Il possibile cataclisma planetario tra immaginazione e realtà
Si deve a Miraggi Edizioni, una pregevole casa editrice nata nel 2010 a Torino, se i lettori possono conoscere opere di sicuro valore letterario, come “Mona” della ceca Bianca Bellová il romanzo “Krakatite” di Karel Čapek, mai tradotto prima in italiano e ora pubblicato con la traduzione di Angela Alessandri. Apparso nel 1924, conserva il fascino dell’immaginazione della scrittura e l’inventiva dello sguardo letterario quando anticipa inquietudini che saranno del genere umano.
Impreziosito da una colta postfazione di Alessandro Catalano, il romanzo di Čapek ha come protagonista un geniale chimico di nome Prokop, inventore di una miscela esplosiva capace di distruggere interi paesi. Una bomba atomica ante litteram di cui si iniziava a temere a cavallo della prima guerra mondiale. È infatti del 1914 l’espressione “bombe atomiche” apparsa nel romanzo The World Set Free del britannico H.G. Wells, iniziatore del genere letterario “scientific romance”. Un filone lettera- rio che si fa carico, tra immaginazione e realtà, delle ricerche scientifiche – fissione nucleare, particelle, robot, gas – e del possibile cataclisma planetario. Testi letterari di grande respiro che si interrogano “sul lato oscuro del potere acquisito dall’uomo attraverso la scienza e sul destino dell’umanità” p. 397.
Ed è su questo lato scuro che scorre “Krakatite”, le cui vicende narrate convergono nella presa di coscienza del protagonista dei pericoli impliciti nella formula della sua scoperta. Convinto della forza esplosiva nascosta nella materia, la realtà è per Prokop instabile e incontrollabile. Complice il fascino delle donne la cui seduttività il protagonista vive e insegue nel suo immaturo immaginario erotico. Donne diverse – Anči, la principessa Wille, Ludmila – spesso sovrapposte nella sua mente, rimanendo prevalente l’immagine della ragazza con il velo che gli consegna un pacchetto da recuperare all’amico e compagno di scuola, l’ingegnere Tomeš. “E quando lei, un po’ esitante, entrò sfiorandolo, lo raggiunse un profumo lieve e delizioso, che lo fece sospirare di piacere”. Un romanzo attraversato da febbrili visioni, non prive di simbolismi e di rimandi culturali a testi biblici, miti classici e a certi personaggi descritti da Dostoevskij. Con un finale fortemente simbolico allorché dice ad un vecchio-Dio incontrato sulla sua strada di non sapere più come si fa la Krakatite.
Chi è il vecchio che ho davanti? Un’iniziazione in stile Beckett
Pellicani è uno strano personaggio e narratore, ha con sé solo una valigetta, quella con cui dovrebbe ripartire per i suoi traffici di import-export in Cina, quando trovandosi nella vicinanze di casa del padre decide di andarlo a trovare. Certo, fin dall’inizio ha un tono dubbioso tutto suo – «Ho detto mio padre? Lo ammetto, a volte mi lascio trascinare dall’entusiasmo» – che è l’anima dell’esordio di Sergio La Chiusa, I Pellicani. Cronaca di un’emancipazione (Miraggi Edizioni), finalista al Premio Calvino nel 2019, menzionato speciale Treccani.
Pellicani figlio, ammesso che lo sia, entra in un appartamento e vi trova un vecchio non autosufficiente, una «viziata ameba» curata da una specie di badante, e decide di fermarsi. Per 15 capitoli, nell’ambiente claustrofobico, il protagonista cerca di capire e immaginare chi ha vicino: «Nel rovello della mente si erano aperte sin dall’inizio tre possibilità e non riuscivo a decidermi: A) un renitente, B) un rimbambito, C) un impostore».
Sono sono alcune delle tante maschere ipotetiche che Pellicani, oltre a quella di «papà», fa indossare all’altro anziano muto, dal ribelle all’attore, riflettendo tra sé e parlandogli, invano, ad alta voce. Sembra di essere capitati in un loquace spin-off italiano di un romanzo di Samuel Beckett: raro e affascinante per un’opera prima.
