richiesta al sottoscritto di mia madre: mettile in bella, come sai scrivere tu. In particolare gli aneddoti sulla miniera». Non hanno titoli i racconti-post, quindi il riferimento è la pagina. Alla 29 si legge: «15 anni di sottosuolo a spalare carbone, e a un certo punto ha deciso che poteva esserci un’altra possibilità, si è messo a studiare per laurearsi, facendo registrare a mia madre le lezioni su un Geloso, che ascoltava nella strada che da casa ogni notte lo pottava in miniera. Avanti e indietro. Play, stop, rewind. Play again, stop, rewind, return home».
Il viaggio
Lo spunto per ciascun brano è reale, spesso sono le memorie a dettare il viaggio alla fantasia per spaziare tra nonsense, sarcasmo, realismo liberatorio. Ovunque si ritrova musicalità, che come brezza di parole investe il lettore per poi scivolare via e lasciare sensazioni rarefatte che sono già ricordi. Pagina 70: «Mio padre, che si faceva i chilometri a piedi per incontrare mia madre, un amore scavato con scarpe coi chiodi sotto, per non consumarsi, arrivare ad Iglesias per un sorriso». Difficile scegliere il passo più divertente, specie quando la narrazione attinge alla memoria collettiva di chi negli anni Sessanta ci è nato. A pagina 25 c’è un viaggio in treno per raggiungere Parigi, alla frontiera il controllo dei documenti, delle borse, delle valigie… e le Superga di tela o le espradillas usate come «potenziale bellico non indifferente» per non condividere lo scompartimento con nessuno. E come non citare Eros Ramazzotti suonato all’infinito da un sopravvissuto jukebox in un pub belga non appena il gestore, troppo ospitale, capisce che Zurru arriva dall’Italia. “Endecascivoli” è questo. È parola che non esiste ma che parla di racconti, scritti perfino durante il tempo di cottura di un minestrone.
Lo scrittore
Nome noto nel panorama editoriale per essere stato prima libraio e ora ufficio stampa, agente letterario, direttore di collana, Zurru è passato per un attimo dall’altra parte, quella degli autori, quasi non per scelta. «Non ho ansie da scrittore», dice a tal proposito, “il libro è un divertissement, niente di più. Determinante è stata la spinta forte delle gemelle Ivana e Mariela Peritore, con le quali lavoro per la collana SideKar, altrimenti chissà… ».
Libri per la primavera. Racconti tra poesia e prosa
Endecascivoli di Patrizio Zurru, è una raccolta di 65 racconti legati dal ritmo. Con parole che sembrano mosse dal vento dei ricordi, le storie che partono dalla realtà per arrivare sul bagnasciuga come legni modellati dalle maree.
Ogni frammento è una partitura la cui metrica perfetta ricorda orchestrine e ottavini sommersi. La prosa, sospesa tra poesia e malinconia, lascia spazio ad altri finali possibili. Ad altre storie, come in un gioco di scatole cinesi.
In testa a ogni racconto, il lettore troverà un riquadro vuoto. L’autore invita a riempirlo con un pensiero o un disegno da condividere con lui e gli altri lettori con l’hashtag #endecascivoli.
Patrizio Zurru, che lavora nei libri da 30 anni come editor, consulente editoriale e ufficio stampa, regala un gioiellino di attualità, ironia, intrattenimento. Piccoli cammei cesellati nella spuma, talvolta tinti nel surreale dell’inconscio.
È una grande tradizione letteraria, quella ceca. Al centro, ora, di una collana – intitolata NováVlna – lanciata dalle edizioni Miraggi. E tra i classici recuperati spicca La perlina sul fondo di Bohumil Hrabal (1914-1997), debutto di uno dei massimi scrittori novecenteschi del Paese. Pubblicata originariamente nel 1963, è una raccolta di racconti centrata su una galleria di figure apparentemente minori, spesso perdenti. Ma che come quasi tutti noi custodiscono, nell’intimo, un piccolo tesoro, una bellezza nascosta: una perlina sul fondo, appunto.
Dodici storie per dodici personaggi: ci sono tra gli altri il giovane lavoratore in acciaieria, il traslocatore, la fornaia, il cacciatore di frodo… Un repertorio umano che illumina il mondo dell’autore, noto per romanzi come Treni strettamente sorvegliati, da cui è stato tratto il film omonimo di Jiří Menzel che vinse l’Oscar per il film straniero nel 1996.
