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“NOVÁVLNA”. Intervista di Antonello Saiz ad Alessandro De Vito

“NOVÁVLNA”. Intervista di Antonello Saiz ad Alessandro De Vito

Questa settimana, per Le Tre Domande del Libraio, incontriamo Alessando De Vito di Miraggi Edizioni, per farci illustrare il progetto editoriale della Collana NováVlna, da lui curata, in occasione anche di uno dei ritorni più attesi di questi ultimi tempi, quello di Bohumil Hrabal che, dopo la raccolta inedita de ” La perlina sul fondo del 2020, è tornato in libreria , alla fine dello scorso anno, con un nuovo libro dal titolo “Compiti per casa (Riflessioni e interviste)”

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Alessandro, a partire da questa frase di Bohumil Hrabal « Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente di scorgere la perla sul fondo dell’essere umano. » ci racconti qualcosa in più,  qualche aneddoto inedito sulla vita di un personaggio di questo calibro ?

Non è facile trovare aneddoti “inediti”, perché Hrabal ha utilizzato proprio le sue esperienze di vita come materiale per molta parte dei suoi testi. E l’ha fatto potremmo dire “scintificamente”, come si può comprendere dal breve brano che introduce “La perlina sul fondo”. Quello è un elenco formidabile di mestieri diversi, cercati da lui negli anni, come dice, per “sporcarsi”, lui laureato in legge e con pessimi voti a scuola in lingua ceca, con la vita comune e i suoi protagonisti. Non a caso l’altro suo luogo d’elezione, oltre fabbriche ferrovie magazzini e officine, era senza dubbio la birreria, perfetto e variopinto crogiolo in cui i discorsi delle persone si mescolano e accavallano senza sosta, con le mille storie ed esperienze che attraverso le parole riprendono vita. Da un lato era una ricerca di umanità, anche di commozione, una  partecipazione intima al consorzio umano, alle malinconie e alla fragilità della vita, su cui non si può far altro che scherzare e bere, che traspare in tutta la sua produzione. I piccoli fatti dei piccoli uomini, che in definitiva però fanno la storia: una tradizione questa, diffusa nella letteratura ceca, dallo Švejk di Hašek ai personaggi di Čapek, alle molte eco della letteratura popolare in tutti i grandi autori.

Questo “sporcarsi” di Hrabal assume anche una notevole forza considerando l’epoca e la situazione politica della Cecoslovacchia sotto il regime comunista. Paradossalmente si potrebbe dire che proprio Hrabal va autenticamente a cercare la vita, le esperienze e le parole del popolo, mentre la letteratura e il cinema di regime magnificavano la vita proletaria in modo assolutamente stereotipato, attraverso cliché assolutamente lontani, statici nella loro fissità ideologica.
E fin qui mi riferivo alla narrativa. Non sono pochi anche i suoi libri di commenti, conversazioni, interviste…
Difficile trovare il fatto inedito, quindi, quanto inutile probabilmente cercare quanto ci sia di vero in tutto quello che ha scritto. Sempre che sia importante.


Alessandro ci inizi a raccontare qualcosa in più su questo libro arrivato in libreria in questo autunno e che raccoglie testi molto vari tra di loro, racconti, articoli, apologhi, riflessioni sulla letteratura e sulla scrittura, resoconti di viaggio, e dal titolo “Compiti per casa”, soffermandoti sullo stile di scrittura che lo caratterizza e le eventuali difficoltà incontrate dalla traduttrice Laura Angeloni?

Come accennavo, è un libro non direttamente narrativo, non si tratta di racconti, novelle o di un romanzo. Ci sono testi che possiamo considerare alla stregua della “cassetta degli attrezzi” dello scrittore, dove spiega, o piuttosto racconta, la sua poetica. Ho detto “non direttamente” perché in realtà Hrabal non fa altro che raccontare, anche nei punti più “saggistici”, infarcendo ogni brano di dettagli e riferimenti che creano digressioni, aneddoti, altri spunti narrativi. Hrabal racconta di questa sua incessante ricerca di autenticità, dei personaggi, delle storie e soprattutto del linguaggio. Se a prima vista infatti sembra di leggere discorsi comuni, non si può non riconoscere il grandissimo lavoro di cesello di un geniale letterato, a tratti anche sperimentale, con una modalità mai fine a se stessa. La lingua che risuona tra gli avventori accomodati ai tavolacci durante il rapido svuotamento dei boccali delle birrerie e quella dei discorsi degli operai tra i macchinari industriali, tra facezie, sentire comune e nell’incombenza di qualcosa di tragico, è autentica in quanto processata, come da tempo ha riconosciuto la critica, nonostante lui stesso si sia spesso definito un “semplice trascrittore” di ciò che ha incontrato nella vita.

Ovviamente questo appare chiaro al traduttore, nel caso dei nostri due volumi la bravissima Laura Angeloni, con la cura e l’occhio vigile del prof. Alessandro Catalano. Hrabal “reinventa” la lingua, “trascrivendola”. A tratti il suo scritto non è facilmente comprensibile neppure ai cechi, quindi possiamo immaginare la difficoltà (che come si diceva, attenzione, tende a non apparire al lettore). La curatela di un grande esperto è qui fondamentale proprio perché per tradurre Hrabal bisogna saper navigare in tutta la sua opera, non si può improvvisare.
Altri testi sono relativamente più semplici, in particolare le conversazioni e interviste, e a tratti anche molto divertenti. Era un personaggio particolare, se si ha presente l’ambiente delle birrerie praghesi spesso si ha l’impressione di sentire anche quei gusti e odori, e sentire il chiacchiericcio di fondo. Non è casuale che molte interviste con lui si siano svolte in birreria, che alla storica birreria Alla tigre d’oro siano andati a bere con lui il presidente Clinton e il presidente ceco Havel (e che, si parvissima licet, lì gli abbia stretto la mano anche io, in un fumoso pomeriggio dei primi anni Novanta).


Compiti per casa è prima di tutto una raccolta di piccole gemme del grande scrittore ceco, ma diventa anche una porta di accesso privilegiata per entrare e approcciarsi al mondo di Hrabal. Sono passati quasi tredici anni dalla creazione di Miraggi e già diversi anni dal progetto di questa Collana innovativa, ci vuoi spiegare da quale urgenza nasce la Collana e poi come si incastra la scelta di questo lavoro accurato sulle opere di uno dei più originali scrittori cechi del Novecento all’interno di NováVlna e se ci vuoi raccontare anche le prossime novità e scoperte?

Qualcuno potrebbe dire che per approcciare l’opera di Hrabal sia meglio partire da uno dei suoi celebri romanzi, dai suoi capolavori. E sicuramente “Compiti per casa” è un libro che potrà far leccare le dita al lettore che già conosce e ama Hrabal, ma credo anche che, quando un autore è così un tutt’uno con la sua opera, cominciare a “parlarci” (questa è l’impressione) come se lo si incontrasse davanti a un boccale di Plzeň possa essere un ottimo primo approccio. Hrabal ci cattura, personalmente io devo stare attento, se distrattamente (e lo faccio spesso) apro a caso un suo libro e mi metto a leggere, rischio di ritrovarmi che sono passate due ore senza rendermene conto.

La collana, che ci è piaciuto chiamare come la Nouvelle Vague cecoslovacca, soprattutto cinematografica, degli anni Sessanta, nasce dopo che abbiamo cominciato a dedicarci alle traduzioni, nel 2016. Nel giro di poco, soprattutto per mio impulso, dato che sono per metà di origine ceca, le traduzioni dal ceco sarebbero state così tante rispetto alle altre che è parso una logica conseguenza fondare una collana a sé. Inoltre da molti anni mancava in Italia una collana dedicata alla sola letteratura ceca…
Già dall’inizio abbiamo pubblicato un panorama di nuovi autori , in verità quasi tutte autrici – sarebbe un discorso interessante da affrontare anche questo – insieme al recupero di alcuni classici, o mai tradotti o in nuove traduzioni, dopo che erano passati decenni dalle prime. Confrontarsi con il genio di Hrabal è venuto naturale, e cercare di colmare le lacune di traduzione anche.
Sia attraverso i testi del passato sia con quelli contemporanei inoltre mi sembra interessante contribuire a far conoscere meglio e creare un ponte tra la cultura italiana e quella ceca, che mi sembrano ancora considerate molto più distanti di quanto dovrebbero. Dico solo che spesso conosciamo meglio letterature lontane, più o meno esotiche, capaci di imporre variamente il loro modello, e ignoriamo chi siano i nostri vicini di casa europei. In questo senso mi sento nel pieno della funzione, se non della missione, di una piccola casa editrice di progetto, e devo sempre ringraziare del supporto le istituzioni culturali ceche, con cui spesso collaboriamo splendidamente.
Vedo che man mano il nostro seguito aumenta, mi pare che anche libri “particolari” trovino il loro pubblico, non secondariamente grazie al sostegno e alla fatica quotidiana dei librai che se ne innamorano.
Invito tutti a continuare a seguirci: nei prossimi anni continueremo a pubblicare autrici e autori straordinari come Bianca Bellová, Markéta Pilátová, Tereza Boučková e Jan Balabàn, e tra i classici abbiamo in lavorazione ben tre libri del grande Škvorecký, e una graphic novel sulla vita del celebre corridore Emil Zatopek, dopo quella tratta da RUR di Čapek, con l’origine del nome “robot”. Ma la novità più “pesante”, in senso buono, di quest’anno, sarà un libro che è davvero un’impresa al limite della follia, per il quale di nuovo devo ringraziare le capacità e la sconfinata passione di Laura Angeloni.  Si trada di “Ore di piombo”, un romanzo di circa 1000 pagine scritto da una grandissima autrice ceca, Radka Denemarková, già insignita di molti premi, e figura di intellettuale impegnata su diversi fronti. Già tradotto in Germania (tra l’altro la Denemarková è la traduttrice ceca del Nobel Herta Müller), è previsto in uscita per settembre, ed sarà uno di quei libri che fanno epoca, il grande romanzo dei nostri tempi, del cosiddetto “secolo cinese”, che affronta in tutta la sua complessità con risultati straordinari. Uno di quei libri-mondo che anche dal punto di vista editoriale presuppongono una certa dose di incoscienza. Miraggi, presente!

