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“NOVÁVLNA”. Intervista di Antonello Saiz ad Alessandro De Vito

“NOVÁVLNA”. Intervista di Antonello Saiz ad Alessandro De Vito

Questa settimana, per Le Tre Domande del Libraio, incontriamo Alessando De Vito di Miraggi Edizioni, per farci illustrare il progetto editoriale della Collana NováVlna, da lui curata, in occasione anche di uno dei ritorni più attesi di questi ultimi tempi, quello di Bohumil Hrabal che, dopo la raccolta inedita de ” La perlina sul fondo del 2020, è tornato in libreria , alla fine dello scorso anno, con un nuovo libro dal titolo “Compiti per casa (Riflessioni e interviste)”

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Alessandro, a partire da questa frase di Bohumil Hrabal « Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente di scorgere la perla sul fondo dell’essere umano. » ci racconti qualcosa in più,  qualche aneddoto inedito sulla vita di un personaggio di questo calibro ?

Non è facile trovare aneddoti “inediti”, perché Hrabal ha utilizzato proprio le sue esperienze di vita come materiale per molta parte dei suoi testi. E l’ha fatto potremmo dire “scintificamente”, come si può comprendere dal breve brano che introduce “La perlina sul fondo”. Quello è un elenco formidabile di mestieri diversi, cercati da lui negli anni, come dice, per “sporcarsi”, lui laureato in legge e con pessimi voti a scuola in lingua ceca, con la vita comune e i suoi protagonisti. Non a caso l’altro suo luogo d’elezione, oltre fabbriche ferrovie magazzini e officine, era senza dubbio la birreria, perfetto e variopinto crogiolo in cui i discorsi delle persone si mescolano e accavallano senza sosta, con le mille storie ed esperienze che attraverso le parole riprendono vita. Da un lato era una ricerca di umanità, anche di commozione, una  partecipazione intima al consorzio umano, alle malinconie e alla fragilità della vita, su cui non si può far altro che scherzare e bere, che traspare in tutta la sua produzione. I piccoli fatti dei piccoli uomini, che in definitiva però fanno la storia: una tradizione questa, diffusa nella letteratura ceca, dallo Švejk di Hašek ai personaggi di Čapek, alle molte eco della letteratura popolare in tutti i grandi autori.

Questo “sporcarsi” di Hrabal assume anche una notevole forza considerando l’epoca e la situazione politica della Cecoslovacchia sotto il regime comunista. Paradossalmente si potrebbe dire che proprio Hrabal va autenticamente a cercare la vita, le esperienze e le parole del popolo, mentre la letteratura e il cinema di regime magnificavano la vita proletaria in modo assolutamente stereotipato, attraverso cliché assolutamente lontani, statici nella loro fissità ideologica.
E fin qui mi riferivo alla narrativa. Non sono pochi anche i suoi libri di commenti, conversazioni, interviste…
Difficile trovare il fatto inedito, quindi, quanto inutile probabilmente cercare quanto ci sia di vero in tutto quello che ha scritto. Sempre che sia importante.


Alessandro ci inizi a raccontare qualcosa in più su questo libro arrivato in libreria in questo autunno e che raccoglie testi molto vari tra di loro, racconti, articoli, apologhi, riflessioni sulla letteratura e sulla scrittura, resoconti di viaggio, e dal titolo “Compiti per casa”, soffermandoti sullo stile di scrittura che lo caratterizza e le eventuali difficoltà incontrate dalla traduttrice Laura Angeloni?

Come accennavo, è un libro non direttamente narrativo, non si tratta di racconti, novelle o di un romanzo. Ci sono testi che possiamo considerare alla stregua della “cassetta degli attrezzi” dello scrittore, dove spiega, o piuttosto racconta, la sua poetica. Ho detto “non direttamente” perché in realtà Hrabal non fa altro che raccontare, anche nei punti più “saggistici”, infarcendo ogni brano di dettagli e riferimenti che creano digressioni, aneddoti, altri spunti narrativi. Hrabal racconta di questa sua incessante ricerca di autenticità, dei personaggi, delle storie e soprattutto del linguaggio. Se a prima vista infatti sembra di leggere discorsi comuni, non si può non riconoscere il grandissimo lavoro di cesello di un geniale letterato, a tratti anche sperimentale, con una modalità mai fine a se stessa. La lingua che risuona tra gli avventori accomodati ai tavolacci durante il rapido svuotamento dei boccali delle birrerie e quella dei discorsi degli operai tra i macchinari industriali, tra facezie, sentire comune e nell’incombenza di qualcosa di tragico, è autentica in quanto processata, come da tempo ha riconosciuto la critica, nonostante lui stesso si sia spesso definito un “semplice trascrittore” di ciò che ha incontrato nella vita.

