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“Ho scoperto di essere morto”: l’intervista a Cuenca di Giovanni Tosco su Tuttosport

“Ho scoperto di essere morto”: l’intervista a Cuenca di Giovanni Tosco su Tuttosport

GIOVANNI TOSCO

Joao Paulo Cuenca è uno dei più importanti scrittori della letteratura brasiliana contemporanea. Il suo ultimo romanzo, “Ho scoperto di essere morto”, pubblicato in Italia da Miraggi, è stato tradotto in otto lingue e ha vinto il prestigioso Premio Machado de Assis. Cuenca, che è anche opinionista su diverse testate e regista cinematografico, è un grande appassionato di calcio e per questo ha accettato di affrontare diverse questioni: da quelle più strettamente legate alla passione per il Flamengo e per l’Argentina a tematiche politiche, sociali ed economiche.

Quando è nata la tua passione per il Flamengo?
«Credo che il calcio sia un tipo di malattia che ereditiamo dai nostri padri. Il mio, un argentino, è tifoso del Flamengo perché è una sorta di Boca Juniors brasiliano, è una squadra del popolo, e di conseguenza lo sono diventato anch’io. Poi sono cresciuto vedendo Zico vincere tutto. Insomma, non era difficile tifare Flamengo».

Ecco, tuo padre è argentino e tu sei nato a Rio de Jaineiro. Ti senti un’anima divisa in due o non hai dubbi su quale nazionale scegliere tra Argentina e Brasile?
«In campionato tifo Flamengo, ma quando ci sono il Mondiale o la Copa America non ho esitazioni su chi tifare: Argentina».

Qual è il tuo primo ricordo legato al calcio?
«Questo può spiegare la mia precedente risposta. Nel primo ricordo forte legato al calcio c’è mio padre che urla e piange di fronte a un vecchio televisore con il tubo catodico dopo che Maradona ha segnato il secondo gol nella partita contro Inghilterra durante il Mondiale del 1986. Quale altro tipo di spettacolo potrebbe avere un tale effetto su un uomo adulto?».

L’eterna questione: Maradona o Pelé?
«Non ho esitazioni: Maradona!».

Detta da un brasiliano, per quanto di padre argentino, è un’affermazione clamorosa.
«Ne sono convinto. E resto convinto, anche se, proprio in Italia, mi hanno soprannominato il Pelé della letteratura». (Ride).

Quando Socrates arrivò in Italia, gli fu chiesto se preferiva Rivera o Mazzola. Rispose: Gramsci. Credi che oggi ci possa essere un calciatore con questa cultura e questa capacità di guardare oltre gli aspetti quotidiani del suo lavoro?
«Purtroppo no. Una figura come Socrates sembra molto improbabile al giorno d’oggi. La maggior parte dei calciatori brasiliani sono molto lontani dalla politica o addirittura hanno sostenuto Jair Bolsonaro, candidato di estrema destra e vincitore delle elezioni di due settimane fa. Temo che molti di loro non abbiano mai letto un libro nella loro vita».

Il calcio sta diventando sempre più un business e molti tifosi rimpiangono i valori del passato. È un punto dal quale non riusciremo a tornare indietro?
«Temo di sì. Non può essere un caso che sempre più persone si divertano con i videogames o i giochi di simulazione in cui si trasformano in manager che si occupano di soldi, investimenti e profitti. E spesso la stampa dà a certe questioni lo stesso spazio riservato a ciò che avviene in campo. Ma quello che mi preoccupa di più è la corruzione che il denaro porta. In Brasile, la Federazione è coinvolta in diversi scandali».

Nel tuo libro si sottolinea in maniera molto netta la condizione di una Rio de Janeiro colpita dalle speculazioni legate ai Giochi Olimpici e al Mondiale.
«Il Mondiale organizzato nel 2014 si è trasformato in una opportunità per compiere diverse frodi e per aumentare a dismisura i prezzi dei biglietti. E questo è molto peggio del 7-1 subito dalla Germania o del vedere Neymar piangere come un bambino».

 

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Massimo Calandri su Il Venerdì di Repubblica

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Massimo Calandri su Il Venerdì di Repubblica

Una banale lite tra vicini, di quelle che accadono più o meno a tutti una volta nella vita. Quello che non capita, di solito, è il passo successivo, scoprire dalla polizia di essere morto. O meglio, scoprire l’esistenza di un verbale che notifica il proprio decesso. João Paulo Cuenca, 40 anni, è uno dei più talentuosi scrittori brasiliani contemporanei. Già nel 2012 la rivista inglese Granta lo ha inserito in una ristretta cerchia di autori sudamericani da tenere d’occhio. E la previsione ha trovato conferma nei lavori degli anni seguenti: romanzi, articoli, opere cinematografiche. Ho scoperto di essere morto – pubblicato in otto lingue e in Italia meritevolmente edito da Miraggi (pp. 176, euro 16) con l’avvincente traduzione di Eloisa Del Giudice – è la discesa in un doppio inferno: sociale e personale, un viaggio delirante nelle mille contraddizioni di una Rio de Janeiro che si sta preparando ai Giochi Olimpici tra speculazioni edilizie, polizie più o meno segrete, feste, droghe, alcol, situazioni comiche al limite del grottesco, individui scellerati.

