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Questa recensione è uscita ieri su TuttoLibri della Stampa

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Quinto romanzo di Sylvie Richterová, scrittrice ceca emigrata nel nostro Paese all’inizio degli anni Settanta e che ha continuato a scrivere nella sua lingua madre, Il secondo addio arriva in libreria grazie a Miraggi edizioni e alla traduzione di Alessandro De Vito – e vi arriva dopo un’attesa di quasi trent’anni, visto che la sua redazione è del 1994. Storia curiosa, ma tutto sommato non insolita, quella dei libri di Richterová, di cui questo Secondo addio può essere preso a emblema: prima opera composta dopo la caduta del regime, il romanzo (se questa definizione ha senso, ma ne parliamo tra poco) poté uscire a Praga, ed era la prima volta che un libro di Richterová arrivava nelle librerie ceche. Ma era stato scritto in Italia, da qualcuno che aveva lasciato la madrepatria da oltre due decenni e che sapeva non vi avrebbe mai fatto ritorno. Fu tradotto in alcune lingue europee ma, curiosamente, non nella nostra, e così sembra che il destino di ciò che Richterová scrive sia, per un motivo o per l’altro, quello di avere difficoltà di diffusione.
Ecco, questa difficoltà trova eco nelle pagine del Secondo addio, che è un libro di personaggi più che di trama, e in cui tutti, o quasi, scrivono: scrive Jan, principale narratore di questa vicenda e marito di Marie, la protagonista – o per lo meno colei le cui vicende tengono unito il composito gruppo dei personaggi; ciò che Marie scrive a proposito della propria vita viene affidato proprio a Jan, il quale a sua volta lascerà un manoscritto che verrà ritrovato dal fratello; scrive anche Tommaso, che all’inizio troviamo in una comune romana dove Marie, esule ceca, si trova a vivere negli anni Settanta, dopo aver lasciato la Cecoslovacchia: Tommaso è poeta, e affida i suoi versi proprio a Marie, che a sua volta riceve da Praga i manoscritti scientifici e le opere di Pavel – amico del padre e di cui la donna è innamorata. Insomma, tutti o quasi scrivono, in questo libro, e tutti affidano le loro cose a qualcun altro: tutti hanno fiducia negli altri, da questa e dall’altra parte della frontiera, e si donano attraverso la parola scritta.

Alcuni dei testi che i personaggi scrivono entrano a far parte del romanzo. Pavel, per esempio, affida a Marie un’opera letteraria di cui leggiamo degli estratti: si tratta di un romanzo, Il Narciso cieco, dai toni vagamente esistenzialisti e malinconici. Ma di Pavel leggiamo anche frammenti di lettere in cui l’uomo ragiona sulla sua condizione di “prigioniero” di un mondo che non sa e non vuole abbandonare e sostiene che «a partire da un certo momento le notizie sulla nostra vita sono state più vive della nostra stessa vita». Scrive: «Cara Marie, l’uomo ha l’irresistibile istinto di raccontare la vita, di darle una forma… è la forma a darle senso» – e questo mi pare il concetto capitale attorno a cui Il secondo addio è costruito. Come sostiene anche Massimo Rizzante nella postfazione, infatti, questo libro non possiede uno statuto definitivo: non ha un vero proprio intreccio, al di là delle vicende biografiche, spesso esili, di Marie; non ha una voce narrante principale: si direbbe che sia Jan, il quale però cede il posto al fratello e, a turno, a tutti i personaggi della vicenda, che in dati momenti dicono “io”; non ha un’unità di tempo (si viaggia tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, senza indicazioni precise) né di luogo, perché ai capitoli romani si alternano parti ceche senza soluzione di continuità. E allora? Dove sarebbe questa forma attraverso cui, secondo Pavel, diamo forma alle nostre vite? Sta proprio in questo saltabeccare, in questo continuo non trovare un centro di gravità: è la stessa Richterová, nella prefazione appositamente scritta per questa edizione, a fornire una chiave di lettura non solo per questo libro, ma per molta letteratura dell’Europa orientale che, oggi, tenta di restituire il proprio rapporto con la Storia, con la realtà. Ecco cosa scrive, parlando della fine del XX secolo come di un’epoca in cui «la storia non era più lineare e consequenziale ma piuttosto multidimensionale, e la biografia non si svolgeva nel tempo lineare, bensì attraverso una continua tessitura nel tempo e nello spazio di cui prendiamo coscienza. E siccome partecipano molti tessitori, il racconto può procedere benissimo con voci di narratori diversi». Ecco, questo concetto, che potrebbe andar bene anche per i libri di Gospodinov, di Drndić o di Hemon – tutti autori, ciascuno a suo modo, le cui biografie e i cui popoli sono stati travolti dalla Storia e che cercano disperatamente una forma e la trovano nel frammento – è ciò che rende Il secondo addio un libro rapsodico, insolito nei modi e nella costruzione, ma simile ai lavori di altri grandi autori europei che, avendo sofferto la Storia e sperimentato l’esilio e il dispatrio, cercano il modo per renderli leggibili.

QUI l’articolo originale: https://andreatarabbia.wordpress.com/2023/12/03/sylvie-richterova-il-secondo-addio/