Magdalena Blažević / Gli scomparsi

Magdalena Blažević / Gli scomparsi

di Riccardo Cenci

“Preparatevi, il tempo sta per scadere. Il silenzio e la lentezza dureranno ancora per poco”. L’eclissi del periodo estivo coincide con l’esordio dell’orrore, mentre “il cielo si dissolve nelle prime scintille e nell’odore della polvere da sparo”. In tarda estate è il potente esordio romanzesco di Magdalena Blažević, critica letteraria che già nel panorama narrativo si era imposta con alcuni racconti di rilievo. Le sue pagine si animano di impressioni sensoriali e atmosferiche. La memoria tiene insieme la fragile trama narrativa. I ricordi balenano intensi, come dettagli illuminati per un istante dal sole attraverso le foglie e poi di nuovo celati. Giochi di fanciulli dalla durata effimera, bambole rinchiuse in una scatola per non vedere più la luce.

La quotidianità della vita di campagna prefigura la violenza della guerra. L’odore del sangue e del fango impregna l’aria mentre le galline vengono macellate. Suini nati morti vengono gettati in una fossa, mentre sciami di corvi e di mosconi infestano l’aria. Il fratello di Ivana, la protagonista, porta a spalla un fucile ad aria compressa che anticipa quelli reali e ben più perigliosi che a breve sconvolgeranno quelle terre. Gazze mettono in scena “uno spettacolo nero”, mentre “l’aria rimbomba e il bosco si oscura”. Come nelle fiabe, la foresta è buia e minacciosa, albergo di inconsci timori. La paura percorre gli animi come un vento furioso. Nella casa giace abbandonata una fisarmonica, che nessuno è in grado di suonare. Paesaggi impregnati di gelo e di morte, nei quali il più lieve rumore echeggia furente. Le finestre delle case in rovina appaiono come orribili occhi cavati.

Blažević, come Virginia Woolf in time passes, riesce a rendere il trascorrere del tempo, le piazze un tempo vive e ora deserte, i tetti piagati dalla pioggia e dalla neve, sotto i quali non vi è più riparo, le stanze vuote percorse da topi e da insetti, le mura aggredite da muschi e umidità. Il libro è dedicato agli abitanti del villaggio croato di Kiseljak, massacrati il 16 agosto del 1993 dalle forze bosniache. Un episodio poco noto dalle nostre parti, come altri che vengono posti all’attenzione solo ora, a così grande distanza di tempo, a dimostrazione di come ogni conflitto porti con sé strascichi infiniti e devastazioni morali enormi. “Quando quella casa sarà crollata, con le mura divorate dal vento e dall’umidità, scomparirà anche l’ultima prova che il villaggio un tempo aveva un aspetto completamente diverso. Che sapeva di polline di sambuco e dell’acqua del ruscello”. Gli odori e i sapori di un tempo si estinguono, inevitabilmente. Fotografie sbiadite simboleggiano la necessità di ricordare, prima che l’oblio renda tutto illeggibile. “Come fa il mondo a essere ancora lo stesso?”, si domanda l’autrice. Dopo tanto orrore il normale corso dell’esistenza appare sfigurato, per sempre. Le scarpe da ginnastica di Ivana restano appoggiate al muro; nessuno le indosserà più. Un telefono squilla invano nel vuoto popolato solo dalla morte.

QUI l’articolo originale: https://www.pulplibri.it/magdalena-blazevic-gli-scomparsi/

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Le scrittrici ceche e l’editoria italiana. Con un’intervista a Laura Angeloni e Alessandro De Vito, su »Anderground rivista»

Le scrittrici ceche e l’editoria italiana. Con un’intervista a Laura Angeloni e Alessandro De Vito, su »Anderground rivista»

Nella letteratura ceca del Novecento si possono riscontrare, a partire da inizio secolo, un ingente numero di voci femminili. Nonostante questa presenza massiccia e riconosciuta di intellettuali donne, l’editoria italiana sembra non darvi spazio in traduzione, tranne in riferimento a pochissimi casi. Il primo riguarda Božena Němcová, un simbolo della letteratura ceca ottocentesca, le cui opere tradotte sono ormai oggi introvabili sul mercato editoriale, sia le raccolte di fiabe sia il romanzo Babička (“La nonna”, 1855 – tradotto nel 1925 e nel 1951). L’altro caso è invece quello di Věra Linhartová, consacrata da Einaudi in Interanalisi del fluito prossimo e nuovamente pubblicata all’interno della Collana Praghese E/O con Ritratti carnivori. L’ultimo caso, particolarmente curioso, è invece quello dell’opera provocatoria di Jana Černá, che fa la sua comparsa nel panorama editoriale italiano con In culo oggi no, pubblicato per i Tascabili di E/O, e con Vita di Milena, edito prima da Garzanti e, successivamente, da Forum Edizioni con il titolo Lettere a Milena.

Nonostante questi esempi, moltissime opere non sono mai state tradotte in Italia, sebbene le intellettuali e le scrittrici ceche abbiano giocato un ruolo di primaria importanza, soprattutto nel secondo Novecento. Questo impegno femminile si nota sia all’interno della cosiddetta cultura ufficiale, sia nell’ambito della letteratura samizdat durante gli anni del regime.

Riguardo al tentativo di valorizzare l’impegno e l’importanza delle donne ceche, è bene segnalare il lavoro svolto dal Centro Ceco di Milano a partire dalla fine dello scorso anno con il progetto “Eroine ceche”, una mostra online in cui si tracciano i profili di alcune donne che hanno segnato la storia del Paese, come ad esempio Milada Horaková, Olga Hovlová o Vera Čáslavská. Un’altra iniziativa del Centro Ceco di Milano, che si lega nello specifico all’editoria, è rappresentata dalle interviste fatte ad alcune scrittrici ceche edite in Italia all’interno del progetto “La cultura in quarantena”, recuperabili sul canale YouTube del centro.

Nonostante questo interesse, sono molti i nomi che al lettore italiano restano sconosciuti come ad esempio quello della scrittrice e protofemminista Marie Majerová o autrici come Daniela Fischerová, Alexandra Berková o ancora lo sperimentalismo della poetessa Naděžda Slunská. Tra le intellettuali ceche del Novecento poco conosciute in Italia è importante ricordare anche il nome di Bronislava Volková, poetessa e autrice della monografia A Feminist’s Semiotic Odyssey Through Czech Literature.

L’attenzione nei confronti delle autrici ceche sembra essersi risvegliata negli ultimi anni, grazie soprattutto all’interesse manifestato da alcune case editrici. In particolare, la casa editrice Miraggi Edizioni ha pubblicato diversi romanzi all’interno della collana NováVlna. Nel 2018 sono infatti comparse la traduzione de Il lago (2016) di Bianca Bellová e quella de La corsa indiana (1990), di Tereza Boučková, entrambe a cura di Laura Angeloni. Nel 2020 sono stati editi altri tre titoli. Il primo Con Bata nella giungla dell’autrice Markéta Pilátová, già conosciuta con la traduzione del 2018 di In qualcosa dovremmo pur somigliarci, edita da Atmosphere Libri. Il secondo, Mona, ha ripresentato nuovamente la scrittrice Bianca Bellová ai lettori italiani. A fine anno è stato infine pubblicato La teoria della stranezza, il primo romanzo della scrittrice di Pavla Horáková. Nel febbraio del 2021, la collana ha proseguito con la pubblicazione de I tedeschi di Jakuba Katalpa, romanzo tradotto da Alessandro De Vito.