È una grande tradizione letteraria, quella ceca. Al centro, ora, di una collana – intitolata NováVlna – lanciata dalle edizioni Miraggi. E tra i classici recuperati spicca La perlina sul fondo di Bohumil Hrabal (1914-1997), debutto di uno dei massimi scrittori novecenteschi del Paese. Pubblicata originariamente nel 1963, è una raccolta di racconti centrata su una galleria di figure apparentemente minori, spesso perdenti. Ma che come quasi tutti noi custodiscono, nell’intimo, un piccolo tesoro, una bellezza nascosta: una perlina sul fondo, appunto.
Dodici storie per dodici personaggi: ci sono tra gli altri il giovane lavoratore in acciaieria, il traslocatore, la fornaia, il cacciatore di frodo… Un repertorio umano che illumina il mondo dell’autore, noto per romanzi come Treni strettamente sorvegliati, da cui è stato tratto il film omonimo di Jiří Menzel che vinse l’Oscar per il film straniero nel 1996.
Ecco l’articolo originale uscito sabato 14 novembre 2020
Un libro scritto a quattro mani nel momento in cui ciò che è scritto avveniva, nel ‘68, quel 1968 che è stato un periodo fervido di lotte e cambiamento. Pubblicato 50 anni dopo.
Non è un romanzo, non è una raccolta di racconti nemmeno di poesie, nell’ insieme è un po’ di ogni cosa. Sono dialoghi, scene di vita, contesti diversi nei quali si vive e ci si confronta con nuove modalità, a volte goffe, piene di voglia di ribellione e di cambiamento. Discorsi, pensieri sparsi su tutto: amore, rapporti “en passant“, studi e politica e soprattutto sperimentazione. Finalmente donne e uomini potevano vivere la libertà sessuale, rapporti da inventare, o su modelli dei vicini d’oltralpe che avevano forse cominciato prima. Situazioni non estranee a chi ha vissuto quegli anni o a ridosso, che visti con gli occhi di oggi fanno tenerezza ma anche ridere o fanno venire nostalgia. Al contrario di ora in quegli anni si voleva costruire, si avevano obiettivi, si avvertiva una forza sociale dirompente, c’erano i gruppi i grandi e piccoli problemi, ma la sicurezza di andare nella direzione giusta.
Leggendo questo libro, a volte sembra di trovarsi in una scena di Ecce Bombo di Moretti, situazioni in cui si spaccava il capello in quattro perché delle cose dei sentimenti, degli accadimenti bisognava parlare e parlare. O tacere e sviare di dare risposte o non trovarne.
Un panorama di flash e situazioni che letti ora danno la visuale reale del momento passato, proprio con gli occhi e le mani di chi in quegli anni,’68/‘69, all’ora ventenni, erano i protagonisti di quel periodo, che è stato un momento di crescita , il movimento studentesco era una fucina di idee e progetti, dal quale sono usciti anche grandi studiosi, e che visto oggi, da chi non l’ha vissuto, può sembrare un periodo o un movimento obsoleto.
Questo libro ha una grande ricchezza la memoria storica, scritta mentre la Storia succedeva.
Quarantaquattro poesie per ventidue arcani maggiori: parole e immagini come gemelle in danza. Scrivere e illustrare poesie è per l’autrice un operare quotidiano, attività ormai consolidata di sperimentazione e strumento nel suo lavoro di psicoterapeuta. Dopo le poesie e le filastrocche del libro “Favolesvelte” (Golem Edizioni, 2015), Valeria Bianchi Mian ha pubblicato racconti, ha curato e illustrato un’antologia sul tema della ‘dimora’, ha scritto e fatto nascere il suo primo romanzo (“Non è colpa mia”, Golem Edizioni, 2017), ha partecipato alla stesura di tre saggi di psicologia in collaborazione con altri colleghi. In questa silloge raccoglie le poesie giovanili e quelle scritte tra il 2014 e il 2019; le fa procedere insieme alle figure dei tarocchi. È una Totentanz che passa dalla nigredo, l’Opera al Nero, e punta alla rinascita, è un cerchio di versi che si fa spirale attraverso i disegni. Il filo conduttore di “Vit[amor}te” è l’idea della natura viva: è una bozza di verde, lo spunto generativo, il germoglio rigoglioso o la foglia secca, il respiro della terra sopra la quale camminiamo, natura che matura nella nostra psiche. La storia del diventar se stessi comincia dal Matto incompiuto, un germe, il seme ritrovato; lo sviluppo per concludere con il ricominciar da capo.