Lo spunto di partenza è autobiografico (nel libro c’è anche il famigerato certificato di morte), ma si trasforma rapidamente in un pamphlet urbano denso di misteri e colpi di scena. L’inventiva anarcoide di Cuenca mantiene alta fino all’ultima pagina la tensione, addirittura amplificata dalla sorprendente postfazione attribuita a una studentessa che nelle pagine precedenti compare con osservazioni critiche nei confronti dello stesso scrittore. Che con questo romanzo si è aggiudicato il premio Machado de Assis, il più importante riconoscimento letterario brasiliano.

Massimo Calandri

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di un grande libraio!

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di un grande libraio!

Oggi, dopo qualche settimana dall’incontro di João Paulo Cuenca alla libreria Milton, il libraio che noi della Miraggi riteniamo essere uno dei migliori librai italiani e risponde al nome di Carlo Borgogno, ci manda queste quattro righe che ha scritto perché sono ancora caldi il sentimento e l’emozione della lettura di questo libro! Qualcuno di voi potrebbe interrogarsi su quale sia il metro di giudizio per decretare un libraio un grande libraio, giusto? Credo che la risposta possa essere composta da una serie di aspetti inequivocabili, uno dei quali la passione per la lettura, lui che è prima di tutto vorace e attento lettore e quindi libraio fidato. Entrare da Milton ad Alba si rimane letteralmente affascinati dalla libreria che rispecchia bene lo spirito del libraio stesso. Chi ha letto questo piccolo capolavoro Ho scoperto di essere morto riuscirà a trovarvi qualche comune impressione con Carlo e per chi non l’avesse letto, sicuramente la curiosità di leggerlo. In fondo facciamo e vendiamo libri per cui vale la pena innamorarsi.

Ecco la recensione fantastica di Carlo Borgogno:

Ho letto e riletto il libro di Cuenca negli ultimi giorni poichè dovendolo presentare nella mia libreria ed avendone subodorato l’importanza e lo spessore letterario non volevo farmi cogliere impreparato.
È perciò un libro che consiglio di leggere e rileggere: piacevole, fluido, interessante, divertente e provocatorio ad una prima lettura, si schiude come un fiore prezioso ad un secondo ed approfondito passaggio grazie al quale si incominciano ad avvertire le solide e meditate architetture della narrazione.
Notti insonni hanno accompagnato la rilettura di alcuni passaggi attraverso i quali sono entrato in empatia con la sofferenza e lo sforzo che l’autore deve aver fatto per raccontare l’abiura da se stesso e la riconciliazione avvenuta attraverso un contrappasso di feroce autolesionismo voluttuoso.
Il libro è pieno di carne, sangue e cemento. Una Rio De Janeiro oltraggiata e deturpata fa da sottofondo alle vicende umane del protagonista che come la città stessa si ritrova a pezzi. Entrambi alla ricerca della propria identità sepolta.
Non credo di essermi spiegato. Cuenca lascia ad ognuno sensazioni troppo personali per essere condivise. È un libro da leggere. Assolutamente. È inutile star qui a far tante parole!
carlo
Libreria Milton
Via Pertinace 9/c
12051 Alba (Cn)
+39 0173 293444
“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Massimo Calandri su Il Venerdì di Repubblica

Sesso, droga e samba: sino alla fine. “Ho scoperto di essere morto” secondo Angelo Di Liberto su Repubblica Palermo

Angelo Di Liberto

Gentili lettori, sembra che non ci si salvi dalla ferocia. Viene esibita con soddisfazione attraverso i media, ostentata come unica soluzione possibile ai mali della società. Sembra che si cerchi sempre la tragedia e si finisca per scadere nella farsa.
Nugoli di persone fagocitate dall’ultimo proclama razzista, massacrate dal colonialismo del pensiero spicciolo, consumate dalla schiavitù dell’analfabetismo funzionale quest’ultimo ormai endemico dalle nostre parti.
Irretito in una sorte di balbuzie esistenziale, il cittadino consumatore è sempre in ritardo su qualcosa senza saperla individuare. Sbriciola dignità grattandola da uno spot elettorale o pubblicitario; si adatta all’arbitrio e impone la gogna; schiamazza per strada, strepita negli uffici, pontifica in rete.
La cagnara è la cifra scelta per schifare il sistema che ha concorso a formare. Non importa se una pagina social sia un cortile condominiale su vasta scala, l’ominide urbano ha un imperativo insopprimibile: dimostrare di essere il migliore, sputando sull’ordine costituito e sui simili.
Se queste sono solo le premesse di una desistenza collettiva, è altrettanto vero che i governanti ne siano il risvolto obbligato.
L’unica ancora di salvezza è la giustizia, o la fuga, la scomparsa. Non ci si salva dalla catena di montaggio, ci ricorda Carmelo Bene, e forse è vero. Specialmente quando chi dovrebbe giudicare, perché chiamato dalla legge a farlo, manca di statura morale e intellettuale.
Siamo abituati ai fatti di cronaca che denunciano errori, manchevolezze, superficialità. Chi la fa franca e chi viene condannato severamente per reati leggeri. Ma cosa accade quando si è davanti al verbale del proprio decesso?
«Chiamo dal 5° Distretto di polizia. Sono l’ispettore Gomes, abbiamo tirato fuori la sua scheda dopo la denuncia per i disordini al ristorante./ – E?/ – E c’è che qui abbiamo un altro verbale con data 14 luglio 2008, a suo nome./ – Che verbale?/ – Lei sa di che cosa si tratta?/ – Non ne ho la minima idea./ – Il verbale che ho qui notifica il suo decesso». A scrivere è João Paulo Cuenca, psichedelico scrittore brasiliano che nel suo “Ho scoperto di essere morto”, tradotto da Eloisa De Giudice e pubblicato da Miraggi edizioni, rimescola gli elementi essenziali del romanzo sino a stabilirne una forma iconica che si caratterizza per tensione verso l’immaginifico, la crisi dell’identità, il mistero, una viscerale convulsione ideativa e una forte dose di spregio e anarchia sessuale.
Il protagonista ha lo stesso nome dell’autore e da subito sbarazza il lettore della sua ingombrante presenza, quasi a voler significare il ruolo esangue della letteratura, detronizzata dall’equazione ostensoria da reality show.
Il personaggio Cuenca è il doppio del suo autore, intrappolato in una Rio de Janeiro che si prepara alle Olimpiadi del 2016, l’uomo discende i gradini del limite, tra le macerie di quello che fu un grande deposito di schiavi tra il Settecento e l’Ottocento e i fasti dei salotti mondani contemporanei, in cui si alternano starlette che cuociono il sushi nella propria vagina, attrici di soap opera, letterati allo sbando preda di sostanze anfetaminiche e una casistica umana consumata dalle scorie di un sistema collassato su se stesso.
Con una lingua che aggancia il lettore uncinandolo sottopelle, costringendolo all’uso di sensi inespresso, J.P. Cuenca crocifigge crismi e velleità, esamina crudelmente i vizi di un microclima brasiliano degradato dal lusso e dalla dissolutezza, non dimenticando di sferzare lo Stato attraverso la sua polizia violenta e fascista.
Il protagonista, in mezzo allo sfacelo fisico e psicologico, cerca di stabilire una verità, la stessa che non è ai riuscito a imporre nei suoi libri. «Che l’Europa illustrata da Cervantes, Shakespeare, Dante e Tolstoj ha schiavizzato generazioni di neri, di indiani, di analfabeti e di dissidenti politici».
La letteratura in sé come atto ininfluente ai fini della vita e che non può colmare le manchevolezze degli uomini sembra apparire la figura dello scrittore fuori scena. Il feticcio di una società consunta nei suoi resti putridi esiste come esibizionismo grottesco traboccante di luoghi comuni.
Ecco che il presente è una ripetizione di se stesso, libero dalle scelte e condannato alla caduta.

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Massimo Calandri su Il Venerdì di Repubblica

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Ombretta Costanzo su ilgruppodipolifemo.com

Ho scoperto di essere morto, scritto dal brasiliano J.P. Cuenca, Miraggi Edizioni, è un testo arrabbiato che traduce, in crescenti allucinazioni, un provocato abbrutimento intellettuale che offusca le più segrete inclinazioni. La voce guida gioca tra l’elenco di vie brasiliane e ricorrenti trip geografici, con un rigurgito verbale che palesa incontinenza e irrequieto intorpidimento.

Le prime pagine narrano una lite ordinaria e improvvisata tra il protagonista scrittore João Paulo, in palese rapporto di omonimia con l’autore, e i vicini; il decollo del testo si sovrappone alla progressiva spirale che intrappola l’angoscia primordiale, sia singolare che collettiva, esemplificata dal momento in cui Cuenca viene a scoprire dalla polizia che esiste un verbale che notifica il suo decesso.

All’epoca di questa morte presunta lui però era in Italia a presentare la traduzione italiana del suo libro “Un giorno Mastroianni”. Inizia il gioco: la pedina salta tra le macerie di Rio De Janeiro mentre riprende con un grandangolo inanimati salotti e scolorite favelas, simboli concreti di un timido orizzonte; a João Paulo Cuenca non resta che cercare di svelare l’immenso mistero che fascia come mummia la sua identità.

Nell’atmosfera rarefatta in cui si muovono i Carioca, il mistero diventa sempre più intrigante e confuso, si susseguono pagine imbastite di idee altrettanto confuse in una trama che coinvolge e a sua volta vuole confonderci. Mi sono confusa pure io.

“tutte le strade, non appena ci posavo sopra il piede, si trasformavano in deviazioni”

Abbaglia il riflesso di un grigio sky line allo sfascio in cui si crea un vortice artistico-letterario simboleggiato dallo scrittore, che ci affida uno stile noir con cui vaghiamo per Rio de Janeiro, in un momento di catarsi che prende in giro l’opinione mondiale in attesa delle Olimpiadi, su un terreno comunque violentato.

La scrittura frammentaria potrebbe essere una confessione disturbata che ci fa compulsivamente entrare ed uscire dal testo e dalla finzione: non possiamo capire se l’episodio della presunta morte sia realmente avvenuto ed è proprio il modo più geniale per spalmare la curiosità tra le pagine in cui ritroviamo Cuenca pure in Italia; sappiamo che consegna all’amico Protz un manoscritto da leggere, manoscritto che poi non ha concluso, molto verosimilmente anche per le critiche dell’amico che lo trovava troppo intriso di invettive politiche.

A mio avviso, guardandomi bene da desueto perbenismo, il romanzo è puntellato di trivialità sessuali che però, riconosco, concorrono a restituirci attentamente l’immagine di un soggetto disubbidiente che osserva insieme a noi da un oblò la propria e altrui alienazione.

“mi sentivo come se fossi di vetro…. il sole di mezzogiorno mi trasformava in un corpo senza ombre. La mia testa si gonfiava come un pesce palla che incamera aria per poi ridursi subito fino a scomparire”

Si costruisce via via un palco dell’assurdo in cui recitano un uomo, la proiezione di sé con immediata negazione e fittizio ritrovamento; si crea un procedimento triadico che ricalca la sequenza hegeliana sciolta tra tesi, antitesi e sintesi per spiegare il momento intellettuale soggiogato dal momento negativo che sfocia nella più contorta speculazione.

Il romanzo è stimolante, folle, esagerato, macabro, forse realista? E’ un processo morale, contro se stesso e la sua città, tramite cui il lettore resta confinato in un’area deserta e labirintica senza spazio e senza tempo.

“Il presente non era più un punto di transizione del passato verso il futuro, e tanto meno uno spazio di ricreazione di questo passato e di questo futuro: era una ripetizione infinita di se stesso senza il minimo scopo”

Il manoscritto si interrompe a pagina 165 durante l’alba che proietta ombre.
“quella morte era tutta mia”

Ombretta Costanzo

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Massimo Calandri su Il Venerdì di Repubblica

Il Brasile ha trovato il nuovo Pelè, si chiama Cuenca e scrive romanzi: la recensione di Darwin Pastorin su huffingtonpost.it

Avete presente i palleggi volanti di Pelé? Uno, due, tre, gli avversari saltati con il pallone fatto passare sopra la loro testa. Oppure quei gol scheggianti e impossibili della Perla Nera? Palla di qua, portiere di là. L’ex superbo campione non ha mai trovato, in Brasile un erede, nel mondo sì, uno solo, il Borges della pelota, ovvero Diego Armando Maradona. Bene. Ora sappiamo chi è il Pelé della letteratura brasiliana, il fantasista, il romanziere capace del possibile e dell’impossibile, di farci stare la notte svegli, tra risate e ripensamenti, stupore e orrore. Si chiama João Paulo Cuenca, carioca, classe 1978, scrittore, sceneggiatore e regista, nel 2012 la rivista americana “Granta” lo ha inserito tra i venti migliori giovani scrittori brasiliani contemporanei. Per me è il numero uno, in assoluto. Un fenomeno. Non mi credete? Allora, andate in libreria (subito) e prendere di Cuenca “Ho scoperto di essere morto“, nella avvincente traduzione di Eloisa Del Giudice, Miraggi edizioni (una casa editrice che non smette di sorprenderci).

Cuenca racconta di Cuenca che, dopo un alterco con dei vicini e una denuncia, scopre, dalla polizia, di essere morto, con tanto di verbale e autopsia. Ovviamente si tratta di un errore, ma qui comincia, in questo diario delirante, in queste pagine che non risparmiano niente e nessuno, il viaggio in un inferno sociale e “intimo” dello scrittore. Siamo in un gioco letterario strepitoso, dove tu, lettore, entri in quel decisamente strampalato labirinto e non vuoi uscirne più, ma per davvero.

I personaggi di “Ho scoperto di essere morto” appartengono, nella maggior parte dei casi, alle categorie sociali più elevate, in una Rio de Janeiro che si sta preparando, tra costruzioni e contraddizioni, alle Olimpiadi. Tra feste, droga, sbronze, situazioni comiche o grottesche, individui scellerati, Cuenca descrive quel mondo fatto di apparenze, e in buona sostanza, di soli vuoti a rendere:

“Chiudevano il cerchio tipi come un fotografo brizzolato, un francese abbronzato, un percussionista di samba panciuto, un poeta d’appartamento, un professore universitario con la forfora sulle spalle, il nipote simpatico di un senatore mafioso, un graffitaro concettuale, un saggista di provincia, un direttorino con il berretto, un dipendente della televisione, un editorialista di giornale – il solito circo di cretini periferici uniti dalla stessa autostima delirante e inversamente proporzionale ai loro successi (…) In questa Rio di Stocazzo, borsa di capitale sociale dove tutti erano figli, figliocci o pupilli di qualcuno, il mio sbrilluccichio da scrittore pubblicato era visto con curiosità e una certa condiscendenza. Sapevano che non avevo vincoli ufficiali o nobiliari. E tantomeno un soldo in tasca.”

Il finale è sorprendente, scoppiettante, assurdo, grottesco, incredibile. Cuenca, che ha già pubblicato un romanzo in Italia, con Cavallo di Ferro, nel 2008 “Una giornata Mastroianni”, lancia una stilettata potente sulla letteratura:

“Alla fine di queste conferenze dovevo resistere all’idea di interrompere i timidi applausi e confessare che i romanzi sono tossici e ambigui -e che il progresso dell’umanità deve loro poco. Che l’Europa illustrata da Cervantes, Shakespeare, Dante e Tolstoj ha schiavizzato generazioni di neri, indiani, di analfabeti e di dissidenti politici. Che Hitler, fanatico tra le altre cose di Don Chisciotte e Robinson Crusoe, leggeva un libro a sera e aveva una biblioteca personale di decine di migliaia di volumi, superata tuttavia da quello di un altro lettore compulsivo, Joseph Stalin. Che i libri sono solo degli integratori alimentari contenenti una certa dose di empatia e di intelligenza. Che la letteratura non è un catalizzatore morale, non offre redenzione e non ha alcun senso etico di per sé. E che deve rifiutare fermamente ogni responsabilità nella formazione di lettori se spera di avere una qualunque rilevanza al di fuori del circo equestre costruito con i soldi dello stato per alimentare l’illusione simultanea che 1) ha o deve avere qualche centralità culturale, 2) dev’essere salvata come una panda o una farfalla in via d’estinzione, e 3. non è una forma d’arte elitaria per natura. E per finire, dire che la letteratura muore un poco ogni volta che qualcuno alza la voce per difenderla su uno di questi palchi costruiti perché si creda ancora nella sua esistenza. Lasciarla morire mi sembrava un’ottima idea per salvarla da se stessa.”

João Paulo Cuenca è un autentico fuoriclasse. Un Pelé della scrittura. E ci chiediamo, con innaturale ansia: quando uscirà il prossimo romanzo?

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Massimo Calandri su Il Venerdì di Repubblica

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Gianluigi Bodi su senzaudio.it

Ho alzato gli occhi ed ero già a pagina cinquanta. Mi sembrava di aver appena iniziato, il treno era già in stazione ed ero l’unico idiota ancora seduto al suo posto. Questo per chiarire subito se il libro mi è piaciuto o no.
Il libro di João Paulo Cuenca dal titolo “Ho scoperto di essere morto” parla di un tale João Paulo Cuenca che all’improvviso riceve una telefonata dalle forze dell’ordine. Gli comunicano che a seguito di una denuncia appena depositata per questioni futili risulta che lui è morto già da qualche anno. João Paulo è uno scrittore. All’epoca di questa morte presunta lui era in Italia a presentare la traduzione italiana del suo libro “Un giorno Mastroianni” edito da Cavallo di Ferro. Il commissario non gli sa spiegare come mai qualcuno abbia usato il suo nome per morire. Le cose non sono affatto chiare e a questo punto, a João Paulo Cuenca non resta che cercare di svelare questo mistero. Anche perché dietro a tutto c’è la testimonianza di una donna e come ha detto il commissario, per quel che riguarda questa storia, citando il proprio scrittore preferito: non c’è nulla che una donna non riesca a peggiorare.
La ricerca lo porterà a vagare per Rio de Janeiro in un momento in cui le case vengono abbattute per far posto al nuovo, per mettera la pezza del mondiale di calcio e delle Olimpiadi ad un tessuto malandato.
Il libro è un continuo entrare ed uscire dal testo. Entrare ed uscire dalla finzione. Dobbiamo presupporre che l’episodio della presunta morte non sia mai avvenuto? Oppure è successo davvero? I verbali riportati all’interno del libro farebbero pendere per la seconda ipotesi. Cuenca in Italia, per quel libro, c’è stato davvero. Avrà anche dato all’amico Protz un manoscritto da leggere, manoscritto che poi non ha concluso, immagino, anche per le critiche dell’amico che lo trovava troppo gentrificatore, troppo votato alla politica, una lettera di uno che si vuole suicidare. E poi, il finale, perfettamente in linea con l’idea che Cuenca abbia dei manoscritti non conclusi nel cassetto. Prendiamo a piene mani dal regno dell’autofiction e del pamplet, navighiamo tra le righe di un romanzo mai banale, un caleidoscopio che restitisce molto bene l’immagine dell’autore. Una scrittura che fila via liscia e lascia sulle labbra appena un accenno di sorriso. Un sorriso dato dall’ironia che permea ogni pagina, ma soprattutto dai dialoghi fulminei, da commedia degli equivoci.

Quella di João Paulo Cuenca è di sicuro una bella scoperta. Un buon modo per iniziare le letture dell’anno. Chissà che non ritorni a fare un salto in Italia e che magari, tra qualche anno, la cosa non finisca in uno dei suoi prossimi lavori. Ne avrebbe di cose da scrivere sul nostro paese.

Ottima la traduzione di Eloisa del Giudice e molto bello vedere il suo nome in copertina.

Gianluigi Bodi

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Massimo Calandri su Il Venerdì di Repubblica

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Anna Vallerugo su gliamantideilibri.it

[…] una telefonata mi svegliò alle undici di mattina. Era l’ultimo sabato di aprile del 2011.
– Pronto.
– Chi parla?
– Con chi vuole parlare?
– Lei è il signor João Paulo?
– Sì.
– João Paulo Vieira Machado de Cue… – ha un attimo di esitazione.
– Cuenca.
– Esatto. Figlio di Maria Teresa Vieira Machado e Juan José Cuenca?
– Chi parla?
– Chiamo dal 5° Distretto di Polizia. Sono l’ispettore Go­mes, abbiamo tirato fuori la sua scheda dopo la denuncia per i disordini al ristorante.
– E?
– E c’è che qui abbiamo un altro verbale, con data 14 luglio 2008, a suo nome.
– Che verbale?
– Lei sa di cosa si tratta? Sì.
– Non ne ho la minima idea.
– Il verbale che ho qui notifica il suo decesso.
– Come?
– La sua dipartita. Qui c’è scritto che lei è morto.
– Io non sono morto.
[…]– Sarebbe bene che lei venisse in commissariato a chiarire questa faccenda.

A un uomo viene comunicata la notizia della propria scomparsa. Di più: questa sua dipartita è cosa ormai datata e possiede tutta la veridicità dell’atto certificato.

Il fatto, anomalo in sé, richiede una spiegazione che sia plausibile e convincente: anche perché chi scompare, oltre a essere il protagonista del romanzo, porta anche il nome del suo autore: José Paolo Cuenca.

Prende l’abbrivio così, da un evento surreale, uno dei più interessanti libri in circolazione degli ultimi tempi, Ho scoperto di essere morto. Già tradotto in otto lingue, portato in Italia da una delle tante scelte felici della lungimirante Miraggi edizioni, questa del giovane romanziere brasiliano è opera di difficile incasellamento: la finta morte, espediente letterario non nuovo ma piegato da Cuenca in modo spiazzante, non porta di fatto all’esito più scontato, la scelta del thriller o del noir, nonostante l’ambientazione sia compresa nel magma di atmosfere dense di una Rio de Janeiro in fermento e preparazione alle Olimpiadi del 2016 – vorace, sensuale, vivissima di voci e corpi giovani in perenne movimento – che ben si presterebbe alle vicende poliziesche e ne occupa invece giusto le prime pagine.

Cuenca decide piuttosto di inserirvi gli elementi del magico sudamericano, mescolandoli poi con la cronaca sociale di un periodo storico ancora gravato da decenni di dittature militari, ma soprattutto con la spiazzante, impietosa, lucidissima e spietata dissezione del milieu frequentato da un Giovane – ma non imberbe, un giovane prossimo ai quaranta – Scrittore, dal destino (quello del personaggio e di chi ne scrive) segnato fin dalla nascita

Era l’ennesimo fine settimana di sole e gli adattatissimi cittadini di Rio de Janeiro camminava­no, correvano, andavano in bicicletta sul lastricato, giocavano a calcio e alle sue varianti su sabbia – altinho, futevôlei, bobinho, gol a gol. Gli uomini bevevano acqua di cocco nei chioschi sulla spiaggia di Ipanema, si allenavano sulle attrezzature di metallo, abbronzavano i loro corpi prosperi sul lungomare.

Le donne li ignoravano sfoggiando la loro forma smagliante compressa in vestiti due taglie più piccoli, passi rapidi e sguar­do rivolto verso il nulla.

Era su quel palcoscenico sfavillante che quattro decenni prima si erano conosciuti i miei genitori. Un uomo da poco arrivato da Buenos Aires – era venuto all’inizio degli anni Settanta alla ricerca di un’esistenza abbronzata e sabbatica – e una ragazza di famiglia nobile ma spiantata che lavorava in un’agenzia immobiliare. Frequentavano la stessa porzione di spiaggia. Due anni dopo la loro collisione sono nato io, e purtroppo il lato luminoso della giovane coppia si è perso nei meandri della genetica. Se mio padre era speranzoso e atleti­co e mia madre generosa e amorevole, di tutto questo non è rimasto nulla: da lui ho ereditato la propensione alle attività antieconomiche e la spacconeria. Da lei il genio irritabile e angosciato.

Un debutto in vita privilegiato, da cui eredita, ammette ironicamente, una “vocazione alla tristezza” quanto mai opportuna in chi voglia perseguire la via delle Belle Lettere.

La comunicazione della sua scomparsa gli impone di intraprendere un viaggio in cerca di chiarezza: è solo attraverso la sua” morte” che potrà (ri)costruire la propria identità come uomo e come scrittore. Inizia quindi un suo pellegrinaggio che lo porterà attraverso corridoi di archivi metallici” polverosi antri di enti assortiti di ripetuto squallore, “Tutti quegli archivi, che circondavano tavoli e sedie lasciando poche pareti a vista, contenevano racconti il cui ingrediente comune erano i dissapori tra gli esseri umani della mia città”. Potrebbe essere questa una fucina di altre storie, ma il protagonista non ha tempo, ha l’obbligo di concentrarsi su quella propria, di vicenda. Tanto più cha la ricerca del sé dipartito deve tener presente la vita che va avanti, con gli impegni fittizi del “prima”, ed è qui che lo scrittore brasiliano eccelle in rappresentazione e finezza di dettaglio: agendo come protagonista e guardandosi al contempo da fuori, nel distacco da sé, stila un fitto elenco delle compagnie artistiche o pseudo tali a lui vicine, disseziona un’intera fauna da débauche, trasgressori che non trasgrediscono un bel nulla. Dedica pagine divertenti e dissacranti allo spettacolo di sedicenti scrittori e artisti nullafacenti, copia rifranta di sé stessi nel tentativo abortito di differenziarsi dalla massa – da ogni massa – per una supposta superiorità intellettuale autocertificata. Fanno comunella, riconoscendosi a fiuto tra simili e al contempo vogliono disperatamente elevarsene con convinzione:

Non insistetti riguardo al testo. Avevo l’abitudine di pro­teggermi da questo tipo di incertezza grazie alla formula ma­gica: questi poveracci non capiscono un cazzo.

[…] Erano designer, produt­trici, stiliste e galleriste e avevano un irresistibile attaccamento alle apparenze, oltreché soprannomi monosillabici come Bi e Lu. Davano inizio ai loro incontri complimentandosi caloro­samente a vicenda per poi mettere subito silenziosamente a confronto i loro accompagnatori – gli uomini saltavano i com­menti limitandosi a controllare scollature e culi altrui in modo sempre meno discreto.

Numerose delle ormai sviluppate femmine che circolavano in questi giri della Zona Sud di Rio de Janeiro avrebbero vis­suto con i genitori finché un uomo non le avesse tirate via da casa. Il proposito seminascosto che qualcuno le emancipasse dava loro tratti caratteriali delle donne del secolo scorso, cosa che cercavano di nascondere sotto un femminismo da social e dosi cavalline di moda e sculettamenti sulle note di anonima deep house.

Chiudevano il cerchio tipi come un fotografo brizzolato, un francese abbronzato, un percussionista di samba panciuto, un poeta d’appartamento, un professore universitario con la forfora sulle spalle, il nipote simpatico di un senatore mafioso, un graffitaro concettuale, un saggista di provincia, un diret­torino col berretto, un dipendente della televisione, un edi­torialista di giornale – il solito circo di cretini periferici uniti dalla stessa autostima delirante e inversamente proporzionale ai loro successi.

Formavamo un’intellighenzia barbuta e vagamente artisti­ca. Eravamo tutti molto coinvolti nella cosa artistica, benché nessuno lì fosse in grado di riconoscere cos’era l’arte. Lo scar­so talento presente in quella sala sarebbe stato da lì a poco interamente corrotto dalla città – in migliaia sbarcavano ogni anno nella capitale balneare per finire con le speranze maci­nate e l’anima smerciata a un canale tv o a una casa di produ­zione audiovisiva di quest’ascendente e provinciale Hollywo­od che si credeva il centro di qualcosa.

In questa Rio di Stocazzo, borsa di capitale sociale dove tutti erano figli, figliocci o pupilli di qualcuno, il mio sbril­luccichio da scrittore pubblicato era visto con curiosità e una certa condiscendenza.

La voce narrante passa dunque tra l’ “erano” e il “formavamo”, tra l’essere compresi in una cerchia e l’uscirsene sdegnati alla bisogna, tra l’essere autore del romanzo e protagonista stesso in un gioco raffinato, allucinato, talora allucinante.

Conscio di una sottaciuta incapacità di emergere, lo scrittore si stordisce tuffandosi in serate dal finale prevedibile fin dall’inizio, con coppie belle e prospere a immergersi in un programmato, uguale fino alla noia turbinio di eccessi, non prima di essersi passati una mano di giustificativo decoro (Era giunta l’ora di essere engagé, scrive in apertura di capitolo).

Autore e protagonista viaggiano, si cercano, ricordano i tanti scrittori sudamericani scomparsi in giovane età “Álvar­es de Azevedo, 20 anni; Castro Alves, 24; Augusto dos Anjos, 30; Manuel Antônio de Almeida, 30; Antônio de Alcântara Machado, 33; João do Rio, 39; Lima Barreto, 41; Euclides da Cunha, 43. In questo contesto, quelli che erano arrivati a 56 anni come Clarice Lispector, Lúcio Cardoso e José Lins do Rego erano davvero vecchi”, augurando a sé stesso simile precoce fama: la verità è che quella del personaggio è di fatto una vita vuota, “un’esistenza olografica”, stretta tra pochissima stesura di pagine e grandi promesse, invece, di scrittura, con una propensione al presenzialismo e alle del tutto dimenticabili conferenze che gli procurano più denaro, fama e sesso facile della pubblicazione – sempre rimandata – di un suo libro.

Cuenca irride, porta sotto la lente riti, vezzi e parti buie di un proprio supposto fallimento, pone in essere il dubbio sul mezzo e utilità della scrittura, Attraverso la morte di sé come personaggio, si ricostruisce con ironia in una trama a caselle che si appaiano, si sommano e non sciolgono enigmi, li moltiplicano, anzi, ricordando a tratti il meraviglioso Rayuela, Il gioco del mondo di Cortázar.

La sua è una scrittura funambolica, ricca ma non ridondante, in cui lo sviluppo della trama – pur atteso e costruito con ragionevole tensione in questo romanzo-gioco metaletterario con accenni di Carrère – passa in secondo piano, sorpassato agevolmente dalla godibilità della sua scrittura, pagine tradotte con grande cura per l’edizione italiana da Eloisa Del Giudice.

Anna Vallerugo

“Ho scoperto di essere morto”: l’intervista a Cuenca di Giovanni Tosco su Tuttosport

Cuenca vince il premio della Fondazione Biblioteca Nazionale brasiliana. “Ho scoperto di essere morto” dal 2018 con Miraggi

Prestigioso riconoscimento per João Paulo Cuenca. Allo scrittore brasiliano è stato assegnato il premio della Fondazione Biblioteca Nazionale, che – dal 1994 – va ad autori, traduttori e progettisti grafici che hanno dato lustro alla produzione intellettuale ed estetica del grande paese sudamericano. L’annuncio è stato dato lunedì 27 novembre a Rio de Janeiro, Cuenca si è imposto con “Descobri que Estava Morto” nella sezione romanzi, intitolata allo scrittore e poeta Joaquim Maria Machado de Assis.

Miraggi ha acquisito i diritti dell’opera per l’Italia, che sarà presentata in anteprima a Roma in occasione di “Più libri più liberi”, la fiera dedicata all’editoria indipendente e ospitata dalla Nuvola di Fuksas, all’Eur, dal 6 al 10 dicembre. Con il titolo “Ho scoperto di essere morto”, tradotto da Eloisa Del Giudice, il romanzo di Cuenca sarà in vendita da gennaio 2018.