Keller Editore, che ha sottolineato il suo interesse per il panorama letterario ceco con la traduzione di autori come Jáchym Topol o Josef Pánek, ha pubblicato due romanzi appartenenti alla produzione, invece, femminile. Il primo, edito nel 2012, è I soldi di Hitler di Radka Denemarková, autrice conosciuta al pubblico italiano grazie anche alla pubblicazione di Contributo alla storia della gioia, edito nel 2018 dalla casa editrice Roma Sovera. Il 2017 è stato l’anno de L’eredità delle dee di Kateřina Tučková, testo pluripremiato in terra ceca e che ha riscosso un enorme successo anche in Italia, dove è stato definito come uno dei romanzi cechi più interessanti degli ultimi anni. Questo non ha, però, rappresentato il debutto dell’autrice in Italia, nel 2011 era infatti già stata pubblicata l’opera L’espulsione di Gerta Schnirch per la casa editrice Nikita.

Fondamentale è stata anche la pubblicazione delle opere di Sylvie Richterová, importantissima scrittrice e saggista, di cui sono stati editi due romanzi, ovvero Topografia da parte di E/O nel 1986 e Che ogni cosa trovi il suo posto, pubblicato nel 2018 da Mimesis Edizioni. Nel 2014 è stata pubblicata l’opera Sparire dell’autrice Petra Soukupová per la casa editrice Atmosphere Libri. Infine, il 2020 si è concluso con la pubblicazione del poliziesco La casa al civico 6 della scrittrice Nela Rywiková, presso Edizioni le Assassine.


Per l’occasione si è deciso di intervistare la traduttrice Laura Angeloni e Alessandro De Vito, a sua volta traduttore ed editore presso la casa editrice Miraggi Edizioni, dove cura la collana NováVlna.

Intervista a Laura Angeloni

MM: Innanzitutto, le vorrei chiedere, come introduzione alla nostra breve intervista, il significato che ha per lei l’attività di traduzione e come ha deciso di occuparsi, nello specifico, della traduzione di opere ceche.

LA: Innanzitutto un aneddoto: riordinando le mie vecchie cose, non molto tempo fa, ho ritrovato un quaderno che riporta la data: Agosto 1986. È la mia traduzione, rudimentale e scritta a mano, di un romanzo inglese. Era l’estate dopo il terzo liceo, ero appena tornata da un viaggio studio a Londra con una valigia bella piena di libri in inglese, e a quanto pare avevo deciso di trascorrere il mio tempo libero traducendo. Un vecchio cimelio che mi ha commossa, perché mi ha dato misura di quanto la passione per la traduzione fosse già dentro di me. La risposta è qui: la traduzione per me è una passione che con studio e tenacia sono riuscita a trasformare in lavoro. Mi piace lavorare con le parole. Mi hanno sempre affascinato le lingue, mi hanno sempre affascinato i libri, e sono sempre stata attratta dalla scrittura, la traduzione mi appaga in tutti questi diversi aspetti. Per quanto riguarda il ceco, sono consapevole di quanto ciò possa suonare sentimentale, ma mi sono innamorata di Praga. È nato tutto da lì, ho studiato il ceco, ho cominciato a interessarmi della cultura e della letteratura ceca.

MM: Con la seconda domanda entriamo nello specifico dell’emergere delle voci femminili ceche all’interno dell’editoria italiana. Nel corso del Novecento sono state pochissime le autrici ceche tradotte, si possono davvero contare sulle dita di una mano. Come spiegherebbe lei questo aspetto? E, soprattutto, come spiegherebbe, invece, questo aumento di interesse negli ultimi anni?

LA: Credo che dobbiamo soprattutto guardare all’esplosione e al grande successo che hanno avuto le voci femminili nell’editoria ceca, parte tutto da lì. In Italia sono state tradotte tutte autrici che hanno avuto grande fortuna in patria. E la mia sensazione è che negli ultimi anni si traduca in generale più letteratura ceca, rispetto ad anni fa. Miraggi edizioni ha una collana ceca dedicata, Keller ha un occhio molto attento verso la cultura ceca, e sporadicamente se ne interessano anche altri editori. Nell’ottica in cui si cerca di portare in Italia tutta la letteratura di valore che viene pubblicata in Repubblica Ceca, mi pare normale che proporzionalmente siano aumentate anche le voci femminili tradotte. Guardando nello specifico ciò che ho tradotto io personalmente, autori e autrici più o meno si equivalgono.

MM: Lei ha tradotto diverse autrici e diversi autori, anche molto importanti a livello internazionale come nel caso de La perlina sul fondo di Bohumil Hrabal (Miraggi, 2020) o Una persona sensibile di Jáchym Topol. Naturalmente ogni autrice e ogni autore manifestano la propria cifra stilistica. Se dovesse però rivolgere uno sguardo d’insieme alle due produzioni, potrebbe identificare degli elementi discordanti, sul piano dello stile oppure su quello della sensibilità?

LA: Ci ho provato, a pensare a degli elementi discordanti, ma non ci riesco. Posso trovare degli elementi discordanti, sia sul piano dello stile che su quello della sensibilità, tra singoli autori o autrici, ma non mi pare il caso di generalizzare. Forse le scrittrici donne hanno una naturale predisposizione per i personaggi femminili e viceversa, come del resto è normale che sia. Penso per esempio a Tereza Boučková, che ha scritto dei libri autobiografici in cui per forza di cose prevale una sorta di sensibilità femminile, anche quelli di Kateřina Tučková possono forse dirsi “libri di donne”. Ma poi penso al protagonista de Il Lago, per esempio, che è un ragazzo, e Bianca Bellová lo tratteggia con grande sensibilità e profondità, a mio avviso. Allo stesso modo mi ha sempre colpito, per esempio, il modo in cui Jáchym Topol riesce a descrivere i personaggi femminili, in Lavoro Notturno, e anche nel suo ultimo lavoro Una persona sensibile. Le donne del romanzo Lettera in scrittura cuneiforme di Tomáš Změskal sono di grande spessore. È una questione che si affronta spesso, se esistano una “letteratura maschile” e una “letteratura femminile”, ma a me sembra azzardato parlare di stili e sensibilità distinte dall’appartenenza a uno o all’altro genere.

MM: Un’autrice che ha avuto molta risonanza, non solo in Repubblica Ceca ma anche oltre i confini nazionali, è Bianca Bellová, di cui lei per Miraggi Edizioni ha tradotto Il lago e Mona. Potrebbe descriverci alcune caratteristiche della prosa di Bellová che ha riscontrato a livello di lettura e di traduzione?

LA: Bianca Bellová ha uno stile molto definito, consapevole, di una precisione quasi chirurgica, va dritta per la sua strada e non si perde mai. Poche pennellate e ti fa entrare in un mondo, concreto ed emotivo. La sua scrittura si mette a servizio della storia, Quando la traduco, ho la sensazione di percorrere un sentiero ben segnato, seguo le sue orme con fiducia, mi basta mettermi in ascolto. La mia fortuna con lei è anche che ha una voce che mi è molto familiare, un tono e un ritmo che mi risuona dentro fin da subito. Non faccio fatica a trovare la cifra stilistica.

MM: Tra le altre autrici tradotte, vorrebbe parlarci di una o più scrittrici ceche in particolare che lei apprezza particolarmente o le cui opere manifestano degli aspetti particolarmente interessanti?

LA: Adoro Tereza Boučková per il suo coraggio di parlare di sé e della sua vita senza l’artificio letterario di nascondersi dietro a dei personaggi fittizi, per la sua schiettezza, per quel suo scavarsi a fondo senza paura di mostrarsi o rivelarsi. Per la sua capacità di rinascere e ricrearsi anche nelle situazioni più critiche e difficili. Si dà alla scrittura con tutta se stessa, tanto che le sue grida, così come la sua risata cristallina, sembrano materializzarsi anche tra le sue parole scritte.

Petra Hůlová, almeno nei libri che ho tradotto, è una scrittrice molto eclettica che ha la grande capacità di creare mondi altri, di immedesimarsi in personaggi molto diversi da lei (rimarrà sempre un mistero per me la precisione con cui, a soli venticinque anni, è riuscita a descrivere il rapporto di una donna di sessant’anni col suo corpo). Sa vestire diversi stili a seconda delle storie che racconta, delle voci che interpreta, si immerge, inventa, sperimenta, gioca con le parole, e tradurla è stata una bellissima e divertentissima sfida. Mio grande desiderio è che i suoi libri, ormai introvabili, vengano ripubblicati da una casa editrice che possa dar loro il giusto valore.

