“Se mi chiedi da dove vengo… / precisi bene da quale paese vieni? / …freno la tua paura per i documenti / e ti racconto che ho preso un aereo / sono atterrato e ne ho preso un altro / sono atterrato e ne ho preso un altro / sono atterrato e sono arrivato”. Lasciare la propria terra, le proprie radici per costruirsene altre ha un prezzo da pagare: il prezzo è dover giustificare la propria presenza in un Paese dove non assomigli a nessuno, per tratti somatici, colore, e qualsiasi altro elemento che ti rende un “diverso”. Anche se “ti parlo nell’unica lingua che conosci”, “ti racconto la storia del tuo Paese” la risposta è sempre “e mi rispondi che non basta” perché “bisogna nascere qui per appartenere a tutto ciò”. Poiché non si è nati nel paese in cui si vive, l’insulto diventa lo stigma del razzismo (“il primo vattene / l’ho subito su questa terra / il primo qui non ti vogliamo / l’ho subito su questa terra / il primo tornatene a casa tua / l’ho subito su questa terra”. E quando, dopo quattordici anni, ritorni nel tuo paese di nascita, la tua identità non la trovi nemmeno lì, nemmeno “Nel posto in cui speravo di sentirmi finalmente completo / nel posto in cui mi ero immaginato di sentire / le mani di mio nonno ricucire tutti i miei pezzi sparsi”; ti senti “diviso in due: / una parte que habla en este idioma / e l’altra che si riascolta in silenzio” e ti ritrovi “sconosciuto, / straniero, / ovunque nel mondo straniero”. Chi vive questa condizione e inoltre possiede il dono della poesia, non può sottrarsi all’immedesimazione con altri che lasciano la propria patria, lasciandosi alle spalle guerre, povertà e fame, per trovare una patria sostitutiva. Quanti sono i migranti che finiscono il loro viaggio inghiottiti dal mare? “Non esistono più settecento circa / nomi da pronunciare /…e mai sapranno le madri e i padri / dello sprofondare / in quel canale di Sicilia / grande come settecento circa oceani, / dei loro figli assetati / e spogliati dal sale / settecento circa / immigrati, ingrati, profughi, / negri / clandestini, / primitivi / o settecento circa / persone, con settecento circa / voci da sempre / e per sempre / costrette a strozzarsi nel silenzio”…
Non si dovrebbero leggere le poesie di Jaime prima di addormentarsi, non si ha il tempo di metabolizzare a sufficienza la responsabilità che ti viene buttata addosso. La responsabilità della bellezza e del disagio, della rabbia, del dolore e della verità. Che sia la sua storia personale (nascita, appartenenza etnica, radici, amore, solitudine, discriminazione), che siano i corpi dei migranti che si sciolgono nel Mediterraneo o la disperazione di una madre che offre erba come cibo alla propria figlia perché altro non possiede (poesia struggente a pag. 18) ti senti il pedone investito sulle strisce. Così la rabbia e la frustrazione diventano le tue, così la poesia ha raggiunto il suo scopo. Jaime Andrés De Castro è un giovane poeta, giovane di età ma con già una discreta “anzianità” poetica. Nato a Barranquilla, Colombia (ecco perché ha dovuto pagare il prezzo del giustificare la propria presenza nel nostro paese), vive nella provincia milanese. Alla sua seconda pubblicazione (la prima è stata ¡Afuera Todos Saben Vivir! uscito per Matisklo nel 2016), è anche poeta/slammer di grande intensità. Non segue la metrica nelle sue poesie, poesie fisiche dove coesistono versi brevi e versi lunghi, quelle più arrabbiate sono ricche di anafore. La sua è la rabbia sacrosanta per le ingiustizie, provate personalmente, provate come individuo vivo e consapevole, che sembra cosa detta e ridetta, scritta e riscritta ma mai abbastanza. Poveri noi se ci arrendiamo alla nostra impotenza. Che chi sa scrivere le scriva, le ingiustizie e le barbarie che vede perché, come scrive Jaime nella poesia conclusiva di questa raccolta “vorrei scrivere una poesia/che alla fine/ti faccia capire/che c’è ancora una speranza/e che quella speranza/ è la poesia”. Consigliato? Certo che sì!
piove pioviggina ha smesso. luna l’alba grigio il mezzo- giorno. gira il giorno nel microonde l’acqua. odora verde il the pochi biscotti. il corpo ammala gira rigira virus lalingua. virale video attività febbrile. vitale girava nel microonde l’acqua. driiin la sveglia ci sveglia ci beve la vita. frutta verdura riposo. tachipirina. il cielo ha inquie- tudine d’occhi. vederlo morire gli sguardi di mentre mi guardava mio padre.
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Egli ultimamente crede ogni giorno di dover morire dacché è morto suo padre
anonimato fantasma fantasma. spettro spettracolare. farsi il pensiero poi ricorda. per mancanza di padre. ricordare il dolore persistente al torace. immagina im- possibile. una doccia. fare la spesa. saluta la vicina il marito appena circuiti. diventa di ritornare. cuci- nare prendere il treno. andare dimesso. dall’ospedale non dover morire ora. peregrinare altrove telecamere stanze a pistoia via firenze fifredi. scorre sotto il cielo una vena sottile sotto la pelle. immaginarsi. più che immaginare. svegliarsi e morire.
*
Egli ha giramenti di testa tachicardia confusione mentale e quindi va dal medico
stare bene. ora. glicemia il se ne frega beh? sotto con- trollo. casa ben pulita disinfettata il sole. gelido crudele reale. il come che relega nel simbolo. bambino esploso ci tieni tanto rimprovera. ferita a morte morte. la siria. non parole fatti sedie condividere. il terrore il terrore il terrore. e chi se ne frega se muori. chi la bacia ci gioca c’è il sole e domani giocherai. amerai? cioè davvero? l’an- goscia è a fissare il tuo ego. allo scheletro dello scaffale. bum. un’altra bomba. è morto il desiderio.
*
Egli in treno ritorna dal lavoro e la stanchezza lo fa sragionare cose in forma di versi \ egli oppure
ai ventinove minuti. delle diciannove il treno muri. per- sonaggi lì fuori e tu per rima fiori. ai rumori muori. dove e come hai lasciato il corpo. lontano il cuore risacche secche scivolare. mare colmo di secco sangue. in nulla anestetizzato scorgi. disperazione che c’è però campeg- gia. sicura la scritta luminaria luminosa. neutro roberts. scivoli da come te schiuma dopo un dopo temporale. un finale inutile. uno. una prevista morte.