Buona Lettura, a questo punto, de “La perlina sul fondo ” e ” Compiti per casa ” di Bohumil Hrabal e di tutti i meravigliosi libri della Collana NováVlna

QUI l’articolo originale:

Con Bata nella giungla – vincitore premio Antonio Semeria – settembre 2021

Con Bata nella giungla – vincitore premio Antonio Semeria – settembre 2021

Al teatro del Casinò la consegna dei premi Antonio Semeria

La cerimonia per la premiazione del Premio internazionle letterario “Casinò di Sanremo, Antonio Semeria è stata condotta dal giornalista scrittore Mauro Mazza, coadiuvato dal presidente di giuria tecnica Matteo Moraglia, dal professor Francesco De Nicola, dai giurati Carlo Sburlati, Marco Mauro, Marino MaglianiPaola Monzardo e dal segretario generale Marzia Taruffi.

Per la narrativa internazionale opere tradotte questo il verdetto finale:
Alessandro De Vito per l’opera “Bata nella giungla” (Miraggi ) ha prevalso su Marco Drago con l’opera “L’ultima canzone di Bobby March” (Bompiani) . Terzo classificato Silvia Nugara e Claudio Panella con il volume “Delitti alle traversette” (Fusta editore)

QUI l’articolo originale:

https://primalariviera.it/cultura/al-teatro-del-casino-la-consegna-dei-premi-antonio-semeria/

Chiedi a papà – recensione di Lorenzo Marotta su La Sicilia

Chiedi a papà – recensione di Lorenzo Marotta su La Sicilia

“Chiedi a papà”, un bellissimo romanzo sull’enigma di ogni singola esistenza

Un romanzo intenso e coinvolgente “Chiedi a papà” del ceco Jan Balabán, edito da Miraggi 2020 nella bella traduzione di Alessandro De Vito. Pubblicato nel 2011, un anno dopo l’improvvisa morte dell’autore, con una Nota dell’amico e poeta Petr Hruška al quale aveva consegnato il manoscritto nella versione definitiva. Al centro della narrazione la morte dell’anziano medico Jan Nedoma nello stesso ospedale dove aveva lavorato. Con lui i suoi tre figli, Hans, Emil, Katerina, e la moglie Marta, alle prese non solo con l’evento luttuoso, ma anche con le accuse contro di lui di corruzione e di complicità con il regime comunista da parte di uno dei suoi migliori amici. Un’ombra sulla condotta del padre e del marito che mette in moto il flusso dei pensieri dei parenti, ciascuno a vivere la perdita attraverso l’intreccio di ricordi, di dialoghi, di monologhi interiori, di riflessioni, sul tema della vita e della morte, la sua unicità e irrimediabilità. Un’immersione dello scrittore nelle pieghe indecifrate dell’animo umano dinnanzi al mistero della morte, di quella morte. Il venir meno, in quell’istante, della luce, anche quando, come per Jan Nedoma ed altri malati, attaccati ad una macchina per dialisi. Luogo della narrazione la città mineraria di Ostrava, tra veleni di fumi, vodka, divorzi, menzogne, solitudini. Singole esistenze che si trascinano tra lavoro, delazioni, corruzione e privilegi della nomenclatura comunista.  Un romanzo che non ha una trama lineare, per il dispiegarsi del tumulto di pensieri e di visioni oniriche dei protagonisti, resi con grande bravura immaginativa da parte dell’autore. L’incipit è dato da un canile affollato di randagi malridotti, il cui grido è sopraffatto dallo stridore acuto di un treno in corsa. Emil è lì con la moglie Jeny in cerca del cane da portare a casa. Ma a prevalere è “la porca memoria”, la stessa di cui un tempo andava orgoglioso. Un rincorrersi e accavallarsi di ricordi, di visioni, che attraversano la mente e agitano i sogni anche degli altri fratelli. Dettagli di vita nel ricordo del padre, tante sequenze di episodi accaduti, di atti mancati. Un racconto che procede per immagini, evocate attraverso poetiche descrizioni sulla luce all’inizio del crepuscolo, di percorsi nei boschi, di gigli nei campi che nessuno vede, di notti buie come l’impotenza della malattia che prelude alla fine. “E così avevo caracollato fino a casa dall’ospedale dove mio padre non poteva più alzarsi, tantomeno riprendere il suo letto”. Un bellissimo romanzo sull’enigma di ogni singola esistenza, nei suoi legami famigliari, sospesa fin dall’inizio nella sua unicità, tra luce e ombra, con la paura del distaccarsi progressivo della vita.

Ecco l’articolo originale:

IL BRUCIACADAVERI – recensione su Il collezionista di letture

IL BRUCIACADAVERI – recensione su Il collezionista di letture

“Il bruciacadaveri” è il secondo romanzo dello scrittore ceco Ladislav Fuks. Pubblicato a Praga nel ’67, apparve in Italia nel ’72 nei Coralli dell’Einaudi, tradotto da Ela Ripellino e con un’introduzione di Angelo Maria Ripellino. Dopo quell’edizione, peraltro non più ristampata, non vi sono state altre successive edizioni e quindi quella è stata, sino ad oggi, l’unica da noi esistente. Finché, nel marzo di quest’anno, la casa editrice Miraggi edizioni, all’interno della sua collana di letteratura ceca, ne ha pubblicato una nuova edizione, con una nuova traduzione curata da Alessandro De Vito e una postfazione di Alessandro Catalano. A distanza quindi di circa cinquant’anni viene riproposto, in modo aggiornato, questo libro straordinario, rendendolo nuovamente disponibile.

Riproporre Fuks e “Il bruciacadaveri” è non solo un’iniziativa editoriale assolutamente meritoria ma è un tributo a un grandissimo scrittore e ad un’opera geniale che è da considerare a tutti gli effetti un capolavoro della letteratura del ‘900. Nel segnalare pertanto l’uscita di questa nuova edizione che colma con la sua presenza un vuoto nel panorama di quei libri di assoluto valore, ingiustamente dimenticati, propongo contestualmente, qui di seguito, due contributi per “avvicinare” o “riavvicinare”, per chi già lo conosce, “Il bruciacadaveri”.

Il primo, così da avere anche un riscontro della nuova edizione, è il testo di presentazione de “Il bruciacadaveri” contenuto nella bandella di copertina della edizione della Miraggi a firma di Alessandro De Vito che ringrazio per avermene concesso la pubblicazione. Segnalo inoltre la nuova traduzione di Alessandro De Vito che, rispetto alla precedente, è più diretta, più cruda e realistica laddove quella della Ripellino, senza nulla togliere, era più “fantasiosa” e più spinta sul grottesco. In questo senso la nuova traduzione restituisce di più il nudo e metallico meccanismo che scandisce tutta la vicenda de “Il bruciacadaveri” senza perdere nulla di quell’assurdo che pervade il testo. Sicuramente un’evoluzione e un aggiornamento della precedente traduzione con un linguaggio più contemporaneo.

E, a seguire, come secondo contributo, il mio commento de “Il bruciacadaveri” (che lessi anni fa nella precedente edizione) già pubblicato e presente in questo blog che ripropongo per l’occasione.

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Bandella di copertina de “Il bruciacadaveri” di Ladislav Fuks edito da Miraggi edizioni, a firma di Alessandro De Vito

Praga, 1938-39. La storia del Novecento marcia a passo forzato verso uno dei suoi momenti più critici: il magniloquente Nuovo Ordine nazista, la guerra imminente, la “questione ebraica”, le persecuzioni pianificate, l’invasione dell’ Europa.

Chi è il signor Kopfrkingl, protagonista di questa storia nera praghese? Un tenero, sdolcinato padre di famiglia, impiegato al crematorio, un uomo che sorride sempre. Si, in apparenza. Interiormente, invece, è una marionetta dall’animo monodimensionale, dalla volontà larvale, dalla morale astratta e limitata, che vede tutto e tutti come stereotipi. Un uomo intimamente servile per cui il bene è indifferentemente cura e sterminio, felicità e olocausto, la cui idea di paradiso in terra condanna gli altri all’inferno.

Lo stile ossessivo e preciso di Fuks sottolinea perfettamente questo aspetto e gli è funzionale. “Il bruciacadaveri” procede come una partitura con il frequente contrappunto di ripetizioni di nomi e intere espressioni. Lo sguardo alienato e distorto del protagonista, con tracce di macabro divertimento, amalgama un testo di cui si può apprezzare la struttura profonda e la caleidoscopica creatività: siamo a tutti gli effetti di fronte a un capolavoro del Novecento. Ma forse ha un senso ulteriore, oggi, riproporre questa figura di “volenteroso carnefice”, che accoglie in sé le parole d’ordine naziste con leggerezza e conseguenze paradossali, opportunista, perbenista e superficiale.

“…la violenza non paga per nessuno. Con essa si può tirare avanti solo per un breve periodo, ma non si può scrivere la storia. Viviamo in un mondo civilizzato, in Europa, nel Ventesimo secolo” si dicono più volte i personaggi, nel 1938. La storia ha provato loro il contrario a stretto giro, e ormai, anche molti anni dopo, passato l’inizio del Ventunesimo secolo, sappiamo che nulla può essere dato per scontato, che l’angusto abisso del signor Kopfrkingl non si è richiuso per sempre con la fine delle ideologie e grazie al benessere, e che far finta di niente può precipitarci nuovamente dentro di esso.”

Alessandro De Vito

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Il mio commento de “Il bruciacadaveri”

Karel Kopfrkingl (K.K.) è il protagonista de “Il bruciacadaveri”. Che fa K.K.? E’ impiegato al Crematorio di Praga o, come dice lui, al Tempio della Morte. K.K. non solo è un consumato esperto delle pratiche crematorie ma ne è un fervente paladino.

Non perde occasione per sottolinearne i vantaggi e i pregi: la rapidità e asetticità del processo, la sua non aggressività, in quanto la cremazione non intacca i corpi in modo diretto col fuoco ma agisce per effetto del solo calore, insomma, come dire, non è invasiva e poi l’intrinseca democraticità della cremazione che ci riporta tutti, indifferenziatamente, alla nostra originaria condizione di polvere da cui proveniamo senza lasciare in giro sgradevoli tracce dei nostri corpi, ma lasciando libera la nostra anima di andarsene dove e come vuole perché K.K. crede pure, bontà sua, nella reincarnazione: legge da sempre lo stesso libro, un volume sul Tibet.

Ma non si deve credere che per questa sua passione mortuaria oltre che abnegazione professionale K.K. sia un sinistro e lugubre figuro, nossignore, al contrario è un amorevole, anzi, diciamolo, un zuccheroso e mellifluo signore: “Tenera” è la parola con cui inizia “Il bruciacadaveri” ed è per l’appunto K.K. che la pronuncia rivolgendola alla moglie Lakmè che, in realtà, si chiama Marie ma K.K. ha deciso che si chiama Lakmè, così come lui che si chiama Karel si è ridenominato Roman. E alla moglie, alla figlia e pure alla gatta non risparmia vezzosi aggettivi quali: “maliarda”, “eterea”, “celeste”, “soave”, “diletta”, “purissima” e il suddetto “tenera”.

