Ho alzato gli occhi ed ero già a pagina cinquanta. Mi sembrava di aver appena iniziato, il treno era già in stazione ed ero l’unico idiota ancora seduto al suo posto. Questo per chiarire subito se il libro mi è piaciuto o no.
Il libro di João Paulo Cuenca dal titolo “Ho scoperto di essere morto” parla di un tale João Paulo Cuenca che all’improvviso riceve una telefonata dalle forze dell’ordine. Gli comunicano che a seguito di una denuncia appena depositata per questioni futili risulta che lui è morto già da qualche anno. João Paulo è uno scrittore. All’epoca di questa morte presunta lui era in Italia a presentare la traduzione italiana del suo libro “Un giorno Mastroianni” edito da Cavallo di Ferro. Il commissario non gli sa spiegare come mai qualcuno abbia usato il suo nome per morire. Le cose non sono affatto chiare e a questo punto, a João Paulo Cuenca non resta che cercare di svelare questo mistero. Anche perché dietro a tutto c’è la testimonianza di una donna e come ha detto il commissario, per quel che riguarda questa storia, citando il proprio scrittore preferito: non c’è nulla che una donna non riesca a peggiorare.
La ricerca lo porterà a vagare per Rio de Janeiro in un momento in cui le case vengono abbattute per far posto al nuovo, per mettera la pezza del mondiale di calcio e delle Olimpiadi ad un tessuto malandato.
Il libro è un continuo entrare ed uscire dal testo. Entrare ed uscire dalla finzione. Dobbiamo presupporre che l’episodio della presunta morte non sia mai avvenuto? Oppure è successo davvero? I verbali riportati all’interno del libro farebbero pendere per la seconda ipotesi. Cuenca in Italia, per quel libro, c’è stato davvero. Avrà anche dato all’amico Protz un manoscritto da leggere, manoscritto che poi non ha concluso, immagino, anche per le critiche dell’amico che lo trovava troppo gentrificatore, troppo votato alla politica, una lettera di uno che si vuole suicidare. E poi, il finale, perfettamente in linea con l’idea che Cuenca abbia dei manoscritti non conclusi nel cassetto. Prendiamo a piene mani dal regno dell’autofiction e del pamplet, navighiamo tra le righe di un romanzo mai banale, un caleidoscopio che restitisce molto bene l’immagine dell’autore. Una scrittura che fila via liscia e lascia sulle labbra appena un accenno di sorriso. Un sorriso dato dall’ironia che permea ogni pagina, ma soprattutto dai dialoghi fulminei, da commedia degli equivoci.
Quella di João Paulo Cuenca è di sicuro una bella scoperta. Un buon modo per iniziare le letture dell’anno. Chissà che non ritorni a fare un salto in Italia e che magari, tra qualche anno, la cosa non finisca in uno dei suoi prossimi lavori. Ne avrebbe di cose da scrivere sul nostro paese.
Ottima la traduzione di Eloisa del Giudice e molto bello vedere il suo nome in copertina.
Giangilberto Monti è uno dei massimi conoscitori di Boris Vian. Con il suo nuovo lavoro – Boris Vian, il Principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés – ha scelto la via del docu-romanzo per raccontare un artista unico (scrittore, poeta, autore di canzoni, musicista: ma soprattutto un genio di un’epoca irripetibile) che ancora oggi rappresenta un punto di riferimento per molti.
Monti, perché oggi Vian è ancora così importante?
«Per la contaminazione tra le arti, la capacità di anticipare la realtà, la lucidità intellettuale. E la grande sperimentazione linguistica».
Qual è stato il tuo primo incontro con Vian?
«Erano i primi anni Novanta. Mi trovavo a casa di Riccardo Pifferi – autore e regista – con il quale stavo scrivendo uno spettacolo. A un certo punto mi ha consigliato di leggere Textes et chansons, un tascabile antologico di Vian. Da lì ho iniziato a interessarmi ai suoi lavori e mi sono reso conto di quanto la mia carriera fosse affine alla sua».
A quali conclusioni sei giunto?
«Intanto che lui è molto più bravo di me… (risata). Diciamo che è diventato una sorta di alter ego intellettuale. Le sue idee sulla musica, sulla politica, sull’arte in genere, sono quelle che ho sempre avuto io. Una specie di specchio. Ma molto più bravo di me…».
