Intervista a Laura Angeloni su «Il posto delle Parole»
di Livio Partitiù
di Livio Partitiù
Dopo aver intervistato Mattioli 1885, Astarte edizioni e Prehistorica Edizioni, Free Zone Magazine continua la serie di interviste a Editori Indipendenti perché riteniamo che il loro ruolo nel campo dell’editoria sia da sempre di vitale importanza. Ciò per il lavoro di accurata ricerca, da loro svolto, nell’individuazione di autori e libri di particolare interesse, oltre che valore letterario, che altrimenti non troverebbero opportunità di pubblicazione da parte dei grandi editori, restando pertanto sconosciuti.
Lo scopo dell’intervista verte anche su comprendere le strategie editoriali, commerciali e di comunicazione messe in atto dalle case editrici stesse per affrontare la competizione con i giganti del settore cercando di offrire un catalogo ricco di titoli di qualità e di conseguenza permettere loro di restare sul mercato.
Ma come riescono ad essere attrattivi per i lettori che sempre più si stanno contraendo numericamente, mentre quelli che non abdicano al libro sono sempre più esigenti nel cercare una letteratura che sia stupefacente?
Attraverso le nostre domande ai responsabili editoriali cerchiamo di comprendere meglio cosa si muove dentro queste realtà che Free Zone Magazine da sempre apprezza e a cui vuole dare sempre più visibilità.
FZM: Quando e come sono nati il vostro progetto e il relativo nome?
FM: La casa editrice è nata al Salone del Libro del 2010 ma l’idea nacque nel lontano capodanno che passammo insieme io e Alessandro De Vito, l’alcol fu complice. In realtà lui lavorava per un’altra casa editrice che sfruttava il suo apporto semi gratuito per pubblicare, io arrivavo da un corso di grafica creativa che feci con l’intento di applicare ciò che imparavo in cucina, eravamo lettori entrambi ed è partita la sfida. Sul nome facemmo un enorme lavoro di meditazione e ricerca, poi venne fuori in sintesi Miraggi, evocativo!