I. Tra me e tre
L’ora persa tra le due e le tre pensando di vivere a lungo sommando altre ore e ore al tempo meno le sigarette già fumate prima di smettere più gli anni bisestili meno il gran timore
del tumore è forse disuguale moltiplicazione o è la radice quadrata delle ipotesi di allora: me bambina + me adolescente + me adulta = lo spazio illegale del Sé?
Un giorno avrò caviglie gonfie di umori lunari e gambe stanche le borse della spesa agli occhi trascinerò il mondo al futuro contando i minuti nelle tasche. Un giorno avrò rughe spesse quanto un calendario solare e malattie comuni a tutti prima del morire – ora pro nobis.
L’ora dei fantasmi tra le due e le tre segna i sogni canta i santi.
anonimato fantasma fantasma. spettro spettracolare. farsi il pensiero poi ricorda. per mancanza di padre. ricordare il dolore persistente al torace. immagina impossibile. una doccia. fare la spesa. saluta la vicina il marito appena circuiti. diventa di ritornare. cucinare prendere il treno. andare dimesso. dall’ospedale non dover morire ora. peregrinare altrove telecamere stanze a pistoia via firenze rifredi. scorre sotto il cielo una vena sottile sotto la pelle. immaginarsi. più che immaginare. svegliarsi e morire.
Pagina bianca, Gianluca Garrapa, Miraggi. Originale sin dall’impaginazione, Pagina bianca di Garrapa, che collabora con molte testate, come Sul romanzo, Psychiatryonline, Puntocritico, Poetarum Silva, Nazione Indiana, L’immaginazione e Culturificio, è la raccolta di un autore che tra l’altro, evidentemente con pieno merito, si è aggiudicato riconoscimenti prestigiosi in occasione del premio Pagliarani del duemiladiciassette e due anni fa nella cornice del Celan, ed è la riuscita, intensa e policroma rappresentazione simbolica della fragilità umana che si manifesta nella reboante contraddittorietà delle tensioni in cui ogni individuo si imbatte nel corso del proprio cammino esistenziale, volto alla realizzazione. Da leggere.
Come in una pièce del teatro dell’assurdo, tutto si svolge in una sola notte, con i due protagonisti stipati in una stanza, come lo sono nelle 192 pagine del romanzo i vaniloqui del giovane e logorroico protagonista. Ragazzo che, completo grigio topo sdrucito e valigetta da manager piena di cianfrusaglie alla mano, si presenta la sera tardi a casa del padre dal quale era scappato vent’anni prima dopo avergli sottratto i risparmi dal comodino. Cerca ospitalità per la notte, prima di partire per la Cina, sostiene. Come il vecchio padre tradito (ma sarà proprio lui?), il lettore è rapito e trasportato dal turbine ciarliero del giovane che ipotizza, reinventa e trasfigura la banalità del reale che lo circonda. In libreria dal 13 ottobre I Pellicani si è guadagnato la menzione speciale Treccani 2019 come finalista al Premio Calvino.
DI LIBRI che raccontano l’immobilità abbonda la letteratura del Novecento: un tema indigesto, sembrerebbe, per la nostra contemporaneità ipercinetica, nella quale un romanzo “immobile” non può che irrompere come un ospite misterioso. E di mistero, il primo romanzo di Sergio La Chiusa, è avvolto dalla prima all’ultima pagina: i Pellicani del titolo (sottotitolo: cronaca di un’emancipazione) sono due uomini – padre e figlio, si direbbe. Una visita nel caseggiato dove il vecchio Pellicani vive come un reietto, abbandonato e solo, costringe il figlio a spogliarsi poco alla volta, e inesorabilmente, di tutte le proprie maschere: una valigetta di lavoro tenuta in mano a bella posta – dentro ci sono solo Simmenthal –, un vestito di confezione, un certo racconto di sé. Il vecchio immobile invischia il giovane, lo cattura, e lo trascina nella propria allucinata in-esistenza. Un romanzo condotto da una lingua elegante, un libro inconsueto, che lascia il sapore delle letture che mancavano.
“Solo quando s’incontra la luna viola si può rinascere“ È una favola questo romanzo, con cui un padre racconta alle sue figlie: Viola e Luna, la filosofia. Lui è un filosofo molto filosofo e poco concreto e ce la mette tutta per essere “qui e ora “ soprattutto dopo la nascita delle figlie di cui alternandosi con la compagna si prende cura. Entrambe le bimbe dormono molto poco e lui per farle addormentare racconta favole i personaggi sono filosofi che a vario modo gli si presentano nella vita quotidiana e che riconducono alla luna. Perché la luna a seconda di come la si guarda insegna sempre qualcosa.