“Sono romantico” dice ”ed amo la bellezza”, non si fosse capito. Colma i familiari di regalini, li porta spesso a spasso, stravede per la propria casa che ama arricchire di ninnoli e oggettini, teche, quadri e quadretti tra cui spiccano: la tabella degli orari delle cremazioni nonché una nera Drasophilia funebris. E nella sua smania di ribattezzare tutto pure il quadro col faccione del presidente del Guatemala diventa per K.K. il ritratto di un famoso ministro delle pensioni francese, anche se sotto, nel quadro, c’è scritto Presidente del Guatemala. Insomma tutto ha un ordine e un senso per K.K., il suo.

Ma tant’è, cosa volete che sia, in fondo in fondo, nel suo intimo, K.K. è un buono: “Non dobbiamo far torto a nessuno, nemmeno col pensiero” dice, e poi non ha vizi e debolezze di sorta, è un premuroso sostenitore del matrimonio, del suo matrimonio: “Non c’è matrimonio, mia celeste, che sia così bello e felice come il nostro”, salvo poi andare regolarmente a farsi vedere dal Dottor Bettelheim, esperto in malattie veneree, suo vicino di casa, di nascosto dalla moglie, chissà come mai? Si fa pure scrupoli sulle percentuali che deve riconoscere a due suoi collaboratori che incarica di procurargli “clienti” per il “suo” crematorio, mosso a pietà per le loro tristi condizioni familiari, salvo, di quelle condizioni, non occuparsene affatto.

Ma K.K. ha anche un amico, un certo Willie Reinke, un fervente e accanito filonazista (la storia si svolge durante l’occupazione tedesca) il quale, in modo pomposo e borioso, quale egli è, dipinge attrattivamente al nostro K.K. i vantaggi e i piaceri che lui, K.K., potrebbe avere aderendo al partito nazista: nomina certa alla direzione del crematorio, anche perché di un esperto come lui c’è un crescente bisogno, e poi la possibilità di frequentare belle donne, l’ingresso garantito allo sfarzesco Casinò tedesco di Praga e in generale l’essere ben visto e ben accolto tra i “nuovi padroni”.

K.K. non è un vero e proprio ambizioso però capisce che qui c’è un nuovo ordine con cui fare i conti e siccome all’ordine, alle forme, alle regole lui ci tiene, alle profferte di Reinke ci fa più di un pensierino. Ma c’è un problema, la moglie e quindi anche i figli (ne ha due) hanno sangue ebreo e questo è un neo grave gli dice l’amico Willie, che va affrontato, pena il non accesso ai benefit nazisti. E quale miglior modo per affrontarlo ma, ovviamente, facendo fuori moglie e figli: perché non soffrano, poverini.

E così porta il figlio in visita al crematorio, lo spranga, lo infila in una bara con un altro morto già pronto per la prossima cremazione, di cui quindi beneficerà anche il figlio e, non visto, si allontana andando, come se niente fosse, a denunciare la scomparsa del figlio. Per far scomparire la mite e inconsapevole moglie organizza un’impiccagione–finto suicidio, ne denunzia irreprensibilmente il fatto alle autorità dando ovviamente il benestare per la cremazione dell’amata Lakmè. La figlia si salverà solo perché a K.K. fa visita un monaco tibetano che, venuto direttamente dal Tibet, gli dice che lui, K.K., è il nuovo Dalai Lama quello che “Budda ha scelto e in cui si è reincarnato”. Il finale è ancor più grottescamente tragico e lo risparmio.

Adesso viene da chiedersi ma in conclusione chi è veramente K.K.? Angelo Maria Ripellino nella sua introduzione lo definisce così: “L’immagine calcolatissima di un benpensante e ipocrita cerimoniere, uno schizoide impigliato nelle consuetudini di un macabro rituale, un saccente becchino-filantropo, che l’epoca incline alle stragi e la sicumera esequiale e la sciocca ambizione e la flaccidità del carattere e la tenerezza, si’ la tenerezza tramutano in un dispensatore di eutanasia” (A.M. Ripellino – “Fuksiana” in Ladislav Fuks – “Il bruciacadaveri” – Einaudi – 1972 – Pg. XV)

E tutto questo va perfettamente bene. Ma qui c’è dell’altro secondo me. Perché Fuks ha realizzato non solo un’opera geniale per il suo macabro surrealismo grottesco ma, a mio parere, ha soprattutto individuato e sviluppato un modello, un archè, che è sia estetico che concettuale, che si basa sull’idea di forma. Se infatti rileggiamo tutta la storia e il modo in cui vengono raccontate le cose ci accorgiamo che tutto in K.K. risponde, deve rispondere, al rispetto delle forme, sia come immagini che la narrazione stessa suscita, sia per il tipo di atteggiamenti e comportamenti di K.K., per il valore intrinseco che hanno.

K.K. fa tutto quello che fa non perché c’è una relazione che egli instaura con le cose e con gli altri, ma perché tutto deve rientrare in un suo schema formale. Tutto deve corrispondere ad una forma prestabilita e inalterabile: si pensi al delirio di cambiare i nomi propri o di cambiare i nomi agli oggetti. E tutto ciò che può alterare questa forma: per assurdo in primis proprio la realtà, quella vera, va eliminato. Anche l’adesione al nazismo diventa per K.K. un problema di adesione alla forma nazismo, non al nazismo in sé, cosa che invece fa l’amico Willie. Ma questo dominio della forma in K.K. è il dominio di una forma vuota di contenuti, è mera apparenza, è il nulla.

E’ una cosa già in sé defunta, è un’iterazione solipsistica della morte che così come nella catena di montaggio del crematorio si ripete sistematicamente negli atti, nei gesti e nelle parole da inutile idiota di K.K. La forma è per K.K. l’unico senso della vita. Per K.K. tutta la vita si consuma nella forma e nelle forme e come tale si nega la vita, in quanto tutto in lui si riduce ad un insieme di pratiche meticolose, ordinate, coerenti, perbene ma inutili. Pratiche solo formali dove anche la morte è ridotta a procedura asettica ed “igienica”.

E adesso si insinua una domanda affascinante nella sua tragicità, ma non è forse che il nazismo è stato, in ultima istanza, un mostruoso, orripilante, agghiacciante tentativo di affermazione del dominio della forma? Se infatti affermiamo, assumendo lo schema de “Il bruciacadaveri”, che la forma nel momento in cui si nega di contenuti e di senso e perciò si sclerotizza in sé stessa, traducendosi in cosa morta, nega la vita, altrettanto possiamo dire del nazismo, laddove esso si afferma come delirio onnipotente che vuole mettere ordine, il suo ordine, nel mondo ripulendolo da tutto ciò che è diverso da sé e, pertanto, imponendo la sua forma che non consente alcun grado di libertà, alcuna possibile tolleranza in più o in meno rispetto al modello fissato dalla forma nazismo.

E’ evidente che al di là delle volontà soggettive il dominio della forma diventa assolutamente prevalente e ovviamente aberrante e per imporsi ha bisogno di affermarsi a scapito della vita la quale invece presuppone diversità, eterogeneità, differenze, movimento invece che fissità, rigidità, iconicità, ripetitività, propri della forma fine a se stessa e, peraltro, tipici del nazismo. In questa ipotesi il nazismo assume, in conclusione, le sembianze di un’orrenda gestalt autoreferenziale e autoriproducentesi in quanto pura espressione solo di se stessa. Ed è forse questa la grande metafora contenuta ne “Il bruciacadaveri” che ci illumina con un sinistro bagliore che ci arriva direttamente dal forno crematorio della Storia.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

IL BRUCIACADAVERI – recensione di Giorgio Ferri su L’Indice

IL BRUCIACADAVERI – recensione di Giorgio Ferri su L’Indice

Kopfrkingl

Come funziona la mente di chi ha un’opinione su tutto? Quasi sempre è un bacino riarso, che attende la piena del senso comune. Un luogo, o un luogo comune: “la negazione del pensiero: meglio ancora, la sua sostituzione”, la definiva Ortega y Gasset nel 1930, a tre anni soltanto dal cancellierato di Hitler. E, riferendo di un’altra peste, Manzoni ha messo in forma l’incompatibilità fra pensiero e senso comune: “il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune.” L’opinione come la intendiamo qui è un luogo comune camuffato da pensiero autentico. Guidato da grossolane analogie, il signor Kopfrkingl, primo zelatore del crematorio di Praga, rimonta secondo il proprio tornaconto le frasi colte a volo per strada, sui giornali, dalla bocca dell’amico Willi, e vi arreda la sua mente come un decoroso interno borghese. Ha un’opinione per ciascun argomento o situazione, purché qualcuno gliene mostri prima l’utilità. Di fronte al nuovo, all’imprevisto, si blocca. Come leggere il quadro nello studio di Bettelheim, il dottore ebreo che abita a poche pedate di scala sopra la sua testa? Che pensare del montante ardore hitleriano di Willi? Comincerà a capirci qualcosa quando vedrà nel nazismo un’opportunità per fare carriera, e nel dipinto un’immagine del successo.

Karel Kopfrkingl è un melenso. Suoi lontani parenti sono Polonio e Charles Bovary. Ma quando il melenso è nel contempo uno zelante, ecco che diventa un idiota attivo, attivissimo, uno capace di combinare autentici disastri. (Ricordate Bovary? Infallibile con la lancetta per i salassi, ma quando si esce da lì: cancrena e morte.) Inoltre è un melomane, come l’aspirante eugenista di Cuore di cane, e proprio sulla musica si impernia il suo intellettualismo socratico, per cui chi è colto è sensibile, e dunque buono. Ma la sensibilità di Kopfrkingl dà i brividi. Come le battute, in cui già al primo tocco si sente che il suo spirito suona fesso: il contenuto di una facezia senza il contorno intonativo dell’ironia. Come i nomi che affibbia a suo talento a cose e persone.

Zina, la figlia del protagonista, rientra a casa dopo una lezione di piano. In seguito a un errore, “la vecchia” per poco non l’ha bacchettata sulle dita. Kopfrkingl interviene: “Zinuška, non parlare così […] è un’anziana signora. […] Non dobbiamo far torto a nessuno nemmeno col pensiero”. Come non pensare alla nevrotica coniazione di eufemismi negli ambienti del Terzo Reich, dei quali Endlösung, la Soluzione Finale, è la summa beffarda?” Oggi lo definiremmo un campione di political correctness, per come sa rendere ogni elemento della realtà più gradevole. Con perfetta politeness, infatti, chiede ai suoi cari il permesso, prima di sterminarli.