*
Egli torna dal lavoro e prepara il pranzo ricordando quando tornava da scuola
l’una e cade giù il bandone come. una ghigliottina di metà giornata. il dipendente della fabbrica elettroni- ca. di cui mi sfugge il nome corre perché piove inizia. il carrello sbalzato gli si ribalta. i rumori non infasti- discono perché. è necessario guadagnarsi il pane. oggi vongole e zucchine. pennette. tragico connubio fiore a metà. strada tra il blu del mare e il grigio cielo az- zurro. la tendina respira la. finestra si agita. e. il ricor- do di raffaella carrà. si affanna. corre mentre mescolo l’intruglio. quando a casa dopo scuola a pranzo. bi- sognava indovinare il. numero di fagioli. pronto? chi sei? da dove chiami? è pronto. mangio. grazie gesù chi per me che pure oggi posso mangiare dormire soffrire soffiare. che pure oggi. posso scrivere e. ricordare. re- spiro. prima o poi vorrei morire.
I cinque poeti finalisti sono stati ascoltati lo scorso 24 giugno a Fano durante le giornate di Passaggi Festival (https://www.passaggifestival.it/), mentre la Cerimonia di Premiazione del vincitore si svolgerà a Milano a settembre.
I poeti finalisti del VI Premio Letterario Internazionale “Franco Fortini” divisi per editore
La vita che ristagna. Su “Still Life” di Adriano Padua
Still life, ancora vita: così il titolo dell’ultima opera di Adriano Padua, uscita per Miraggi nel 2017. Una raccolta articolata in sei sezioni, in cui il verso si confronta con una realtà magmatica, l’ambientazione urbana, il senso del precario, la violenza, e in conclusione con la presa di coscienza di un decadimento uni-versale, cioè incontrovertibile. Il manifesto in favore di una poesia che irrompi nella dimensione non consolante del reale, e acquisti valore proprio in quanto capace di perforarlo, in quanto performativa, è il lascito più importante di questo libro.
La vita, ovvero la palude
Per cominciare, occorre tenere presente lo scenario evocato dalla poesia di Padua a livello denotativo, sul piano della mimesis. Il motivo è nella relazione che la pratica poetica intesse con lo spettacolo in cui si inserisce: lo “scenario”, di fatto, non è uno scenario, ma un tutt’uno col fare poetico, dal momento che quest’ultimo sorge (e può sorgere solo) all’interno di un contesto umano degradato, e, contemporaneamente, verso quel contesto si dirige, col doppio fine – ma sono due facce della stessa medaglia – di criticarlo e di salvarlo catarticamente («non c’è una medicina ma la cura / del nostro male è la ferita stessa»). Volendo porre una teoria di fondo, si può considerare, a mio parere, che la poesia di Still Life sia eziologicamente e teleologicamente giustificabile attraverso l’idea di “mondo”, insieme sua origine e sua destinazione.
Questo mondo, come dicevo, compare in vesti lacerate. La città è l’ambiente in cui sono più facilmente osservabili le sue ferite, gli spazi in cui più chiaramente emergono la precarietà dell’umano, la sua caduta («buio deserto di città teatrale», «la città che è un teatro tranquillo di guerra», «una tempesta di persone perse / tra processioni ferme di cemento»), mentre la notte è la stagione più disposta a svelare la nudità di queste contraddizioni, proprio ottundendo le certezze vendute dal giorno. Alla notte è infatti dedicata l’intera sottosezione Intorno, notte, e il buio, proprio agendo come «sipario calato sul mondo», di quello indica le smagliature e la frammentarietà irriducibile, agendo come «madre non norma», cioè come origine oltre-sociale che «disvela […] delle case l’anomala quiete».
La verità dell’essere che coincide col proprio nascondimento – influsso probabilmente heideggeriano – è alla base, o tra le basi, di un’idea di poesia che scaturisce dalla necessità della nominazione, ma ciclicamente si dimostra incapace di eseguirla correttamente («lasciando cose come innominate», «dalla voce che grida strozzata il suo linguaggio distrutto», «è dovere di dire le cose / non compiuto»). Tornerò nel finale alla ragion poetica del libro; per ora basti questa considerazione: che il mondo è palude nel senso di luogo indefinito, bucherellato, e perciò pantano in cui è difficile muoversi; ma anche nel senso di «acqua senza genere» che costantemente si infiltra e riappare nelle zone che sfuggono alla faticosa attività di nominazione operata dalla poesia. Still Life vuol dire questo: che la vita è una pozza che ristagna e la poesia non riesce a bonificarla del tutto; che alla base del libro c’è una scissione insanabile tra linguaggio e materia.
La misura orale
Vista in questo modo, la poesia di Padua non può che caratterizzarsi per una forte tendenza all’oralità. Il dato più significativo in questo senso è che l’autore affianca all’attività di poeta quella di performer: le stesse poesie di Still Life hanno una trasposizione live in cui i versi, pronunciati con ritmo lento e scandito, ma anche tagliente, si innestano su arrangiamenti in chiave post-rock (quasi immediatamente il pensiero va, ad esempio, ai Massimo Volume). E del resto anche all’interno del libro i riferimenti alla musica abbondano: nei numerosi eserghi che accompagnano le aperture delle sezioni e sottosezioni dell’opera, accanto a poeti e prosatori (“classici” o contemporanei), troviamo riferimenti alla musica pop/alternativa (Le luci della centrale elettrica) o rap (Kaos One, DJ Gruff).
Ecco, l’influsso del rap è a mio avviso davvero decisivo, in questo libro, tanto per la denuncia e la condizione di marginalità sociale che sono, come si sa, alla sua origine, quanto per il tipo di verso adottato da Padua, spesso disteso (del resto le pagine sono stampate in orizzontale, generano un impatto visivo che ricorda – almeno a me – il Pagliarani de La ballata di Rudi) e con schemi ritmico-rimici incalzanti grossomodo regolari. La scrittura di Padua è predisposta alla recitazione, alla voce, si intesse su cadenze di accenti calcolate con precisione (spesso supportate anche dalla struttura dell’endecasillabo), sulla frequenza assidua di omoteleuti, paronomasie, rime, assonanze e consonanze (ad esempio, già nel primo testo, a intervalli omogenei, troviamo: «sorta», «sepolta», «vedute», «luce», «contraddice», «descritte», «scaturisce», «contratto», «scatto»…).