Se dovessi indicare a chi non lo conosce come accostarsi a Vian, cosa suggeriresti?
«I romanzi La schiuma dei giorni e Sputerò sulle vostre tombe. E poi ascoltare del jazz. E non avere preconcetti, essere politicamente scorretti. Come diceva Jobs, essere molto affamati».
Vian era affetto da una cardiopatia congenita: sapeva che la sua vita era a tempo. Pensi che questo abbia inciso nel suo inesauribile attivismo?
«Quando hai la percezione della malattia e che il tuo tempo è molto importante, cerchi di riempirlo in tutti i modi possibili perché ogni minuto è prezioso».
Artista ma anche dirigente del reparto discografico jazzistico della Philips: come vivono queste due anime in Vian?
«Un artista vero delega molto difficilmente. Michelangelo trattava personalmente col Papa la propria paga quando gli chiedeva di finire il Giudizio universale. Ma credo sia normale, perché si vuole avere il controllo totale: un artista desidera che appaia esattamente quello che lui ha pensato di far arrivare».
Boris Vian è anche al centro di un tuo spettacolo…
«Sì, riprendo canzoni che ho tradotto e registrato e racconto la sua vita in uno spettacolo di narrazione musicale».
Operazione che stai portando avanti anche con le canzoni di Dario Fo: un libro, pubblicato l’anno scorso, e un disco, che uscirà a marzo.
«E’ la mia cifra stilistica. Sul Dizionario della canzone italiana diretto da Renzo Arbore e edito dalla Curcio, alla voce Monti Giangilberto si legge: Non è mai diventato famoso per la sua scelta di sperimentare continuamente generi e stili musicali e in questo rispecchia la sua generazione, quella cresciuta artisticamente negli anni Settanta. La mia è una concezione totalizzante dello spettacolo: la performance è un evento unico, che mescola tutto. Una sorta di comunicazione incrociata: contaminata, come si usa dire adesso. Ma noi lo facevamo già quarant’anni fa…».
Una sorta di favola moderna, in cui gli elettrodomestici prendono vita. E, al centro di tutto, un frigorifero con la sua saggezza. Andrea Serra debutta per Miraggi con “Frigorifero mon amour”: si parla di cibo e del suo utilizzo, spesso sbagliato, argomento quanto mai importante nella nostra epoca. Ma lo si fa con leggerezza, come racconta l’autore: “Il frigorifero si rivela un attivista del Banco Alimentare: una realtà che ho incontrato e che mi ha spinto ad approfondire i temi legati allo spreco. Nel libro ci rimprovera, fornendo anche dei dati su quanto buttiamo via. Il frigo è la coscienza critica, con i suoi insegnamenti. E lo spreco alimentare è una metafora della nostra società, dove ammuffisce l’umano invece del cibo”. Come è arrivata l’idea del libro?
“In un periodo di “disperazione” familiare, quando sono nate le due bambine, che oggi hanno quattro e otto anni: non dormivano e, di conseguenza, non dormivo io. La notte ho cominciato a scrivere i primi racconti e la vena umoristica è giunta per reazione”. Perché il frigorifero? E perché le carote della copertina?
“Il frigorifero perché è un elemento centrale della nostra casa. Mia moglie, che ha un carattere duro e diretto, lo insulta anche, dicendogli “apriti scemo”. Le carote sono quelle che lei compra a piene mani e che un bel giorno riemergono ammuffite, dopo essere state dimenticate in uno scomparto. Nel libro il frigorifero scappa, arrabbiato per lo spreco di cui è testimone ogni giorno”. Comincia così una sorta di inseguimento.
“Lo racconto in forma di diario perché il protagonista, visto che non riesce a prendere sonno, si rivolge a uno psicologo che gli suggerisce di annotare tutto. La narrazione parte a gennaio e si conclude a dicembre, con una coda rappresentata da una discesa agli inferi per ritrovare il frigorifero perduto”. Sembra una favola di Esopo: là parlavano gli animali, qui gli oggetti.
“L’intento è quello. C’è una poetica degli elettrodomestici, tutti si esprimono: è una favola contemporanea, con una funzione civile e morale”. Per questo è stato coinvolto anche il Banco Alimentare?