Il bruciacadaveri

Il linguaggio di uno scrittore può avere due direzioni: o descrive il mondo, lo racconta e lo enumera, oppure lo crea, traendolo dal nulla. La seconda è di pertinenza della grande poesia, ma in forma volgarizzata abita anche la mente dei dittatori.

Il bruciacadaveri disvela un meccanismo di epurazione del linguaggio che prelude all’epurazione di esseri umani. La creazione linguistica di un mondo per obliterarne un altro. In questo caso, anzitutto quello ebraico. Come gli artisti eccelsi, Ladislav Fuks cerca e trova una forma di conoscenza nello stile, non nei simboli. È vano, forse, provare a decifrarli e stabilire cosa dicono: la bacheca con le mosche, i ritratti alle pareti, la visita del monaco tibetano, il brillio della fede al dito, il giallo come dominante cromatica. La ragazza dalle guance rosse vestita di nero, o la coppia uomo grasso con farfallino e donna con piuma al cappello, che vanno a spasso come certe figurette di Georg Grosz, sono forse proiezioni del desiderio predace del protagonista, ma in fin dei conti, non importa più di tanto.

Il libro non è metafora di alcunché (ci sono nomi e cognomi), ma un verbum proprium travestito da metafora. Non è un libro sull’invasione tedesca e la persecuzione degli ebrei, ma un libro che fa vedere i processi, anzitutto linguistici, all’origine di tale aggressione. Le ripetizioni di cui è contesto sono una forma di conoscenza della macchinalità (e banalità) dello sterminio.

Il Bruciacadaveri è il libro di due sgomentevoli vigilie. Dell’invasione nazista di Praga e, trent’anni dopo, di quella sovietica. Soffocata la Primavera, il linguaggio burocartico e mortale di ieri tornerà sotto altre spoglie. Col suo gesto, Fuks addita la comune protervia di due ideologie idealmente opposte. In più, la prefigurazione è una tecnica interna. La peste di Praga del 1680, una volta inscenata nel panopticum si riverbera su tutto il libro. E sulle efferatezze cui assiste durante lo spettacolo, Kopfrkingl calcherà i suoi omicidi.

Il bruciacadaveri 2018

Disponendosi a tradurre La metamorfosi, Franco Fortini si chiedeva quale fosse il timbro da imprimere al testo italiano. E trovò che doveva essere “freddo”. Tra “insetto” e “scarafaggio”, l’uno era freddo, l’altro caldo. Anche la nuova traduzione di Alessandro De Vito va in questa direzione.

Il libro che oggi torna a parlarci grazie all’iniziativa di Miraggi non è più quello di allora. Ha da dirci altre cose. Quasi cinquant’anni fa, nella sua prefazione Fuksiana, Angelo Maria Ripellino bollava i personaggi di Fuks come “borghesucci appagati di esigui orizzonti”, che “nella morsa di un tempo demente e devastatore tralignano in mentecatti. La loro rabbrividita marginalità si converte in mostruosa, ghignante forsenneria da panoptikum. L’insicurezza, l’intollerabile assurdo dell’epoca li raggriccia e distorce, gonfiandone le fissazioni”. E in particolare si chiedeva chi fosse il signor Kopfrkingl, dandosi una risposta che oggi non soddisfa pienamente:

“L’immagine calcolatissima di un benpensante ed ipocrita cerimoniere, uno schizòide impigliato nelle consuetudini di un macabro rituale, un saccente becchino-filàntropo, che l’epoca incline alle stragi e la sicumera esequiale e la sciocca ambizione e la flaccidità del carattere e la tenerezza, sì, la tenerezza tramutano in un dispensiere di eutanasia”. Ora pensiamo invece che, al di là delle congiunture storiche, Kopfrkingl sia un atteggiamento mentale in agguato in ciascuno di noi, quando accettiamo passivamente di venire informati; perché senza una curiosità attiva non siamo che un vuoto, in attesa di colonizzatori.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.lindiceonline.com/letture/ladislav-fuks-bruciacadaveri/

IL BRUCIACADAVERI – recensione di Martino Ciano su l’Ottavo

IL BRUCIACADAVERI – recensione di Martino Ciano su l’Ottavo

Kopfrkingl è un uomo buono, mite, dedito alla sua famiglia, affettuoso verso la moglie e i figli. Le sue parole sono auliche, i suoi pensieri sono trascendentali, non sembra che abiti la Terra, eppure, rispetta le leggi, perché queste sono state create per far vivere meglio gli uomini.

Kopfrkingl è dedito al lavoro. Passa le sue giornate vicino a un forno crematorio. Svolge il suo compito in maniera impeccabile, perché grazie alla sua opera i morti diventano cenere in settantacinque minuti, quindi, ognuno di loro potrà raggiungere velocemente il Regno delle Anime, evitando così perdite di tempo. Infatti, un cadavere seppellito nella nuda terra impiega vent’anni per decomporsi.

Kopfrkingl è un appassionato lettore del Libro Tibetano dei Morti, perché la morte apre le porte della vera vita e l’uomo, dopotutto, deve aspirare solo al raggiungimento del Nirvana.

È enigmatico il signor Kopfrkingl, uomo con una goccia di sangue tedesco che si aggira leggiadro per la Praga di fine anni Trenta; per l’esattezza, del 1938, anno in cui i nazisti annettono la Cecoslovacchia al Reich con la scusa di voler proteggere i tedeschi dei Sudeti. Ed è proprio in questo periodo che il buon borghese Kopfrkingl, così pieno di spirito e di necrofilo fervore, si lascia trascinare dall’amico Willi nel vortice della religione hitleriana.

Ladislav Fuks (Fota da Miraggi.it)

Il bruciacadaveri di Ladislav Fuks è stato stampato per la prima volta negli anni della Primavera di Praga. A distanza di più di cinquant’anni, la casa editrice Miraggi lo riporta in vita. Un’opera surreale, come surreale è la vita di Kopfrkingl, uomo malato, perturbato, in costante dialogo con la morte, perso in un’estasi grottesca. Fuks non ci descrive i connotati del signor Kopfrkingl, tantomeno quelli di sua moglie e dei suoi figli, ma riusciamo a immaginarli con un costante sorriso stampato sul viso, avvolti in una atmosfera melensa, così nauseante da innervosirci, ma dietro cui appare prepotentemente quella sporcizia delle intenzioni che ha bisogno solo di un piccolissimo pretesto per tramutarsi in azione.

In Kopfrkingl troviamo tutte le contraddizioni del nazismo, tutte le tracce di una follia collettiva che ha saputo sfruttare l’indifferenza delle masse. Indifferenza generata dal tacito consenso. Così, Fuks è stato capace di raccontare attraverso un uomo ligio alle leggi, educato, premuroso e in odore di santità, la storia di una tragedia senza fine dietro cui si cela la folle necessità di unire in un solo simbolo la vita e la morte.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Nová Vlna: un’“onda” di autori europei dalla Repubblica Ceca – intervista ad Alessandro De Vito di Angela Vecchione su Exlibris20

Nová Vlna: un’“onda” di autori europei dalla Repubblica Ceca – intervista ad Alessandro De Vito di Angela Vecchione su Exlibris20

Cinque domande per un editore.

Questo spazio è dedicato da qualche tempo alle case editrici che nella loro programmazione editoriale riservano uno spazio a una letteratura straniera in particolare. Questo appuntamento ha per protagonista la casa editrice Miraggi e nello specifico la linea NováVlna, collana di letteratura ceca curata magistralmente da Alessandro De Vito, editore e traduttore. Da cosa nasce l’esigenza di titoli appartenenti a una sfera culturale spesso accantonata in favore di un interesse angloamericano dilagante e spesso dominante in un paese come il nostro, da decenni anglofilo? Le risposte, le perle tradotte, le voci più autorevoli di un ambiente affascinante e storicamente vicino, nuovi autori e una riflessione sulla nostra identità di narratori in questa edificante intervista che riportiamo integralmente.

Miraggi e NováVlna.

1 – «NováVlna» è la collana dedicata alla letteratura ceca. Il nome Nová vlna, sia in ceco che in slovacco, vuol dire “Nuova onda”. Anche se trae origine dal movimento cinematografico degli anni Sessanta del secolo scorso, questa selezione di libri si promette di far vibrare nuovi stimoli. Da cosa è nato il vostro interesse per la letteratura ceca?

Come tutti gli amori, la decisione di dar vita a una collana interamente dedicata alla letteratura ceca nasce un po’ per caso, per accorgersi subito dopo che si trattava di una necessità. Innanzitutto per me: io sono per metà ceco, dire che non ci avevo mai pensato prima sarebbe troppo, ma sicuramente non sarebbe accaduto senza un’occasione. Qualche anno fa, con il fondamentale apporto e l’ispirazione di Francesco Forlani, straordinario esempio di intellettuale organico, disorganizzato e totale, con cui abbiamo poi stretto una grande amicizia, abbiamo cominciato a pensare alle traduzioni letterarie “laterali”. Abbiamo allora fondato la collana Tamizdat, primo embrione di quella casa editrice nella casa editrice che è diventata Miraggi Baskerville. Lì abbiamo inteso proporre testi “clandestini”, come erano quelli che circolavano di nascosto nei regimi del socialismo reale: libri che, mutatis mutandis, in moltissimi casi ci pareva fosse difficile vedere oggi in libreria, almeno in Italia. Dopo poco mi sono “ricordato” delle mie origini, ho preso a studiare sul serio il ceco, lingua materna che ho sempre parlato in casa, e nel giro di due anni abbiamo dovuto creare uno spazio specifico per quelle traduzioni, altrimenti la collana Tamizdat avrebbe subìto una vera e propria “invasione ceca”.
Così è nata NováVlna. Fondamentale è stato conoscere Laura Angeloni, una delle più esperte traduttrici dal ceco attive oggi in Italia, che collabora stabilmente con noi e ha tradotto quasi metà delle nostre scelte. Altrettanto importante è poter contare, in generale ma principalmente per le riedizioni dei classici, sul supporto del boemista Alessandro Catalano. A proposito dei traduttori mi preme sottolineare che quasi sempre hanno un ruolo da protagonista: non siamo noi a cercare qualcuno che traduca, ma chiediamo al traduttore di farci una proposta, così si finisce per lavorare su un proprio libro del cuore. Diamo importanza al traduttore, vero “veicolo umano” di lingua storie e cultura, sia ovviamente citandolo in copertina e risvolto, ma anche facendogli scrivere una nota di traduzione, che spesso coincide con la quarta di copertina e, se più articolata, è inclusa nel volume. Nessuno – e qui lo dico da traduttore – è così dentro e vicino a un libro di chi lo traduce.