La poesia, ovvero l’arma
Quello di Padua è perciò una sorta di toasting poetico, da cogliere però non solo nella “forma” della sua fattualità estetica ma – congiuntamente con quella – soprattutto nella sua natura situazionale. Voglio dire: mi sembra che Still Life sia performativo nel senso più denso del termine, voglia far incarnare la poesia in un reale posto nel mondo, e rintracci nella misura orale la pista migliore per riuscirci.
Riprendendo lo schema posto a monte, per cui il poetico si origina dallo squilibrio del mondo e verso quello si dirige con l’obiettivo – fallito – di nominarlo, e così di ricongiungersi con esso, quella di Padua potremmo definirla poetomachia: la poesia si configura come colluttazione, come arma sfoderata contro una realtà che pare impossibile da richiamare dentro il linguaggio («qualcosa che colpisca dentro gli occhi», «martirio», «mani insanguinate», «le parole coltelli tra i denti»); una poetomachia giustificata sul piano metafisico dalla non coincidenza tra essere e linguaggio, ma anche, sul piano storico, dalla necessità avvertita di protestare contro una certa idea di poesia, che banalizza la portata eversiva della poesia stessa («scrivere […] non è mettere il cuore / in pace»).
È in questa chiave, dunque, che si può osservare l’andamento della scrittura di Padua come un andamento parabolico, dove la poesia è il vertice, il punto più lontano dal mondo, che però proprio verso il mondo si sforza di andare. Denunciando gli spasimi del linguaggio e ricercando la voce come presenza, Still Life pone il poetico nei termini di un tramite sciamanico (che rimane, comunque, una Preghiera (senza Dio)) teso al recupero dell’origine, per via di uno scontro con la (e l’attraversamento della) realtà materiale e sociale.
Campi magneto-semantici. Su “Pagina bianca” di Gianluca Garrapa
Per leggere Pagina bianca di Gianluca Garrapa (Miraggi Edizioni, 2020) è necessario mettere da parte l’intero orizzonte d’attesa codificato per la poesia (per lo meno quella comunemente intesa). Concetti – e pratiche – come quello di versificazione o di struttura strofica vengono meno di fronte a un approccio con la testualità (prima che con la lingua) tutto fondato sul sabotaggio – della struttura linguistica, del significato, dell’ordine tipografico.
Perciò voglio qui proporre un metodo di lettura diverso, rispetto a quello “tradizionale”; più adeguato al testo di Garrapa, che lo affronti trasversalmente invece che linearmente, nello stesso modo in cui l’autore espone la massa semantica a flussi di energia che la orientano, spezzano, organizzano in forme sempre diverse. Individuerò, dunque, le principali caratteristiche di quelli che potremmo chiamare i campi magneto-semantici su cui l’autore fonda di volta in volta un nuovo sistema di senso poetico.
Rifrazione
La prima proprietà dei campi magneto-semantici di Pagina bianca è la rifrazione, ovvero una rottura lieve, una sfasatura che rende non esattamente corrispondenti, fuori fuoco gli elementi che compongono un testo. In forme diverse, questa sfasatura, o glitch, è tipica delle prime quattro sezioni che compongono il libro.
In sabato – che nella forma tipografica anticipa, insieme a paese, anche i “circuiti” di cui parlerò più avanti – la sfasatura rende inutilizzabili le categorie narratologiche di fabula e intreccio: siamo infatti di fronte a un certo scenario e una certa “storia” (le vicende legate a una giornata di sabato, tra cena, dopocena e incontri), ma il flusso narrativo e la stessa possibilità per il lettore di costruire in maniera univoca il soggetto del racconto sono del tutto sabotati da pervasivi scardinamenti del linguaggio, come giustapposizioni nominali, congiunzioni svincolate, distorsioni delle coniugazioni verbali, agglutinazioni di parole e così via fino alla (quasi) totale abolizione della punteggiatura e delle maiuscole. La successiva paese applica le medesime deformazioni alla dimensione nazionale, ripercorrendo – con, sempre, una linearità interrotta dalle sfasature – la storia d’Italia.
Se in sabato e paese assistiamo, però, a quel paroliberismo spazio-grafico che sarà tipico anche delle ultime sezioni, in due e tre la rifrazione si amalgama invece su forme di testo più strutturate. In due potremmo rintracciare una costruzione a episodi, micro-racconti, o perlomeno un ambiente che potremmo definire prosa. La langue sfasata persiste, ma notiamo qui subito una reintroduzione della punteggiatura (prima sporadica e quasi del tutto ridotta al punto interrogativo), che sembra tuttavia aver perso la propria funzione di organizzatore sintattico ed essersi ritirata tutta nel proprio valore ritmico (al punto da comparire dove non dovrebbe, separando ad esempio preposizioni o sintagmi strettamente connessi fra loro). Per contro, in tre il testo sembra assumere una forma simile a quella poetica (controprova una certa, seppur lieve, apertura intimistica, come in alieni), con dei versi riconoscibili e il rientro all’interno di uno schema (sempre libero, comunque) della spazialità sregolata dei testi precedenti.
Permeabilità
La seconda proprietà è invece la permeabilità, ovvero l’attitudine di un dato elemento a magnetizzarsi – dunque, semanticamente, a caricarsi al punto da acquisire una polarità di senso. È questo un impianto interpretativo con cui può leggersi la sezione Egli, sorta di cerniera tra una prima parte (incentrata soprattutto sulla “rifrazione”) e una seconda (composta da testi che chiamerò “circuiti”).
Egli conserva infatti alcune caratteristiche dei testi precedenti, e in particolare della sezione due, di cui riprende la punteggiatura libera e la struttura in prosa, nonché la divisione in “episodi” – segnalati tutti da un titoletto che contiene il pronome “egli”. Già dai titoletti, tuttavia, si nota come proprio la natura di “egli” – la natura di pronome – venga messa a dura prova da uno stress referenziale che lo destabilizza e in fin dei conti priva della sua funzione essenziale. Accanto a titoletti prodotti all’interno dell’orizzonte previsto dalla lingua (ad esempio, Egli pranza), ne compaiono altri paradossali e di assoluta discordanza verbale (Egli piove, egli la Clerici, Egli non ha senso scrivere oggi che è domenica, Egli è domenica).