Marketa Pilatová porta alla letteratura la sua esperienza multiculturale, l’aver vissuto mondi diversi, i suoi libri sono ponti tra paesi quasi agli antipodi tra loro per cultura, storia, mentalità. Mi pare che nel mondo odierno di ponti ci sia un bisogno estremo. Mi piacerebbe molto continuare a tradurla.


Intervista ad Alessandro De Vito

MM: La casa editrice Miraggi, in particolare con la collana Nová Vlna, sta facendo un lavoro davvero prezioso nella diffusione della letteratura ceca in Italia. Proprio all’interno di questa collana sono state tradotti numerosi romanzi di scrittrici ceche, ad esempio La corsa indiana di Tereza Boučková, oggetto di uno degli articoli dell’area di boemistica all’interno di questo numero. Si può dire che ci sia proprio l’intenzione di far scoprire una produzione che in passato è sempre rimasta un po’ in “sordina”?

AD: Oppure, che è in sordina oggi, o entrambe le cose. Da un lato infatti ci sono stati momenti storici in cui gli autori cecoslovacchi venivano tradotti e avevano un certo successo di pubblico, i sempreverdi Hašek, Čapek, Neruda o naturalmente Hrabal, senza arrivare al successo unico di Kundera, da un altro, passata l’epoca del post-sessantotto e dell’attenzione per i dissidenti, sono seguiti decenni di pubblicazioni più sporadiche, soprattutto a opera di case editrici medio-piccole. Io stesso, interessato alla letteratura ceca per via delle mie origini, mi sono mosso in questa direzione innanzitutto con l’idea di recuperare alcuni libri pubblicati decenni fa e ormai reperibili solo nei mercatini dell’antiquariato. Il mio chiodo fisso è stato per anni Il bruciacadaveri di Fuks, anche perché conoscevo meglio il periodo degli anni Sessanta proprio per via del cinema, della Nouvelle Vague ceca su cui ho svolto la tesi di laurea, la Nová Vlna a cui ci è piaciuto intitolare la collana. Poi, tornando a leggere in ceco, mi si è aperto un mondo di autori contemporanei, in grande prevalenza autrici, che era altrettanto un peccato non fossero disponibili per il lettore italiano. Ci sono perle, per dirla con Hrabal, che non si potevano lasciare sul fondo. Bianca Bellová e la sua forza espressiva unica, Tereza Boučková con la sua forza interiore femminile, Jan Balabán con la sua visione acuta e dolorosa del mondo, ma farei un torto agli altri: sono tutti molto particolari, brillanti, spesso così diversi da quello che si trova nei nostri libri.

MM: C’è l’intenzione di procedere su questa linea, nel senso di continuare a tradurre autrici meno note al pubblico italiano, a differenza invece di grandi nomi come quello di Bohumil Hrabal o Ladislav Fuks? Se dovesse fare un nome di un’autrice ancora da “scoprire” nell’editoria italiana, quale sarebbe?

AD: Le linee, di nuove proposte e di recupero dei classici, resteranno entrambe parallele e vitali. Come si fa a non voler proporre, ancora oggi nel 2021, degli Hrabal o dei Čapek ancora inediti? E ci sono tante opere di altri grandissimi autori ancora mai tradotte, o neglette da decenni. E lo stesso si può dire per gli autori, ehm, autrici, contemporanee. Senza farne per forza una questione di genere, dato che credo essenzialmente che la bontà o meno di un libro non dipenda dal sesso di chi l’ha scritto, stiamo comunque riflettendo a fondo sulla particolarità che in un paese europeo – ignoro se accada anche altrove, ma sarebbe interessante verificarlo – la stragrande maggioranza degli autori quotati dalla critica e che hanno successo presso il pubblico, siano autrici. È una diversità che una volta di più può portare, credo, punti di vista differenti, inusuali, moderni, cose che probabilmente abbiamo bisogno di leggere, o farci dire in faccia, da quell’angolo di rifrazione. Non è facile scegliere un nome, ognuna ha punti di forza notevoli, nella densità o nella leggerezza, nella profondità o nella sapiente danza delle parole per comunicare cose spesso tremende, diversamente non accettabili senza quella capacità artistica (questo è il caso di Tereza Boučková, di cui sta per andare in stampa L’anno del gallo). Personalmente mi sono divertito molto a leggere La teoria della stranezza di Pavla Horáková, che pure può sembrare un romanzo più leggero. Io amo Bianca Bellová, che scrive le sue pagine come se le passasse al tornio e alla fresa, togliendo tutto ciò che non serve, ma anche Markéta Pilátová con la sua capacità affabulatrice, una scrittrice che riuscirebbe a romanzare anche una lista di nomi di mobili Ikea. Mi è piaciuto molto l’ultimo libro che ho tradotto, I tedeschi, di Jakuba Katalpa, un vero grande romanzo, per pathos, personaggi ed epica, in un’architettura molto ben congegnata. E pubblicheremo quello che forse sarà il nostro più grande sforzo anche produttivo di sempre, il romanzo-mondo Hodiny z olova (“Ore di piombo”) di Radka Denemarková, scrittrice e intellettuale che vorrei conoscessero tutti, e che resterà a lungo con la sua opera. Quando hai per le mani un libro così, che affronta di petto il destino del mondo in questo nostro tempo, e lo fa in 800 pagine parlando da vicino della Cina nel cd “secolo cinese”, per averci vissuto a lungo fino a farsene espellere, puoi dire almeno di averci provato fino in fondo.

MM: Com’è la ricezione generale da parte dei lettori? Personalmente, noto un crescente interesse per la letteratura ceca, soprattutto noi tra giovani, sia che ci occupiamo di studiare queste realtà “altre” sia in quanto semplici lettori.

AD: Noi siamo una piccola casa editrice, per cui non è mai facile rispondere a questa domanda, o almeno, la risposta non può essere di ordine generale perché ancora molti non ci conoscono, non conoscono la collana e quel che facciamo. Tuttavia ci seguono con interesse ormai in tanti, in quella che tecnicamente resta una “nicchia” editoriale: anche quando un ceco è pubblicato da una grande casa editrice in questo momento non supera certi numeri. Speriamo di contribuire con le nostre pubblicazioni a innescare qualche scintilla in più, non si sa mai da dove nasca poi il fuoco più grande. Ecco, non ne potevo più che, frequentando da anni letterati e addetti ai lavori, citando la letteratura ceca si fosse rimasti solo a Švejk e ai Racconti di Malá Strana

MM: L’ultimo libro pubblicato da Miraggi all’interno di Nová Vlna è I tedeschi. Una geografia della perdita, di Jakuba Katalpa. Essendone lei il traduttore, le vorrei chiedere a cosa si deve la scelta di tradurre proprio questo romanzo.

AD: È un libro che avevo adocchiato da tempo, mi interessa sempre molto la storia, il Novecento, e quell’immenso mistero che ha visto nascere in una delle nazioni più civili e culturalmente avanzate del mondo intero un orrendo buco nero politico e sociale, il nazismo. Naturalmente gli storici hanno molte risposte, ma trovo che siano i romanzi, spesso, a fornire chiavi di lettura interessanti per svelare, o tentare di capire, le motivazioni più intime e umane dell’uomo semplice, di chi si è trovato a vivere in quel tempo senza rendersene conto fino in fondo. Mi interessa per capire, per la memoria e perché spero che non si ripeta, anche se in altre parti del mondo l’orrore spunta fuori ogni momento senza sosta da sempre, connaturato com’è all’animo umano. Ma mi interessa soprattutto l’indagine dell’uomo, delle sue motivazioni, delle sue reazioni a determinati stimoli e reazioni. Cos’è il coraggio? E la vigliaccheria? E, alla fine di tutto, cos’è il Giusto e il suo contrario? Spesso i romanzi rispondono senza rispondere, ma riescono a mettere in luce alcuni aspetti archetipici. Nei Tedeschi non a caso i personaggi sono estremamente ben delineati, reali e epici, credibili ma anche incarnazione di modi di essere. Come nella tragedia antica, come nell’epica. O più semplicemente (o forse non è affatto più semplice) come nelle favole, quelle raccontate dalla protagonista Klara e citate in più punti nella narrazione, dove il Bene e il Male hanno volti e voci e un corpo. Ma sono favole “reali”, in cui il Bene e il Male coesistono nella stessa persona, con l’effetto che nessuno è del tutto colpevole, e nessuno o quasi è innocente. Come nel mondo reale, insomma. L’ho trovato un romanzo potente, che parla del passato, ma dice tanto a noi, oggi. E dato che parla anche della dolorosa questione della forzata espulsione dei tedeschi dalla Cecoslovacchia dopo il 1945, mi interessava un possibile parallelo con la fuga degli italiani da Istria e Dalmazia. La questione dei “vinti”, e di come si fanno i conti con il passato.