FZM: Qual è la linea editoriale della vostra casa editrice?
FM: Il catalogo di Miraggi per questo si è sempre contraddistinto tanto per lo stile, curato e riconoscibilissimo fin dalle copertine, che per la scelta di pubblicare libri perseguendo anche le strade meno battute. Dal 2017 abbiamo cambiato rotta aprendo una nuova linea editoriale prettamente letteraria che porta nel nome il tipo del font utilizzato: Baskerville. Quindi, oggi sono due le linee editoriali caratterizzate dal tipo di font utilizzato in cui si divide il catalogo che stiamo costruendo:
Miraggi Baskerville la linea editoriale di alta qualità letteraria dedicata soprattutto alle traduzioni e non mancano gli italiani, a sua volta divisa in quattro filoni: Scafiblù, NovaVlná, Tamizdat e Janus|Giano.
Miraggi Garamond la linea più pop, dedicata agli esordienti, agli autori affermati, ai saggi e ai fumetti, contenitore da sempre di innovazioni e testi sperimentali.
FZM: Quali criteri seguite nella scelta dei titoli da pubblicare?
FM: L’intento è da sempre quello di “fare” i libri che altri non fanno, quelli che ci piacerebbe trovare in libreria, e spesso non si trovano. Però sempre ricercando opere di qualità capaci di costruire un catalogo forte e in grado di resistere nel tempo.
FZM: Come mantenete un equilibrio tra la necessità di sostenibilità economica e la volontà di proporre libri di valore culturale ma meno commerciali?
FM: Ognuno di noi fa anche altro in parallelo, in modo da poter re-investire le risorse e i guadagni.
FZM: Quali sono le principali difficoltà che un editore indipendente incontra oggi nella distribuzione e nella visibilità dei propri libri?
FM: La prima difficoltà deriva dalla quantità di libri che vengono immessi nel mercato ogni giorno, superiore alle duecento copie. Una follia che perlopiù finirà al macero. Si produce per buttare via. Questo fenomeno andrebbe regolato in qualche modo e soprattutto con onestà ma ahimè, credo, rimarrà così.
FZM: Come scovate nuovi talenti letterari? Avete un metodo particolare per valutare un manoscritto?
FM: Leggendo, facendo ricerca e selezionando. Attraverso premi e suggerimenti di diversi addetti ai lavori. Diciamo che dal 2017 pubblichiamo per 3/4 traduzioni e una collana è dedicata alla letteratura ceca, perché il mio socio Alessandro De Vito è di madre ceca e quindi è stato abbastanza naturale prendere quella direzione.
FZM: Quali caratteristiche deve avere un autore affinché la vostra casa editrice decida di investire su di lui?
FM: Essere prima di tutto un lettore ma in realtà ci si accorge subito di questo elemento leggendo poche righe o poche pagine. In ogni caso deve avere una sua voce e qualità letterarie un po’ alte.
FZM: Avete mai rinunciato a pubblicare un libro che vi sembrava valido per ragioni di mercato?
FM: No, se un libro ci sembra valido, importante, urgente cerchiamo sempre di portarlo avanti.
FZM: L’intelligenza artificiale sta entrando anche nel mondo editoriale, dalla traduzione alla scrittura automatizzata. La considerate una risorsa o un rischio per il vostro lavoro?
FM: Non credo sia un problema, fa parte dell’evoluzione. Consideriamo AI uno strumento da utilizzare come tanti altri, al servizio del risultato finale, di massima qualità.
FZM: Come vedete l’evoluzione del libro cartaceo rispetto al digitale nei prossimi anni?
FM: Per noi il libro fisico è un oggetto prezioso e necessario, lo dimostriamo con la cura che mettiamo in tutte le fasi di lavorazione, dalla scelta della carta, alle grafiche, alla selezione dei testi. Ci battiamo per la dignità dei libri e per il loro diritto all’attenzione, anche a distanza dalla data di pubblicazione. Nell’era del digitale, non è un caso che i libri cartacei abbiano mantenuto il loro fascino. Crediamo che il libro di carta non morirà mai.
FZM: Come valutate l’attuale situazione del mercato? Quali sono le vostre strategie, visto che secondo indicatori si legge sempre di meno?
FM: La nostra strategia, che poi è una non strategia, si basa sulla ricerca continua e sulla selezione di testi e letture che ci piacciono e appassionano. Non ci arrendiamo all’idea di un pubblico disattento, deconcentrato, che ha bisogno di cose poco impegnative. Il nostro impegno è quello di mantenere alta l’asticella dell’attenzione e della curiosità. Negli anni ci siamo specializzati nella letteratura clandestina, ovvero le opere che venivano sottoposte a censura, a divieti, quelle che trattavano argomenti scomodi o difficili. Addirittura, abbiamo una collana dedicata alla Repubblica Ceca.
FZM: Come vi ponete di fronte al sistema di distribuzione? Librerie indipendenti, megastore, grande distribuzione, vendite online e vendite dirette, quale secondo voi è il miglior canale di vendita?
FM: Il problema della distribuzione è un tema caldo per l’editoria in generale, ma in particolare per i piccoli editori. Tutti vorremmo avere vendite da capogiro e vedere i nostri libri nelle vetrine di ogni libreria, il problema è che vengono pubblicati centinaia di libri al giorno e ovviamente i grandi distributori offrono un servizio di miglior posizionamento a seguire di costi e percentuali quasi proibitivi in un’ottica di guadagno complessivo. Bisogna tarare bene gli investimenti economici e le energie e anche effettuando una distribuzione indipendente, a volte sommando tutti i microconti insoluti delle librerie, si creano delle somme considerevoli e fare recupero crediti diventa un altro lavoro sfiancante a cui è impossibile dedicare tutte le energie necessarie. Diciamo che come tutte le cose, la soluzione sta nell’equilibrio e poi alla fine, con fatica, sudore, e tenacia, una sorta di equilibrio si trova, ma si potrebbe sicuramente fare meno fatica, se il sistema editoriale fosse più virtuoso.
FZM: Quanto sono importanti per voi le fiere di settore? Rappresentano un investimento strategico o un costo difficile da sostenere? Quali fiere considerate più utili per il vostro lavoro e perché?