Ecco l’articolo originale uscito sabato 14 novembre 2020
«Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente di scorgere la perla sul fondo dell’essere umano».
Così scrive Bohumil Hrabal (1914-1997), il più grande scrittore ceco del secondo Novecento insieme a Kundera, nella breve introduzione al suo esordio nella narrativa, «La perlina sul fondo» (1963), ora tradotto da Laura Angeloni in prima edizione italiana e ottimamente curato da Alessandro Catalano per una piccola e coraggiosa casa editrice torinese dal nome promettente, Miraggi, con una collana dedicata ad autori cechi, dove spicca un titolo ormai introvabile, «Il brucia cadaveri» di Ladislav Fuks, che uscì nei Coralli di Einaudi negli anni ’70 tradotto dalla moglie di Angelo Maria Ripellino, ora riproposto in una nuova ed efficace versione da Alessandro De Vito.
Hrabal pubblicò questo libro abbastanza tardi, a 49 anni, approfittando del venir meno del rigido realismo socialista degli anni Cinquanta, quando i suoi racconti circolavano soltanto in samizdat, e del disgelo dei primi anni Sessanta, prima che la Primavera di Praga venisse stritolata dai carri armati sovietici.
Si tratta di dodici racconti che segnano una novità nel grigiore culturale dell’epoca: Hrabal riproduce i discorsi della gente comune, con il gusto per il racconto orale, per le situazioni surreali create dalla lingua parlata degli avventori delle birrerie, degli operai di un’acciaieria, e un montaggio quasi cinematografico.
Qui ci sono già i personaggi dei capolavori successivi, «Vuol vedere Praga d’oro?» (1964), «Treni strettamente sorvegliati» (1965), «Ho servito il re d’Inghilterra» (1971) e «Una solitudine troppo rumorosa» (1976), quelli che Hrabal definisce «stramparloni», chiacchieroni che raccontano storie di donne e di calcio, di motori e di caccia. Corredano il volume una bibliografia e una preziosa filmografia con l’elenco di tutti i film tratti dalle opere di Hrabal.
Leggo i primi due racconti in metro; mi sorprende subito la natura delle storie: le seguo come quando tentiamo di ricostruire nella mente un sogno appena svanito, al risveglio. Mi ritrovo a percorrere le sinuose vie dell’insondabile umano, con una sensazione piacevole, che passa dall’alienazione iniziale a un grande entusiasmo alla fine. C’è qualcuno che mi sta dicendo delle cose, forse importanti, su come reagisce la mente di fronte a determinati eventi della vita: un adolescente che riceve un’educazione severa, in uno spazio familiare militarizzato, che fugge dalla realtà che lo opprime, alimentando fantasie morbose fortemente aggrappate alla propria passione per la musica e c’è un uomo che percorre i sentieri della memoria in cui la protagonista è una donna, Vera, di nome, ma di fatto? La sua presenza, come un fantasma, si nasconde nelle immagini che vengono fuori da un vecchio album di fotografie. Cavalcare i ricordi è un gioco pericoloso per la mente e, in un attimo, tutto può diventare solo una proiezione dell’inconscio.Torno a casa entusiasta. Mi piace la scrittura di Simone Ghelli, genera empatia e io la trovo piena di suggestioni, a tratti anche poetiche. La malattia di Ascanio Ascarelli è una sorta di porta segreta verso un mondo interiore in cui la riflessione diventa una lunga pausa dalla vita più che preoccupazione per la sorte della stessa; la mania di un giovane apprendista, che legge i manoscritti spediti a un editore, di attaccarsi alla spazzatura letteraria come un accumulatore seriale, racconta una verità che conosco. La somma dei secondi e dei sogni: quante vite fanno tutti quei minuti passati a scrivere? Mi immedesimo anche nel libraio che chiude la libreria con la morte nell’anima e la lettura dei racconti a seguire è un’occasione per incontrare un’umanità varia in cui ci si riconosce e per la quale si fa persino il tifo, come per il professore che compie un atto rivoluzionario, interpretando in senso letterale il “compito di realtà” previsto in una circolare ministeriale e invita i propri studenti a descrivere come vedono la scuola e come vorrebbero che fosse. Le conseguenze sono quelle che ci aspettiamo ma che sarebbero diverse, se fossimo in una società che non ragiona seguendo sempre i soliti schemi mentali. Tra le righe di ogni storia risulta chiaro il messaggio dell’autore: la vita che viviamo, in fondo, è un insieme di dimensioni sovrapposte, che moltiplicano la realtà in piani invisibili, ma indispensabili.