Ovviamente questo appare chiaro al traduttore, nel caso dei nostri due volumi la bravissima Laura Angeloni, con la cura e l’occhio vigile del prof. Alessandro Catalano. Hrabal “reinventa” la lingua, “trascrivendola”. A tratti il suo scritto non è facilmente comprensibile neppure ai cechi, quindi possiamo immaginare la difficoltà (che come si diceva, attenzione, tende a non apparire al lettore). La curatela di un grande esperto è qui fondamentale proprio perché per tradurre Hrabal bisogna saper navigare in tutta la sua opera, non si può improvvisare.
Altri testi sono relativamente più semplici, in particolare le conversazioni e interviste, e a tratti anche molto divertenti. Era un personaggio particolare, se si ha presente l’ambiente delle birrerie praghesi spesso si ha l’impressione di sentire anche quei gusti e odori, e sentire il chiacchiericcio di fondo. Non è casuale che molte interviste con lui si siano svolte in birreria, che alla storica birreria Alla tigre d’oro siano andati a bere con lui il presidente Clinton e il presidente ceco Havel (e che, si parvissima licet, lì gli abbia stretto la mano anche io, in un fumoso pomeriggio dei primi anni Novanta).


Compiti per casa è prima di tutto una raccolta di piccole gemme del grande scrittore ceco, ma diventa anche una porta di accesso privilegiata per entrare e approcciarsi al mondo di Hrabal. Sono passati quasi tredici anni dalla creazione di Miraggi e già diversi anni dal progetto di questa Collana innovativa, ci vuoi spiegare da quale urgenza nasce la Collana e poi come si incastra la scelta di questo lavoro accurato sulle opere di uno dei più originali scrittori cechi del Novecento all’interno di NováVlna e se ci vuoi raccontare anche le prossime novità e scoperte?

Qualcuno potrebbe dire che per approcciare l’opera di Hrabal sia meglio partire da uno dei suoi celebri romanzi, dai suoi capolavori. E sicuramente “Compiti per casa” è un libro che potrà far leccare le dita al lettore che già conosce e ama Hrabal, ma credo anche che, quando un autore è così un tutt’uno con la sua opera, cominciare a “parlarci” (questa è l’impressione) come se lo si incontrasse davanti a un boccale di Plzeň possa essere un ottimo primo approccio. Hrabal ci cattura, personalmente io devo stare attento, se distrattamente (e lo faccio spesso) apro a caso un suo libro e mi metto a leggere, rischio di ritrovarmi che sono passate due ore senza rendermene conto.