FM: Le fiere sono fondamentali per l’incontro. Incontrarsi dal vivo e poter toccare con mano quello che spinge la gente ad avvicinarsi per la prima volta al nostro stand, oppure chiacchierare con chi già ci conosce o ci ha conosciuto da poco, è una delle risorse migliori di cui disponiamo per poter migliorare ogni giorno. I lettori ci raccontano cosa gli è piaciuto e cosa no e, in un reciproco scambio di fiducia e condivisione, ci si confronta e incontra. I costi delle fiere però sono proibitivi, se tutto va bene, solitamente, si riescono a coprire i costi vivi e si torna a casa con nuovi contatti e nuove idee da sviluppare.
FZM: Il costo dei libri è in continuo aumento. Qual è il vostro pensiero di fronte alla politica degli sconti? Quella applicata (per decreto) attualmente vi sta bene o siete contrari?
FM: Dobbiamo accettarla come tutti… riteniamo che non dovrebbe esserci nessuno sconto, l’unica vera legge che terrebbe conto e darebbe valore al prezzo di copertina.
FZM: Rispetto ai social network, li utilizzate oppure quale altro tipo di strategia adottate per promuovere le vostre attività? Se poteste cambiare un aspetto del mercato editoriale attuale, quale sarebbe?
FM: Noi mettiamo in atto qualsiasi strumento per far conoscere il nostro lavoro, il nostro catalogo. Certo che utilizziamo i social network e continuiamo a fare incontri, organizzare tour, inventiamo nuovi modi come per esempio L’IBRIdaCENA che organizzo io (essendo cuoco da oltre trent’anni) che trasforma le librerie in ristorante per una sera.
FZM: Che rapporto avete con le altre case editrici? Secondo voi è possibile “fare rete” tra editori?
FM: Con gli altri editori abbiamo ottimi rapporti ma in 15 anni abbiamo partecipato ad ogni forma di associazionismo di categoria e finora posso dire che tutte le iniziative sono fallite. Culturalmente non è possibile fare rete quando ognuno pensa solo a se stesso.
FZM: Qual è il libro che avete pubblicato di cui andate più fieri e perché?
FM: Non ce n’è uno in particolare, potrei rispondere almeno per collana, per esempio nella Scafiblù IL BUON AUSPICIO di Lorenza Ronzano, nella collana di letteratura ceca IL BRUCIACADAVERI di Ladislav Fuks con traduzione di Alessandro De Vito, in quella delle traduzioni dal mondo clandestine Tamizdat SUL FILO DELLA LAMA (Memorie della disintegrazione) di David Wojnarowicz traduzione di Chiara Correndo, in quella di traduzioni dal mondo con il testo originale a fronte Janus|Giano PRIMO AMORE di Ivan Sergeevic Turgenev con traduzione di Barbara Delfino.
FZM: Indicateci un autore che avreste voluto pubblicare ma che vi è sfuggito?
FM: Io che li ho conosciuti abbastanza bene e li ho letti, posso fare due nomi abbastanza recenti come Giuseppe Quaranta e Luigia Bencivenga.
FZM: Se un giovane ambisse a lavorare in una casa editrice, quali competenze dovrebbe avere e quale percorso formativo sarebbe opportuno portasse in dote?
FM: Leggere, leggere, leggere. Leggere le cose giuste, i grandi, ma occorre leggere, essere assetati e affamati di grandi letture, come siamo noi poi per il resto serve esperienza, noi abbiamo impiegato circa 7 – 8 anni per capire se andare avanti, come andare avanti, ogni errore si paga molto caro e bisogna puntare molto in alto.
FZM: Potete accennare alle vostre prossime novità editoriali? Avete un grosso “colpo in canna”?
FM: Beh sì… a novembre uscirà un altro titolo di Bohumil Hrabal, forse il più grosso scrittore ceco di tutti i tempi, con il titolo PABITELE e in versione integrale con una sorpresa che sarà spiegata e raccontata su questo libro che è nel meridiano Mondadori. Di questo autore abbiamo già pubblicato due inediti come LA PERLINA SUL FONDO e l’unico suo saggio COMPITI PER CASA. Inoltre di Hrabal abbiamo preso i diritti di altre 5 opere che usciranno nei mesi e negli anni a venire!
Un sentito grazie a Fabio Mendolicchio e alla splendida realtà che ha creato insieme ad Alessandro De Vito