Dieci racconti, dieci personaggi, dieci storie. In bilico tra realtà, sogno, inconscio. Questo è La vita moltiplicata di Simone Ghelli, pubblicato da Miraggi Edizioni. Un libro che suggerisce una riflessione a partire dal titolo in cui La vita e non Le vite sembra indicare una sottile linea rossa che fa da cifra di lettura e scrittura. Quasi ci fosse un legame tra le storie raccontate, talmente forte da diventare un unico canovaccio, un unico percorso. Seppure complesso e sfumato, come appunto la vita.
I dieci racconti, come i dieci protagonisti ci appaiono tutti alla disperata ricerca di una via di fuga. Dal presente, da un attuale che più che creare disagio sembra, semplicemente, non bastare a contenere tutto ciò di cui si compone un’esistenza. Ogni cosa in bilico tra passato e futuro, a sostenere un presente che fugge, che stritola, che inchioda, che imprigiona.
E allora la vita moltiplicata diventa, per ciascuno dei protagonisti, una sorta di riscatto, di resa, di sogno, di ricerca estrema di ciò che c’è di più estremo: l’identità. Ma anche la realtà. La domanda che ci arriva, in sottofondo, dalla lettura di ciascuno di questi racconti, potrebbe proprio essere questa: cos’è la realtà? Quella che viviamo e dentro la quale ci muoviamo, costretti dalle convenzioni, dai sottili equilibri (anche psichici) che costituiscono l’impalcatura di una costruzione fragile? Oppure la realtà è quella che ci costruiamo nei sogni, nell’immaginazione e nell’immaginario refrattario alle regole?
Ghelli è scrittore dalle potenti letture e questi racconti restituiscono quello che deve essere stato (e che presumibilmente ancora è) il suo percorso di lettore. E forse, azzardiamo, anche il suo percorso di “consumatore” di cinema. Perché c’è molto di cinematografico in queste pagine. Non nel ritmo, non nella dinamica ma, certo, nell’uso forte delle immagini. Sì, perché i protagonisti di queste storie noi lettori ci troviamo a seguirli quasi come su uno schermo. Che è quello che costituisce un confine fisico in cui le cose più interessanti avvengono oltre esso, oltre quello spazio, dove apparentemente non si vede più nulla ma dove succede tutto. Tutto quello che sappiamo immaginare.
Che è un po’ quello che avviene nella vita dei vari protagonisti dei racconti, ciascuno dei quali viene dal lettore salutato sulla soglia di qualcosa. Perché ciascun racconto si conclude senza finire. In un moltiplicarsi di ipotesi, di sviluppi, di proseguimenti.
La vita moltiplicata è un atto d’amore, soprattutto, verso la letteratura e la scrittura, verso il loro potere di scrivere ciò che ancora non esiste e che non è mai esistito ma che, proprio per questo, è tutto ciò che davvero, forse, possiamo chiamare realtà.
Un libro molto più complesso di quanto possa apparire ad una prima lettura, sorretto da una scrittura la cui semplicità si avverte essere frutto di un lungo lavorio. Che è esattamente il contrario dello spontaneismo. Non vi è nulla di spontaneo in questi racconti. Semmai qualcosa quasi di automatico, come se l’autore si fosse lasciato andare ad un flusso incontenibile, come se si fosse messo accanto ai suoi personaggi, ascoltandoli, come uno psicoanalista con i suoi pazienti. Solo che qui non c’è nessun paziente perché il disagio o l’incapacità di farsi bastare la vita che manifestano i personaggi non è patologico, anzi. È la più vitale delle rivolte a tutto ciò che vuole ridurre la vita a qualcosa di razionale e senza sfumature e stonature.