La collana, che ci è piaciuto chiamare come la Nouvelle Vague cecoslovacca, soprattutto cinematografica, degli anni Sessanta, nasce dopo che abbiamo cominciato a dedicarci alle traduzioni, nel 2016. Nel giro di poco, soprattutto per mio impulso, dato che sono per metà di origine ceca, le traduzioni dal ceco sarebbero state così tante rispetto alle altre che è parso una logica conseguenza fondare una collana a sé. Inoltre da molti anni mancava in Italia una collana dedicata alla sola letteratura ceca…
Già dall’inizio abbiamo pubblicato un panorama di nuovi autori , in verità quasi tutte autrici – sarebbe un discorso interessante da affrontare anche questo – insieme al recupero di alcuni classici, o mai tradotti o in nuove traduzioni, dopo che erano passati decenni dalle prime. Confrontarsi con il genio di Hrabal è venuto naturale, e cercare di colmare le lacune di traduzione anche.
Sia attraverso i testi del passato sia con quelli contemporanei inoltre mi sembra interessante contribuire a far conoscere meglio e creare un ponte tra la cultura italiana e quella ceca, che mi sembrano ancora considerate molto più distanti di quanto dovrebbero. Dico solo che spesso conosciamo meglio letterature lontane, più o meno esotiche, capaci di imporre variamente il loro modello, e ignoriamo chi siano i nostri vicini di casa europei. In questo senso mi sento nel pieno della funzione, se non della missione, di una piccola casa editrice di progetto, e devo sempre ringraziare del supporto le istituzioni culturali ceche, con cui spesso collaboriamo splendidamente.
Vedo che man mano il nostro seguito aumenta, mi pare che anche libri “particolari” trovino il loro pubblico, non secondariamente grazie al sostegno e alla fatica quotidiana dei librai che se ne innamorano.
Invito tutti a continuare a seguirci: nei prossimi anni continueremo a pubblicare autrici e autori straordinari come Bianca Bellová, Markéta Pilátová, Tereza Boučková e Jan Balabàn, e tra i classici abbiamo in lavorazione ben tre libri del grande Škvorecký, e una graphic novel sulla vita del celebre corridore Emil Zatopek, dopo quella tratta da RUR di Čapek, con l’origine del nome “robot”. Ma la novità più “pesante”, in senso buono, di quest’anno, sarà un libro che è davvero un’impresa al limite della follia, per il quale di nuovo devo ringraziare le capacità e la sconfinata passione di Laura Angeloni.  Si trada di “Ore di piombo”, un romanzo di circa 1000 pagine scritto da una grandissima autrice ceca, Radka Denemarková, già insignita di molti premi, e figura di intellettuale impegnata su diversi fronti. Già tradotto in Germania (tra l’altro la Denemarková è la traduttrice ceca del Nobel Herta Müller), è previsto in uscita per settembre, ed sarà uno di quei libri che fanno epoca, il grande romanzo dei nostri tempi, del cosiddetto “secolo cinese”, che affronta in tutta la sua complessità con risultati straordinari. Uno di quei libri-mondo che anche dal punto di vista editoriale presuppongono una certa dose di incoscienza. Miraggi, presente!

Buona Lettura, a questo punto, de “La perlina sul fondo ” e ” Compiti per casa ” di Bohumil Hrabal e di tutti i meravigliosi libri della Collana NováVlna

QUI l’articolo originale:

Romanzo senti/mentale – recensione di Maria Caterina Prezioso su Satisfiction

Romanzo senti/mentale – recensione di Maria Caterina Prezioso su Satisfiction

Tuffarsi nel mondo di Bianca Bellová è una esperienza sensoriale a suo modo unica. Classe 1970, la scrittrice è una delle voci femminili più significative della Repubblica Ceca.

Grazie a Miraggi edizioni, nella collana diretta da Alessandro De Vito, arriva al lettore italiano questa narrazione assordante. Perché, se si potesse paragonare a un elemento, la scrittura della Bellová è acqua. Acqua di lago, pioggia incessante, non fa differenza, basta saper ascoltare e si sente il rumore dell’acqua.

È il suo romanzo di esordio Romanzo senti/mentale, che Miraggi pubblica dopo averci fatto conoscere di lei i successi internazionali Il lago e Mona. Eppure la scrittura già forte e distinta ne è la voce.

Ebbene, tuffandosi in questi abissi incontriamo Eda e Nina, le voci narranti di Eliška: di Nina la sorella, di Eda l’amore. In realtà sono tutti affascinati da Eliška e lo siamo anche noi dal primo istante, dalla sua prima entrata in scena. Nonostante siano trascorsi quindici anni da quando Eliška si è chiusa il sipario alle spalle, nessuno pare averla dimenticata anzi, il passare del tempo fa di lei ancora di più un personaggio centrale della vita e nella vita degli altri.

Estremamente interessante è il gioco di alternare le due voci nel corso della narrazione, che pare svolgersi nell’arco di un giorno, forse due. In parallelo siamo scaraventati indietro nel tempo quando, ancora bambini, Eda, Eliška e Nina si sono incontrati per non lasciarsi mai più.

Ancora più potenti sono poi le figure genitoriali in particolare modo i padri. Forse non è un caso che la Bellová dedichi il romanzo al papà.