Le prose introdotte dai titoletti, allora, non fanno altro che estendere, situare in uno spazio-tempo e in un flusso (anti-)narrativo i paradossi su cui i titoletti si fondano. In quelli – come nei calembours e nelle freddure molto frequenti in Garrapa – si verifica quella permeabilità di senso, sia anche assurdo, cui l’autore sottopone il linguaggio. Egli si manifesta come contenitore vuoto, pro-reale più che pro-nominale, dunque magneticamente attratto da ogni altra categoria o oggetto linguistico; e proprio questa accessibilità lo eleva a segno universale, comporta una ironica e insieme incontrovertibile pronominalizzazione del cosmo e, infine, il suo svuotamento.
Circuiti
Sulla forza delle proprietà magneto-semantiche individuate, le restanti sezioni (lapaginabianca, date), congiuntamente con le prime due, generano una serie di testi che seguono la vena fondamentale del libro; ovvero quella che fa dialogare le parole con lo spazio della pagina e dunque anche col bianco tipografico. Questa spazialità verbo-visiva configura tali testi come dei circuiti, in cui la forza magneto-semantica è organizzata secondo uno schema preciso dettata da polarità e direzioni di senso degli elementi, dagli effetti delle loro attrazioni.
Interpretandole così, queste parole sparse sul foglio appaiono effettivamente uguali ai disegni di campi semantici, appunto, stesi sulla lavagna di una scuola. Anche se nei campi di Garrapa, al contrario di quelli della lavagna, non è possibile rintracciare un effettivo nucleo semantico da cui scaturiscono gli altri termini (ma ci si avvicina a questo, ad esempio, nella pagina in cui al centro compare «ragazzi&ragazze») e le relazioni tra i vocaboli risultano spesso oscure, dettate più da una matrice inconscia o estetica che dalle strutture linguistiche, questi circuiti rompono egualmente l’ordine, la linearità, la logica in favore del caotico, della radialità, dell’aleatorio.
A questa dimensione, Garrapa aggiunge la significazione dello spazio bianco, che determina un certo orientamento del senso e dell’espressione proprio a livello topo-grafico: l’effetto di rapidità, ad esempio, è costruito (come nel testo che comincia con «luce») non dalla sintassi o dal significato, ma dall’avvicinamento tipografico dei termini; la parola si carica di densità semantica, e simbolica, quando è visivamente isolata, e non quando è rafforzata da una sintassi o da una punteggiatura.
Pagina bianca – che significativamente non riporta i numeri delle pagine (allargando così la significazione del bianco anche al paratesto: e infatti l’indice ha la forma di uno dei “circuiti”) – è dunque composto da campioni di magma, da testi fondati su relazioni che non si limitano al sema, ma chiamano in causa anche i legami “magnetici”, post-linguistici e fisici, che li costruiscono. Il bianco che chiude il libro (segnalato a destra così: «: pagina bianca») ne è la saturazione definitiva; il vuoto significato che permea l’intero mondo-libro.
anonimato fantasma fantasma. spettro spettracolare. farsi il pensiero poi ricorda. per mancanza di padre. ricordare il dolore persistente al torace. immagina impossibile. una doccia. fare la spesa. saluta la vicina il marito appena circuiti. diventa di ritornare. cucinare prendere il treno. andare dimesso. dall’ospedale non dover morire ora. peregrinare altrove telecamere stanze a pistoia via firenze rifredi. scorre sotto il cielo una vena sottile sotto la pelle. immaginarsi. più che immaginare. svegliarsi e morire.
Pagina bianca, Gianluca Garrapa, Miraggi. Originale sin dall’impaginazione, Pagina bianca di Garrapa, che collabora con molte testate, come Sul romanzo, Psychiatryonline, Puntocritico, Poetarum Silva, Nazione Indiana, L’immaginazione e Culturificio, è la raccolta di un autore che tra l’altro, evidentemente con pieno merito, si è aggiudicato riconoscimenti prestigiosi in occasione del premio Pagliarani del duemiladiciassette e due anni fa nella cornice del Celan, ed è la riuscita, intensa e policroma rappresentazione simbolica della fragilità umana che si manifesta nella reboante contraddittorietà delle tensioni in cui ogni individuo si imbatte nel corso del proprio cammino esistenziale, volto alla realizzazione. Da leggere.
A dispetto della simpatica e tenera copertina, ciò che emerge sin dalle primissime pagine nella lettura di questo libro di poesie targato Alessandra Carnaroli, edito per Miraggi edizioni, è proprio “lo stile katana”, inteso propriamente come una versificazione che affetta, si precisa, non in senso sentimentale.
Non si parla di un’opera infatuata della cultura proveniente dal Paese del Sol Levante e pregna di esotismo, almeno non per quanto riguarda le tematiche tradizionaliste o la cultura tecnologica che ha reso il Giappone appetibile al gusto occidentale. Quella che ci viene presentato da Alessandra Carnaroli è una poesia dal taglio (perdonate il gioco di parole) tagliente, più vicina alle suggestioni della letteratura e del cinema pulp che alla rappresentazione di spietata bellezza tipica della cultura nipponica.
Nell’epoca globale le forme si svuotano di significato, la tradizione perde ulteriori colpi e il parodiare sa essere un’arma di rappresentazione dell’attualità tremendamente efficace, spesso in modo paradossale ben più credibile di forme che amano definirsi serie, dunque in controtendenza a ciò che il Sommo Poeta dichiarava in uno dei suoi celebri Canti: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza». Niente di nuovo su questo, sono ormai secoli di messa in discussione della tradizione in poesia, di rappresentazione del brutto che diventa sublime: lo hanno fatto I Fiori del Male di Baudelaire o l’Impeto incendiario del Palazzeschi futurista, eppure Alessandra Carnaroli mette in atto un’operazione intelligente a cui va dato interesse per l’allusione formale (e quindi non un vero e proprio rimaneggiare) e la freschezza sostanziale dei versi.