Il calcio è una cosa umana. Intervista ad Angelo Orlando Meloni
Intendiamoci subito: Santi, poeti e commissari tecnici, opera di Angelo Orlando Meloni pubblicata da Miraggi Edizioni, non è una raccolta di racconti a tema calcistico. Non solo, almeno. Perché a fatica troveremmo l’epica sportiva a cui siamo fin troppo abituati, il campione solo contro tutti, la forza del gruppo che riesce nell’impossibile, la redenzione attraverso il sacrificio sportivo.
Potremmo descrivere, con un certo grado di correttezza, Santi, poeti e commissari tecnici come l’affresco di una Sicilia ricca di storia e di storie. Un messaggio d’amore che non risparmia critiche alla presenza ingombrante di piccoli e grandi boss di provincia, tangenti, brutture industriali e architettoniche. Una prosa che rovescia gli stereotipi, che ci costringe a guardare a fondo nelle cose. Nel racconto L’aeroplano, per esempio, l’immagine dei ragazzini che giocano a calcio su strada, considerata ormai un emblema di purezza giovanile, diventa teatro di violenza e soperchierie. In questo teatro, il calcio viene vissuto come valvola di sfogo e denominatore comune.
Lo stile dell’autore diverte e provoca fitte al cuore, ci accompagna attraverso un piccolo mondo di giocatori bolliti, bluff conclamati, campioncini in erba senza possibilità, ci fa ridere per le loro disavventure per poi lasciarci a contemplare qualcosa di amaro, in eterno equilibrio tra incanto e disincanto.
La sensazione precisa era quella di un bluff, però il pensiero magicamente non riguardava nessuno. Lindo Martinez avrebbe segnato a valanga, Tito Recchia avrebbe vinto il Seminatore d’Oro, Siracusa avrebbe inglobato Catania, Palermo, Napoli, Roma, Torino e Milano,sarebbe partita in orbita e dall’alto del cielo stellato i tifosi avrebbero finalmente potuto pisciare sulla testa della gente, senza ritegno per nessuno,eccezion fatta per il papa, Maradona e forse Sofia Loren. “Precisi siamo”, sussurrò Fausto a Lino e a Gimmi, e quelle furono le uniche parole che pronunciò quel pomeriggio di luglio che c’era un caldo bestiale e tutti avevano lo stesso voglia di saltare e di cantare e nessuno di lavorare
Ho intervistato Angelo Orlando Meloni per parlare di sport e di vita, che sperro è quasi la stessa cosa. Lo ringrazio per la disponibilità:
Puoi raccontarci com’è nata questa opera, in che arco di tempo hai scritto i racconti?
La raccolta è nata in due momenti diversi. Uno dei racconti addirittura è il primo che ho scritto, un secolo fa, e tra l’altro era stato già pubblicato, ma la stesura era così ingenua che ci ho sofferto per anni. Così quando ho scritto gli altri testi che compongono il libro mi è sembrato fosse giunto il momento di rimettere a nuovo un paio di altre storie, più vecchie, ma sempre a tema calcistico. Non vorrei apparire presuntuoso, ma il libro mi sembra molto compatto e… no, non è nato in base a quelli che i poeti laureati all’università dell’autopubblicazione o della bolla social chiamano “urgenza espressiva a lungo repressa”. Il libro è nato perché è nato, cioè per un coacervo di cose che si mescolano fino a che questo stesso groviglio di amore per la lettura, nonché di sogni mostruosamente proibiti, vanità, ambizioni, passioni e idee mi ha portato ancora una volta a scrivere.
Lo sport vive di un’epica tutta sua, che è quella con cui viene raccontato da cronisti, giornalisti, esperti. Nella tua opera questa epica viene meno: la demistifichi e la svuoti di significato, ci porti in un mondo grottesco che è molto lontano da quello che vediamo su Sky Sport o alla Domenica Sportiva. Potresti riassumere ai nostri lettori che tipo di calcio hai provato a raccontare?