Nella finzione il padre di Nina e Eliška è cosparso da una luce che “è come attraversata da una specie di nebbia”, un padre lontano con la testa altrove. Il padre di Eda invece “è un personaggio di un certo calibro. Non ho solo ricordi brutti di lui”. Un padre fisico, fin troppo, con la sua percezione rocciosa che diventa violenza sulla donna. Ambedue, per motivi diversi, diversissimi, incapaci di amare la voce femminile che ne è la compagna.

Il presente si fa ricordo. Eda e Nina hanno in comune un passato che diventa, per una strana casualità, di nuovo presente. Finalmente insieme, di nuovo. Un nuovo dove forse potrebbe trovare spazio non solo il ricordo di Eliška, ma anche la possibilità di ricominciare, di crescere e diventare davvero adulti. Oppure no. Perché né Eda né Nina hanno previsto una variante che manda all’aria tutte le possibilità: “il senso di colpa”.

Come scrive Angelo Di Liberto nella prefazione: “non si può scappare dalla volontà della colpa, ha memoria antica, si può solo desiderare di dormire per dimenticare”.

Ci sono i diari di Eliška che Nina cerca, ci sono gli sguardi del non detto, c’è l’arte e la capacità dell’arte di ri-generarsi e poi c’è quello sguardo “accompagnato da un sorriso di labbra e occhi, e poi gli occhi si abbassano. E poi la colpa. Dall’alba dei secoli quello è lo sguardo che si riserva agli amanti”.

Romanzo senti/mentale che sentimentale non è, lascia il segno e il rumore dell’acqua si fa più forte nonostante tutto.

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Endecascivoli – recensione di Stefano Bonazzi su SATISFICTION

Endecascivoli – recensione di Stefano Bonazzi su SATISFICTION

Mi approccio a questa lettura con colpevole ritardo. Libri e libri che si accumulano sulle mensole e che continuo a rimandare, nel frattempo, come tutti aggiungo e impilo, appunto altre letture che andranno a rimpinguare quello spazio sempre più ridotto ma che resta lì e in qualche modo mi da sicurezza. Il porto sicuro in cui so che potrò attingere ogni volta che ne sentirò il bisogno. Un po’ come i frammenti letterari presenti in questa raccolta, gli “Endecascivoli”, appunto. Memorie luminose e impalpabili che affiorano incontrollate alla superficie, come la marea che torna a bagnare la punta dei piedi, come quelle immagini che ci appaiono davanti agli occhi se li stringiamo forte, con il sole piantato dritto negli occhi.

E allora via di frasi e paragrafi che sono particelle, luminose e sfolgoranti, fragori che si consumano nel tempo di un respiro o, come ci suggerisce l’autore stesso, nell’istante di un vuoto d’aria, come quelli che ci colgono alla sprovvista, dopo aver salito decine di scalini, prima di un salto nel vuoto.

Sessantacinque (come l’anno di nascita dell’autore) sono i racconti presenti in questo pregiato volume edito da Miraggi, editore che da sempre confeziona le sue uscite con una cura a tratti artigianale. La copertina piacevolmente ruvida, con quella carta di un bianco che tende verso il seppia e l’immagine di una manica a vento che emerge da un paio di buffe nuvolette stilizzate, è già la conferma che qui siamo lontani dal territorio delle letture convenzionali.

Racconti brevi, a tratti brevissimi. Schegge di memoria intagliate nella corteccia di una vita policroma di esperienze. Non importa quando ci sia di realmente biografico e quanto sia fiction, o citazione, il focus è tutto spostato verso il substrato emotivo dell’autore: il rapporto con la sua famiglia, le giornate trascorse con il padre, il nonno, gli zii, il alla miniera, il carbone sulla pelle, i cunicoli che toglievano il respiro, le cui pareti d’ombra sono rimaste impresse negli occhi lungo gli anni. E poi i pomeriggi a turno sul muretto con gli amici, indossando i primi Lewis da portare rigorosamente senza giaccone, per sfoggiare l’etichetta. Il ricordo del primo viaggio a Cagliari, in una trattoria che ancora esiste, con Gigi Riva seduto nel tavolo alle spalle. Le distese di sabbie rosse che portano fino al mare, le camminate senza meta, con l’erba nascosta sotto i vestiti e uno zaino sfilacciato sulla spalla, sotto un sole carico di promesse e i confini tutti sbiaditi. Un’epopea onirica in cui la dimensione del sogno non dimentica la crudeltà di una realtà beffarda. Lo capiamo subito, dal primo, brevissimo racconto, deflagrante in tutta la sua spietata lucidità. All’autore bastano poche frasi, una manciata di descrizioni e già siamo lì, al centro della tragedia, sfiniti dal peso di quel corpo dilaniato che a stento riusciamo a reggere. In mezzo al fumo, alle grida, impregnati di quella stessa fuliggine che ritornerà ancora e ancora, lungo tutto l’arco narrativo, come lo spettro di una macchia indelebile. Poi il ritmo rallenta e subito mi torna alla mente quel concetto a me tanto caro di “anemoia”. Il retrogusto nostalgico per una un’epoca mai vissuta ma che in qualche modo mi appartiene, ci appartiene, rendendoci complici inconsapevoli di una grande memoria collettiva. 

