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Il secondo addio – recensione di Andrea Tarabbia su Tuttolibri

Il secondo addio – recensione di Andrea Tarabbia su Tuttolibri

Questa recensione è uscita ieri su TuttoLibri della Stampa

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Quinto romanzo di Sylvie Richterová, scrittrice ceca emigrata nel nostro Paese all’inizio degli anni Settanta e che ha continuato a scrivere nella sua lingua madre, Il secondo addio arriva in libreria grazie a Miraggi edizioni e alla traduzione di Alessandro De Vito – e vi arriva dopo un’attesa di quasi trent’anni, visto che la sua redazione è del 1994. Storia curiosa, ma tutto sommato non insolita, quella dei libri di Richterová, di cui questo Secondo addio può essere preso a emblema: prima opera composta dopo la caduta del regime, il romanzo (se questa definizione ha senso, ma ne parliamo tra poco) poté uscire a Praga, ed era la prima volta che un libro di Richterová arrivava nelle librerie ceche. Ma era stato scritto in Italia, da qualcuno che aveva lasciato la madrepatria da oltre due decenni e che sapeva non vi avrebbe mai fatto ritorno. Fu tradotto in alcune lingue europee ma, curiosamente, non nella nostra, e così sembra che il destino di ciò che Richterová scrive sia, per un motivo o per l’altro, quello di avere difficoltà di diffusione.
Ecco, questa difficoltà trova eco nelle pagine del Secondo addio, che è un libro di personaggi più che di trama, e in cui tutti, o quasi, scrivono: scrive Jan, principale narratore di questa vicenda e marito di Marie, la protagonista – o per lo meno colei le cui vicende tengono unito il composito gruppo dei personaggi; ciò che Marie scrive a proposito della propria vita viene affidato proprio a Jan, il quale a sua volta lascerà un manoscritto che verrà ritrovato dal fratello; scrive anche Tommaso, che all’inizio troviamo in una comune romana dove Marie, esule ceca, si trova a vivere negli anni Settanta, dopo aver lasciato la Cecoslovacchia: Tommaso è poeta, e affida i suoi versi proprio a Marie, che a sua volta riceve da Praga i manoscritti scientifici e le opere di Pavel – amico del padre e di cui la donna è innamorata. Insomma, tutti o quasi scrivono, in questo libro, e tutti affidano le loro cose a qualcun altro: tutti hanno fiducia negli altri, da questa e dall’altra parte della frontiera, e si donano attraverso la parola scritta.

Alcuni dei testi che i personaggi scrivono entrano a far parte del romanzo. Pavel, per esempio, affida a Marie un’opera letteraria di cui leggiamo degli estratti: si tratta di un romanzo, Il Narciso cieco, dai toni vagamente esistenzialisti e malinconici. Ma di Pavel leggiamo anche frammenti di lettere in cui l’uomo ragiona sulla sua condizione di “prigioniero” di un mondo che non sa e non vuole abbandonare e sostiene che «a partire da un certo momento le notizie sulla nostra vita sono state più vive della nostra stessa vita». Scrive: «Cara Marie, l’uomo ha l’irresistibile istinto di raccontare la vita, di darle una forma… è la forma a darle senso» – e questo mi pare il concetto capitale attorno a cui Il secondo addio è costruito. Come sostiene anche Massimo Rizzante nella postfazione, infatti, questo libro non possiede uno statuto definitivo: non ha un vero proprio intreccio, al di là delle vicende biografiche, spesso esili, di Marie; non ha una voce narrante principale: si direbbe che sia Jan, il quale però cede il posto al fratello e, a turno, a tutti i personaggi della vicenda, che in dati momenti dicono “io”; non ha un’unità di tempo (si viaggia tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, senza indicazioni precise) né di luogo, perché ai capitoli romani si alternano parti ceche senza soluzione di continuità. E allora? Dove sarebbe questa forma attraverso cui, secondo Pavel, diamo forma alle nostre vite? Sta proprio in questo saltabeccare, in questo continuo non trovare un centro di gravità: è la stessa Richterová, nella prefazione appositamente scritta per questa edizione, a fornire una chiave di lettura non solo per questo libro, ma per molta letteratura dell’Europa orientale che, oggi, tenta di restituire il proprio rapporto con la Storia, con la realtà. Ecco cosa scrive, parlando della fine del XX secolo come di un’epoca in cui «la storia non era più lineare e consequenziale ma piuttosto multidimensionale, e la biografia non si svolgeva nel tempo lineare, bensì attraverso una continua tessitura nel tempo e nello spazio di cui prendiamo coscienza. E siccome partecipano molti tessitori, il racconto può procedere benissimo con voci di narratori diversi». Ecco, questo concetto, che potrebbe andar bene anche per i libri di Gospodinov, di Drndić o di Hemon – tutti autori, ciascuno a suo modo, le cui biografie e i cui popoli sono stati travolti dalla Storia e che cercano disperatamente una forma e la trovano nel frammento – è ciò che rende Il secondo addio un libro rapsodico, insolito nei modi e nella costruzione, ma simile ai lavori di altri grandi autori europei che, avendo sofferto la Storia e sperimentato l’esilio e il dispatrio, cercano il modo per renderli leggibili.