MM: Sempre in quanto traduttore, quali sono le peculiarità o le difficoltà nel tradurre una prosa come quella di Jakuba Katalpa o Markéta Pilátová?

AD: Ogni autore ha le sue particolarità, ci sono autori oggettivamente molto difficili, basti pensare a Hrabal e alla sua funambolica e folle inventiva linguistica, che può mettere in difficoltà nell’interpretazione gli stessi lettori cechi, e altri più leggibili, o meno ambigui. I Tedeschi, tra i romanzi della Katalpa, è probabilmente quello con una prosa più piana, al servizio della narrazione, della vicenda e, come si diceva prima, dei personaggi. Ho imparato a non definire mai “facile” una traduzione, una volta colto l’aspetto linguistico, mai scontato, bisogna trovare la “voce” del romanzo, adattare l’italiano, o meglio trovare l’italiano giusto da usare per quel libro, per quell’autore. Lessico, registri, armonia, utilità, efficacia. Serve entrare nel testo, andare a trovare i protagonisti, “sentirli” come uomini e donne, per poterli “riscrivere” in un’altra lingua. E non è stato facile “sentire” tutte le donne protagoniste del romanzo, e la loro intensa sofferenza di donne e madri. E occorre uscire da sé, dalla propria visione, dalle proprie idiosincrasie, anche se ovviamente ogni traduttore darà inevitabilmente la propria impronta indelebile alla propria versione. Una cosa che faccio sempre è rileggere almeno una volta a voce alta (o sussurrando) tutto il libro. Credo che sia l’unico modo per “ascoltare” la lingua, capire se scorre, se si inceppa qualcosa. Per non far inciampare il lettore inutilmente, per fargli un buon servizio. Poi certo, se una cosa è complessa lo resta, e il lettore deve fare la sua fatica.

Il romanzo di Markéta Pilátová Con Bata nella giungla è anch’esso un romanzo di tipo storico, la sua prosa è stata definita affine al “realismo magico”, forse per l’influenza della sua lunga permanenza in Sud America. Si concede dei lirismi, delle variazioni, delle parti di racconto oniriche, dei personaggi che tornano come fantasmi in epoche successive alla loro morte, fa parlare persino la fabbrica di scarpe stessa! È stata un’avventura molto coinvolgente anche quella traduzione (ma forse qualcuna non lo è?), che inaspettatamente mi ha riportato anche a memorie famigliari e infantili. Infatti, parlando della famiglia Baťa, l’autrice utilizza spesso alcune espressioni o piccoli brani in dialetto della Haná o dello Slovácko, in Sud Moravia, zona di origine del “calzolaio che ha messo le scarpe al mondo”. Non è stato facile, ma era il dialetto che parlava mio nonno, originario di quelle parti, già un po’ col sapore dello slovacco: non si sa mai cosa può venire utile per tradurre. Che è un mestiere bellissimo, tradurre. Un artigianato finissimo e molto complesso perché fatto di molteplici aspetti, tecnici e di gusto, in cui si mette dentro la grammatica e decenni di letture altre, soprattutto italiane, palestra della lingua, dove spesso si cammina con finta noncuranza (e molti patemi) su un filo incerto. Sopra, sotto e di fianco, mille insidie. Ma alla fine, di solito si arriva con una grande soddisfazione.

Sitografia:

Interviste a cura di Simona Calboli e Alessandro Catalano nel progetto “La cultura in quarantena” del Centro Ceco di Milano: https://www.youtube.com/watch?v=6n1t9X2KOuA&list=PL_O6Wfo6mSGTLzFtKzFWR4bpa0LFxm24i

Mostra online “Le eroine ceche”: https://milano.czechcentres.cz/it/programma/ceske-hrdinky-vyznamne-zeny-ceske-historie-a-soucasnosti

Traduzioni italiane segnalate dal Czech Lit: https://www.czechlit.cz/cz/languages/italstina/?page=1/

QUI l’articolo originale: https://www.andergraundrivista.com/2021/05/10/le-scrittrici-ceche-e-leditoria-italiana-con-unintervista-a-laura-angeloni-e-alessandro-de-vito/

3 panini a «Gli amanti perduti nel transfinito» dal Mangialibri

3 panini a «Gli amanti perduti nel transfinito» dal Mangialibri

Giuseppe e Maria, lui sedicente poeta e lei influencer che predica e pratica la verginità, sono in cerca del contesto ideale per vagliare nuovi orizzonti di intimità. Per loro sfortuna, il luogo prescelto non è un albergo qualunque, bensì l’Hotel Hilbert, che deve il nome al matematico tedesco, ideatore del Paradosso del Grand Hotel, e che si rivela una dimensione alternativa che segue le logiche dell’infinito. Li accoglie un istrionico portiere laureato in matematica, informandoli della difficoltà di assegnargli una stanza nonostante all’Hilbert le stanze siano infinite, e rimandando all’infinito la consegna delle chiavi per il semplice motivo che si è infatuato della donna. Il portiere chiama in causa Aristotele, Sant’Agostino e Nietzsche, e poi Kronecker e Gödel, rievocando i momenti cruciali nella storia della matematica, come la crisi dei fondamenti causata dalla scoperta, da parte di Russell, di una contraddizione nella teoria ingenua degli insiemi di Cantor, ovvero che non è possibile stabilire l’insieme di tutti gli insiemi che non contengono sé stessi come elemento, giacché, non contenendo se stessi come elemento, contengono se stessi come elemento. E così via, a furia di spiegare le applicazioni dell’infinito attuale e le caratteristiche dell’eterno ritorno, il portiere annichilisce Giuseppe e ammalia Maria, guidando quest’ultima tra le infinite meraviglie dell’infinito, dove tutto è possibile, e lo è infinite volte…