Partiamo dalla prima sezione del libro, Carico e scarico, in cui la forma si fa brevissima, tanto essenziale quanto sferzante. Il verso scarno non perde quasi mai efficacia e fa della propria immediatezza un formidabile punto di forza: difficile non richiamare alla mente quelle forme che hanno fatto la fortuna della poesia giapponese, come l’haiku o il tanka, ma qui non c’è bellezza né sublime, non c’è stagione né elemento naturale, soltanto la dura realtà di una prostituta nigeriana costretta a fare la vita di strada in Italia.
26 d’inverno accendiamo un fuoco vicino la strada
urlano vi prende fuoco il culo allora rispondiamo vieni a buttare liquido seminale
30
sei fortunata da essere in italia se restavi in nigeria avevi la polio
qui mi trombano sul sedile di una polo
42 metti il preservativo hai famiglia
non lo faccio per te ma per mia moglie incinta
non voglio attaccarle la tua faccia da banana
fargli venire un figlio con una voglia strana
In queste poche “gocce” (ce ne sono ben 127) si scorge uno spiccato e giocoso gusto per la critica diretta alla società italiana, a un maschilismo soffocante e a un sistema di dominio che impedisce il cambiamento della propria condizione di vita, questione che vale per la classe media e che, con maggiore drammaticità, si riflette nei riguardi degli individui ai margini. Nei versi domina un certo sarcasmo che si lascia accompagnare dalla leggerezza pur dissacrando le parvenze: così l’amore a pagamento abbraccia una miseria collettiva in cui l’affermazione personale è strumento di desiderio imprescindibile e irrinunciabile sia per poveri sia per chi gli insoddisfatti dalla vita. Un ritratto non proprio lusinghiero che punta il dito contro l’ipocrisia di tante persone, coloro che amano l’oggetto del disprezzo, a patto di poterlo a possedere. Non c’è spazio per i sentimenti, l’io poetante saggiamente immedesimato non fa del vittimismo: la sua è un’operazione verità focalizzata sul reale senza peli sulla lingua, che in poesia è sempre un grande rischio in quanto il linguaggio e la forma sono tutto. Nonostante tutto, forte di questa ragione e con un incedere diretto e volutamente sghembo, si conquista la fiducia e la simpatia del lettore.
La seconda sezione, “Murini / Inserisci un emoji”, mette in campo altri elementi linguistici e stilistici che si lasciano apprezzare. Innanzitutto vi è l’emulazione di un linguaggio approssimativo tipico dei social network che quotidianamente alimenta lo stucchevole flood di pressappochismo spicciolo o, nella peggiore delle ipotesi, veterocomplottismo in salsa negazionista. Lo scenario su cui si muove la poesia di Alessandra Carnaroli resta sempre la critica alla società, ma stavolta l’io poetante non è vittima, bensì vittimista. I componimenti, inoltre, presentano un elemento espressivo probabilmente inedito e decisamente originale: la descrizione degli emoji, inseriti in alcuni versi, quasi come a voler ridicolizzare ulteriormente il contenuto del testo. Vediamone un esempio:
verranno quando invecchiamo a toglierci i figli che si ammalano
o amputati / due facce spaventate
come guardie zoofile sulla panda verde con i cani alla catena i nostri figli tolti dalla cuccia
per due pulci sulla schiena / grrr gatto orso coniglio iena
L’espediente del corsivo è godibile alla lettura non solo in senso descrittivo e parodistico, ma soprattutto sonoro (arrabbiata che fa da eco a stato e legalizzato, oppure iena che richiama catena e schiena). Si noti, inoltre, anche un gusto stilistico che nella rapidità trova i propri inceppamenti, tipici di quei contenuti poco ponderati, di pancia, tirati fino al punto di toccare anche questioni insensate. Eppure questo approccio si rivela vincente e dà valore ai versi di Poesie con katana, un lavoro ben calibrato, leggero sì, ma ben curato. Di certo non esprimerà un alto valore morale, ma gli è congeniale uno sguardo peculiare circa il ruolo della poesia civile oggi, nuda e senza retorica.
la vita dei deboli non ha valore / sigh sigh
si salvano solo gli immigrati dai barconi
scambieranno i bambini italiani con i cinesi copiati / alieno alieno
diventeranno un serbatoio di organi da trapiantare per il mercato orientale / lacrima lacrima faccina triste occhi cuore spezzato orecchio naso
Di fronte al libretto Pagina bianca (Miraggi Edizioni, 2020) di Gianluca Garrapa si possono avere sentimenti contrastanti, un lettore esigente come me troverebbe indigeribile una simile sperimentazione (non solo linguistica, ma soprattutto formale), eppure il compito del recensore – ripete sempre un mio amico – è trovare quel poco di buono ovunque, in ogni opera. Questa è stata la mia motivazione. Mi limiterò dunque a quelle cose che ho trovato realmente affascinanti, e pure a interpretare un poco la sperimentazione attuata in queste pagine.
Già dal titolo possiamo arrivare a intendere l’intento principale di Garrapa: disseminare la parola per il foglio, facendo sorgere (risorgere?) il bianco dello stesso. Già la poesia di per sé lavora molto sullo spazio non inchiostrato, altresì qui l’autore smembra la poesia sparpagliandone i pezzi. L’effetto parrebbe quasi brutale, e vorrebbe pure avere un intento evocativo: quasi come se la parola – in sé, nuda e cruda – dovesse racchiudere l’infinitezza raccomandata; l’autore – come chiunque sappia scrivere – deve conoscere la portata ontologica del linguaggio, ma un lettore diseducato a questa ricettività altresì trovandosi di fronte a un tale laboratorio si sentirà ben estraneo. In questo dismembramento v’è qualcosa di interessante che non riesco a cogliere appieno, ha però catturato la mia attenzione quella breve sezione intitolata “paese” dove si traccia (proprio in questi termini) una breve storia di quanto fu la nostra penisola nei tempi che ci precedono.
Aggiungo in più che al fine di ogni percorso – che Garrapa compone a mo’ di novello Pollicino – ho avuto come l’impressione che il tutto dovesse suscitarmi una certa ilarità, soprattutto nelle svariate parole richiamanti i pasti quotidiani. Ciò fu parecchio piacevole, invero: quasi come le canzonature di un vecchio amico.