QUI l’articolo originale: https://andreatarabbia.wordpress.com/2023/12/03/sylvie-richterova-il-secondo-addio/

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la recensione di Steve Della Casa su Tuttolibri

“Volevo uccidere J.-L. Godard”: la recensione di Steve Della Casa su Tuttolibri

Maggio 1968. La Francia è in fiamme e il festival di Cannes non piò certo far finta di niente. Un gruppo di cineasti (guidato dal più carismatico di tutti, Jean-Luc Godard) decide di bloccare il festival. Non ci possono essere tappeti rossi, sfilate e party esclusivi mentre per le vie di Parigi si combatte ormai da molti giorni con scontri durissimi tra studenti e polizia. Il festival deve fermarsi, il festival si ferma, i premi non verranno assegnati, l’edizione è annullata. A tutt’oggi resta il momento più intenso di relazione tra cinema e lotta politica: del resto, come è noto, Godard non ama le mezze misure.

Ma in quel maggio c’è anche qualcuno che vorrebbe uccidere Jean-Luc Godard. E non si tratta dei suoi nemici politici, in primis il generale De Gaulle che sta per domare la rivolta e riprendere il controllo del paese. E neanche di qualcuno dei registi suoi coetanei che lo apprezzano ufficialmente ma lo detestano nell’intimo, gelosi di quella sua capacità straordinaria di arrivare sulle cose prima di chiunque altro. Chi vuole uccidere Godard è Jan Němec, uno dei più importanti registi del nuovo cinema che in quegli anni era sbocciato anche nell’Europa dell’Est controllata dall’Unione Sovietica. E i motivi di questo desiderio omicida sono al tempo stesso teorici e pratici.

A inizio 1968, in Cecoslovacchia si respira un’aria di libertà mai assaggiata fino a quel momento. Il governo di Dubček ha abolito nel gennaio l’opprimente censura di stato, il nuovo cinema anticonformista e decisamente innovativo vive un momento di grazia. In concorso a Cannes ci sono ben tre film cecoslovacchi: La festa e gli invitati di Němec, Al fuoco, pompieri! di Miloš Forman e Un’estate capricciosa di Jiří Menzel. Nel frattempo, nubi minacciose si addensano su Praga perché l’Unione Sovietica non è certo felice per quello che sta succedendo. I tre registi sono certi che almeno uno di loro vincerà un premio e che questo sarà molto utile per la causa cecoslovacca: quei loro tre film, nella totale diversità di stili, sarebbero stati impossibili da realizzare se ci fosse stata la censura. Ma poi arriva Godard che, in nome di un comunismo utopico, impedisce di proiettare i film a chi combatte un socialismo autoritario e oppressivo. Per di più, inizia a piovere e gli inservienti dei grandi alberghi cessano di servire gli ospiti che si affrettano a lasciare le camere visto che il festival ha chiuso i battenti e il conto a questo punto devono pagarselo gli ospiti stessi.

«Cannes 1968: la verità su quello che accadde» è uno dei 31 episodi che compongono Volevo uccidere J.-L. Godard, prezioso libretto di ricordi che Němec (scomparso nel marzo 2016, mentre era sul set del suo ultimo film) ha raccolto negli anni e che esce per Miraggi nella pregevole traduzione di Alessandro De Vito. Racconti carichi di ironia e di toni surreali, proprio come i film che lo hanno reso noto presso i cinefili di tutto il mondo. Racconti nei quali si racconta come Němec, tre mesi dopo i fatti di quel maggio francese, sia riuscito a riprendere i carri armati sovietici che mettevano fino alla primavera di Praga (le sue immagini sono le uniche non ufficiali su quanto avvenne nell’agosto di quell’anno). Oppure ci propongono un accostamento che nessun critico musicale avrebbe mai immaginato, quello tra i californiani Beach Boys e il semisconosciuto rocker Proby. O anche l’incontro che condivise con l’amico regista Jakubisko con un Alexander Dubček che ancora di illudeva di poter contare qualcosa dopo che i sovietici avevano ricostruito l’ordine a Praga. O, infine, come si sia trovato in America nello stesso albergo frequentato poco prima da Miloš Forman che si era trasferito a Hollywood per girare film di grande successo, scoprendo però che non aveva mai pagato il conto.

Ironia, divertimento, storie surreali e uno sguardo tagliente sulla realtà e sui vari fatti storici da lui vissuti in prima persona. I racconti di Němec ci fanno capire quanto sia stato importante il cinema per chi ha partecipato a vario titolo ai movimenti che caratterizzarono il 1968, e come quella rivolta generazionale abbia contagiato tutto il mondo, da una parte e dall’altra della cortina di ferro. Negli anni Sessanta il cinema è, per l’ultima volta nella storia, lo specchio fedele di quello che stava succedendo nel mondo, e questa consapevolezza fa capolino in ogni riga dei ricordi di Němec.

Steve Della Casa