“Scrive una postfazione in cui fornisce i numeri sullo spreco di cibo. Al Banco va anche una parte dei proventi dei diritti. Io, poi, oltre alle classiche presentazioni, ho programmato di andare nelle scuole perché, alla fine, “Frigorifero mon amour”, è un testo formativo-informativo. E divertente”.
Vita da editor ha chiesto alle case editrice quali siano stati i loro bestseller del 2017. Ecco l’intervento di Miraggi
Miraggi (Alessandro De Vito, direttore editoriale)
Il libro più venduto del 2017 è stato Parigi XXI, di Iacopo Melio. Ne sono particolarmente fiero perché la sua poesia (eh sì, i primi 6 libri più venduti sono poesia, chi lo direbbe?) ha una forza tenera e dirompente, ma implacabile, che unita al peperino toscano che è lui fa capire molto bene perché sia così seguito (ed è un segnale molto positivo di questi tempi, che in molti seguano e sostengano il suo cuore e le sue sacrosante battaglie). Per il resto, dato che Miraggi ha diverse anime, siamo molto contenti del successo di tutta la collana di traduzioni Tamizdat, il cui bestseller è Memorie di uno psicopatico di Venedikt Erofeev, nome di culto.
«Danilo lavorava alla cooperativa, andava al manicomio due volte alla settimana col furgoncino bianco e il disegno di un sole sulla fiancata con cui portava allegria».
I gesti quotidiani e i movimenti consueti: parlare con un amico, preparare il caffè, spostare un oggetto, riguardare una vecchia vhs. Ogni cosa che facciamo assume quasi sempre valore nel momento in cui proviamo a ricordarla. La vita ci scorre spesso di fianco, restiamo lì, immobili, e troppo spesso ci rendiamo conto di non farne parte, o almeno non nella maniera in cui vorremmo. E poi come una scarica, ci arriva un input, delle volte mentre siamo indaffarati nel fare qualcosa di manuale, ci piomba addosso una storia, un’immagine, un suono, una voce; e siamo costretti a scavare, a trovare elementi di residuo, e quello che ci è appartenuto ci sembra meno sbiadito.
La nostra esistenza non è un atto unico, è composta da momenti, miliardi di momenti che spesso non riescono a restare vicini e se sono gli attimi che danno valore alla vita intera è importante forse riuscire a vivere le nostre emozioni nel durante e non solamente nella memoria, quando tutti sono bravi a dirsi: beh, lì ero proprio felice, e non me ne sono reso conto. Cerchiamo punti di svolta in modo continuo senza, apparentemente, trovarli mai, semplicemente perché quando ci capitano non riusciamo ad accorgercene; tutto diventa chiaro nel momento esatto in cui iniziamo a raccontare un evento, attraverso le parole e la narrazione, elementi che ci sembravano poco lucidi e distorti, trovano come per magia la loro collocazione. Simone Ghelli è nato nel 1975, Non risponde mai nessuno è la sua seconda raccolta di racconti, questa volta pubblicata da Miraggi editore.
I racconti che compongono questo libro ci narrano della commedia umana, del vivere quella vita che come un palcoscenico teatrale ci costringe ogni giorno a entrare in scena, con la speranza di non dimenticare nessuna battuta chiave. Siamo all’interno di vite che non sono nostre, ma che ci rimandano l’eco di qualcosa di familiare, e possiamo provare la sensazione che ogni racconto possa essere un nostro personale ricordo, in una frase, una sfumatura, un’immagine.
E ci ritroviamo con Giovanni e le sue idee dolorose (I tafani del Merse), il suo confronto con ciò che vorrebbe essere e ciò che, in fondo, è realmente. Veniamo catapultati nei ricordi di Paolone, nella sua infanzia (Il missile), nella voglia che ha di mantenere stretto un movimento passato ma mai sbiadito. E questi racconti ci parlano di lutti (Con un figlio così), di impossibilità (Non risponde mai nessuno), di confidenze ed errori (Vedevano tutto il suo dolore).
«Con uno stacco siamo di nuovo fuori dalla Turbina. Zoom lento su tre macchine da scrivere impilate una sopra l’altra e infestate dall’edera. È l’immagine più poetica, la più commovente. Dopo il senso di abbandono che ci accompagna per nove minuti, arriva, improvvisa, questa specie di epifania. È qualcosa di definitivo, un monito con cui fare i conti».