Patrizio Zurru è bravo a giocare con un ritmo narrativo che mette a suo agio il lettore. Come se sfogliando questi racconti, l’autore ci sussurrasse all’orecchio di non avere fretta, prenderci i nostri tempi, centellinare la scoperta di questi fotogrammi sospesi tra l’ironia dell’attimo (il reportage ambientato durante il festival letterario Una marina di libri è una chicca per chiunque abbia a che fare con il mondo editoriale) e l’agrodolce malinconia del ricordo.

Il tutto tratteggiato con grande padronanza linguistica e un’umiltà che traspare anche quando l’autore si concede dei piccoli guizzi stilistici (alcuni paragrafi in rima, qualche indovinello sparso). Le immagini si sovrappongono, gli odori si mescolano (la passione per la cucina è evidente) e proprio come la cadenzata costanza di una mareggiata, senza nemmeno accorgercene stiamo scorrendo assieme all’autore quell’immenso album fotografico. Istantanee dai tratti nitidi che sbiadiscono gradualmente fino a dissolversi in un riverbero fuori fuoco. L’aroma del latte bollito, il bruciore del carbone sciolto sulla pelle, l’ebbrezza di una serata trascorsa con i migliori amici, il viaggio e il bisogno di riconoscersi nomade, seppur ancorato a quell’isola preziosa dove la vita è scandita da un tempo diverso. 

Il tempo sospeso, lo stesso di quest’opera. 

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Endecascivoli – recensione di Anna Vallerugo su Satisfiction

Endecascivoli – recensione di Anna Vallerugo su Satisfiction

Sessantacinque racconti brevi, lampi concentrati di senso: una serie di schegge apparentemente slacciate tra di loro, unite da un filo della memoria, quella di un’intera generazione che oggi tira qualche conto e alle volte vince, alle volte perde.

Si presentano così gli Endecascivoli di Patrizio Zurru (per Miraggi), come esercizi del e sul ricordo, pagine rapide che si aprono in medias res e raccontano di un’infanzia anni Settanta, tra battaglie tra bambini, di un confine labile tra il gioco e il lavoro adulto, di madri al centralino a manovrare fili e spinotti che accendevano, intrecciavano e interrompevano amori, dell’obbligo -felice- di girare con il padre a controllare che le cabine dell’Enel del circondario funzionino ancora dopo ogni temporale, di un mondo (la Sardegna nel caso, ma riferibile a tutta l’Italia) che pare lontanissimo e che Zurru riporta alla luce vivido e vitale.

Quasi in un sogno a occhi aperti, il dichiaratamente autobiografico protagonista del secondo libro di Patrizio Zurru – già libraio, editore, ora agente letterario – attraversa momenti e spazi irrelati e porta il lettore con sé in un’infanzia scandita da riti e immagini di vera poesia, come nel racconto dedicato al pranzo con i parenti lavoratori in miniera che su, in superficie, sono finalmente liberi di mangiare anche l’aria.

E ancora quello sul trasferimento in un surreale palazzo di cento appartamenti, tutti vuoti fuorché quello di fronte al suo, che verrà occupato dal parroco del paese. Sarà vero o verosimile?

Sarà una piega del ricordo come gli amori perduti, più che altro immaginati, o reale come i primi viaggi in treno coi coetanei, colmi di una gioia irripetibile?