QUI l’articolo originale: https://freezonemagazine.com/articoli/editori-indipendenti-intervista-a-miraggi-edizioni/
di Gianluca Garrapa

di Livio Partiti
Giocando con le regole del patto tra narratore, personaggio e lettore, La Chiusa prende un’esistenza fittizia e anodina, per quanto emblematica, un personaggio da romanzo – Ulisse Orsini – e ci invita a osservarlo da vicino: un soggetto improduttivo, in esubero, ossessionato dalla propria sensazione di illegittimità; uno che ha perso il lavoro e si rintana in casa, riducendosi a sgattaiolare sul pianerottolo per non incontrare i rispettabili condomini. Lo colloca in una metropoli nei primi anni Duemila, riconoscibile eppure fantastica, un cantiere interminato, coerente solo nella propria vocazione di «città della moda e degli eventi»; e lo segue nella sua tragicomica odissea urbana, attraverso paradossali ambulatori e ospedali simili a penitenziari, per vie ridotte a scarni residui dello sfruttamento economico, finché giunge – in mutande e con una valigia piena di biancheria – in una discarica dell’hinterland. Qui, nel cimitero delle macchine, tra i reietti accampati in mezzo a rottami e carcasse d’auto, Ulisse conosce Lazzaro Lanza, un imbianchino con aspirazioni messianiche, che lo trascina nelle azioni del suo movimento rivoluzionario (e nei suoi lavori di tinteggiatura). Il sardonico avvicendarsi di sipari architettato dall’autore rivela tutta l’assurdità del mondo contemporaneo e registra l’inesausto stato di tensione tra l’insostenibilità del reale e la fuga nell’immaginazione. Una tensione che ingabbia Ulisse e gli altri personaggi del romanzo, facendone le nostre grottesche controfigure.
Sergio La Chiusa è nato a Cerda (PA) il 23 settembre 1968 e vive a Milano. Ha pubblicato nel 2020 il romanzo I Pellicani. Cronaca di un’emancipazione (Miraggi), finalista nel 2019 al Premio Italo Calvino, dove ha ricevuto la Menzione Speciale Treccani per l’originalità linguistica e la creatività espressiva, e nel 2021 al Premio nazionale di narrativa Bergamo, al Premio Giuseppe Berto e al Premio Fondazione Megamark. Nel 2023 ha pubblicato il racconto lungo Madre nel cassetto (Industria & Letteratura) e nel 2024 il romanzo Il cimitero delle macchine (Miraggi). In poesia ha pubblicato nel 2005 la plaquette I sepolti (Lietocolle), finalista Premio Montano 2006, e l’e-book Il superfluo (E-dizioni Biagio Cepollaro). Suoi testi sono presenti su riviste e blog culturali, tra cui “Nazione Indiana”, “Le parole e le cose”, “Il primo amore”, “L’Ulisse”. Ha partecipato a pubbliche letture e iniziative culturali, tra cui RicercaBO.
Ascolta il podcast:
di ROBERTO FESTA

di Ira Rubini

QUI l’articolo originale: https://www.otto.unito.it/it/podcast/otto-live-prima-giornata-di-talk-al-salone
Pubblicata da Miraggi Edizioni è arrivata per la prima volta in Italia Close to the Knives: A Memoir of Disintegration (Sul filo della lama: Memorie della disintegrazione), l’incendiaria raccolta di scritti autobiografici dell’artista e attivista statunitense David Wojnarowicz (1954-1992) tradotta da Chiara Correndo e con una postfazione di Jonathan Bazzi.

David Wojnarowicz si dedicò alla lotta per i diritti delle persone malate di Aids spaziando tra più mezzi di espressione, dalla prosa sperimentale alla pittura, dal video alla fotografia. Morì trentasettenne a causa del virus, dopo aver perso negli anni molti dei propri amici per lo stesso motivo. Sopravvissuto a un padre violento e alla vita di strada come sex worker, divenne conosciuto nella scena artistica newyorkese downtown.
Ho voluto incontrare Chiara Correndo, traduttrice del libro, ricercatrice e portavoce dell’opera di David Wojnarowicz in Italia, per farle alcune domande su David e il suo modo di rapportarsi all’immagine, tema su cui torna a più riprese lungo tutto il corso della sua scrittura.
Come ti sei imbattuta in David Wojnarowicz, innanzitutto?
Per caso. Cinque anni fa, al Torino Film Festival, ero andata a vedere la proiezione di un regista argentino. A un certo punto, nel film, il protagonista prende un libro da uno scaffale e ne legge una citazione così bella che ho voluto subito cercare di chi fosse. Era David Wojnarowicz. Avevo visto che non esisteva una traduzione in italiano di questo libro e così mi sono attivata.
QUI l’intervista integrale: https://www.snaporaz.online/corpo-a-corpo-con-david-wojnarowicz-intervista-a-chiara-correndo/
(contenuto in abbonamento)