Gli amanti perduti del transfinito è un romanzo peculiare, divertente dalla prima all’ultima pagina, con momenti che metteranno alla prova il lettore poco predisposto alla matematica o che abbia urgenza di capire in che modo gli espedienti divulgativi plasmeranno la narrazione. Non ci si aspetti un racconto convenzionale: in una dimensione in cui tutto è possibile, non è necessario individuare gli snodi narrativi o comprendere una logica differente da quella della nostra presunta realtà. Meglio abbandonarsi come con la poesia, che d’altronde vive della non totale comprensione da parte del lettore; oppure pensare al piacere di immergersi in multiversi come quello di Epepe di Karinthy, con quel tipo di piacevole spaesamento. Curti è bravissimo ad animare il suo mattatore e a fargli sciorinare, in ordine crescente di difficoltà, ciò che bisogna sapere per immaginare l’infinito. Qualcuno si perderà strada facendo, ritrovando però sempre ad attenderlo l’umanità dei personaggi, per esplorare insieme un paradiso matematico in cui nessuno muore mai, o meglio, muore infinite volte e infinite volte rinasce e vive, e tutto gli è concesso, ogni gioia, ogni alternativa; l’infinito più grande, quello assoluto di Cantor, un nuovo Dio, benevolo e in qualche modo calcolabile. Curti consegna un’opera all’apparenza distante, quantomeno per impianto, dal precedente Quando i padri camminavano nel vuoto, segnalato dal Premio Calvino e pubblicato sempre da Miraggi, ma in realtà in dialogo con esso. Torna la qualità della scrittura, solida, accessibile e sorniona, tra il Buzzati raccontista e certi russi dei primi del Novecento, una prosa capace di umori diversi, di far danzare suggestione e matematica. Torna l’archetipo del padre, qui fondamentale nell’incapacità di Maria di autodeterminarsi, ma anche per il portiere, che ne ha ereditato l’idealizzazione dell’attrice Belinda Lee, così come era stata centrale in Quando i padri camminavano nel vuoto, nel quale l’autore esplorava l’autofiction e gli svantaggi di un genitore ossessionato dalla verbalizzazione. E ancora, torna la poesia, primo amore dell’autore, che qui caratterizza di sfuggita Giuseppe, ma che rimane una chiave di lettura di un testo all’apparenza razionalista che usa l’intelligenza per fantasticare sull’immortalità e sul libero arbitrio. Diventa chiaro, dopo che l’autore ci ha presentato le copie umane che si aggirano nell’Hotel, che Giuseppe e Maria potrebbero essere anche quelli biblici, e che impedendo loro di stare insieme, per gioco, il portiere stia predisponendo un presente radicalmente diverso da quello che conosciamo. Le interpretazioni di un simile romanzo sono infinite, e sebbene l’opera rimanga aperta (e come potrebbe chiudersi?), ben vengano esperimenti letterari che sanno stimolare zone intorpidite del nostro cervello, permettendoci di guardare il mondo, almeno per un po’, con uno sguardo diverso.

QUI l’articolo originale: https://www.mangialibri.com/gli-amanti-perduti-del-transfinito

Il tempo del potere, tra Cina ed Europa. Recensione a «Ore di piombo» su Huffpost

Il tempo del potere, tra Cina ed Europa. Recensione a «Ore di piombo» su Huffpost

di Marilù Oliva

Ore di piombo” di Radka Denemarkova è una narrazione epica che travalica i secoli e le vicende del singolo per catapultarci nella storia vera, che trasuda indignazione, ma ci istrada verso la ricerca di un senso. Pagine feroci, foriere di scottanti verità svelate come in una canzone struggente

“La vita ti scaglia addosso i suoi temi con violenza.

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Le parole che in Europa piovono da ogni dove non significano niente.

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Le parole che in Cina si pesano su bilance minuscole significano vita o morte”.

Ore di piombo” (miraggi edizioni) è firmato dalla scrittrice ceca Radka Denemarkova e tradotto da Laura Angeloni. Si tratta di un libro di oltre novecento pagine con una personalità fortissima, di sicuro una sfida, una di quelle rare avventure che di rado regala il mondo editoriale. Lo scenario spazia dalla Cina all’Europa, raccontate da chi ne ha visto cadere le maschere. Una narrazione epica che travalica i secoli e le vicende del singolo per catapultarci nella storia vera, che trasuda indignazione ma ci istrada verso la ricerca di un senso.

Una galleria di personaggi che incarnano vizi e fragilità umane, non nominati ma indicati in base al loro ruolo, dal Programmatore all’Amico, da Marziano al Diplomatico, dalla nonna alla Ragazza Cinese, oltre a creature quasi fiabesche come i due saggi gatti, Arancio e Mansur. Tra loro spicca la protagonista Scrittrice, dissidente in quanto portavoce dei valori di democrazia e libertà ora tanto vilipesi. Tutte assieme, queste figure portano avanti intrecci, relazioni e riflessioni che spaziano dal cammino dei popoli alla quotidianità, alla disgregazione, alla decadenza, alla perdita di ideali, ma anche all’amore:

“Non è colpa sua se gli uomini sono così stupidi da pensare che il primo evento degno di nota tra un uomo e una donna sia una notte d’amore. No, perché qualcosa accada davvero ci vuole pazienza, tenerezza. Nemmeno odiarlo le è di aiuto. L’odio è solo un’altra forma di amore, in egual modo disperata.”

Sono ore di piombo su un’Europa retriva, che non vuole lasciarsi destabilizzare dall’integrazione e chiude le porte ai rifugiati. I migranti vengono vissuti come invasori, cavallette voraci, e poco importa l’evidenza che essi fuggano da disastri ambientali o umani. L’Europa è un mercato che punta al profitto, qui le persone possono scendere in piazza ostentando il simbolo della forca, tanto nessuno le rimprovera, perché manca la riflessione, sorella del dubbio e dell’esitazione. Se la gente è spaventata, allora cerca un capro espiatorio, se la prende coi più deboli e la scissione tra eletti e diseredati è in agguato:

“La morale non è di cera, per questo devono in qualche modo giustificare le loro azioni. Il primo passo è dividere il mondo tra noi e loro. Inventare delle qualità negative da attribuire agli altri per denigrarli collettivamente, escluderli dalla società umana: gli altri sono primitivi, diffondono malattie, violentano le donne”.

La Repubblica ceca non è da meno e, quando Scrittrice torna al suo paese dopo una lunga lontananza, lo trova imbevuto di fascismo, “un paesello chiuso dal filo spinato”, gli abitanti rinunciano alla loro libertà in cambio della vana illusione del benessere.

Sono ore di piombo anche in una Cina velocissima, fatta di sorrisi e pazienza, ma dove non mancano gli eccidi e le imposizioni. Si tratta di una nazione dove nulla è come sembra, dove l’apparenza si sdoppia per permettere rivelazioni solo a chi vuole andare in profondità. Lì troverà, assieme a tanta bellezza, anche la crudeltà della repressione, dell’obbedienza, della devozione cieca al comunismo:

“Che aspetto oggi assumono il potere dei senza potere e l’impotenza dei potenti? La società è come un rene ipertrofico che non riesce più a purificare il sangue. La milza non funziona e le tossine vengono reimmesse nelle vene. Se un trauma di famiglia non viene purificato, va a gravare sulle generazioni successive. La speranza che le disgrazie rendano gli uomini umani è ormai disattesa”.

Un libro epico, inaspettato, spietato ma che trasuda umanità, pagine feroci, foriere di scottanti verità svelate come in una canzone struggente.

QUI l’articolo originale: https://www.huffingtonpost.it/blog/2024/10/30/news/il_tempo_del_potere_tra_cina_ed_europa-17588246/

Editori Indipendenti – Intervista a Fabio Mendolicchio di Miraggi Edizioni

Editori Indipendenti – Intervista a Fabio Mendolicchio di Miraggi Edizioni

Dopo aver intervistato Mattioli 1885,  Astarte edizioni e Prehistorica Edizioni, Free Zone Magazine continua la serie di interviste a Editori Indipendenti perché riteniamo che il loro ruolo nel campo dell’editoria sia da sempre di vitale importanza.  Ciò per il lavoro di accurata ricerca, da loro svolto, nell’individuazione di autori e libri di particolare interesse, oltre che valore letterario, che altrimenti non troverebbero opportunità di pubblicazione da parte dei grandi editori, restando pertanto sconosciuti.
Lo scopo dell’intervista verte anche su comprendere le strategie editoriali, commerciali e di comunicazione messe in atto dalle case editrici stesse per affrontare la competizione con i giganti del settore cercando di offrire un catalogo ricco di titoli di qualità e di conseguenza permettere loro di restare sul mercato.
Ma come riescono ad essere attrattivi per i lettori che sempre più si stanno contraendo numericamente, mentre quelli che non abdicano al libro sono sempre più esigenti nel cercare una letteratura che sia stupefacente?
Attraverso le nostre domande ai responsabili editoriali cerchiamo di comprendere meglio cosa si muove dentro queste realtà che Free Zone Magazine da sempre apprezza e a cui vuole dare sempre più visibilità.