Dall’adolescenza ripassa senza continuità apparente – ed è voluto – all’infanzia, alle sue paure, alle unghie tagliate che chissà se ricresceranno, alla presenza di uno zio Peppino che decreta a modo suo, con un gesto plateale, la vittoria del vino locale sullo champagne.

È un mondo poetico e visionario questo di Endecascivoli, in cui si muovono personaggi affatto comprimari, bruschi, irriverenti, dolci.

I suoi racconti potrebbero essere romanzi in potenza o rimanere conchiusi cosi, sospesi, e passare via leggeri con un plot twist che apre ogni finale: Patrizio Zurru dichiara di muoversi nella dimensione dello scherzo letterario, definisce il libro un divertissement (scrivo su commissione non dichiarata, ma passata da sguardi che ho visto), una dimensione di scherzo su cuiperò è lecito dissentire, perché nell’estrema cura della parola si percepisce un sostrato di letture importanti e di impegno. Se carattere di gioco c’è, questo rimane confinato nell’invito al lettore a una non obbligata presa di posizione, con l’escamotage di un’aggiunta grafica: la presenza di un riquadro bianco a aprire ogni racconto. Qui, volendo, chi legge il libro può disegnare o scrivere ciò che la lettura della narrazione stessa gli ha suscitato: gli spazi non più bianchi verranno poi pubblicati sul sito dell’editore. È un appello a prendersi il tempo, il desiderio di riflettere sulla parola, a reagirle, a interagire con l’autore e a lasciare infine il proprio, di segno, come lettore, perciò sempre parte in causa.

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QUANDO I PADRI CAMMINAVANO NEL VUOTO – recensione di Anna Vallerugo su Satisfiction

QUANDO I PADRI CAMMINAVANO NEL VUOTO – recensione di Anna Vallerugo su Satisfiction

È la storia di un padre lontano dall’essere perfetto e che porta invece con sé una discreta summa di manchevolezze: latinista responsabile della realizzazione di convegni attesi e partecipati ma avversati dal piccolo politico di turno, fragile, inattuale insegnante promotore di scelte incomprese dai suoi studenti, il principale protagonista di Quando i padri camminavano nel vuoto è un uomo che negli anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale gode di locale, limitatissima fama.

Gode anche però delle grazie di Ava, giovane donna di servizio che fa girare teste a uomini di ogni età, con cui usciva dalla sua cupezza, dalla sua infelicità sfilacciata.

Innamorato a suo modo pure della moglie, il professore cerca di mantenere salda la rotta della sua numerosa famiglia salvandosi la faccia agli occhi del mondo e a quelli straordinariamente attenti, indagatori, del figlio bambino, colui che narra la sua vicenda (e così facendo anche la propria) e che per lui tesserà un elogio di pietas e tenerezza che stupisce e commuove.

Lo sguardo del figlio nel farsi uomo coglie appieno lo smarrimento della generazione appena dopo il secondo conflitto bellico, quella con in mano le possibilità di un futuro da costruire ab ovo talvolta sprecate: un senso di spaesamento, sconfitta ineradicabile, sensazione di assenza di definizione di ruolo – tragicamente attuali – che chi narra già da bambino fiuta feroce.

Ogni tanto mi prendeva la voglia di non lottare più. Ascoltavo i grandi parlare. Dicevano sempre che il destino era così e così, che era scritto nel Grande Rotolo. Ogni tanto facevo il tifo per mio padre. Speravo che tenesse duro, che il destino in piena non se lo portasse via. Mi sembrava che a volte non avesse più voglia di lottare per uscire dalla corrente, ma che lottava invece per rimanerci a tutti i costi. Una grande nuotata collettiva, verso la foce del fiume. Mi immaginavo dove portasse il fiume. Il destino era questo fiume in cui ti immergevi e poi ti piaceva farti portare via, era bellissimo e irresistibile. Anch’io avrei voluto, purché con mio padre. Ma mio padre non si decideva, avrebbe voluto uscire dal fiume e restarci dentro contemporaneamente. Faceva un mucchio di cose strambe, che erano contemporaneamente di due segni opposti. Le faceva non solo per il suo dolore congenito, ma anche perché un pezzo della sua natura era anarchica. Ma contemporaneamente perché la sua natura non era abbastanza anarchica. Allora era fuori dalle righe sia quando faceva l’anarchico, sia quando non lo faceva.