Bisogna ammettere anche che la lungimiranza del Ministero della Cultura della Repubblica Ceca dà a noi e a tutti coloro che si dedicano alla traduzione della letteratura ceca – lo stesso vale per altri Paesi – un importante supporto, finanziando generosamente la nostra attività e consentendoci di lavorare in tranquillità e di poter scegliere anche autori di grande valore ma meno commerciali, come è stato il caso di Jan Balabán (Chiedi a papà) di cui mi piacerebbe tradurre tutta l’opera. Autori che danno spessore all’idea stessa di letteratura, almeno alla nostra.

2 – In questa sezione trovano spazio testi della tradizione letteraria caduti nell’oblio. Vi occupate del loro recupero facendo un attento lavoro di ricerca, rintracciate esordi preziosi come quello di uno dei maggiori scrittori del Novecento Bohumil Hrabal, La perlina sul fondo, in uscita in questi giorni. Perché altre case editrici italiane, di dimensioni più grandi, secondo voi non hanno pensato di tradurre libri che avrebbero avuto esito tra lettori appassionati?

Uno degli intenti è proprio questo. Accanto alla proposta di nuovi autori ancora sconosciuti nel nostro Paese, da lettore prima che da editore, e certamente da lettore che ha frequentato quella letteratura in passato, stupisce, e personalmente mi addolora, se non è un’espressione troppo forte, che grandissimi autori e opere siano completamente dimenticati oggi. E si tratta di un duplice fronte: a volte si tratta di recuperare libri che erano giunti in Italia, soprattutto grazie alla meritoria opera di Ripellino, tra gli anni Sessanta e Ottanta: oltre a Einaudi ricordiamo la celebre collana diretta da Kundera dell’editore e/o. Essendo passati 40-50 anni, scegliamo senz’altro di ritradurli, ed è una sfida non da poco. Abbiamo cominciato da un mio vecchio pallino, che deriva dai miei studi in storia del cinema. Il bruciacadaveri di Fuks è un capolavoro letterario da cui è stato tratto subito dopo un capolavoro cinematografico, non mi davo pace del fatto che ormai fosse un libro solo per collezionisti. Tanto più che, riproposto oggi, racconta molto bene e sorprendentemente, pur a tanti anni di distanza, cosa sta accadendo alle nostre società oggi. Con umiltà, consapevolezza e studio pare che i nostri sforzi vadano nella giusta direzione.

In altri casi, come per la citata primizia di Hrabal, il primo libro pubblicato dal grande autore ceco, quello che l’ha portato al successo in patria nel ’63 dopo gli anni più bui dello stalinismo, si trattava di colmare incredibili vuoti editoriali con una prima traduzione. A volte le vicende librarie hanno dell’imponderabile, e non è facile risalire al motivo per cui di un autore così grande – e di grande successo – ancora oggi non sia stato tradotto tutto. Di Hrabal, con la relativa liberalizzazione della Primavera di Praga e l’eco che ebbe la sua repressione nel ’68, giunsero all’estero molte opere contemporaneamente, si spiega che allora si sia operata una scelta privilegiando soprattutto i romanzi, rispetto ai racconti della Perlina, che pure sono di uno scrittore ormai maturo, basti pensare che furono pubblicati quando aveva già 49 anni.

Detto questo, non siamo certo i soli, per fortuna, a tradurre letteratura ceca. Einaudi continua, pur con il contagocce (dell’anno scorso un altro inedito di Hrabal, Lezioni di ballo per anziani e progrediti), e Keller ne annovera parecchi nel suo catalogo, basato sulle zone geografiche dell’ex Impero Austro-Ungarico di cui anche la Boemia faceva parte. Splendido e consigliato l’ultimo Topol, che mi sarebbe piaciuto pubblicare: Una persona sensibile.

Siamo lieti e orgogliosi di fare la nostra parte, meglio per noi se altri ritengono che certa grande e grandissima letteratura “non valga più la pena”, per motivi commerciali o per mode che cambiano. Certo non è facile.

Letteratura ceca

3 – “In passato come oggi la letteratura ceca è stata molte volte portatrice di freschezza e innovazione, col suo carattere ironico, grottesco e surreale, e la capacità di immergersi nelle profondità esistenziali.” Come selezionate gli autori contemporanei da proporre al pubblico italiano?

Pur esplicitandole in molte sfumature differenti la letteratura ceca – e direi cecoslovacca, tornando indietro nel tempo – ha delle caratteristiche tipiche, piuttosto riconoscibili, a volte più di tono grottesco e tetro, a volte più leggero e surreale, ma è vero, sempre teso alla profondità, a tuffarsi per “scorgere il fondo dell’animo umano”, per parafrasare ciò che Hrabal dice a proposito della sua Perlina sul fondo. Vivendo personalmente la doppia appartenenza italo-ceca, ho sempre trovato che sia molto stimolante vedere le cose con gli occhi degli altri, perché poi si torna a considerare diversamente anche le cose che si hanno sotto gli occhi. La Boemia, in fondo, è vicina geograficamente, ormai da trenta e più anni è accessibile, turistica, forse sarebbe il momento di conoscerla più a fondo, dato che è sempre stata parte della nostra stessa vicenda comune europea. Proprio per la divisione in blocchi durante la Guerra Fredda il solco è aumentato, e si sono interrotti rapporti culturali, e non solo, sia antichissimi sia più recenti. La Boemia era la regione più sviluppata dell’impero Austro-Ungarico, molti ignorano che tra le due guerre è rimasto il solo paese democratico dell’Europa centrale, la cosiddetta Prima Repubblica cecoslovacca, e uno dei più industrializzati. Un altro aspetto che mi piace ricercare, oltre la bellezza letteraria in sé, è proprio questo: avvicinare le due realtà, conoscersi a vicenda, perché siamo vicini… di casa. E si ritrova un po’ dappertutto, nei racconti “cinematografici” del regista Němec, i cui si trovano molte tracce “italiane” (Volevo uccidere J.L. Godard), nel romanzo della Pilátová che racconta la storia della famiglia Bata, che da più di un secolo mette le scarpe al mondo intero ed era ceca (Con Bata nella giungla), e per le similitudini delle vicende storiche: l’ascesa del nazismo a Praga nel 1938 nel Bruciacadaveri, o le questioni tra minoranza tedesca e ceca nelle zone di confine tra i due paesi, nei Sudeti, per tanti versi simili a quelle del nostro confine orientale (Grand Hotel e il prossimo I parenti di Germania, tutto incentrato su una divisione familiare a cavallo della cortina di ferro). Credo ci sia sempre da imparare.

Gli autori poi vengono selezionati secondo alcuni canali: sono tutti autori (e molte autrici) molto noti nella Repubblica Ceca, quasi sempre vincitori di Premi internazionali e nazionali come il Magnesia Litera, che ci vengono presentati da agenti letterari, da traduttori e che ormai troviamo anche direttamente. Sono giovani, sono sui social, ci si può conoscere, leggere ecc. e dimostrano un’accoglienza e un amore per l’Italia davvero grande. Sin da subito ho riscontrato lo stesso atteggiamento di curiosità, di apertura, e una cortesia non solo di maniera, anche in tutti i referenti degli enti con cui ci interfacciamo: Centro Letterario Ceco, a Praga e in Italia, case editrici e non ultimo il Ministero della Cultura. Capita spesso anche che, nonostante Miraggi sia una realtà molto piccola, oltre alla fiducia professionale si creino anche rapporti personali di stima, come è capitato con Bianca Bellová, straordinaria e originalissima prosatrice, di cui pubblicheremo presto l’ultimo libro, Mona, tra i primi al mondo. Certo poter usare la lingua mi facilita non poco il piacevole compito.

4 – Tra gli autori italiani contemporanei e quelli cechi, quali differenze riuscite ad evidenziare nello stile e nei temi trattati perché le vostre proposte editoriali possano definirsi imperdibili?

Difficile fare un discorso unico, prima abbiamo evidenziato alcuni possibili comuni denominatori, ma spesso oltre quelli ogni poetica autoriale è differente, così come lo stile. È come se fossimo di fronte una squadra in cui le individualità sono molto forti, per usare un paragone. Purtroppo da quando faccio l’editore il tempo che riesco a dedicare alla lettura è molto scemato, spesso “vado a vedere” e saltabecco, cerco di restare informato ma non sempre leggo libri interi. Oltretutto leggere in lingua per scegliere le nuove pubblicazioni, oltre all’attività di traduzione e alla direzione della casa editrice con i miei soci mi tiene davvero molto occupato. Parlerò quindi di una sensazione personale, che potrebbe essere fuori strada. Ho come l’impressione che salvo rari casi chi scrive in Italia – e ci sono autori di grande pregio, giovani e meno giovani – si rivolga maggiormente, quasi necessariamente, al pubblico italiano, o presuppongano una imprescindibile conoscenza del nostro ambiente. Senza meritare per forza l’accusa di essere “ombelicali”, forse, per così dire, mi pare che non alzino troppo la testa a uno sguardo sul mondo. Gli scrittori cechi, e sottolineo che vanno per la maggiore molte autrici donne, credo abbiano più interesse per storie più universali, forse perché vivono in un paese e in un sistema culturale più piccolo, si sforzano di più di essere meno provinciali, proprio perché hanno maggiore coscienza di non essere al centro del globo. Poi magari sono quelli e quelle che piacciono a me, per cui non posso dire di essere del tutto obbiettivo. Per cui la definizione di “imperdibili” forse è eccessiva, ma può essere molto utile, piacevole e sorprendente per il lettore italiano leggere punti di vista sulla contemporaneità che non siano né i nostri, né quelli “universali” e un credo un po’ troppo mainstream che provengono dall’influentissimo e pervasivo Occidente angloamericano. Ci sono particolarità e aspetti tipicamente centroeuropei che senza nostalgie otto e novecentesche sono ancora oggi in grado di produrre senso. Personalmente ho sempre trovato curioso, anche se comprensibile per il corso degli eventi, che si trovi più naturale riferirsi agli USA, a quel modo di vivere, rispetto a paesi che rispetto a due estremità del nostro stesso stivale italiano sono più vicini geograficamente e come storia secolare. La porta a Est, verso il mondo slavo, è stata sempre meno frequentata rispetto alla direzione opposta, e spesso identificata prevalentemente con la Russia. Molto ha fatto la koiné del dopoguerra, l’inglese, il cinema, la civiltà dell’immagine e dei consumi. Andiamo però a vedere di persona: traduciamo anche per consentire questo al lettore italiano.

5 – Parlaci dei prossimi titoli in uscita.

Compatibilmente con la situazione di blocco che stiamo vivendo, i lavori nella nostra cucina proseguono. La perlina sul fondo di Hrabal è pronto in magazzino, appena stampato, è stato un lavoro molto lungo e difficile, è un autore tanto piacevole e divertente da leggere quanto infido e particolare da tradurre. Laura Angeloni ha fatto un lavoro straordinario, e dobbiamo ringraziare moltissimo la disponibilità alla revisione e alla cura del volume del prof. Alessandro Catalano dell’Università di Padova, che con rara generosità (e direttive precise e puntuali) ci ha accompagnato con sicurezza in questa difficile impresa, corredando il testo, come nel caso del Bruciacadaveri di Fuks, con una utilissima postfazione critica.

Di seguito, e per forza di cose l’uscita slitterà a quando torneremo a una certa normalità, avremo il nuovo romanzo di Bianca Bellová, Mona, di cui abbiamo acquisito i diritti addirittura prima che il libro uscisse in Repubblica Ceca. Il lago, il precedente romanzo, è stato parecchio apprezzato, anche se non ha avuto una grande circolazione, in questo nuovo lo stile è sempre il suo, estremamente riconoscibile, per cui chi l’ha amato lo leggerà con piacere. Chi non la conosce ancora, li adorerà entrambi, e certamente la inviteremo di nuovo in Italia per qualche evento, in collaborazione con i Centri culturali cechi di Roma e Milano, che ci danno il loro fondamentale supporto.

Intervista a cura di Angela Vecchione

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QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

“Volevo uccidere J.-L. Godard” – Giovanni Fierro intervista Alessandro De Vito su Němec (Fare Voci)

“Volevo uccidere J.-L. Godard” – Giovanni Fierro intervista Alessandro De Vito su Němec (Fare Voci)

Non dare la mano al cameriere

Un libro che è autobiografia e che si legge come un romanzo.
È “Volevo uccidere J.-L. Godard” di Jan Němec, che contiene trentuno racconti, pagine scritte dal 1970 al 1990, e che narrano la vita di questo importante cineasta cecoslovacco.
Testimonianza della sua vita artistica, e della sua vita di ogni giorno divisa dal periodo vissuto nella terra dove è nato e l’America, dove ha dovuto andare nel 1974, visto che in Cecoslovacchia gli veniva impedito di lavorare.
Perché Jan Němec, scomparso nel 2016, è stato uno dei nomi di spicco della Nova Vlna, la nouvelle vague cecoslovacca, e anche l’unico regista capace di filmare l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici, il 21 agosto 1968, per poi varcare la frontiera con l’Austria, e far sì che all’indomani mattina la televisione austriaca mostrasse al mondo quelle immagini.
E Němec era anche sicuro di prendere un premio all’edizione di Cannes del 1968, ma al festival scoppiò il maggio francese e registi come Godard e Truffaut proposero di interromperlo, e non ci fu nessuna premiazione….
E allora la lettura di “Volevo uccidere J.-L. Godard” è un’immersione completa nella vita di Jan Němec, lo si accompagna nei suoi sogni di gloria artistica e di pura sopravvivenza umana, si intrecciano e si respirano mondi opposti, la Cecoslovacchia sovietica e l’America capitalista, dove sopravvisse girando film di matrimoni, e inseguendo progetti cinematografici che non si realizzarono mai. Per poi tornare a Praga alla fine del 1989.
Nemec è stato anche un autentico viveur, una anima irrequieta che amava le feste e le donne e che era sposato con una delle più grandi cantanti ceche dell’epoca, Marta Kubišová.
Sono pagine rocambolesche, si vivono situazioni surreali e divertenti, si respira la passione e la rabbia, sempre però con uno sguardo che mette nudità al tempo narrato, alla società in qui ha vissuto.
“Volevo uccidere J.-L. Godard” è lettura consigliata, e per la quale abbiamo intervistato Alessandro De Vito, che ha tradotto il libro in italiano, e che è anche uno dei fondatori di Miraggi, la casa editrice che lo ha pubblicato.

Dal libro:

“L’obiettivo della cinepresa può essere una piccola mitragliatrice, o cannone, e la verità, impressa sulla pellicola, può avere una forza, difensiva o offensiva, maggiore dei proiettili. Non a caso, qui da noi in America, usiamo la stessa parola per ‘sparare’ e ‘girare’: shoot!

“Il cielo si chiuse. Nuvoloni neri si distesero su Praga. La cometa passò da qualche parte sopra di noi, ma nessuno poté scorgerla. Si era arrabbiata con noi, e vi aveva fatto sapere che non avrebbe scintillato, non si sarebbe accesa, dato che il nostro amico Jirka non c’era più.’”

“Lo scaltro Kgb aveva quindi scelto Lád’a K., e lui ci mandava dei segnali: anche in una società così disciplinata come uno stato comunista sotto la tutela sovietica, si poteva sempre trovare una breccia per essere individualisti, e perfino decadenti. perché il Filmexport cecoslovacco aveva bisogno di film da poter proporre in Occidente, prendere dei premi ai festival, e giustificare così l’esistenza dei suoi uffici all’estero, che erano solo un’altra forma di spionaggio rispetto a quella dei consolati o delle agenzie di viaggio bulgare, tramite le quali metti che si organizzi un attentato al papa.”

“Ah, comunisti e russi, divoratevi pure il cuore del continente, che mi avete rubato! Io non ci sono più.”

Intervista ad Alessandro De Vito:

(traduttore di “Volevo uccidere J.-L- Godard)

Quale la differenza fra lo Jan Němec ceco e quello ‘americano’? Ma anche tra il regista cinematografico e il narratore?
La differenza, purtroppo per lui, è ed è stata enorme, tra gli anni in Cecoslovacchia e quelli dell’esilio negli Stati Uniti. Negli anni 60, in patria, durante la Primavera di Praga, seppure fosse un giovane regista, aveva dimostrato a più riprese un talento fuori dal comune, uno stile assolutamente personale, realizzando dei veri capolavori che meritano di restare nella storia del cinema, già il corto “I diamanti della notte” e soprattutto “La festa e gli invitati”, film visionario e filosofico, sottile e crudo nell’indagine della natura umana, già molto maturo.
Němec è stato anche molto abile a insinuarsi – insieme ad altri giovani registi che hanno fatto parte di quella straordinaria Nouvelle Vague cecoslovacca (citiamo solo Forman, Menzel e Passer, venuto a mancare pochi giorni fa) – tra le maglie della censura e nel meccanismo di produzione cinematografica di Stato comunista, rivolgendolo a proprio vantaggio. Evidentemente l’invasione sovietica del 1968 ha interrotto tutto.
Era inoltre un personaggio noto pubblicamente, dato che allora è stato anche sposato con la più nota cantante ceca dell’epoca, Marta Kubišová, che è come dire Mina in Italia negli anni 60.

Ma anche le similitudini….
Certamente Jan Němec era un carattere particolare, deciso, sarcastico, autoironico, con un’irruenza che è stata sinonimo di energia e forza, di ricerca indomita della libertà e dell’arte, ma anche un ostacolo. Un’incapacità al compromesso, ancor più in senso artistico che politico, che l’ha danneggiato maggiormente negli USA, dove per lavorare bisogna sottostare alle regole dello show business delle major cinematografiche.
Non era il genere di persona capace di mandare giù dei rospi.
Passando alla narrazione scritta e parlando di similitudine, è la parola migliore per descrivere quanto il suo modo di narrare con parole sia simile alla sua visione cinematografica.

Cosa porta del suo sguardo da regista in questo suo narrare? E come lo usa?
Jan Němec è un regista anche mentre scrive. Non evoca, vede, sceglie il punto di vista, inquadra, monta le scene e fa vedere. Spesso nei suoi racconti, sempre basati su esperienze vissute, troviamo immagini, tagli, inquadrature, descrizioni che sembrano “scritte” con la macchina da presa più che con la penna, un andamento registico più che da scrittore.
A volte questo provoca anche qualche salto nella narrazione, anche se bisogna tenere conto che i racconti sono stati scritti nell’arco di vent’anni, dal 1970 al 1990 circa, e a volte in situazioni personali precarie.
Non è una scrittura pulita e levigata, ma assomiglia molto anche a lui: troppa energia per poterla contenere sulla pagina. Il che aggiunge interesse, spesso si ha l’impressione di essere davanti a lui che racconta, seduti davanti a un bicchiere di vino (non birra).

Nel libro, pur immergendosi in situazioni sempre intense, dove le persone si incontrano e si scontrano, dove c’è sempre l’accadere come punto focale del narrare, mi sembra di percepire un profondo senso di solitudine. Può essere così?
Io credo che derivi dall’esperienza vissuta, il dover abbandonare il proprio amato paese, il fatto di non aver nemmeno potuto lottare contro lo stato delle cose. Negli anni da espatriato è stato certamente un uomo solo, si è dovuto arrangiare, non è riuscito mai a lavorare al suo livello.
Per vivere ha trascorso anni a inseguire progetti poi non realizzati, mantenendosi realizzando film privati di matrimonio. Ma è soprattutto la personalità, fortissima ed egocentrica come capita negli artisti più grandi, che emerge con una forza che si impone. È allora la solitudine dell’artista, unita a un punto ideologico non trascurabile: l’esaltazione della libertà individuale, o dell’individualismo tout court, in un paese dominato da una società e da una retorica collettivista pervasiva, allora era un fatto politico.
Lo stesso titolo originale del libro, che letteralmente sarebbe “Non dare la mano al cameriere”, che si riferisce a uno dei racconti, esplicita questo pensiero. In quel caso l’esaltazione di un comportamento che si può definire classista (un suo amico, artista anche lui, celebre perché “non dava la mano al vecchio cameriere”, non con fare sprezzante, ma per tenere una distanza.
Con le sue parole: “Il nostro credo era questo, e penso lo sia ancora: vogliamo spassarcela un po’, andate a fare in culo, bolscevichi, voi e i vostri programmi, i piani quinquennali, i processi e le riabilitazioni. Raccontavamo queste cose alle ragazze, completando quel rapido giro panoramico della città. Ogni tanto bevevamo un bicchierino, facevamo un giro anche contromano e stavamo bene, perché sapevamo che nessuno ci avrebbe manganellato per un reato contro lo Stato”.
Volevano essere dei giovani liberi, non diversamente dai loro coetanei occidentali.