FZM: Quando e come sono nati il vostro progetto e il relativo nome?

FM: La casa editrice è nata al Salone del Libro del 2010 ma l’idea nacque nel lontano capodanno che passammo insieme io e Alessandro De Vito, l’alcol fu complice. In realtà lui lavorava per un’altra casa editrice che sfruttava il suo apporto semi gratuito per pubblicare, io arrivavo da un corso di grafica creativa che feci con l’intento di applicare ciò che imparavo in cucina, eravamo lettori entrambi ed è partita la sfida. Sul nome facemmo un enorme lavoro di meditazione e ricerca, poi venne fuori in sintesi Miraggi, evocativo!

FZM: Qual è la linea editoriale della vostra casa editrice?

FM: Il catalogo di Miraggi per questo si è sempre contraddistinto tanto per lo stile, curato e riconoscibilissimo fin dalle copertine, che per la scelta di pubblicare libri perseguendo anche le strade meno battute. Dal 2017 abbiamo cambiato rotta aprendo una nuova linea editoriale prettamente letteraria che porta nel nome il tipo del font utilizzato: Baskerville. Quindi, oggi sono due le linee editoriali caratterizzate dal tipo di font utilizzato in cui si divide il catalogo che stiamo costruendo:
Miraggi Baskerville la linea editoriale di alta qualità letteraria dedicata soprattutto alle traduzioni e non mancano gli italiani, a sua volta divisa in quattro filoni: Scafiblù, NovaVlná, Tamizdat e Janus|Giano.
Miraggi Garamond la linea più pop, dedicata agli esordienti, agli autori affermati, ai saggi e ai fumetti, contenitore da sempre di innovazioni e testi sperimentali.

FZM: Quali criteri seguite nella scelta dei titoli da pubblicare?

FM: L’intento è da sempre quello di “fare” i libri che altri non fanno, quelli che ci piacerebbe trovare in libreria, e spesso non si trovano. Però sempre ricercando opere di qualità capaci di costruire un catalogo forte e in grado di resistere nel tempo.

FZM: Come mantenete un equilibrio tra la necessità di sostenibilità economica e la volontà di proporre libri di valore culturale ma meno commerciali?

FM: Ognuno di noi fa anche altro in parallelo, in modo da poter re-investire le risorse e i guadagni.

FZM: Quali sono le principali difficoltà che un editore indipendente incontra oggi nella distribuzione e nella visibilità dei propri libri?

FM: La prima difficoltà deriva dalla quantità di libri che vengono immessi nel mercato ogni giorno, superiore alle duecento copie. Una follia che perlopiù finirà al macero. Si produce per buttare via. Questo fenomeno andrebbe regolato in qualche modo e soprattutto con onestà ma ahimè, credo, rimarrà così.

FZM: Come scovate nuovi talenti letterari? Avete un metodo particolare per valutare un manoscritto?

FM: Leggendo, facendo ricerca e selezionando. Attraverso premi e suggerimenti di diversi addetti ai lavori. Diciamo che dal 2017 pubblichiamo per 3/4 traduzioni e una collana è dedicata alla letteratura ceca, perché il mio socio Alessandro De Vito è di madre ceca e quindi è stato abbastanza naturale prendere quella direzione.

FZM: Quali caratteristiche deve avere un autore affinché la vostra casa editrice decida di investire su di lui?

FM: Essere prima di tutto un lettore ma in realtà ci si accorge subito di questo elemento leggendo poche righe o poche pagine. In ogni caso deve avere una sua voce e qualità letterarie un po’ alte.

FZM: Avete mai rinunciato a pubblicare un libro che vi sembrava valido per ragioni di mercato?

FM: No, se un libro ci sembra valido, importante, urgente cerchiamo sempre di portarlo avanti.

FZM: L’intelligenza artificiale sta entrando anche nel mondo editoriale, dalla traduzione alla scrittura automatizzata. La considerate una risorsa o un rischio per il vostro lavoro?

FM: Non credo sia un problema, fa parte dell’evoluzione. Consideriamo AI uno strumento da utilizzare come tanti altri, al servizio del risultato finale, di massima qualità.

FZM: Come vedete l’evoluzione del libro cartaceo rispetto al digitale nei prossimi anni?

FM: Per noi il libro fisico è un oggetto prezioso e necessario, lo dimostriamo con la cura che mettiamo in tutte le fasi di lavorazione, dalla scelta della carta, alle grafiche, alla selezione dei testi. Ci battiamo per la dignità dei libri e per il loro diritto all’attenzione, anche a distanza dalla data di pubblicazione. Nell’era del digitale, non è un caso che i libri cartacei abbiano mantenuto il loro fascino. Crediamo che il libro di carta non morirà mai.

FZM: Come valutate l’attuale situazione del mercato? Quali sono le vostre strategie, visto che secondo indicatori si legge sempre di meno?

FM: La nostra strategia, che poi è una non strategia, si basa sulla ricerca continua e sulla selezione di testi e letture che ci piacciono e appassionano. Non ci arrendiamo all’idea di un pubblico disattento, deconcentrato, che ha bisogno di cose poco impegnative. Il nostro impegno è quello di mantenere alta l’asticella dell’attenzione e della curiosità. Negli anni ci siamo specializzati nella letteratura clandestina, ovvero le opere che venivano sottoposte a censura, a divieti, quelle che trattavano argomenti scomodi o difficili. Addirittura, abbiamo una collana dedicata alla Repubblica Ceca.

FZM: Come vi ponete di fronte al sistema di distribuzione? Librerie indipendenti, megastore, grande distribuzione, vendite online e vendite dirette, quale secondo voi è il miglior canale di vendita?

FM: Il problema della distribuzione è un tema caldo per l’editoria in generale, ma in particolare per i piccoli editori. Tutti vorremmo avere vendite da capogiro e vedere i nostri libri nelle vetrine di ogni libreria, il problema è che vengono pubblicati centinaia di libri al giorno e ovviamente i grandi distributori offrono un servizio di miglior posizionamento a seguire di costi e percentuali quasi proibitivi in un’ottica di guadagno complessivo. Bisogna tarare bene gli investimenti economici e le energie e anche effettuando una distribuzione indipendente, a volte sommando tutti i microconti insoluti delle librerie, si creano delle somme considerevoli e fare recupero crediti diventa un altro lavoro sfiancante a cui è impossibile dedicare tutte le energie necessarie. Diciamo che come tutte le cose, la soluzione sta nell’equilibrio e poi alla fine, con fatica, sudore, e tenacia, una sorta di equilibrio si trova, ma si potrebbe sicuramente fare meno fatica, se il sistema editoriale fosse più virtuoso.

FZM: Quanto sono importanti per voi le fiere di settore? Rappresentano un investimento strategico o un costo difficile da sostenere? Quali fiere considerate più utili per il vostro lavoro e perché?

FM: Le fiere sono fondamentali per l’incontro. Incontrarsi dal vivo e poter toccare con mano quello che spinge la gente ad avvicinarsi per la prima volta al nostro stand, oppure chiacchierare con chi già ci conosce o ci ha conosciuto da poco, è una delle risorse migliori di cui disponiamo per poter migliorare ogni giorno. I lettori ci raccontano cosa gli è piaciuto e cosa no e, in un reciproco scambio di fiducia e condivisione, ci si confronta e incontra. I costi delle fiere però sono proibitivi, se tutto va bene, solitamente, si riescono a coprire i costi vivi e si torna a casa con nuovi contatti e nuove idee da sviluppare.

FZM: Il costo dei libri è in continuo aumento. Qual è il vostro pensiero di fronte alla politica degli sconti? Quella applicata (per decreto) attualmente vi sta bene o siete contrari?

FM: Dobbiamo accettarla come tutti… riteniamo che non dovrebbe esserci nessuno sconto, l’unica vera legge che terrebbe conto e darebbe valore al prezzo di copertina.