Quando i padri camminavano nel vuoto, segnalato al Premio Calvino dal comitato di lettura con un altro titolo, I vivi e i morti, ora giustamente riproposto nell’accurata edizione di Miraggi, Collana Scafiblù, è un romanzo di sconfitta e resistenza, battute d’arresto, cadute, scelte esistenziali e sentimentali che si ripeteranno a specchio, nonostante tutto, anche nelle generazioni a venire, quelle che vivranno in periodi di maggiore saldezza.

Piergianni Curti, laureato in fisica, specializzato in didattica della matematica, dal nome al contrario proprio come il protagonista del romanzo, traccia con grande efficacia la storia di un padre naturale e di altri padri che il figlio-voce narrante ricerca per suo puntello, per non camminare nel vuoto, appunto:padriputativi, figure genitoriali di passaggio, che entrano ed escono – molto ben definiti caratterialmente – per mille ragioni dalla vita di questa famiglia raccontata con ironia.

Un’ironia efficace e benigna, il tratto più significativo di quest’opera, che è romanzo di formazione ma soprattutto di individuazione e tessitura coesa di frammenti, da cui usciranno infine non una, ma due figure difficili da dimenticare, poetiche, piene d’amore.

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GRAND HOTEL – recensione di Antonello Saiz su Satisfiction

GRAND HOTEL – recensione di Antonello Saiz su Satisfiction

Da qualche settimana il mondo non è più quello che conoscevamo. Siamo stati costretti dall’emergenza a chiudere e a lasciare da parte tutte quelle attività che ci sembrava impossibile accantonare e anche lo svago e le uscite con gli amici si sono bruscamente interrotte. Una quotidianità mutata, e mentre un esercito di medici, infermieri e ricercatori stanno tentando senza sosta di arginare una tragedia, noi tutti, chiusi nelle nostre case, siamo alla ricerca spasmodica di un antidoto per spezzare la noia. L’emergenza straordinaria e questa quotidianità sospesa da settimane, inevitabilmente, ci porta ad avere emozioni insolite da gestire e da elaborare. Nel tempo, anche, della socialità fisica ridotta, la lettura può venirci in soccorso per allentare tensioni e trascorrere qualche manciata di minuti distesi, rilassanti. Lettura che si trasforma in una finestra che si apre sul mondo e proprio nel momento in cui noi siamo reclusi nelle nostre case. Un libro, adesso più che mai, può diventare una risorsa preziosa e la lettura una attività preziosa per comunicare con l’esterno. Ritornare a essere curiosi, attraverso la lettura. Già, perché la lettura può servire a incuriosirci e a sollecitare domande su questo strano presente che stiamo vivendo, proprio come accade a Fleischman, il protagonista acchiappanuvole di Grand Hotel. Romanzo sopra le nuvole.

Grand Hotel è il pluripremiato romanzo surreale di un ragazzo stritolato dalle difficoltà, un disadattato con una vita a ostacoli. Ma Fleischman sa, proprio come il buon acchiappanuvole di una canzone di Luigi Tenco, non solo comprendere le nuvole ma pure i misteri dei venti e delle stagioni. Romanzo pubblicato in Italia da Miraggi Edizioni con traduzione della giovane Yvonne Raymann, sesto titolo della Collana NováVlna curata da Alessandro De Vito. Il suo autore è Jaroslav Rudiš. Uno scrittore ceco originario di Turnov, classe 1972, del quale in Italia erano già stati pubblicati due libri precedentemente, quello di esordio, datato 2002, Il cielo sotto Berlino, e poi l’amaro e malinconico Helsinki, dove il punk si è fermato. Rudiš è un autore eclettico, musicista e apprezzato sceneggiatore di graphic novel. Da questo suo romanzo è stato tratto un film, Grandhotel di David Ondříček nel 2006, con la sceneggiatura dell’autore.