Tra bravura, bellezza e avanguardia, le dive della belle époque come modelli di lotta ed emancipazione.
Per l’immaginario maschile, tra Otto e Novecento, attrici e danzatrici erano oggetto di attrazione e repulsione, di fascino e di orrore. Per le donne invece erano un modello di forza, di grazia, di bellezza, di successo e libertà. Durante la Belle Époque il teatro era il media più influente e di maggior diffusione e nella figura e nel corpo della diva si andava definendo la nuova immagine della donna ben lontana dal sofferente e languido angelo del focolare caro alla società patriarcale.
Le vite e le opere di Sada Yacco, Cléo de Mérode, Edith Craig, Valentine de Saint-Point e Emmy Hennings non ci raccontano solo dell’effervescenza avanguardista del modernismo, ma anche delle lotte delle donne per affermarsi con un ruolo attivo nella società. Averle marginalizzate o persino rimosse dalla storia ufficiale ha significato dimenticare quelle battaglie da cui è sorta la donna moderna. Riportarle alla memoria non ci ricorda solamente che il teatro non è stato riformato solo dai “padri della regia”, ma anche quanto delle donne di oggi è debitore delle lotte delle dive di quel tempo lontano.
Enrico Pastore (Stresa 1974), ha svolto periodi di formazione con registi come Pippo Delbono, François Tanguy (FR), Jakob Shokking (DK), Fernando Dacosta (SP). Regista e direttore della Compagnia DAF fondata nel 1998. Dal 2006 al 2011 è stato direttore operativo degli Incontri Cinematografici di Stresa. Dal 2012 al 2018 ha scritto sulle pagine di «Passparnous», «web revue of art», come critico di spettacoli di teatro e danza. Nel 2017 è stato co-curatore con Ambra Bergamasco e Edegar Sterke del MovingBodies Festival di Torino. Oggi scrive su «Rumor(s)cena».
QUI l’articolo originale: https://ilpostodelleparole.it/libri/enrico-pastore-che-peccato-essere-una-curiosita/

Nell’episodio del 21 luglio 2025, la redazione di Fahrenheit ha invitato la traduttrice Chiara Correndo a parlare di sul filo della lama di David Wojnarowicz.
[dal min. 58’30”]

La fame degli affamati
Alle 15.00 Università telematica: cosa c’è oltre le schermo. Ne parliamo con Paolo Maria Ferri, insegna Tecnologie della Formazione all’università Bicocca di Milano | Alle 15.30 La fame degli affamati. Con Youssef Hassan Holgado, giornalista di Il Domani, si occupa di Medio Oriente e questioni sociali, e con Andrea Segrè, insegna Politica agraria internazionale all’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, fondatore di Last Minute Market | Alle 16.00 in studio a Torino: David Wojnarowicz, Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione, Miraggi Edizioni; con Chiara Correndo, traduttrice del libro, e con lo scrittore Jonathan Bazzi |Alle 16.30 Fahre Pace: All’università La Sapienza di Roma il Dottorato di interesse nazionale in “Peace Studies”, coordinato da Alessandro Saggioro, insegna Storia delle religioni alla Sapienza. Album del pomeriggio: Daughter “Music from Before the Storm”, 2017

Passato e presente, realtà e fantasia, compongono un mosaico di continui chiaroscuri, e lo stile è un’architettura perfetta: tenero, poetico, ironico, di straordinaria purezza.
Ascolta l’intervista alla tradutrice:
QUI l’articolo originale: https://ilpostodelleparole.it/libri/laura-angeloni-io-sono-labisso/
QUI il canale YouTube di «Il Posto delle Parole»: https://www.youtube.com/@ipdp

di Martina Cimino
Il catalogo di Miraggi Edizioni nel 2024 si arricchisce con la pubblicazione, all’interno della collana NováVlna, di Smrtholka (“Io sono l’abisso”, 2020) di Lucie Faulerová. Il romanzo, nominato per il premio Magnesia Litera nel 2021, nello stesso anno ha vinto il prestigioso Premio dell’Unione Europea. La traduzione è di Laura Angeloni.

“Forse nella realtà non esisto. Forse nella realtà sono soltanto un’imitazione.”
(Max Richter, Infra 5)
Tutum… sh – sh-sh.
Il ritmo di Infra 5 di Max Richter, l’oscillare del vagone di un treno: questa la cornice del romanzo di Faulerová. Un romanzo che si muove nell’interstizio di un dialogo tra la narratrice e protagonista Marie e il suo riflesso mentre siede sul sedile di un treno che percorre la Repubblica Ceca in direzione sconosciuta.
Una trama apparentemente semplice – un viaggio nella memoria – che si instaura nella tradizione del romanzo ferroviario ma che pagina dopo pagina svela la propria complessità e inabissa, o illumina, il lettore in una realtà frammentaria, le cui uniche coordinate sono proprio le deviazioni del treno. È in queste deviazioni che Marie vive da sempre la propria vita: sentendosi altro dalla famiglia, dalla lingua e nel corpo; e così le ripercorre in una serie di fantasie divertenti e analessi che in comune hanno questa costante del suo essere e sentirsi altro.
“Probabilmente non sono mai stata me stessa. Mi sono sempre intrufolata di soppiatto nei mondi degli altri. Trasferendomi in essi come in case estranee. In casa di Madla, in casa del mio primo e poi del mio secondo ragazzo, nella casa di Rochester. Forse nella realtà non esisto. Forse nella realtà sono solo un’imitazione… Non sono me stessa. Devo attaccarmi. Essere parassita. Sono dipendente. Incompleta. Una cornice senza quadro. Una scopa senza paletta. Una semiretta. […] una frase incompiu–ta-tum.” (p. 129)
Marie, appassionata di magia fin da piccola, non fa che cercare attraverso i trucchi che impara il modo di scomparire. Infatti, “è chiaro, no? Se il tuo sogno è diventare un mago che magia vorresti saper fare prima di tutto? Io quella di scomparire” (p. 13). Così, tutta la sua vita scorre alla ricerca di metodi per sparire, alternati a episodi divertenti vissuti con la sorella, e il lungo e doloroso viaggio in treno non è che la metafora stessa della scomparsa, dando alla narrazione una cadenza da trance rituale.
“Il treno è trasparente e nel treno sono trasparente anch’io, rimbomba in un’eco, esistiamo solo a metà, l’altra metà non esiste, siamo solo un’immagine che si è impressa sul lato inferiore del foglio, un negativo sbiadito.” (p. 162)
Un viaggio molto diverso dai tragitti notturni che spingono la protagonista nella Praga sotterranea delle stazioni della metropolitana, nelle piazze colme di gente e nei supermercati; quei non-luoghi di precarietà assoluta in cui alla ricerca di contatto umano trova forse la sua visibilità. Un viaggio che la rende narratrice a volte inattendibile perché “ognuno si ricorda le cose a modo suo” (p. 172) e lei ricorda di sé solo in funzione degli altri, che siano essi la sorella Madla, la madre, il padre o il fratello Adam.
“Ma io chi sono da sola? Chi sono da sola, senza gli altri? Non c’è niente che mi definisca, niente che definisca me in quanto me. Ogni volta che comincio ad avere troppa consapevolezza di me, mi sgretolo come pietra arenaria, ho bisogno degli altri per rimanere integra, devo pensare a quelli che ci sono, a quelli che non ci sono. Devo. Devo attaccarmi. Devo essere parassita. Perché altrimenti non esisto.” (p. 161)
Tutto procede sempre a tentoni nel suo attaccarsi agli altri: dall’abbandono materno, ai momenti passati con Madla e il suo suicidio, ai ritrovi di spiritualità new age nel Sokol di Carogna – il paese in cui vive –, ai percorsi universitari intrapresi e abbandonati e agli atti di autolesionismo. Cosa fare quando gli altri non sembrano o non sono più presenti? Allora non le resta che una risposta: fingere di credere che ci sia ancora qualcosa in cui credere. Infatti, Marie sceglie di esistere nell’assenza, in quel vuoto solcato dalle perdite e nella prospettiva di un perenne inverno. Ed è proprio nell’assenza di un gesto, il suo non aderire al rituale di passaggio dall’inverno alla primavera in cui il fantoccio della dea della morte Morana viene fatto affondare lanciandogli contro dei sassi che anche il titolo del romanzo Smrtholka, letteralmente “Ragazzamorte”, trova spiegazione.