Jan Němec è sicuramente un autore fuori dal coro. Quanto questo gli ha permesso di sviluppare una propria originalità, e quanto invece è stato un qualcosa di limitante, anche in prospettiva politica nella Cecoslovacchia sotto il controllo sovietico?
Němec era certamente fuori dal coro, ma in realtà il “gruppo” dei registi della Nová Vlna… non era un gruppo. C’erano sostegno reciproco, collaborazioni, un background comune, in fondo venivano dalla stessa scuola di cinema, la Famu, e lavoravano tutti negli studi di Barrandov, la Cinecittà di Praga, ma ognuno portava avanti le sue idee, soprattutto dal punto di vista estetico.
Ed erano lasciati liberi di farlo, Němec stesso afferma che si erano trovati in una condizione di libertà creativa difficilmente eguagliabile: (quasi) senza censura, e con tutti i mezzi produttivi a disposizione.
Finito tutto questo con l’invasione, all’estero sono riusciti a sfondare in pochi, dovendo fare i conti anche col reperimento di risorse, con i produttori. Forman è il campione di questo successo in occidente.

Quale la caratteristica più evidente del suo scrivere, e cosa ha significato tradurlo?
La lingua che usa Němec è piuttosto antiletteraria, quasi orale, gergale, estremamente viva. Pur non mancando di riferimenti “alti”.
Non era uno scrittore, spesso i racconti li potremmo immaginare come dei soggetti per film da girare, un po’ più distesi. Raccontati di persona, in modo molto vivido, con una mescolanza di registri molto marcata, tra l’epico del patriottismo, della propria terra tradita e schiacciata dall’invasore, e un’aneddotica personale che ci fa sogghignare amaro o scoppiare a ridere (come nel racconto in cui ci rende noto che ci si può salvare da un infarto grazie allo sforzo muscolare per non farsela addosso: era in compagnia di una signora, diamine!).
Questo ha portato una certa difficoltà di traduzione dovuta alla varietà del contenuto, ampiamente compensata dalla vita che fuoriesce prepotente tra le righe.
È stato bello passere dei mesi con Jan Němec, che purtroppo ho incontrato una sola volta di persona, poco prima che morisse.

Il libro è scritto a più riprese dagli anni settanta ai novanta. Cosa tiene assieme questo ampio lasso di tempo?
È un ventennio esteso, dato che nei primi racconti si parla degli anni 60. È un’epoca tutto sommato omogenea, il grande cambiamento avverrà alla fine dell’89, con la caduta del muro di Berlino e dei regimi comunisti.
E il racconto si interrompe qui, con il rientro a Praga nel dicembre 89. Non a caso, credo.
Appena ritornato, pur con difficoltà, Němec è tornato a fare il regista, in modo indipendente. Credo sia evidente che la scrittura fosse il surrogato della regia, nei lunghi anni in cui non ha potuto o non è riuscito a realizzare film.
Poi ovviamente è un racconto autobiografico, l’autore è protagonista, e persino quando prevale il racconto di eventi storici importanti, come l’invasione di Praga o il famigerato Festival di Cannes del 1968, lui non va sullo sfondo. È lì, e non è un comprimario.

Anche l’immagine di copertina dà l’idea di un Jan Němec sempre in continuo movimento. È così?
Credo non potesse stare fermo. Emanava luce e movimento quando l’ho conosciuto, due mesi prima di morire, malato su una carrozzina, possiamo immaginare durante tutta la sua vita. L’immagine di copertina richiama uno dei momenti topici del racconto: lui che si aggira per la Praga invasa dai carri armati sovietici con la sua auto sportiva e la macchina da presa, con un certo sprezzo del pericolo, il 21 agosto del 68.
La sera stessa riuscì rocambolescamente (e naturalmente con l’aiuto di una bella donna, altra sua passione eterna) a portare i negativi a Vienna e a far quindi vedere al mondo – documento unico – che cosa stava succedendo davvero a Praga. Non il “fraterno aiuto” degli altri popoli socialisti, ma un’invasione militare. Quel materiale, montato con altro, è diventato il toccante documentario “Oratorio per Praga”.

Quale l’eco della sua fama di regista in Europa, in Italia, nel mondo?
Němec è nella storia del cinema, nell’ambito dei festival (in Italia soprattutto Trieste) viene ancora ricordato e omaggiato, specialmente le sue opere degli anni 60. Ha conosciuto la maggiore notorietà internazionale sull’onda anche emotiva dell’invasione di Praga, grazie soprattutto alle immagini dell’invasione.

(Jan Němec “Volevo uccidere J.-L. Godard” pp. 283, 20 euro, Miraggi edizioni 2019)

Il traduttore:
Alessandro De Vito, classe 1971, lavora in campo editoriale da quasi vent’anni.
È tra i fondatori di Miraggi Edizioni nel 2010, di cui ne è direttore editoriale ed editor.
Per metà di origine ceca, da qualche anno è appassionato traduttore da quella lingua, ispiratore e responsabile, sempre per Miraggi, della collana di letteratura ceca NováVlna.

Il regista ed autore:
Jan Němec, scomparso nel 2016, è stato sempre considerato l’“enfant terrible” del cinema cecoslovacco, l’irriverente, lo sfrontato, quello senza mezzi termini e mezze misure.
Rispetto ai compatrioti Jirí Menzel e Milos Forman, entrambi Premi Oscar, ebbe meno successo, ma fu uno dei nomi di spicco della Nova Vlna, la nouvelle vague cecoslovacca, e l’unico regista a filmare l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici, il 21 agosto 1968, gesto che lo rese inviso al regime.

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Baťa, il visionario: il tour d’Italia del romanzo in uscita di Markéta Pilátová

Baťa, il visionario: il tour d’Italia del romanzo in uscita di Markéta Pilátová

Baťa, il visionario: il tour d’Italia del romanzo in uscita di Markéta Pilátová

La scrittrice ceca Markéta Pilátová sarà in Italia nei prossimi giorni per la presentazione della traduzione italiana del suo romanzo Con Baťa nella giungla, affiancata dal traduttore Alessandro De Vito. Nel tour di quattro giorni Pilátová sarà a Trieste, Bologna, Torino, Alba e Roma. Il libro tratta della famiglia cecoslovacca Baťa e del loro marchio di scarpe conosciuto un po’ in tutto il mondo. Quella dei Baťa è la storia di un successo di statura internazionale avvenuto decenni prima dell’ondata che conosciamo con il nome di “globalizzazione”. Si trattava allora di un capitalismo a tratti ingenuo, seppure moderno, illuminato, seppur con tratti di paternalismo: era attento alla qualità del lavoro e della vita dei dipendenti, fino a immaginare un vero e proprio “sistema Baťa”, efficiente ed etico, comprensivo di buoni salari, istruzione, case, dettami morali. Con il romanzo si può “rovistare nei cassetti e nelle scatole di latta” di questa straordinaria famiglia di “calzolai che hanno conquistato il mondo”. Scatole e cassetti colmi di documenti, foto, diari. Viene così illustrata la figura di Ján Antonín Baťa, uno dei più grandi uomini d’impresa di ogni tempo e luogo, visionario, caparbio e con un’incrollabile fiducia nel futuro, insieme modernissimo e d’altri tempi. Accompagneranno il racconto le sue figlie e nipoti, i cognati, con il loro racconto gustoso e dolente, sempre combattivo, tra i ricordi di mille peripezie affrontate procedendo a zig zag tra i dossi e le buche del Novecento. La fuga dai nazisti prima, e dai comunisti poi che condannarono Baťa ingiustamente per collaborazionismo, il boicottaggio da parte di inglesi e americani, le beghe ereditarie, l’esilio e la nostalgia, con la lingua madre a fare da sottile e orgoglioso legame con le proprie origini. Ma.. che c’entra la giungla? Baťa, che aveva immaginato di “trasferire” il popolo cecoslovacco in Patagonia per colonizzarla, si trasferì in Brasile una volta lasciata l’Europa, e lì insediò fabbriche e fondò città, strappandole alla foresta. Dimostrando che con la volontà e la capacità, oltre che con il duro lavoro, si può ottenere molto, se non tutto. E magari riuscire a far « venire a galla la verità come l’olio sull’acqua », come scrisse in punto di morte. Quando parliamo di Baťa ricordiamoci che nello sviluppo del gruppo calzaturiero, che si vide confiscare e nazionalizzale le proprie imprese con l’arrivo del comunismo, anche la Slovacchia ha avuto un ruolo di primo piano, con le fabbriche di Partizánske, Svit, Nové Zámky e Bošany. La famiglia possedeva inoltre un importante patrimonio di immobili di pregio nel territorio della Slovacchia, incluso il noto castello neorinascimentale di Bojnice, uno dei monumenti simbolo della Slovacchia turistica. Secondo la famiglia il valore delle proprietà confiscate è nell’ordine di miliardi di euro. Una causa per i danni subiti è stata riavviata dalla famiglia negli anni scorsi contro la Repubblica Slovacca. Markéta Pilátová (Kroměříž, 1973) è scrittrice, giornalista e traduttrice ceca, autrice di libri per bambini, di reportage e di diversi romanzi, tra cui Tsunami blues (2014), Má nejmilejší kniha (Il mio libro preferito, 2009), Hrdina od Madridu (L’eroe di Madrid, 2016) e Žluté oči vedou domů (In qualcosa dovremo pur somigliarci, pubblicato in Italia da Atmosphere, 2017). Vive e lavora in Brasile, dove insegna il ceco ai discendenti degli emigrati cecoslovacchi delle città fondate dai Baťa intorno alle loro fabbriche.

Il tour di presentazioni del libro in Italia

Martedì 21 gennaio 2020, ore 17:30 Trieste Film Festival – Antico Caffè San Marco,  Trieste La presentazione sarà in forma di dialogo tra l’autrice e il regista Peter Kerekes del film documentario Batastories (2018), che sarà proiettato al principale festival italiano che guarda ad Est. La discussione sarà moderata dal professor Massimo Tria, boemista e critico cinematografico. Venerdì 24 gennaio 2020, ore 20:30 Libreria Altroquando, Via del Governo Vecchio 82, Roma Con l’interprete Laura Angeloni, Petra Březáčková direttrice del Centro Ceco Romae il giornalista di Alias Gennaro Serio Centro Ceco Roma Via dei Gracchi 322, Roma Mercoledì 22 gennaio 2020, ore 18:00  Trame Libreria Bookshop, Via Goito 3/c, Bologna In collaborazione con l’Associazione culturale italo-ceca Lucerna. Giovedì 23 gennaio 2020, ore 18:15 Libreria L’ibrida Bottega, Via Romani 0/A, Torino Affiancheranno l’autrice per la lettura di brani Serena Aimasso e Chiara Trevisan Giovedì 23 gennaio 2020, ore 18:30 Milton libreria c/o Ass. Asso di Coppe via Vincenzo Gioberti 7 Alba Affiancheranno l’autrice per la lettura di brani Serena Aimasso e Chiara Trevisan QUI L’ARTICOLO ORIGINALE: https://www.buongiornoslovacchia.sk/index.php/archives/98170
IL BRUCIACADAVERI – recensione di Edoardo Ghiglieno su Exlibris20

IL BRUCIACADAVERI – recensione di Edoardo Ghiglieno su Exlibris20

Bruciacadaveri

Il signor Kopfrkingl vive a Praga. È un uomo affabile e gentile, conscio delle proprie virtù e attento al prossimo.