La parte che più si avvicina alla poesia, però, non ha a che fare con alcun tentativo di versificazione presente in questo testo, anzi sta ben piantato in quelle prosette (per lo più diaristiche) che partono giocose per concludersi tragiche. In queste, racchiuse per lo più nella sezione “Egli”, noto un buon ritmo in ogni micro-narrazione, e pure un espediente interessante: in fondo tali prose vorrebbero essere poesia (non che non vi sia la poesia in prosa, qui per poesia sto intendendo un’opera in versi), ebbene, il punto posto a ogni conclusione di frase prende – in Garrapa – il posto dello slash (che notoriamente occorre per posizionare sul rigo continuativo una poesia in versi). Aggiungo che tale sezione – “Egli” – è realmente uno scrigno di fantasia linguistica apparentemente nonsense, proprio per ciò gustosa e vasta.
Direi in conclusione che Pagina bianca sia un testo da leggere lasciando da parte qualunque intendimento vero di poesia, per aprirsi (e possibilmente beneficiare, dell’ironia per lo più) a questo tentativo ben studiato di stupire, che parte proprio dalla messa in dubbio della poesia stessa.
La presente versione di Quasi tutti (Miraggi ed., 2018), da considerare definitiva, emenda qualche ingenuità e refuso della prima edizione, e si presenta in alcuni punti riveduta, a livello macro- e microtestuale.
Gianluca Garrapa: ci racconti la genesi del testo? E dei microscopi e telescopi testuali come fanno direzionati per curarsi del reale e simbolizzarlo sulla pagina?
Marco Giovenale: Il libro cerca di mettere insieme molti materiali nati quasi essenzialmente per spazi web a partire dal 2005, grosso modo. L’intenzione era ed è quella di fissare su carta esperimenti di googlism, cut-up, eavesdropping (=ascolto e trascrizione di frammenti di conversazione altrui).
Forse più che della composizione del libro può essere interessante parlare del click che scatta – sperabilmente – nella ricezione o manipolazione di materiali che poi entrano nel libro: si tratta sempre di qualcosa di indefinito e allo stesso tempo certissimo. Si ascolta qualcuno che sta organizzando banalmente il proprio discorso intorno a una routine quotidiana, per esempio, e non ci si riesce a staccare dall’esperienza di produzione di senso che contro tutte le aspettative quella banalità emette. Una simile esperienza percettiva, per niente dolorosa, e poi di alta o bassa manipolazione, e infine scrittura o semplice trascrizione, non è affatto lontana dalle esperienze e dal modo di operare del primissimo Joyce, quello delle Epifanie, brevi prose “drammatiche” o “narrative” (a seconda se formalmente strutturate come dialoghi o come frammenti di racconto) scritte nei primi anni del secolo scorso.
Quanto ho appena detto vale in particolare per l’eavesdropping. C’è poi ovviamente una diversa (più forte) intenzionalità o aggressività autoriale, verso il testo, nel manovrare googlism e cut-up, ma la sostanza non cambia: il testo stesso a un certo punto comunica di essere compiuto, e ci si ferma. Non è definibile, credo, come e perché, né quando (you know, “come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore”, Prima lettera ai Tessalonicesi, V, 2). (Una cosa simile, insomma).
Questi modi di scrittura (ma Quasi tutti ne contiene anche altri; e anche scrittura diretta, senza procedure, senza ‘macchine’) vengono talvolta scambiati per incongrui con la poesia, o la prosa, o la scrittura tout court. A me sembra semplicemente miope questa critica. (Per la poesia, passi: penso ci si trovi in tanti oramai, e gioenti, in un territorio post-poetico, e per me amen: bene così).
Però quel che voglio dire è che:
si tratta sempre e principalmente (se il lavoro è fatto con serietà) di dislocare il proprio inconscio, metterlo in un punto non (interamente) governabile e sovrascritto dal superIo, dall’ipoteticamente adamantino Moi lacaniano, o da quel che si vuole.
Si tratta cioè di tagliare il guinzaglio al soggetto dell’inconscio. Lasciarlo andare. A suo modo (un modo ancora altro) Carmelo Bene spiegava la ‘normalità’ (geniale) di constatare e mettere a valore e al lavoro un “linguaggio che si articola come un inconscio”.
Io dico che bisogna proprio dislocare l’inconscio, piazzarlo in un’altra scatola, far parlare l’Altro come altro. Per quanto possibile. Ovviamente la pesantezza della mano che poi agisce sul materiale che arriva, giocoforza, agisce e cambia il flusso e cristallizza frasi passaggi fraseggi e paraggi. Ma questa inevitabilità si applica a un materiale i cui vieti addentellati con l’ego sono smussati o proprio cancellati in incipit da quella dislocazione.
Delocalizzare l’inconscio. Sbatterlo con infame protervia in un quarto mondo a cucirsi il buio.
Poi, certo, in più, possono essere applicate slogature, fantascienze varie di movimentazione della pagina. Però se in partenza l’inconscio sta da un’altra parte, “io” credo, è meglio.
Nella ipercaverna di google, nella altrui chiacchiera da bar, in una pagina di giornale. Eccetera.
“Fons amoris.”
dentro hai molto ed i soldi sono essenzialmente il freddo.
stare fuori dai ratti. penso al bisogno delle cose, che tutti vogliono.
G.G.: che rapporto c’è tra la tua pratica plurima e non narrativa e una visione politica anti-razzista? A proposito… per moltissimi aspetti il tuo è un poema che cerca oggetti narrativi non identificati, la natura aliena del reale, impossibile, è il filo, o meglio il nastro di Moebius della tua non narrazione: non v’è altro che soggetto che scrive intorno al non so cosa del non prestabilito. È quello che sento, ascoltando le tue forme narrative: un altro a proposito: che oralità ci si aspetta da tali strutture non letterarie?
M.G.: Il rapporto è personale, probabilmente. Nel senso che negli anni Novanta ho svolto diversi lavori – diciamo così – “nel sociale”. E questo, oltre ad altre esperienze, ha inciso in modo netto sulla mia identità e sui suoi rami e rametti.
Poi dal punto di vista anche (volendo) teorico, e relativo alla plurivocità delle scritture, e alla loro non-narratività, bisogna dire due cose. Innanzitutto, che lo spostamento dell’inconscio nell’altrove, nell’Altro, volendo, è una buona ginnastica per la prassi dell’“imparare la lingua degli altri”, che (anche) è cosa che mi viene dai primissimi anni dell’università, dalle lezioni di Letterature comparate, dal lavoro redazionale per la rivista “Babele”, tra fine anni Ottanta e primi Novanta. In secondo luogo, la non-narratività è sempre relativa (e avversa) a quello che si può con una certa oggettività considerare il pensiero unico della letteratura, specie nella sua versione e pesantezza occidentale. Non dunque una narratività generica, ma quella delle marchese che escono alle cinque, e quella, in particolare, di un certo tipo cristallizzato di romanzo.
Il romanzo, lo ricordo sempre, è un predatore. Dove fa la sua comparsa (cito Franco Moretti) fa anche strage delle forme minori, delle leggende, delle fiabe, delle novelle, delle fantasie da tradizioni micronarrative, delle contraddizioni implicite nel racconto mitologico. Eccetera. Magari le ingloba, e così – coccodrillo che piange – assicura loro una ‘continuazione’. Ma a quale prezzo? La pulizia etnica è tecnicamente già avvenuta. (Moretti cita il caso dell’America del sud, del patrimonio di storie e tradizioni, orali o meno, che un intero continente vede erose o sommerse a favore dell’emergere e diffondersi virale del mostro romanzo).
Una opzione non-narrativa, antiromanzesca, può avere valore di alterità e spostamento (dagli andamenti suddetti del predatore) anche in aree, come quella europea, nelle quali la distruzione è avvenuta ormai da tempo, e la storia ha attraversato più innesti e mutazioni. (E il romanzo stesso si è adattato per farsi accettare. Ha messo la maschera della sperimentazione, dell’incongruo, del complesso. Il vile, il porco).
Sempre e in ogni caso, tipico della macchina romanzesca e anche di altre entità schiacciasassi, è il gesto divorante, a ganasce aperte, il flusso largo, la verbigerazione, l’andare avanti per paginate e paginate senza misericordia.
Seicento pagine. Seicentocinquanta. Prima di salire sul treno il viaggiatore si àncora a terra comprando in edicola l’ultimo o il primo foratino della nota saga. Settecento pagine, mille. Leggi, leggi: ti coinvolge nella riproduzione mondana, speculum mundi, e nell’immedesimazione. Sei suo dalla genesi.
Mentre al contrario è proprio svellendosi violentemente da sé, dallo schiacciamento del sogno e dal Wille del flusso, che ci si ricolloca e rimodula nell’Altro. (Anzi: si disloca l’inconscio, con tutti i suoi echi di empatia).
L’altro delle strutture ampie è, al contrario, il medesimo. Una calamita. Ore di viaggio che non sai di star facendo, cullato dai ritmi, dalle vicende, e già sei al delta, hai percorso tutta la stolidità del fiume, ti sei letto (in) un romanzo. Senza guadagnare altro che acqua, altra acqua, imbarcandone, affondando, affondandoci. Fidandoti.
Non si tratta della disindividuazione, si tratta semmai al contrario dell’esser colonizzato e mangiato. Usato come specchio altrui. Stai fermo, non muoverti, lasciati andare, facciamo tutto noi, le parole. Tante, troppe.
Leggiti questo romanzo, guardati questo bel film.
Sulla esecuzione dei testi di Quasi tutti: da qualche anno ho assunto una postura che sottolinea vocalmente alcuni passaggi, con inflessioni colori scivolature, perfino gesti. Ma devo asciugarla ulteriormente. Togliere orizzonte e dare orizzontalità. Sottrarre spazio alla tentazione dello spettacolo, senza per questo far morire di noia chi ascolta.
provo un’infinita malinconia e uno schietto desiderio di suicidio. e un ragionamento che ha portato i ricercatori ad una soluzione molto drastica.
G.G.: scrittura desiderante : scrittura immaginaria dell’io = non assertivo : assertivo? E quanto importa il desiderio nel soggettivo percorso? Inconscio dilatato, quasi la scrittura fosse una protesi o i tentacoli di una medusa che si allunga all’esterno per osmosi, per riempire, per poco, la realtà, attratta dal reale impossibile. Non ho ben capito quel che ho scritto ma sento che è questo quel che volevo dire: cosa è la volontà dell’io in una scrittura di genere Marco Giovenale?
M.G.: La proporzione mi garba abbastanza: la scrittura desiderante sta alla scrittura immaginaria del Moi come il non assertivo sta all’assertivo.
Cosa aggiungere?
Penso, certo, di aver parlato più di inconscio – e di soggetto dell’inconscio – che di Io o SuperIo. E non credo si possa fare altrimenti, lavorando con la parola scritta e parlata. Scritta ed eseguita. (E perseguita, e perseguitata).
Tutta la scrittura che non si rende conto di questo passaggio copernicano è, a mio avviso, tolemaica. Ma va bene (forse il mondo occidentale gira, e gira così, precisamente perché si fa centro: si punta il compasso addosso).
Ossia tutta la scrittura di grande distribuzione e grande accoglimento è scrittura di genere. Alza il cartello “Qui poesia” come altre scritture alzano il cartello “Qui giallo” o “Qui fantascienza”. Fanno le mossette, i lettori le riconoscono, e si accodano al cartello.
Sulla scrittura di ricerca non ci sono scritte, perché tutti i tentativi più o meno abbozzati di darle una vestina per coprire le curve falliscono e in tanti lo ammettono. Quindi sono felice quando mi dicono “anatema! scrittura di ricerca no, scrittura di ricerca non significa una fava!”, oppure “non-assertivo no! ἀνάϑεμα n’ata vòta, categorizzatore esecrando! tutto è assertivo, come fai a non asserire?” (Eh. Pensa tu che allora uno non potrebbe nemmeno dire “incolore”, perché ovviamente per la meninge di genere, generosa, “tutto ha colore”). Che fioritura flarf! che rigoglio di contumelie. E io sono contento: soprattutto quando queste “critiche” vengono dall’interno più comico della sperimentazione. Proprio noi che sperimentiamo, hélas, nescimus?
Già già.
Benedetti, come pensate possa essere diversamente, se serissimi s’è nel ricercare?
E allora: nella scrittura di genere (all’ingrosso, spaccando tutte le formine della critica da spiaggia o da cattedra: fantascienza, poesia, giallo, fantasy) è del tutto evidente che l’io con la “i” maiuscola, l’Io, spanda e spalmi la propria volontà – e il proprio irraggiare istruzioni & istituzioni su come debba il lettore specchiare l’auctor – nell’opera. Era un’opera. Fu. L’hanno or ora operata per piantarci dentro un ripetitore: un riferitore, un riproduttore, che al dicitore o scrivitore rimandi il suo medesimo detto e medesimo scritto. Mai il dire, mai lo scrivere, sempre il già stabilito, il detto, ri-detto, scritto, ri-scritto.
il governo sembra puntare sull’approva l’antimateria. il pacchetto arrivato alle camere ha risolto. prima di passare al senato. basta che tocchi la materia. fine dei problemi. che gli ci vuole al mediterraneo per rimarginare? da nizza alla dalmazia fai il giro o salti. e uguale. e l’uovo.
G.G.: è un estratto da «differx.it»: che rapporto hai con l’antimateria?
M.G.: Ah, guardi, ognuno a casa sua.
La sera andavano in via Veneto. Lì un distributore di uranio aperto giorno e notte. Si diventava brillanti senza saperlo.
G.G.:Quasi tutti: con quale criterio hai suddiviso la tua raccolta? E perché non scrivi come tutte le persone normali, invece di usare prose che non sono prose e poesie che non sono poesie? Prima di congedarci… in che direzione sta proseguendo la tua scrittura?
M.G.: La divisione interna, come spesso mi accade dando di lama ai libri, è istintuale e lascio un po’ fare alle insofferenze che saltano su mentre leggo o rileggo il dattiloscritto. A un certo punto metto punto. Segmento. Qui finisce pinco e inizia pallino. Cose così.
A posteriori, purtroppo, devo constatare che questo bassissimo grado di professionalità non è stato in grado di arrivare a rovinare veramente la partizione, rendendola aleatoria. Sembra infatti che ahimè la suddivisione interna della raccolta segua abbastanza fedelmente la divisione delle fonti: eavesdropping per cominciare, poi cut-up, materiali da film, eccetera. Per arrivare alla sezione grande (una specie di secondo tempo del libro) intitolata “differx.it”, che semplicemente mette insieme materiali scelti da un blog che avevo fino a non molti anni fa. C’è dunque una regola in tutto ciò, ho sbagliato anche stavolta.
Perché non scrivo come tutte le persone normali? Perché vivaddio tutte le persone normali, o quasi tutte, non sono normali. E se le lasciassero libere di sbattere in pagina quello che veramente le costruisce e le impalca tutti i giorni, non farebbero né il diarietto né l’instagram, bensì la prosa in prosa. Anzi già la fanno qualche volta, magari.
Dove vo? – domandi.
La mia scrittura prosegue grosso modo sui canali di Quasi tutti. Ma con una virata verso il sillogismo e la finta narrazione, sgretolata, che al momento sto concentrando in due o tre raccolte, di cui la più ampia è Oggettistica.
M.G.: Il frontespizio dello Speculum Mundi (“Speculum Mundi or a Glasse Representing the Face of the World; Shewing Both that is Did Begin, and Must Also End: The Manner How, and Time When, Being Largely Examined. Wheretunto is Joyned an Hexameron, or a Serious Discourse of the Causes, Continuance, and Qualities of Things in Nature”) di John Swan, 1635, è immagine ripresa dal sito d’aste Bonhams: https://www.bonhams.com/auctions/18847/lot/137/
“Carico e scarico” è il nome che Alessandra Carnaroli ha dato alla prima sezione di questo libro ricolmo di schietta e cruda realtà, narrata e anche giudicata. Poesie con katana è il suo titolo, edito da Miraggi Edizioni.
E di certo c’è un carico pesante. Come quello di una pistola che viene resa idonea al fuoco, quello che ferisce, in molti casi uccide. Lo si capisce già dai primi versi «scania / iveco / prime parole / italiane / dopo / ti stupro».
E lo scarico non è certo sinonimo di alleggerimento, o posizionamento là dove è giusto che qualcosa o qualcuno debba essere messo. Lo scarico è quello della responsabilità, di fronte alla consueta ignominia, di cui tutti sanno, pur se collocata nella cornice del tabù. Perché seppure sfruttata e soggiogata dal maschio, quella vita sembrerebbe meglio di un’esistenza più breve là da dove si proviene.
«Sono / 100% africana / fica di frutta / adesso ti spremo»: non ci gira intorno Alessandra Carnaroli; le parole sono quelle che sarebbe giusto usare. Non sono audaci, scabrose, non sono di rottura, sono aderenti. La scelta metrica, ugualmente. La poetessa sceglie di dare un ritmo alla sua voce come su un palco, dove i ritmi sono scadenzati dalla pause, che aprono varchi di ragionamento, poggiati ad esempio su «le madri grasse / che vestono / le figlie / come puttane / per sentirsi belle / i mariti che vanno / a puttane / noi puttane», o su quei bambini persi che «tutti abbiamo cercato / nel gabinetto / morto senza documento».
E poi la seconda sezione, “Murini / Inserisci un emoji”, dove l’inserimento delle emoji, scritte per esteso e in corsivo, fanno della scelta autoriale la trasposizione del mediocre sentire comune di fronte a scelte dettate dall’ottusità, in alcuni casi dalla religione («solo dio sa quando è il tuo turno / top top top / non osi uccidere l’uomo / ciò che a lui sfugge / gattino arrabbiato faccia con occhiale / incollato grrr grrr) e dalla chiusura mentale, che diventano simbolo di uno sguardo dal campo visivo monco, limitato.
Poesie con katana è un testo di assoluto valore artistico e – ce lo conceda l’autrice – anche morale (ma non moralista, sia chiaro), offrendoci la possibilità di avere un orizzonte visivo differente, se si vuole, uno spunto in cui far confluire la capacità critica dell’individuo, per farci scegliere, per renderci padroni del concetto di scelta. Carnaroli sembra giudicare per far giudicare a noi una realtà che esiste suo malgrado. Poesie con katana stana la nostra colpa di non saper vedere, la nebbia in cui ci culliamo per non sentirci meno buoni di quanto pensiamo di essere o volere.
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