Si tratta di un racconto in prima persona con episodi personali, aneddoti e personaggi alquanto bizzarri. Siamo nei Sudeti, al confine tra Repubblica Ceca, Polonia e Germania, in cima al monte Ještěd, nella Boemia del nord, nel villaggio di Liberec, quella che era vecchia Reichenberg per i tedeschi. In questo triangolo di terra si staglia verso il cielo, a 1012 metri sul livello del mare, il Grand Hotel del titolo, un moderno e gigantesco albergo dalla costruzione futuristica rotonda e a forma di astronave (realmente esistente) che sovrasta la città. Qui dove finisce la terra e comincia il cielo vive e lavora, da molti anni, il trentenne Fleischman, portiere tuttofare dell’edificio. Il Grand Hotel è solitario e isolato proprio come la piccola città di confine e gli unici amici del protagonista sono gli eccentrici personaggi che popolano l’albergo. Rimasto orfano da ragazzino, avendo perso i genitori in un incidente, deve fare i conti con una vita che è un fallimento. Superstite, non è mai piaciuto a nessuno e non è riuscito in nulla. Non ha mai lasciato la sua città e neppure ha mai avuto una ragazza. Dal racconto che fa alla sua dottoressa, dovrebbe essere andata così, l’incidente e poi adottato da un vecchio cugino sin là sconosciuto. Adottato con poco amore e tanto calcolo, il solitario e frustrato Fleischman trascorre le sue giornate in compagnia di tutta una serie di strani rituali e quell’unica passione per la meteorologia. Accetta di vivere in quel posto solo per essere il più possibile vicino al cielo e poter osservare e comprendere le nuvole che corrono libere. Misurare la temperatura tre volte al giorno e aggiornare il suo grafico, calcolando gli effetti dei fronti caldi e freddi, le alte e le basse pressioni e le direzioni dei venti, e, poi, tornare a osservare quelle nuvole che corrono libere nel cielo. La sua vita è tutta in quei diagrammi che appende al muro e in cui annota il tempo atmosferico e lo scorrere del tempo. Fleischman, che non conosce nemmeno il nome proprio, in questo luogo magico, si rende conto che potrà trovare una via d’uscita dalla sua città e dalla sua stessa vita solo attraverso le nuvole. Con la testa tra le nuvole coltiva, infatti, il suo sogno segreto: trovare una ragazza da amare e avventurarsi oltre il confine e poter volare via da Liberec, abbandonando la sua misera esistenza. Si è cucito un pallone aerostatico per volare oltre le nuvole, ma quando è pronto ad andarsene irrompe la cameriera Ilja, che un giorno arriva come un’apparizione alla reception dell’hotel:

«La mia dottoressa dice che la vita delle persone sia come un mosaico. Dice che non la ricordiamo mai tutta intera. Che del passato vediamo sempre e solo dei frammenti. Dei bagliori. Dei lampi».

La dottoressa di Fleischman pensa che la vita delle persone sia come un puzzle, composta da tanti pezzi e da tante storie, e forse per questo che lui ha dimenticato certe storie, o le ha confuse. È un libro che merita di essere letto perché ci invita a osservare meglio le cose che abbiamo intorno e anche a rivolgere più sguardi al cielo, per imparare ad ascoltare noi stessi e le persone che ci vivono accanto, ma pure ad ascoltare i luoghi e il posto in cui viviamo e le persone che ci ha preceduto in quei luoghi. Un libro che ci aiuta a riflettere, in questo nostro presente sospeso, e a ricomporre pezzi di puzzle e mosaico che ci siamo persi nella fretta dell’altra vita. Un libro adatto, insomma, a tutti gli acchiappanuvole come me…

«…Non devi credere, no, vogliono far di te

Un uomo piccolo, una barca senza vela

Ma tu non credere, no, che appena s’alza il mare

Gli uomini senza idee, per primi vanno a fondo

Ragazzo mio… un giorno i tuoi amici ti diranno

Che basterà trovare un grande amore

E poi voltar le spalle a tutto il mondo

No, no, non credere, no, non metterti a sognare

Lontane isole che non esistono

Non devi credere, ma se vuoi amare l’amore

Tu, …non gli chiedere quello che non può dare

Ragazzo mio, un giorno sentirai dir dalla gente

Che al mondo stanno bene solo quelli che passano la vita a non far niente

No, no, non credere no,

Non essere anche tu un acchiappanuvole che sogna di arrivare

Non devi credere, no, no, no non invidiare

Chi vive lottando invano col mondo di domani»

Luigi Tenco, Ragazzo mio

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE: