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I perdenti – recensione di Alessandro Eric Russo su Mangialibri

I perdenti – recensione di Alessandro Eric Russo su Mangialibri

Louis Berenstein è contento che la stanza che ha preso in affitto nel Lower East Side sia buia: almeno questo è quello che ha detto al suo padrone di casa, Zed Palver, quando si sono visti per la consegna delle chiavi. A Zed ha detto anche che sta vagando in cerca una sistemazione fissa per via della crisi del Ventinove, ma a Zed non importa molto, a lui importa solo di piazzare le sue proprietà. Una volta rimasto solo, Louis è libero di guardare la sua stanza in tutta la sua umidità, come di un seminterrato all’ottavo piano, piena di mosche, con l’unico lascito del precedente inquilino che consiste in una scatola di biscotti, quegli stantii Girl Scout Cookies che qualche mese prima erano stati rifilati pure a lui a Philadelphia. Eppure non gli basta quella prima occhiata per far caso all’enorme neon a forma di fenicottero che dal palazzo di fronte manda una luce rosa. Louis dorme, beve, si dimentica di mangiare e conosce Theodore, la trapezista col nome da uomo che sta nell’appartamento a fianco al suo, insieme bevono e si addormentano. Poi c’è Bertha, che aspetta l’ascensore sul pianerottolo per andare a fare la cameriera all’ultimo piano del palazzo di fronte, quello col fenicottero rosa, anche detto Il Paradiso. Louis ci andrà a trovare Bertha a lavoro, ma certo non sarà facile salire all’ultimo piano perché pure lì non mancano le anime in pena che interrompono la salita, e non ne mancano neppure di labirinti e guardiani balordi sulle porte e sugli ascensori, messi lì per ostacolare l’ascesa di Louis, non un uomo probo, forse nemmeno un peccatore, ma certamente un disperso…

“Uno dei più grandi scrittori sconosciuti d’America”, così Hedda Hopper definì Aaron Klopstein in un articolo che Miraggi Edizioni propone come prefazione all’edizione italiana de I perdenti. Sempre leggendo quello che la Hopper scrisse di Klopstein si viene a sapere che fu amico di Hemingway e Fitzgerald, e che con loro passava le nottate nel Lower East Side, a volte raccontando a voce le sue storie, come un bardo che avesse ricevuto il dono della poesia. Poi ci fu il litigio con Hemingway e il rifiuto in blocco degli editori, i tentativi di diventare attore e i racconti sotto pseudonimo scritti per le riviste pulp, che per molto tempo furono l’unica fonte di reddito di Klopstein. E in effetti a leggere questo romanzo, specialmente nelle prime pagine, con le metafore che immettono qualcosa di disgustoso e squallido nella realtà, si ha la sensazione di leggere un romanzo hard-boiled in cui però manca il detective, la vittima, il ricattatore. Nei dialoghi sempre tesissimi c’è un conflitto onnipresente, che non è solo quello tra i personaggi, ma anche quello interiore in cui emerge la sofferenza esistenziale del disperso. Viene quasi da chiedersi come sarebbe la letteratura americana di oggi se al fianco di nomi influenti come quelli di Hemingway e Faulkner, si potesse aggiungere quello di Klopstein, che non poté mai godere della fama che meritava nonostante l’incredibile forza narrativa. Infatti, leggere I perdenti è come fare più esperienze in una: c’è il piacere di abbandonarsi al racconto perfetto; la voglia di scendere in profondità nel testo che solo i grandi classici sanno suscitare; e poi c’è quella sensazione di stare leggendo qualcosa di unico, un romanzo che mentre propone una storia indica anche un nuovo modo di fare letteratura.

QUI l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/i-perdenti

I perdenti – recensione di Anna Cavestri su LoScrivodaMe

I perdenti – recensione di Anna Cavestri su LoScrivodaMe

Nella vita spesso le cose non succedono a caso.
Louis, il protagonista del romanzo, per dare una svolta alla sua vita sofferente si trasferisce a New York nel quartiere di Lower East Side.
Prende in affitto un appuntamento in un condominio, di proprietà del “ boss “ del quartiere, tipo losco.
Louis è un’anima solitaria e in pena, affonda nell’alcol la sua fatica di vivere, motivo per cui è stato lasciato dal suo grande amore.
Man mano che conosce alcuni condomini: la trapezista, che si presenta alla sua porta per conoscerlo, la donna ferma all’ascensore, il pittore. Tutte persone con le quali con grande fatica proverà a fare conoscenza, perché tutti hanno voglia di parlare. Si rende conto che quello è un condominio di anime solitarie, come lui, per i motivi più diversi.

Il palazzo di fronte al suo, chiamato Paradiso, dello stesso proprietario del condominio, è una sorta di centro di divertimento le cui luci riflettono nella sua stanza.
Lì c’è sempre caos ed è pieno di gente, ci lavora come cameriera la signora dell’ascensore.
Louis pur volendo evitarlo ci finisce, si perde in quel labirinto di piani ed anche in questo posto dove tutto brilla, riesce ad incontrare altre anime solitarie e perse, che lavorano alla mercé del boss.

Li attrae tutti Louis pur non volendolo.
E sono incontri di bevute, grandi bevute, durante le quali racconta le storie più incredibili, di cui non ricorderà più nulla.
Sì intratterrà con le due coinquiline per poi pentirsene subito e scappare, non vuole legami, si farà coinvolgere dalle storie dei solitari che incontra ma mai fino in fondo.
Sembra che ognuno che incontri sia lo specchio di se stesso, quello da cui fugge.
Sono i fumi dell’alcol a portarlo via e a farsi cacciare via.

E quando è sobrio fatica a capire se quello che è successo è realtà o sono gli scherzi della mente.
Fino a fargli dire “questo palazzo e quello di fronte, sono un’impalcatura, una finzione, qualcosa di costruito da un romanziere in crisi di identità.”
È con i suoi fantasmi che Louis deve fare i conti , farci pace.

Aaron Klopstein, nato all’inizio del 1900, l’autore del romanzo, potrebbe essere Louis.
È stato uno scrittore di grande talento, pur non avendo mai raggiunto la fama.
Amico di R Chandler, Hemingway, John Houston , Hedda Hopper.
Ed è grazie al ritrovamento del profilo di Klopstein, dell’amica H. Hopper che si hanno notizie più dettagliate dello scrittore.
L’introduzione del libro è proprio quello che ha scritto l’amica che gli rende trasparenza e giustizia, quella che non ha avuto durante la sua vita.

È interessante leggere di questo scrittore che prima di scrivere recitava i suoi romanzi, tanto che litigò con Hemingway perché scrisse un racconto che aveva sentito recitato da lui e fatto suo.
E come Louis, protagonista del I perdenti, Aaron era un grande bevitore, spesso in profanda prostrazione.
Geniale, molto, ma tormentato. Tanto da non riuscire mai a raggiungere la notorietà che gli spettava. Scriveva racconti per mantenersi usando pseudonimi.
I suoi romanzi furono scoperti dal suo amico e grande ammiratore R.Chandler, usciti in poche copie.
Fu completamente dimenticato nel dopoguerra ed i suoi libri diventati cimeli per collezionisti.
Una bella scoperta questo libro pubblicato da Miraggi, è un romanzo molto profondo, molto interessante, dove davvero la fantasia del raccontare scrivendo è di una ricchezza particolare.

È una bella lettura, scorrevole, tra personaggi in cui è facile entrare in empatia, i perdenti, ma i più profondi.

QUI l’articolo originale:

La lettrice Ambasciatrice Lara Martini e la sua onirica lettura de I PERDENTI di Aaron Klopstein

La lettrice Ambasciatrice Lara Martini e la sua onirica lettura de I PERDENTI di Aaron Klopstein

Penso da sempre che quel momento più o meno lungo nel quale con garbo si passa dal sonno alla veglia, di prima mattina, dopo una nottata di riposo, quello in cui ti galleggiano in giro per la mente pensieri ed immagini che stanno lì a metà tra sogno e realtà, ecco, quello ho sempre pensato sia l’attimo in cui ciascuno di noi crea, riassembla, elabora il lato più intimo e vero di sé. Lì, proprio in quei brevi istanti, trascorsi in una sorta di terra di mezzo in cui le immagini fugaci dei sogni appena fatti e quelle delle giornate reali, siano esse ricordi o proiezioni di un futuro prossimo, si fondono in una mistura che ha qualcosa di magico, di quella magia di cui è fatto il nostro strato più sottile, quello composto di anima e mente, quello scevro del plumbeo raziocinio che ci tiene pericolosamente legati ai paradigmi della vita contemporanea, proprio lì noi costruiamo ciò che siamo, proprio lì è installata la nostra capacità di creare. Non so fino a che punto un essere umano possa, anche con l’esercizio, rimanere in quella dimensione a lungo proprio perché essa non appartiene alla sfera di ciò che dipende dalla volontà ma a quella degli eventi che semplicemente accadono. Una cosa, però, mi pare innegabile: per dote di nascita o per allenamento Klopstein aveva imparato a rimanerci in quello stato. Aveva imparato a viverci nel continuo. Non so se per semplice merito o demerito dell’alcool, oppure, più probabilmente per una sua peculiare capacità di contattare quella dimensione che per comodità siamo abituati a definire onirica. Io temo, in realtà, la si definisca onirica più per paura di entrare in contatto con se stessi, più per poter evitare di ammettere che in quello spazio ciascuno di noi è ciò che è, con tutte le proprie debolezze, i propri limiti, col proprio passato non necessariamente risolto, coi propri desideri, forse non sempre così riconoscibili, più per prenderne le distanze da tutto ciò che per altro. I Perdenti, a mio parere, si gioca tutto in quella dimensione. E infatti, non a caso, i personaggi del romanzo usano molto la vista, l’udito, l’olfatto ma molto meno il tatto. Louis Berenstein mette in scena figure eccezionali, con caratteri così potentemente descritti da diventare tridimensionali. Essi però si annusano, si guardano, si scrutano, si sfiorano ma non si toccano a meno di non essere fantasmi. Allora si, essi abbracciano, stringono e trasmetto calore. Nelle descrizioni che il narratore disegna c’è spesso fumo, ci sono aloni di luce rosa, verde, azzurro, ci sono voci, musica, corridoi bui ed elefanti dipinti su tela stando ad una finestra di Orchard Street ma la dimensione del tatto scompare quasi del tutto, tranne laddove, mentre un piccolo gruppo di formiche trasporta una enorme briciola di pane in un qualche anfratto e ricompare….senza la bara, le dita di Louis sfiorano e fanno rotolare e poi ruzzolare nella tromba delle scale….la morte.

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Coerentemente con questa caratteristica del romanzo, nella prefazione di Hedda Hopper si legge che Aaron Klopstein fu un assoluto cultore della tradizione orale. Non scriveva, narrava e basta. Componeva nella propria mente anche un romanzo intero per poi, semplicemente raccontarlo. A braccio, perché la scrittura non è che l’ultimo gesto per uno scrittore e non il più importante. Quasi a voler affermare che ciò che si tocca non è infine l’essenza. Essa sta altrove.I Perdenti è disseminato di numerosissime metafore delle questioni che attengono ai dilemmi, agli irrisolti della vita umana: inferno, paradiso, amore, amicizia, solitudine, passato presente, molte di esse incarnate da personaggi letterari, più o meno celati, di indubbia fama. Ancora Hedda Hopper ci svela che Klopstein era un patito di ascensori e dei loro meccanismi di funzionamento, dei loro ingranaggi ed era affascinato dalla loro capacità di portare gli utilizzatori in alto. Una attrazione per metà verso le cose razionali e per metà verso ciò che sta in alto o verso la visione che dall’alto è possibile avere delle cose.”Louis restò per un attimo in strada, quasi che tornare nel proprio appartamento lo spaventasse ancora di più che rimanere al Paradiso”.Una provocazione: e se Thodd Phillips con il suo Joker fosse stato influenzato da Aaron Klopstein? Buona lettura.

La Libreria Milton è la sua libreria preferita!