FZM: Rispetto ai social network, li utilizzate oppure quale altro tipo di strategia adottate per promuovere le vostre attività? Se poteste cambiare un aspetto del mercato editoriale attuale, quale sarebbe?

FM: Noi mettiamo in atto qualsiasi strumento per far conoscere il nostro lavoro, il nostro catalogo. Certo che utilizziamo i social network e continuiamo a fare incontri, organizzare tour, inventiamo nuovi modi come per esempio L’IBRIdaCENA che organizzo io (essendo cuoco da oltre trent’anni) che trasforma le librerie in ristorante per una sera.

FZM: Che rapporto avete con le altre case editrici? Secondo voi è possibile “fare rete” tra editori?

FM: Con gli altri editori abbiamo ottimi rapporti ma in 15 anni abbiamo partecipato ad ogni forma di associazionismo di categoria e finora posso dire che tutte le iniziative sono fallite. Culturalmente non è possibile fare rete quando ognuno pensa solo a se stesso.

FZM: Qual è il libro che avete pubblicato di cui andate più fieri e perché?

FM: Non ce n’è uno in particolare, potrei rispondere almeno per collana, per esempio nella Scafiblù IL BUON AUSPICIO di Lorenza Ronzano, nella collana di letteratura ceca IL BRUCIACADAVERI di Ladislav Fuks con traduzione di Alessandro De Vito, in quella delle traduzioni dal mondo clandestine Tamizdat SUL FILO DELLA LAMA (Memorie della disintegrazione) di David Wojnarowicz traduzione di Chiara Correndo, in quella di traduzioni dal mondo con il testo originale a fronte Janus|Giano PRIMO AMORE di Ivan Sergeevic Turgenev con traduzione di Barbara Delfino.

FZM: Indicateci un autore che avreste voluto pubblicare ma che vi è sfuggito?

FM: Io che li ho conosciuti abbastanza bene e li ho letti, posso fare due nomi abbastanza recenti come Giuseppe Quaranta e Luigia Bencivenga.

FZM: Se un giovane ambisse a lavorare in una casa editrice, quali competenze dovrebbe avere e quale percorso formativo sarebbe opportuno portasse in dote?

FM: Leggere, leggere, leggere. Leggere le cose giuste, i grandi, ma occorre leggere, essere assetati e affamati di grandi letture, come siamo noi poi per il resto serve esperienza, noi abbiamo impiegato circa 7 – 8 anni per capire se andare avanti, come andare avanti, ogni errore si paga molto caro e bisogna puntare molto in alto.

FZM: Potete accennare alle vostre prossime novità editoriali? Avete un grosso “colpo in canna”?

FM: Beh sì… a novembre uscirà un altro titolo di Bohumil Hrabal, forse il più grosso scrittore ceco di tutti i tempi, con il titolo PABITELE e in versione integrale con una sorpresa che sarà spiegata e raccontata su questo libro che è nel meridiano Mondadori. Di questo autore abbiamo già pubblicato due inediti come LA PERLINA SUL FONDO e l’unico suo saggio COMPITI PER CASA. Inoltre di Hrabal abbiamo preso i diritti di altre 5 opere che usciranno nei mesi e negli anni a venire!

Un sentito grazie a Fabio Mendolicchio  e alla splendida realtà che ha creato insieme ad Alessandro De Vito

Fabio Mendolicchio

QUI l’articolo originale: https://freezonemagazine.com/articoli/editori-indipendenti-intervista-a-miraggi-edizioni/

Nel buio di Morelli: il viaggio iniziatico raccontato da Nicola Neri

Nel buio di Morelli: il viaggio iniziatico raccontato da Nicola Neri

di federica Mingozzi

“Sono in missione per conto della mia vita”

Queste parole, estrapolate dal testo, sono una delle possibili chiavi di lettura della storia, che è una non-storia in quanto ciò che è accade è vissuto (e narrato) soprattutto a livello introspettivo: non ci sono eventi che scardinano la quotidianità né incontri fulminanti e fulminei in grado di spazzare via tutto. 


Eppure… eppure la vicenda attrae il lettore come se fosse una saga e lo porta in una spirale di discesa in cui Morelli, il protagonista, invischia sé stesso e gli altri. Non è un caso che i capitoli siano numerati in progressione da dieci a zero, anticipando a chi legge che si sta scendendo e che, alla fine del percorso, si toccherà il fondo. Per rinascere o per sparire? Come ha già detto qualcuno “Ai posteri l’ardua sentenza” poiché la meraviglia della parola affilata di Neri consiste proprio nel non chiudere la spirale, ma nel lasciare spazio a possibilità di lettura multiple, ognuna vera per sé stessa e piena di conseguenze. È un viaggio iniziatico quello narrato, un viaggio che Morelli compie a due livelli: fuori e dentro di sé. Fuori perché si muove in auto, alla ricerca di un dove che gli sembra l’ultima, possibile scelta; dentro perché, viaggiando, incontra sé stesso e alcune alterità, con cui si intrattiene al telefono per riannodare fili, non di rapporti perduti (o meglio, non solo di rapporti perduti), ma di quel finito contro cui vuole lottare, ma che, per paradosso, lo attrae con la sua pretesa di normalità.

È così che le voci finiscono per costellare il buio: note o non note, diventano in fondo alter ego dell’attore principale, che recita la sua parte con fatica, con il desiderio di liberarsi dalle pastoie di un’esistenza che non sente più sua. Si percepiscono il rimpianto, la malinconia, talvolta la noia, una serie di sensazioni che non dovrebbero riguardare un trentacinquenne ancora nel pieno delle sue attività. Eppure… anche qui c’è un eppure, perché Morelli è intriso di consapevole tristezza e la scandaglia per comprenderla, per dare un senso a quello che sembra non averne.

Non è un romanzo questo, per lo meno non lo è nel senso tradizionale del termine: è molto di più. È un racconto di un viaggio, a volte fastidioso nel suo involversi in tortuosi movimenti, reali e non, perché mette in evidenza il nostro limite; è un nostos, perché alla fine si ritorna, sempre, anche se non è importante dove; è poesia, perché la parola si piega all’atto creativo di un fine cesellatore, che sente l’esigenza di essere poesia in ogni capitolo per spiegarsi ancora di più. Soprattutto è un percorso che Morelli fa per tutti noi, per insegnarci che siamo fallibili e che possiamo perderci, ma che, in fondo, siamo in grado di ritrovarci; e lo fa indicandoci la possibilità: “La strada è dentro di te e aspetta che ti abbandoni alla sua saggezza”. Solo abbandonarci, dunque, ci salva: alle emozioni, al nostro divenire perché solo così potremo sperimentare l’infinito nella sua essenza: inconoscibile e vero.

QUI l’articolo originale: https://www.exlibris20.it/nicola-neri-non-commettere-infinito/?fbclid=IwY2xjawNUR9FleHRuA2FlbQIxMQBicmlkETAwVmU1a1p5bmdwa0dkWGU1AR52CvmrbCaH4oFp7MhTi1Aau32wvvGftPbY7pqIfFn5-wRn02hSsdsHqMmeiA_aem_ychvnWfuKjZGIR4e53T2fA

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Un’Odissea fra macerie milanesi. Recensione a «Il cimitero delle macchine» su «Leggere:tutti»

di ALBERTO PAOLO PALUMBO

Proposto al Premio Strega 2025, Il cimitero delle macchine è l’ultima fatica letteraria di Sergio La Chiusa dopo i precedenti I Pellicani e La madre nel cassetto.

Protagonista è Ulisse Orsini, che nonostante il nome “non pare avere ereditato nulla dell’antenato illustre e si direbbe piuttosto un personaggio nella media, anzi sotto la media”.