Il modo in cui Simone Ghelli ci accompagna in queste storie è romantico, la sua scrittura procede spedita, non perdendosi mai in inutili preziosismi stilistici; ogni racconto possiede la potenza del reale, la durezza della vita e la sacralità della memoria.
I racconti si alternano tra prima e terza persona, ma il gioco dello scrittore riesce talmente bene che, a un certo punto, anche i racconti scritti in terza persona ci possono sembrare introspettivi come quelli in prima persona.
«A vederli insieme così, in certe domeniche a braccetto, la gente giù in paese diceva che potevano sembrare davvero una coppia felice, che l’abitudine e il dolore non li avevano allontanati. Dopo aver passeggiato per il corso si mettevano seduti al bar prima del ponte sul fiume, e non facevano che ridere e guardarsi in quel modo che soltanto gli innamorati. Ma non erano che quaranta minuti, al massimo un’ora, che poi la vita tornava in carreggiata, affaticata dal peso dei problemi; il lavoro che mancava, un figlio ancora in casa a trent’anni passati, un fratello che non si capiva più dove avesse ficcato la testa.»
Sono poche le pagine che lasciano una speranza, è come se la “terribile” recita umana non possa portare altro che dolore e disperazione e anche lì dove si intravede uno spazio di luce il male, e la consapevolezza della condizione emotiva di ogni individuo, riporta una sorta di sconforto che resta come una macchia indelebile.
Non c’è una regola per vivere, non c’è una soluzione al dramma che ci può piombare addosso senza preavviso, non esiste una legge che possa condurci verso una soluzione; esiste solo la maniera che ognuno di noi ha di vivere la propria esistenza, esiste la possibilità di rifugiarsi nel ricordo quando il presente ci appare troppo duro, meschino ed ingiusto.
E anche se a volte tornare indietro nel posto di ciò che è stato può riempirci di scorie, è importante conoscere a memoria quello che siamo stati, quello che abbiamo subito e ciò che ci ha tagliato a pezzettini, per poter cercare di dare al presente una forma quanto meno diversa.
Agenzia Pertica, edito da Miraggi, è il nuovo libro di Luca Ragagnin, autore prolifico e colto, che ci ha abituati a storie diverse, a cambi improvvisi di direzione, ricerche alcoliche, tabagismo e musica jazz. In questo romanzo racconta, strizzando l’occhio a se stesso, le avventure di uno strano quintetto:
Domizio Pertica, scrittore fallito, ma bevitore più che consapevole;
Venus Diomede, apparizione mozzafiato, piuttosto reale;
Zappa, un merlo indiano che straparla e beve vodka;
Pepe, una gazza ladra in cerca di redenzione;
Trambusto, un gatto filosofo piuttosto furbo.
Insieme, questi cinque guasconi fondano un’agenzia di investigazioni il cui scopo principale è trovare un alibi per i delinquenti.
Con scrittura surreale e nervosa dalla quale traspaiono un certo rancore e un’allegra malinconia, Luca Ragagnin ci racconta, tramite i pensieri dei suoi personaggi, una fiaba contemporanea che pare prendere in giro la realtà. Un po’ Bolaño, un po’ Perec, il racconto si snoda in un intreccio di situazioni spesso divertenti. La scrittura, che in certi capitoli sembra accelerare in una sorta di gramelot comprensibile, in altri si placa portando il lettore alla ricerca di un senso compiuto che i protagonisti, al contrario, si direbbe non vogliono trovare.
Le ultime pagine elencano, appendice o catalogo, i ventisette romanzi scritti da Domizio. Esilaranti le critiche e i nomi delle testate dalle quali sono tratte. Una per tutte:
“È un caso interessante, degno della nostra rivista. L’autore, non il suo libro.” Il Giornale dei Casi Clinici.
“Non risponde mai nessuno” segna l’esordio di Simone Ghelli con Miraggi. Dieci racconti con un minimo comune denominatore che deriva da un’esperienza personale dell’autore, quella fatta come obiettore di coscienza presso un ospedale psichiatrico di Siena, città dove si è laureato. “La componente personale è sempre molto forte. Parto da un’esperienza vissuta, poi modifico. In questo caso si parla di gente che soffre una situazione di disagio di varia natura, di persone che si ritrovano abbandonate o si sentono abbandonate”.