E come se fossero semplici personaggi, racconta i suoi incontri con Socrate, Giordano Bruno, Nietzsche e Platone, attingendo dalle loro teorie per raccontare come una favola appunto le loro storie. Ad ogni problema della vita pratica corre sempre in soccorso una possibilità di soluzione di un filosofo o uno studioso perfino Jung in un momento di impasse particolare gli indica una ipotesi di svolta: “Là dove c’è il pericolo c’è la soluzione “ E lo stesso Leopardi che ai giorni nostri scopre e ama il panettone, “vita amara e noia“ “fango il mondo?”, gli offre spunti che lo allontanano da quel pessimismo cosmico in cui è stato relegato dai libri scolastici.
La luna viola è un racconto di saggezza che usa un linguaggio semplice ed ironico per affrontare temi di grande spessore. L’autore usa l’ironia e l’autoironia per descrivere la vita quotidiana della sua famiglia “un po’ strampalata“, a cominciare proprio da lui, ma che alla fine, presa con filosofia appunto non è poi così male. Potrebbe essere un consiglio, sdrammatizzare e riuscire a vedere la luna viola, è un bel modo di affrontare una vita a volte troppo razionale. È una lettura piacevole e piena di spunti di riflessione.
Bianca Bellová è un’affermata scrittrice della Repubblica Ceca il cui romanzo “Mona” è pubblicato in Italia da Miraggi Edizioni 2020 nella bella traduzione di Laura Angeloni. Una nuova collana italiana di letteratura ceca, ispirata alla “Nouvelle Vague” cinematografica degli anni della Primavera di Praga, che annovera opere, tra gli altri, di Jan Némec, Ladislav Fuks, Bohumil Harabal, Tereza Boucková. Di Bianca Bellová “Mona” è il secondo libro in edizione italiana, dopo “Il lago” del 2016, tradotto in più di venti Paesi. E che si tratti di un raffinato romanzo il lettore si accorge subito dalle prime pagine che scorrono fluide a presentare la figura minuta di Mona che chiede al bue Mun se sapesse “dei trasportatori di morti”. “Mun girò piano il muso e i suoi grandi occhi ottusi le dissero che no, dei trasportatori di morti non sapeva niente”. Immagini lievi, anche quando il racconto si mescola allo strazio e alle mutilazioni dei soldati scampati alla morte.
Perché è un ospedale, sullo sfondo della crudeltà della guerra, ad essere al centro della narrazione dell’autrice. “Il ragazzo amputato urla, Mona sa già che sarà un turno impegnativo. C’è carenza di oppiacei, bisogna centellinarli. Il medico di turno dorme e non vuole che lo si svegli a meno che non si tratti di una questione di vita o di morte”.
Un lavoro duro per tutti quando si è in prima linea. E Mona non si risparmia, si dà da fare a lenire come può le urla di dolore di Adam. Ma non è il solo. Ognuno invoca qualcosa, nel mentre lei corre da una stanza all’altra, in cerca di medicinali che scarseggiano, di morfina che non si trova, di altri malati da tranquillizzare per le ripetute allucinazioni.
Una vita affannosa anche quando ritorna a casa per svegliare il figlio Ata e mandarlo a scuola. Lui non sa “quante ferite piene di pus medicate, quanti sederi lavati, quante camicie ospedaliere sporche di vomito ha dovuto cambiare”. Ed ora in quell’inferno c’è quel giovane che soffre, che chiede di essere aiutato. Mona “gli prende la mano nei palmi, la mano è bollente e trema irrequieta”. Partitura di uno spartito che alterna lontani ricordi di famiglia, – lei con i calzettoni bianchi, la madre che indossa un vestito a fiori, il padre con i baffi sottili che la tiene per mano – al tranquillo e monotono rapporto con il marito Kamil e il distratto figlio Ata. Un intrecciarsi di sequenze che si avvicendano nella tessitura narrativa sempre con la medesima grazia di chi sa conferire arte letteraria alle parole.
A dispetto della simpatica e tenera copertina, ciò che emerge sin dalle primissime pagine nella lettura di questo libro di poesie targato Alessandra Carnaroli, edito per Miraggi edizioni, è proprio “lo stile katana”, inteso propriamente come una versificazione che affetta, si precisa, non in senso sentimentale.