Bella domanda, mi sa che hai centrato il punto. Senza nulla togliere alla professionalità dei giornalisti, dei telecronisti, tutta gente con una preparazione enorme, che sanno quello di cui stanno parlando, c’è però un tono di fondo, epicheggiante, che accomuna e livella quasi tutti i giornalisti e critici e rende ahimè a volte indigeribile il mondo del calcio, almeno per me. Non avete anche voi nostalgia della Gialappa’s band e di Mai dire goal? Il mondo del calcio si prende troppo sul serio, i tifosi già al mattino davanti al caffè si prendono troppo sul serio, gli ultrà poi sono di una serietà talmente seria che fa paura, sono in guerra con l’universo, anche se nessuno è in guerra con loro. È un mondo monolitico che secondo me ha bisogno di un po’ di autoironia. Ed è anche per questo che ho raccontato un calcio grottesco, se vogliamo, di sicuro lontano dall’epos e dalle agiografie a cui siamo abituati.
Non è semplice definire il tono di questa raccolta. Il comico e il tragico, l’incanto e il disincanto, sembrano uniti in uno strano gioco di specchi. Spesso, tra le maschere che conosciamo nella tua raccolta, mi è venuto in mente il concetto di carnevale come lo definiva Bachtin, una sorta di rovesciamento divertito e violento dell’ordine sociale. Lo sport viene spesso raccontato così, con la persona più umile e sfortunata che può diventare un grande campione. Nei tuoi racconti succede sempre o quasi sempre il contrario. Anche il calcio è un gioco di potere?
Il calcio è una cosa umana e quindi è anche un gioco di potere. Avere entrature funziona sempre a tutti i livelli in tutto il mondo in qualsiasi ambito del sapere o dell’agire umano. Non sto dicendo che è giusto, sto dicendo che negarlo equivale a negare la realtà. Circa il tono di questa raccolta, ho sempre in mente un romanzo, Comma 22 di Joseph Heller, libro bellissimo pervaso di umorismo demenziale, che si trasforma pian piano da rappresentazione comico-grottesca della guerra in vera e propria tragedia. Incanto e disincanto, comico e tragico, come dici tu, possono andare di pari passo, forse perché la nostra stessa esistenza in questo pianeta va avanti in questo modo.
Molti ci dicono che lo sport è una metafora della vita. Secondo te è così?
Ovviamente è una formula che è stata ripetuta talmente tante volte da aver perso qualunque significato. Da un altro lato, però, a furia di ripetere che il calcio è una metafora della vita abbiano creato una specie di incantesimo e quindi… sì, il calcio è la metafora della vita, qualunque cosa ciò significhi. Per esempio, se applicata all’Italia questa formula magica ci rende egregiamente l’idea d’una nazione popolata da sessanta milioni di persone, in cui però vince sempre e soltanto e solamente il padrone; e agli altri restano le briciole.
I tuoi sono racconti di finzione. Se dovessi raccontare una storia vera di sport, quale vorresti raccontare? E perché?
Mi piacerebbe prima o poi scrivere di pallacanestro, sport sublime, ma rimanendo in ambito calcistico è fin troppo facile rispondere alla tua domanda con un nome: Zdeněk Zeman. Un genio, un personaggio unico, una spanna al di sopra di tutti gli altri, lui sì mito vivente del calcio.
Esordio letterario tardivo ma folgorante di un quarantanovenne che fino a quel momento svolse i lavori più disparati e meno lirici, da manutentore ferroviario a capostazione, assicuratore, commesso viaggiatore, operaio in acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. “La perlina sul fondo” di Bohumil Hrabal esce per la prima volta in italiano, con una postfazione di Alessandro Catalano. Tradotto da Laura Angeloni per la collana dedicata alla letteratura ceca, è il regalo di compleanno della casa editrice torinese Miraggi ai suoi lettori, per festeggiare il decennio della sua nascita.
Considerato uno degli autori più importanti del Novecento, lo scrittore ceco raccoglie in questa sua prima antologia di racconti, datata 1963, i ritratti di uomini comuni, che nascondono in fondo all’animo, come tra le valve di un’ostrica, una perla, una scintilla di essenza umana. Personaggi marginali, sbruffoni e sinceri, scovati nei bassifondi e ai margini, in luoghi affollati e vitali, tra officine e birrerie, la fabbrica, le strade, le bettole malfamate. Ognuno coinvolto in situazioni che appaiono spontanee e nelle quali il dialogo, un lessico variopinto, tra slang e dialetto, prosa moderna e a tratti surreale, è investito dal potere straordinario che solo la realtà sa conferirgli.
Usiamo cookie per garantirti un servizio migliore.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.