Lo definisce bene la prefazione di Wu Ming 2. “Il vero filo conduttore è la vergogna, dei personaggi verso se stessi e dell’autore verso il genere umano di cui fa parte. Si permette che certe situazioni esistano, voltandosi dall’altra parte. Si vive nell’indifferenza, senza fare nulla”.
Come è nato il libro? “All’inizio era molto diverso. Quasi un anno fa mandai la raccolta a Miraggi, era parecchio disomogenea e diversi lavorierano già apparsi su riviste. Non pubblicavo da tanto, avevo bisogno di uscire dal guscio. Hanno letto, è piaciuto, mi hanno fatto sapere che non c’era fretta. Se c’è questo tempo, mi sono allora detto, riprendo il materiale. Per la prima volta avevo la fiducia dell’editore e la possibilità di lavorare senza pressioni. Sono nati altri racconti e, alla fine, dei dieci originali ne sono rimasti la metà”.
Perché la scelta del racconto? “Perché è la forma in cui penso di esprimermi meglio. Ho scritto un paio di romanzi brevi, fatico con la forma più lunga. Come Raymond Carver, che abbandonò il suo romanzo perché si annoiava… In effetti le idee di molti racconti sono tentativi di scrivere romanzi perché ho comunque questa specie di tarlo. Poi ci lavoro sopra, tenendomi l’idea forte”.
E viene fuori un lavoro a tutto tondo, come un disco. “Mi piace l’idea di un libro come un album. Non a caso il titolo è quello di un racconto, come la canzone che dà il titolo a un disco”.
Luca Ragagnin è al quarto libro con Miraggi. Ma questo è speciale, per due motivi: perché si tratta del primo romanzo, e perché con “Agenzia Pertica” Miraggi inaugura la collana ScafiBlù, dedicata solo ad autori italiani. “E sono molto contento di essere il numero uno”, dice Ragagnin, autore di quello che definisce “un tristissimo romanzo comico”.
Perché questo ossimoro?
“Domizio Pertica è un uomo che vuole fare lo scrittore. Pubblica, ma non riesce a vivere di questo lavoro. Perde i lettori, addirittura la critica lo prende in giro. Con un atto rabbioso decide di cambiare vita e apre un’agenzia investigativa. Incontra una giovane praghese, con cui si fidanza, e lei porta da Praga il suo merlo indiano parlante. All’agenzia si uniscono una gazza ladra e un gatto di strada”.
Che razza di agenzia è?
“Sui generis, nessuno ha sostenuto gli esami per ottenere la licenza. E’ una banda di scalcagnati che ha come obiettivo trovare gli alibi per i delinquenti ma che non riesce a combinare nulla. E’ un tristissimo romanzo comico perché c’è un diffuso sentore di cose perdute e di sconfitta. La compiutezza di tutti questi personaggi si avvera nella sconfitta. Pertica perde l’amore per la scrittura. Venus Diomede perde la sua città. Il merlo perde una lingua che conosceva, venendo in Italia. E la gazza è single perché ha ammazzato la sua consorte: le gazze, come le tortore, sono inseparabili”.
E’ comunque una ben singolare compagnia di giro…
“Più che altro è un guscio narrativo, tutto si gioca sulla lingua e sui registri. Su quello che succede tra parentesi in una realtà che non parte mai. Ognuno dice la propria, animali compresi. E il trait d’union che attraverso le vicende è l’alcol, la vodka: bevono tutti come pazzi, anche gli animali tranne il gatto… I registri sono giocati molto sul basso, verso lo scorretto. A fare da contrappunto c’è un’altra voce che irrompe di tanto in tanto, in metacapitoli annunciati. E’ la voce di chi sta scrivendo, non necessariamente dell’autore. Salta fuori il sottofondo dolente, con una lingua diversa. Come un ammonimento al lettore. E’ un gioco di spiazzamento, per instillare dei dubbi. E’ una voce che fa sbalzare il sottinteso talmente coperto dalle vicende che sono comiche. Ti mostra il rovescio della medaglia”.
Parlando di investigazioni uno pensa a un giallo.
“Ci sono delle promesse, ma si capisce subito che non si tratta di quel genere. Le prime trenta pagine sono una lunga tirata del protagonista sul suo fallimento come scrittore. C’è l’affabulazione, tipica di una certa letteratura. La lingua è molto sorvegliata, anche nelle forme sgrammaticate. Ne viene fuori una favola sbilenca, con equilibri spezzati. Un libro anche apparentemente molto misogino, soprattutto in Pertica: parliamo di un cinquantenne incarognito dalla vita”.
Venedikt Erofeev (1938-1990) è stato uno scrittore-simbolo per intere generazioni, oltre che un autore tra i più controversi del post-modernismo russo. La sua vita al limite tra dipendenza da alcool e vagabondaggio ha fortemente contribuito sia alla sua immagine di reietto, sia alla crudezza della sua scrittura, che trova la massima espressione nel suo bestseller clandestino ‘Mosca-Petuska’. Un’opera grottesca, visionaria, tragicomica, che parte da Mosca per un viaggio forse mai compiuto.
‘Memorie di uno psicopatico’, scritta nel 1956 e ora riproposta da Miraggi, è una rarità. Si tratta infatti del primo libro di Erofeev, caratterizzato da un insieme di memorie scritte su pagine di un diario di cui non si conosceva l’esistenza. Pubblicato in Russia solo nel 2000, il libro è una costellazione di riferimenti e contestazioni furiose sui totem e i tabù della società sovietica. Protagonista di questi racconti è Venedikt, alter-ego dell’autore che, ancora giovanissimo, esprime la sua disperata ribellione verso il mondo.
Il libro mostra la psichedelica visione del mondo dell’autore: questi diari giovanili seguono il giovane Venedikt nel periodo che va dall’ottobre 1956 al novembre 1957. Tredici mesi cruciali, dall’ammissione con lode all’Università di Mosca alla successiva espulsione, dal primo impiego al successivo licenziamento. Il racconto delle esperienze autobiografiche si accavalla e si interseca con riflessioni di carattere filosofico, pseudoscientifico, spesso assurdo. Ciò che colpisce immediatamente è l’andamento bipolare della scrittura tra rabbia incontrollabile a paura, tra odio e bisogno di affetto; lo spazio e il tempo non hanno confini e la metrica del linguaggio di Venedikt richiama le figure cinematografiche dello sterminatore di scarafaggi William Lee nel film ‘Pasto nudo’ (David Cronenberg, 1991) o di Michael Anderson, il nano immaginario del telefilm ‘I segreti di Twin Peaks’ (David Lynch, 1991).
La violenza narrativa con cui Venedikt fa sentire la sua psicopatologia ci ricorda che ancora oggi, a oltre 60 anni dall’uscita di questo libro, esistono milioni di persone che come lui vagano perse per il mondo alle quali nessuno sa indicare loro la via del ritorno a casa. Anche se negli ultimi 40 anni, la scienza della malattia mentale è diventata capace di fornire diagnosi sempre più accurate.
Da mercoledì 9 a domenica 13 agosto Lenola, in provincia di Latina, ospita “Inventa un film”. L’evento, organizzato dall’associazione culturale Cinema e Società, è giunto all’edizione numero diciannove e ha in cartellone numerose iniziative collaterali. Tra queste c’è la Giornata del libro (qui il programma), dove Miraggi sarà ovviamente presente. Domenica 13, alle 16.15, Valerio Di Benedetto presenta il suo “Amore a tiratura limitata”. Appuntamento nello spazio allestito nella Pineta Mondragon.
Io amo le cose belle, le cose ricercate, le cose preziose. E oggi proprio di questo parleremo. Oggi ci facciamo trafiggere da una freccia poetica destinata a lasciare il segno.
Oggi vi presento “Senti cosa ho scritto” di Lorenzo Bartolini, pagine in versi suddivise in tre tempi. E il fatto che “Giugno in parole” dell’anno scorso fosse dedicato a un altro grande artista – che risponde al nome di Roberto Mercadini e che firma la prefazione del libro – non è un caso.
Sono emozionata, entusiasta, orgogliosa di avere letto queste righe e di avere conosciuto il loro padrone. Tutti dovremmo avere Lorenzo come amico, come conoscente, come poeta. A nessuno dovrebbe essere negato il diritto di godere delle sue parole, parole che si posano come polvere di stelle sulle nostre palpebre chiuse, parole che illuminano di meraviglia ogni sfaccettatura della realtà su cui si posano.
Lorenzo è un attento osservatore di ciò che lo circonda e ciò che i suoi occhi, la sua pelle e il suo cuore percepiscono viene riflesso in uno stile fatto per essere letto, uno stile pulito, nitido, gentile e indagatore dell’animo umano.
Non è possibile non rimanere incantati e stupiti dalla dolcezza e dalla sensibilità racchiuse in questi fogli di carta che ci conducono per mano in lande calorose e colorate.
Salpiamo sulla barca Bartolinica per un viaggio in una poesia che ha il potere di espandersi e occupare ogni spazio libero. Una poesia che ci mostrerà tutto ciò su cui lo sguardo, il tocco e la penna di Lorenzo si sono soffermati creando parole, immaginari e cornici da riempire di bellezza.
Una prima cornice, forse La cornice, è l’Amore: ogni poro di ogni foglio di carta trasuda amore; amore per la mamma, per la fidanzata, per la nipote, per l’amico, per le città (e Torino non poteva mancare). Ogni riga è un inno ad amare e a non avere paura di farlo e di scriverlo. Ogni riga è un inno a vivere ogni stato d’animo, anche quello che porta con sé il freddo vissuto da un cuore privato per un istante dal calore dell’amore a causa di una lite. Ogni riga è un inno a curarsi a suon d’affetto e a lasciarsi trasportare dallo stupore che avvolge ciò che ai più appare ovvio.
Una seconda cornice è la Vita, vita che ci appare straordinaria nella sua scansione temporale ordinaria. Vita che si compone di grandi temi affrontati con la bellezza della semplicità e della bontà di cuore. Qui la poesia riesce a smuovere le coscienze, a diventare uno spillo che ha il potere di sgonfiare quell’enorme bolla che ci costruiamo per non vedere ciò che non ci tocca da vicino. Uno spillo che fa convivere in un buco piccolissimo vino e vergogna. Ma la vita è anche gioco: un modo per rinfrancarsi dalla potenza e dall’energia delle passioni. E’ una pausa per fermarsi a riflettere e a ragionare, sospendendo quella frenesia che non è altro che una cattiva consigliera. La vita è anche non morte e quindi regno assorbente di ogni pensiero.
Una terza cornice è composta dai Ricordi poetici, lettere che sprigionano meraviglia, gioia, generosità, vicinanza, parità. Sono frammenti di attimi di riconoscimento di anime. E’ una cornice libera dove il poeta crea il suo mosaico emozionale che funge da stimolo per il lettore, il quale così potrà dare il suo valore emozionale alle parole che legge, riempiendo di luoghi, sensazioni e persone la terra, la natura e i gesti.
Questo è un lavoro che ha lo splendore e il fascino di una cometa persistente da un lato e la forza educativa ai sentimenti dall’altro. Qui le parole vibrano, si mescolano, si scuotono e danzano al ritmo di una musicalità inedita, una musicalità di cui non potremo e non vorremo più fare a meno.
I love the beautiful things, the valued things, the precious things. And today we will talk about these things. Today the poetical arrow will pierce us and it will leave a sign.
Today I present you “Senti cosa ho scritto” (You listen what I wrote), Lorenzo Bartolini’s verses divided in three times. It isn’t a coincidence that last year I talked about an other big artist in “The words of June” section: his name isRoberto Mercadini and he signs the book preface.
I am touched, enthusiastic, proud because I read these lines and I met its owner. Everyone would have to have Lorenzo as friend, acquaintance, poet. Everyone would have to have the right to enjoy his words, which place like stars dust on our closed eyelids, words that light every reality side with magnificence.
Lorenzo is careful observer and what his eyes, skin and heart sense has reflected in his style, a style to read, a clean style, a gentle style, a human spirit investigator style.
We are enchanted and amazed of his sweetness and sensitivity included in these sheets of paper, which join our hands to bring us toward loving and coloured lands.
With his ship, we sail off into the poem, a poem that has the power to grow and capture every free space. A poem that shows us Lorenzo’s reality: his gaze, his style and his pen create words, imaginations and frames to fill up with beauty.
A first frame, maybe the frame, is the Love: every pore of every sheet of paper trickles love; love for the mum, for the girlfriend, for the niece, for the friend, for the cities (and Turin is here). Every line is an ode to love and to not fear to love and write it. Every line is an ode to live every state of mind, even the state of mind that brings the cold lived by the heart when the warm of the love misses for a moment because of a fight. Every line is an ode to take care of us with the love; it is an ode to be surprised about what a lot of persons believe obvious.
A second frame is the Life, life that appears us extraordinary in its ordinary temporal scan. Life with its big questions faced with the beauty of ease and heart kindness. Here the poems move the awarenesses, they are a pin that deflates the big ball which we build around us to not watch what is not near us. A pin that creates a little hole where wine and embarrassment live side by side. But the life is a game too: a way to refresh us from the passions power and energy. It is a pause to stop and to think, without the frenzy that isn’t a good advisor. The life is a not death too and so it is a kingdom that absorbs every thought.
A third frame has made by poetical Memories: the letters give off marvel, delight, altruism, affinity, parity. They are fragments of instants of souls identification. It is a free frame where the poet creates his emotional mosaic that acts as an incentive for the reader, which will give his emotional value to the read words and he will fill up with places, sensations and people the land, the nature and the gestures.
This work shines as a persistent comet and it has the power to educate to the emotions. Here the words are vibrant, they shake, they dance with a fresh sound that will become indispensable for us.
Ho fatto la doppietta di Claudio Marinaccio, dopo il divertente Come un pugno, ho dedicato
un´ora spensierata a questo nuovo Non disturbare, uscito per Miraggi Edizioni.
Il libro è strutturato a piccoli episodi, mutuati su quel mix di parodia di situazioni tipiche (il tormentone degli scocciatori al citofono o per telefono, testimoni di Geova, gestori telefonici, banche) e mini-cronaca di costume che caratterizza anche le attività dell´autore sul suo profilo Facebook. Ritroviamo in effetti anche la stessa voce onesta, a volte cinica, politicamente scorretta, con un certo equilibrio tra sarcastico e amaro/tenero e una modalità schietta e picaresca che potrebbe essere risultato di alcune sue letture americane.
Credo di non offendere nessuno se dico che questo libro potrebbe essere una versione appunto politicamente scorretta delle operazioni tipo “Momenti di trascurabile…” di Francesco Piccolo.
Il tema portante peraltro non è banale, si tratta del surplus di stimoli uditivi e visivi a cui siamo sottoposti: discussioni da bar preferibilmente a voce alta, cold-calling* e ancora scene di cd. ordinaria solitudine da social.
L´altro filo conduttore mi pare essere la cronaca della provincia (i bar, le puntate “in città”) e dei suoitipi, con alcuni esiti che possono ricordare alla lontana il capostipite di questo tipo di satira o ritratto, il Bar Sport di Benni (che però spingeva molto di più sui pedali di satira e parodia, mentre Marinaccio alterna in questi piccoli ritratti “invettiva” anti-luoghi comuni e una certa tenerezza specie per le figure degli immancabili anziani).
In conclusione e nonostante questo ancoraggio nella nostra attualità, penso non si faccia torto all´autore se si afferma che qui egli intendeva soprattutto intrattenere e far sorridere, non produrre particolari approfondimenti su un terreno giornalistico o saggistico.
Se si accetta questa premessa Non disturbare risulta una lettura simpatica e sorridente, conferma quella che è una buona penna e simpatizza con il lettore (o forse viceversa) con la tonalità sincera e scanzonata di chi racconta cose a un amico davanti a una birra o un vino rosso.
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*Cold callling è una definizione legale delle chiamate commerciali effettuate senza aver esplicita autorizzazione dal Cliente, qui nel mio paese è pratica considerata piuttosto grave e sanzionata – con gradazioni differenti rispetto a chi le fa, ad esempio per una Banca può comportare multe salate ma anche conseguenze più gravi – dal libro mi par di capire che in Italia la situazione sia ancora a uno stato piuttosto selvaggio.
POST-SCRIPTUM ALLA MARINACCIO
Non saprete mai se il libro mi sia piaciuto davvero. Peró sai l´autore scrive e recensisce libri per Il Mucchio e Donna Moderna…non si sa mai, meglio tenerselo buono.
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