Non si parla di un’opera infatuata della cultura proveniente dal Paese del Sol Levante e pregna di esotismo, almeno non per quanto riguarda le tematiche tradizionaliste o la cultura tecnologica che ha reso il Giappone appetibile al gusto occidentale. Quella che ci viene presentato da Alessandra Carnaroli è una poesia dal taglio (perdonate il gioco di parole) tagliente, più vicina alle suggestioni della letteratura e del cinema pulp che alla rappresentazione di spietata bellezza tipica della cultura nipponica.
Nell’epoca globale le forme si svuotano di significato, la tradizione perde ulteriori colpi e il parodiare sa essere un’arma di rappresentazione dell’attualità tremendamente efficace, spesso in modo paradossale ben più credibile di forme che amano definirsi serie, dunque in controtendenza a ciò che il Sommo Poeta dichiarava in uno dei suoi celebri Canti: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza». Niente di nuovo su questo, sono ormai secoli di messa in discussione della tradizione in poesia, di rappresentazione del brutto che diventa sublime: lo hanno fatto I Fiori del Male di Baudelaire o l’Impeto incendiario del Palazzeschi futurista, eppure Alessandra Carnaroli mette in atto un’operazione intelligente a cui va dato interesse per l’allusione formale (e quindi non un vero e proprio rimaneggiare) e la freschezza sostanziale dei versi.
Partiamo dalla prima sezione del libro, Carico e scarico, in cui la forma si fa brevissima, tanto essenziale quanto sferzante. Il verso scarno non perde quasi mai efficacia e fa della propria immediatezza un formidabile punto di forza: difficile non richiamare alla mente quelle forme che hanno fatto la fortuna della poesia giapponese, come l’haiku o il tanka, ma qui non c’è bellezza né sublime, non c’è stagione né elemento naturale, soltanto la dura realtà di una prostituta nigeriana costretta a fare la vita di strada in Italia.
26 d’inverno accendiamo un fuoco vicino la strada
urlano vi prende fuoco il culo allora rispondiamo vieni a buttare liquido seminale
30
sei fortunata da essere in italia se restavi in nigeria avevi la polio
qui mi trombano sul sedile di una polo
42 metti il preservativo hai famiglia
non lo faccio per te ma per mia moglie incinta
non voglio attaccarle la tua faccia da banana
fargli venire un figlio con una voglia strana
In queste poche “gocce” (ce ne sono ben 127) si scorge uno spiccato e giocoso gusto per la critica diretta alla società italiana, a un maschilismo soffocante e a un sistema di dominio che impedisce il cambiamento della propria condizione di vita, questione che vale per la classe media e che, con maggiore drammaticità, si riflette nei riguardi degli individui ai margini. Nei versi domina un certo sarcasmo che si lascia accompagnare dalla leggerezza pur dissacrando le parvenze: così l’amore a pagamento abbraccia una miseria collettiva in cui l’affermazione personale è strumento di desiderio imprescindibile e irrinunciabile sia per poveri sia per chi gli insoddisfatti dalla vita. Un ritratto non proprio lusinghiero che punta il dito contro l’ipocrisia di tante persone, coloro che amano l’oggetto del disprezzo, a patto di poterlo a possedere. Non c’è spazio per i sentimenti, l’io poetante saggiamente immedesimato non fa del vittimismo: la sua è un’operazione verità focalizzata sul reale senza peli sulla lingua, che in poesia è sempre un grande rischio in quanto il linguaggio e la forma sono tutto. Nonostante tutto, forte di questa ragione e con un incedere diretto e volutamente sghembo, si conquista la fiducia e la simpatia del lettore.