“E il sindaco è in testa al corteo che porta Morana, la tiene alta sopra la testa, un fantoccio coperto di paglia, due assicelle a croce avvolte con dei cenci. […] E poi il sindaco la getta nel fiume, Morana affonda sotto una scarica di sassi. Io, il mio continuo a strofinarmelo tra le dita. Mi guardo intorno e mi sento come se m’ avessero catapultata all’improvviso in un gioco di cui non conosco le regole: gioca con noi, dài gioca! È la prima volta che mi sembra di non riuscire a capire quel rituale, non capisco la loro gioia. […] Vorrei allungare la mano verso quella vecchina di cenci e tirarla a riva.” (pp. 29-30)
Un gesto mancato che rivela la dissonanza di Marie da se stessa e dal mondo e che sancisce il momento in cui sente di essere condannata. “Io sogno Morana. Da anni e anni. / A furia di sognare la tua dea, è lei che comincia a sognare te” (p. 95); perseguitata a tal punto da Morana, Marie si convince della propria colpevolezza e tutta la sua vita – almeno per com’è raccontata – assume le tinte del lutto e della perdita di sé, il non vedersi, da ciò derivante che la porta a compiere atti di automutilazione come accecarsi con una matita.
“… quando qualcuno intende morire di propria mano, il volto si cerca allo specchio… […] … se si dice: dunque questo sono io. Perché sono io? […]Quando mi infilo la matita nell’occhio, il dolore è tanto forte che tutto diventa buio. Riesco a intravedere solo il caos inondato per metà dal colore, non verde, ma rosso, qualcuno grida, qualcuno corre via. Ma forse sorrido persino, mentre cado nell’incoscienza con la matita che sporge dall’occhio[,] forse sorrido persino, perché Morana – Morana non c’è più”. (p. 113)
Una libertà acquisita, la scomparsa di Morana, che esige però un alto prezzo: la privazione, in questo caso parziale, della vista materiale. Una scena di chiara matrice edipica tanto necessaria perché racchiude in sé uno dei motivi strutturali del romanzo, il vedere e il non-vedersi, il dialogo tra la Marie-passeggera del treno e la Marie-visione che sfugge. L’auto-accecamento, dunque, non è soltanto segno dell’impossibilità di Marie di reggere il peso del proprio sopravvivere a Madla ma anche la controparte dialettica della vista sensibile, rappresentata dal fratello Adam: “Adam è l’occhio sano. […] Adam è la parte integra del mio viso che è lì solo e solo e soltanto a rammentare che l’altra metà un tempo era esattamente così” (p. 120), e dai corsi di spiritualità frequentati dalle due sorelle perché “alla fine la questione è sempre la stessa: purificarsi, concentrarsi, armonizzarsi” (p. 27). E se in fondo è la narrazione che si fa a decidere chi si è, non sorprende che il mantra di luce di uno di questi corsi venga rovesciato in “L’abisso è lì. / Vedo l’abisso. / L’abisso vede me. / L’abisso è in me. / Io sono l’abisso” (p. 28), a confermare la percezione che Marie ha di sé.
Tuttavia, sarebbe sbagliato credere che Marie si lasci soltanto andare all’abisso della memoria perché, anche quando non ne ha la forza, non fugge, forse intuendo che il buio del tunnel va attraversato. Così, in questa tragedia bagliori e sprazzi di luce si alternano al dolore, accecando violentemente lei e il suo riflesso e tracciando una scia di chiaroscuri che segue il percorso del treno, deviazioni e soste incluse, perché alla fine “la meta è il viaggio in sé” (p. 43) e quindi non importa se lei stia partendo o tornando ma la sua decisione di sopravvivere e finalmente guardarsi per com’è. Perché in fondo che lei sia senza tre quarti di lingua e con un solo occhio non ha importanza quando “chi ci sta attorno si accorgerà che siamo avvolte dalla luce e per questo verranno a cercarci” (p. 53).
La possibilità di tornare è lì: in quel lungo in cui anche chi cerca di scomparire desidera solo tornare.
“Mari marilù bidibibodibibù” (p. 15)
QUI l’articolo originale: https://www.andergraundrivista.com/2025/04/16/manuale-della-scomparsa-io-sono-labisso-di-lucie-faulerova/