Non fumo. Non bevo nemmeno, sono astemio. Ma se pensa che un bicchiere di qualcosa possa aiutarla per cominciare, beva pure tranquillamente, signor Dvořák. Noi astemi dobbiamo essere ragionevoli e comprensivi

Il signor Kopfrkingl è un marito innamorato e premuroso di una moglie adorabile e un padre amorevole e attento di due ragazzi meravigliosi.

L’articolo sul giornale di oggi, di quel padre che ha abbandonato la moglie e i figli per non doverli mantenere, è una cosa terribile

Il signor Kopfrkingl è un uomo di cultura: ama i quadri e li seleziona con cura, conosce bene la musica classica e ha una bella biblioteca che impreziosisce il suo salotto.

Prese dalla libreria la legge sulla cremazione e la sfogliò per un po’, poi prese forse ormai per la centesima volta il libro sul Tibet… il delizioso, affascinante libro sul Tibet, sui monasteri tibetani, sul Dalai Lama e le sue reincarnazioni

Il signor Kopfrkingl è un cittadino modello, innamorato del suo paese e con lavoro onesto che svolge con grande serietà e coinvolgimento.

Non si spaventi della tabella, signor Dvořák, è una sorta di nostro orario, un orario di viaggio della morte. In fondo è davvero il più sublime orario di viaggio che esista al mondo

Il signor Kopfrkingl è un ospite gioviale: ha una vita piena e soddisfacente, una bella casa e amici brillanti con cui discute di politica, di arte e qualche volta di sport.

Allora, bambini, mangiate, invitò di nuovo tutti gentilmente, abbiamo una festa di famiglia e sta restando tutto lì. Celeste mia…

Eppure, c’è qualcosa che non funziona.

Sarà quel suo modo di parlare, ripetitivo fino allo stordimento e così esageratamente mellifluo? Anche quella morbosa attenzione per gli articoli di cronaca e quella premura eccessiva che trapela ogni volta che si parla di persone in difficoltà, finiscono per stridere con l’immagine di un uomo così probo e generoso. Quei quadri poi, descritti minuziosamente e mostrati con orgoglio a tutti, sembrano più delle croste che dei capolavori veri e propri. Della sua ricca biblioteca, gli unici libri che consulta sono un volume con la legge sulla cremazione e uno sul Tibet e il Dalai Lama. E ancora, quell’ossessione per il lavoro, per la morte, per le tabelle orarie dei forni crematori, per il corpo dei defunti. Il signor Kopfrkingl mostra ben presto di portare assai male tutte quelle presunte virtù che cerca continuamente di ostentare. E il suo mondo finisce per risultare, nel volgere delle pagine, un microcosmo stucchevole e miserabile, scandito da monologhi autoreferenziali e spesso deliranti e repentini cambi di idee.

E poi, a dire il vero, il signor Kopfrkingl fa paura.

Basterebbe quel nome quasi impronunciabile e ripetuto all’infinito all’interno del libro, per capire subito che il signor Kopfrkingl è il peggior protagonista che un lettore possa mai augurarsi di incontrare. Non c’è empatia possibile con lui. Anche il lettore più benevolo finirà per provare repulsione per quest’uomo dai modi affettati e dalla personalità così ambigua. Perché dietro a un perbenismo dissonante e alle sue piccole e grandi manie, si nasconde in realtà un’anima nera e vacua.

Il Bruciacadaveri è un viaggio all’inferno senza ritorno. Ladislav Fuks accompagna il lettore lungo la parabola discendente di un personaggio tratteggiato con grande maestria, proprio mentre dense nubi si addensano sul cielo di Praga, funesto presagio degli orrori che di lì a poco deflagreranno con l’invasione tedesca del ’38. Non c’è redenzione, non c’è umanità. C’è soltanto la ripetizione ipnotica e ridondante di frasi, incontri e situazioni che conducono a un finale inaspettato e per certi versi atteso. Un classico moderno che Miraggi Edizioni ha riportato alla luce con grande merito; un testo che mai come oggi si rivela attuale e motivo di riflessione in momento molto delicato come quello che stiamo vivendo, in cui si avverte tangibile il rischio di ripetere errori e orrori di un passato non troppo lontano.

Edoardo Ghiglieno

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Bruciacadaveri

IL LAGO di Bianca Bellová – recensione di Chiara Meistro su Exlibris20

IL LAGO di Bianca Bellová – recensione di Chiara Meistro su Exlibris20

NAMI E IL LAGO
Summer lovers #20

Prima di iniziare a leggere Il lago di Bianca Bellová, è utile soffermarsi sulle considerazioni della traduttrice Laura Angeloni, riportate sui risvolti di copertina. Sono parole vibranti, cariche di emozione, capaci di preannunciare gli stessi stati d’animo che vivrà il lettore non appena si addentrerà nelle vicissitudini di Nami, il protagonista del romanzo.

Se Angeloni ricorda i «giorni in cui vai avanti a tradurre fino a notte fonda, perché […] non puoi addormentarti prima di averlo portato in salvo, almeno per ora, almeno per un po’», il lettore si troverà in una situazione del tutto simile. La drammatica progressione di avversità che si abbattono su Nami crea un coinvolgimento emotivo talmente forte da rendere impossibile l’idea di allontanarsene. Non si può far altro che proseguire la lettura, nella speranza che riesca finalmente ad assaporare una felicità piena e inviolabile, o la sicurezza di un legame affettivo duraturo. «Quel bambino, poi adolescente, poi ragazzo, ti viene da prenderlo per mano e non lasciarlo più».

La prima volta che lo si incontra, Nami ha tre anni. È stato portato alla spiaggia del lago che lambisce Boros, il villaggio dove vive insieme ai nonni. Non si tratta di un giorno qualunque: è l’unica volta in cui è presente anche sua madre. Di lei conserva soltanto il nebuloso ricordo dei tre triangoli rossi del bikini, il potere calmante del suo canto e la dolcezza con cui lo ha assistito durante un attacco di vomito conseguente al bagno fatto nel lago.

La tossicità di quelle acque diventa presto evidente. La pelle degli abitanti di Boros viene marchiata con eczemi cronici e cominciano a nascere bambini deformi. I segni di un massiccio inquinamento ambientale permeano l’intera narrazione, con riferimenti puntuali e ricorrenti al disastro dell’Aral; tuttavia, a questi dati di realtà si affianca una dimensione animistica altrettanto pervasiva. Lo Spirito che dimora sul fondo del lago è arrabbiato e sta punendo il villaggio per una colpa che sembra riguardare anche Nami.

Il lago prende la vita di suo nonno durante una tempesta e, in un secondo momento, anche l’esistenza della nonna giunge a termine tra le sue acque. Da questo episodio straziante, in cui si mescolano riti sciamanici e metodi da regime totalitario – si può avvertire l’eco de La fattoria degli animali di George Orwell –, prende avvio il percorso di formazione di Nami, che passa attraverso prove sempre più terribili.

Il presidente del kolchoz si insedia in casa sua, trattandolo alla stregua di un servo. Quando le circostanze peggiorano a tal punto da privarlo di ogni dignità e affetto rimastogli, Nami decide di andarsene da Boros e raggiungere la capitale.

In città, le sue giornate sono scandite dagli insalubri lavori di fatica in cui viene impiegato, mentre nei momenti liberi gira per le strade e i locali pubblici con l’irrealistica speranza di imbattersi in sua madre. Sull’asfalto fresco che deve stendere attorno alla fabbrica di zolfo Nami «disegna di nascosto il suo dolore; le grandi mani della nonna, la curva di un corpo femminile, le galline nel pollaio puzzolente, i tre triangoli».

Non appena lo sfiora un po’ di umanità e tenerezza, arriva una nuova batosta. La Vecchia Vergine inghiotte tutto, lettore incluso. L’impatto della scena è devastante e viene ulteriormente rafforzato dallo stile letterario di Bellová. La sua scrittura scarna, cruda, priva di qualsiasi raffinatezza o eufemismo arriva diretta e lancinante come una coltellata, accordandosi alla perfezione all’andamento narrativo. A questo punto del romanzo, il timore che Nami non sia destinato a trovare pace comincia a profilarsi in modo netto, raggelante.

Quando entra a servizio del losco e facoltoso Johnny, la violenza delle vicende in cui viene coinvolto è talmente estrema da caricarsi di contorni surreali e raggiunge l’apice in quella corsa disperata, zigzagante fino al dorso della collina, dove rotola in cerca di riparo. Bellová, con una maestria letteraria indiscutibile, aveva già mostrato un episodio analogo, quando Nami era ancora a Boros, ma la sua valenza è ora del tutto diversa. Non si tratta più della fuga di un ragazzino impotente e sconfitto dagli eventi; la crescita interiore di Nami è in atto, ormai sta imparando a reagire ai soprusi e a difendersi.

La sua ribellione segna una svolta quasi fiabesca; viene infatti accolto dalla Vecchia dama che, come una fata madrina in piena regola, conosce tutto di lui e lo guida verso una nuova tappa del suo viaggio.

Nello svelamento finale, Bellová riconferma il suo talento: una prefigurazione di quanto sarebbe accaduto era già stata messa davanti agli occhi di Nami, quand’era ancora quel ragazzino di Boros che adesso non esiste più.

La sensazione è che non sia possibile conoscere quale sia davvero la verità. O, forse, una versione non esclude l’altra. Al lettore la scelta. Una cosa è certa: lo Spirito del lago è arrabbiato, e a ragione. Tuttavia, qualcosa può essere ancora recuperato e chissà se non spetterà proprio a Nami un intervento risolutivo.

Chiara Meistro

 

 

Miraggi edizioni sta portando avanti un programma editoriale di pubblicazione e ripubblicazione di autori della Repubblica Ceca, grazie all’interesse e alla cura di Alessandro De Vito.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Nami e il lago