La seconda sezione, “Murini / Inserisci un emoji”, mette in campo altri elementi linguistici e stilistici che si lasciano apprezzare. Innanzitutto vi è l’emulazione di un linguaggio approssimativo tipico dei social network che quotidianamente alimenta lo stucchevole flood di pressappochismo spicciolo o, nella peggiore delle ipotesi, veterocomplottismo in salsa negazionista. Lo scenario su cui si muove la poesia di Alessandra Carnaroli resta sempre la critica alla società, ma stavolta l’io poetante non è vittima, bensì vittimista. I componimenti, inoltre, presentano un elemento espressivo probabilmente inedito e decisamente originale: la descrizione degli emoji, inseriti in alcuni versi, quasi come a voler ridicolizzare ulteriormente il contenuto del testo. Vediamone un esempio:
verranno quando invecchiamo a toglierci i figli che si ammalano
o amputati / due facce spaventate
come guardie zoofile sulla panda verde con i cani alla catena i nostri figli tolti dalla cuccia
per due pulci sulla schiena / grrr gatto orso coniglio iena
L’espediente del corsivo è godibile alla lettura non solo in senso descrittivo e parodistico, ma soprattutto sonoro (arrabbiata che fa da eco a stato e legalizzato, oppure iena che richiama catena e schiena). Si noti, inoltre, anche un gusto stilistico che nella rapidità trova i propri inceppamenti, tipici di quei contenuti poco ponderati, di pancia, tirati fino al punto di toccare anche questioni insensate. Eppure questo approccio si rivela vincente e dà valore ai versi di Poesie con katana, un lavoro ben calibrato, leggero sì, ma ben curato. Di certo non esprimerà un alto valore morale, ma gli è congeniale uno sguardo peculiare circa il ruolo della poesia civile oggi, nuda e senza retorica.
la vita dei deboli non ha valore / sigh sigh
si salvano solo gli immigrati dai barconi
scambieranno i bambini italiani con i cinesi copiati / alieno alieno
diventeranno un serbatoio di organi da trapiantare per il mercato orientale / lacrima lacrima faccina triste occhi cuore spezzato orecchio naso
Miraggi Edizioni arricchisce la collana Novavlna con La teoria della stranezza di Pavla Horáková, solo all’apparenza leggero, che ha la forma di una narrazione che scorre fresca e con la giusta dose di ironia.
In realtà, tra le pagine si attraversa la città di Praga e ci sofferma sulla sua storia recente, invogliati dalle riflessioni di Ada, la protagonista, che di fronte agli edifici, ai parchi, ai quartieri, ne coglie i tratti risultanti dagli avvenimenti.
Sono passati appena centocinquant’anni da quando, proprio qui, i condannati sottoposti a tortura morivano di scorbuto, settant’anni da quando dal cielo cadevano le bombe, appena trent’anni da quando Havel veniva pedinato, proprio su queta strada.
Ada è una ricercatrice in Antropologia, il suo sguardo sul mondo allarga l’applicazione del metodo scientifico di ricerca al quotidiano, dando luogo a prospettive inaspettate anche ad una semplice passeggiata nel parco:
In anni di osservazione ho capito una cosa. I barboni sono per la maggior parte dotati di una chioma foltissima. È evidente. Ho preso in esame talmente tanti esemplari che posso escludere qualsiasi pregiudizio o errore. I pelati sono meno dell’un per cento. Ma cose dedurne? Le dure condizioni di vita preservano in qualche modo dalla perdita dei capelli? Si tratta di una sorta di irsutismo secondario attribuibile alla vita all’aperto? O c’è una qualche relazione tra il gene della folta chioma e l’incapacità di adattamento alle regole sociali?
Da queste riflessioni disseminate per il romanzo, frequenti nei pensieri di Ada, si compone il quadro più affascinante di questa teoria: la possibilità che l’apparente caos sia il risultato di una catena di cause e conseguenze scientificamente tracciabile. E di come, all’opposto, la realtà dimostri che una catena di cause e conseguenze tracciabili può comunque dare luogo ad eventi totalmente inaspettati. Arrivando a far aderire questa stranezza anche alla Storia.
I copricapi si trascinano dietro una vera carica esplosiva. […]
Pare che non sia un caso che nella civiltà occidentale le guerre siano passate di moda proprionel periodo in cui gli uomini hanno deposto i cappelli e le donne hanno smesso di annodarsi foulard e indossare gli articoli creati dalle modiste. Come se coprire la testa causi un onnubilamento della mente, forse blocca i chackra principali, impedendo l’uso del buonsenso.
La stranezza, appunto, l’imprevedibile corso di una vita, che sembra però prevedibile a posteriori, seguendo le tracce al contrario, sapendole forse intercettare nel momento presente, eppure, l’esistenza dimostra che ogni vita rimane così, imprevedibile.
Ada osserva che forse anche i miracoli o i fatti soprannaturali, inspiegabili, sono solo eventi di cui non riusciamo a trovare le tracce a ritroso, per ora.
Ciononostante, ciò che rende la vita degna è proprio questa sua stranezza e il fatto che raramente ci fermiamo ad individuare gli anelli di quella catena che formano il percorso alle nostre spalle, e che già indicano, forse, il percorso che abbiamo davanti.
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