Ulisse è un personaggio in esubero, un antieroe della postmodernità senza dèi e profezie a proteggerlo: licenziato dalla ditta presso cui lavorava e sfrattato di punto in bianco da casa sua, il protagonista si ritrova in pigiama e con in mano una valigia contenente biancheria intima a vagare per Milano, “la città delle opere” i cui palazzi di cemento addobbati con le pubblicità dei più famosi marchi di moda e aziende multinazionali sembrano promettere lusso e benessere, ma in realtà nascondono macerie di una società che mira solo al profitto lasciando indietro gli ultimi e negando loro un’idea di futuro. A far da guida al protagonista in questa grottesca wasteland metropolitana sarà Lazzaro Lanza, un imbianchino che professa la rivoluzione, ma che continua a lavorare per i potenti per poter pagare il mutuo e mantenere la propria famiglia.

Il cimitero delle macchine è raccontato da una voce narrante invadente, che costruisce e decostruisce il romanzo giocando con il lettore e le sue aspettative sulla storia che vengono sempre disattese, a riprova del fatto che Ulisse Orsini sia un uomo incapace di compiere delle scelte di propria iniziativa e dunque succube delle decisioni altrui e del flusso degli eventi.

Con grande ironia e gusto per il grottesco, Sergio La Chiusa bene illustra il fallimento delluomo contemporaneo nel cambiare le cose, incapace di guidare il cambiamento lasciando sì che siano gli altri a fare la rivoluzione per lui, pur sapendo, però, che gli altri sono guidati da uno sfrenato individualismo ed egoismo e che per tutelare i propri interessi sono disposti a rinunciare ai propri ideali.

QUI l’articolo originale sulla versione sfogliabile della rivista: https://www.sfogliami.it/fl/319403/q9tp4xztxthxgxq8eeubmtmceh6jhmd#page/40

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David Wojnarowicz tra i libri del mese – settembre 2025 di «The Vision»

David Wojnarowicz tra i libri del mese – settembre 2025 di «The Vision»

Da un saggio che analizza la nuova creator economy al memoir dell’artista statunitense David Wojnarowicz, tra fotografia e AIDS, passando per riflessioni sull’accostamento della fisica quantistica alle filosofie orientali, su come indagare la vita sottomarina ci aiuti a capire cosa significhi “vivere” e sull’Italia oltre l’immagine dell’overtourism, ecco cosa abbiamo letto a settembre 2025.

Sul filo della Lama di David Wojnarowicz (Miraggi edizioni)

“Vivere ai margini dei margini”. È così che David Wojnarowicz, artista, scrittore, fotografo e attivista statunitense morto nel 1992 a 37 anni, avrebbe descritto la sua vita. Ed è proprio in quei margini che si muove Sul filo della lama. Memorie della disintegrazione, il suo memoir finalmente tradotto anche in Italia. Un testo che non è un libro ordinario, né per forma né per contenuto: è una testimonianza carnale, rabbiosa, spesso lirica, della vita ai margini, della solitudine, dell’identità queer vissuta in un contesto ostile, della crisi dell’AIDS negli anni Ottanta e dell’arte come strumento di sopravvivenza e resistenza. Wojnarowicz scrive alternando frammenti autobiografici, riflessioni politiche, visioni oniriche, sogni e incubi urbani in una struttura spezzata, non lineare, che rifiuta le forme canoniche del memoir. La disintegrazione del titolo è non solo fisica – legata alla malattia, alla perdita, all’emarginazione – ma anche narrativa: ogni tentativo di comporre una linearità viene distrutto dall’urgenza di dire, di denunciare, di ricordare. Anche la sua arte è così. Lavora con ogni mezzo: pittura, fotografia, collage, video, scrittura. Il suo immaginario è fatto di simboli ricorrenti – il volto di Rimbaud usato come maschera, uomini con la testa di toro, cartine geografiche, animali, simboli religiosi, corpi spezzati, immagini pornografiche – sempre intrecciati con riflessioni feroci su sessualità, identità, religione, capitalismo, morte.

Wojnarowicz racconta l’infanzia segnata da abusi in famiglia, la vita da sex worker adolescente, le prime esperienze sessuali vissute in un’America che criminalizza il desiderio omosessuale, le morti degli amici, la presenza costante dell’AIDS come spettro e come condanna. Non cerca né pietà né espiazione: scrivere per lui è un atto di militanza e insieme di disperata affermazione di sé. Eppure dentro questa ferita che è esistere pulsa una forma di amore profondo, per la vita, per la bellezza, per chi non ha voce. Dopo aver scoperto di essere sieropositivo, trasforma il corpo malato in uno strumento di denuncia. Attacca frontalmente l’omofobia istituzionalizzata, il silenzio del governo Reagan, la complicità della Chiesa e delle case farmaceutiche. Usa l’arte come forma di lotta, con performance e opere che gridano indignazione, pietà, furia. Il suo diario personale, infatti, si fa eco di urgenze ed esigenze collettive, in cui l’arte, soprattutto, non è solo denuncia ma anche cura, alleanza, gesto di connessione, tentativo disperato ma tenace di spezzare l’isolamento del singolo. “Trasformare il privato in qualcosa di pubblico è un’azione che ha ripercussioni enormi nel mondo preconfezionato”, diceva. E aveva ragione, lo è ancora oggi.

QUI l’articolo originale: https://thevision.com/cultura/consigli-libri-settembre-2025/

Recensione-Intervista a «il cimitero delle macchine» su Il Posto delle Parole

Recensione-Intervista a «il cimitero delle macchine» su Il Posto delle Parole

di Livio Partiti

Giocando con le regole del patto tra narratore, personaggio e lettore, La Chiusa prende un’esistenza fittizia e anodina, per quanto emblematica, un personaggio da romanzo – Ulisse Or­sini – e ci invita a osservarlo da vicino: un soggetto improduttivo, in esubero, ossessionato dalla propria sensazione di illegittimità; uno che ha perso il lavoro e si rintana in casa, riducendosi a sgattaiolare sul pianerottolo per non incontrare i rispettabili condomini. Lo colloca in una metropoli nei primi anni Duemila, riconoscibile eppure fantastica, un cantiere interminato, coerente solo nella propria vocazione di «città della moda e degli eventi»; e lo segue nella sua tragicomica odissea urbana, attraverso paradossali ambulatori e ospedali simili a penitenziari, per vie ridotte a scarni residui dello sfruttamento economico, finché giunge – in mutande e con una valigia piena di biancheria – in una discarica dell’hinterland. Qui, nel cimitero delle macchine, tra i reietti accampati in mezzo a rottami e carcasse d’auto, Ulisse conosce Lazzaro Lanza, un imbianchino con aspirazioni messianiche, che lo trascina nelle azioni del suo movimento rivoluzionario (e nei suoi lavori di tinteggiatura). Il sardonico avvicendarsi di sipari architettato dall’autore rivela tutta l’assurdità del mondo contemporaneo e registra l’inesausto stato di tensione tra l’insostenibilità del reale e la fuga nell’immaginazione. Una tensione che ingabbia Ulisse e gli altri personaggi del romanzo, facendone le nostre grottesche controfigure.

Sergio La Chiusa è nato a Cerda (PA) il 23 settembre 1968 e vive a Milano. Ha pubblicato nel 2020 il romanzo I Pellicani. Cronaca di un’emancipazione (Miraggi), finalista nel 2019 al Premio Italo Calvino, dove ha ricevuto la Menzione Speciale Treccani per l’originalità linguistica e la creatività espressiva, e nel 2021 al Premio nazionale di narrativa Bergamo, al Premio Giuseppe Berto e al Premio Fondazione Megamark. Nel 2023 ha pubblicato il racconto lungo Madre nel cassetto (Industria & Letteratura) e nel 2024 il romanzo Il cimitero delle macchine (Miraggi). In poesia ha pubblicato nel 2005 la plaquette I sepolti (Lietocolle), finalista Premio Montano 2006, e l’e-book Il superfluo (E-dizioni Biagio Cepollaro). Suoi testi sono presenti su riviste e blog culturali, tra cui “Nazione Indiana”, “Le parole e le cose”, “Il primo amore”, “L’Ulisse”. Ha partecipato a pubbliche letture e iniziative culturali, tra cui RicercaBO.

Ascolta il podcast: