Viene quasi naturale invertire le lettere e trasformare il professor Toti nel maresciallo Tito: del resto tutti gli riconoscono una notevole somiglianza fisica con l’ex presidente della ex Jugoslavia, oppositore dei fascio-nazisti, ma anche del PCUS di Stalin. Toti, però, è un attempato ricercatore a contratto dell’Università di Camerino, specializzato nelle ricette sul carciofo e sull’uso delle erbe aromatiche nel Medioevo. Per questo non capisce bene perché la Famosa Conduttrice della trasmissione “Il mondo in cucina” abbia cercato proprio lui per questa missione, piuttosto che non uno dei tanti suoi giovani studenti, certamente più a loro agio quando si parla di ricette e cucina contemporanea, ma soprattutto quando ci si deve esporre sullo schermo televisivo. Fatto sta che accetta di scrivere il soggetto per cinque puntate anche perché assecondano la sua proposta di una puntata sulla cucina balcanica, in particolar modo per la cucina di Sarajevo. Il viaggio di lavoro non è dei più comodi, perché le vie di comunicazione nelle terre dei Balcani, dopo la spaventosa guerra dell’inizio degli anni Novanta del ventesimo secolo, è precaria e tutta da ricostruire, come le vite degli abitanti di quei luoghi. Toti sceglie di fare l’autostop e quindi di approfittare della compagnia di guide affabili disposte ad avvicinarlo alla sua Sarajevo. Ma in realtà Toti ha un’altra missione, anzi ne ha due: trovare un ricettario cinquecentesco probabilmente molto caro al maresciallo Tito e dato per disperso dopo il bombardamento della biblioteca di Sarajevo; ritrovare la sua ex fiamma, sua studentessa di un tempo, Alma. Il tutto scandito da pranzi e cene semplici, cucinati secondo tradizione e conditi da salse e rakija…
Eric Gobetti è un riconosciuto e stimato storico, specializzato in Novecento ed in particolar modo sulle vicende della penisola balcanica: alla sua penna si devono pagine chiare e documentate sulle foibe, sulla fine della Jugoslavia, ma anche sui partigiani e la seconda guerra mondiale. Nel suo primo romanzo sceglie una formula ben riuscita di narrazione e saggio e ci porta a spasso per una parte dei Balcani, in quelle terre senza confine fra il Montenegro, la Bosnia Erzegovina e la Croazia per spiegare coi fatti, cioè con usanze e soprattutto piatti culinari, il senso di equilibrio multiculturale di un mondo che molti vogliono dividere, ma che in realtà convive benissimo al di là di ogni etichetta e mutazione linguistica. Non c’è niente di più identitario per definire un popolo della sua cucina: scopriamo che a distanza di centinaia di chilometri cambia qualche nome, cambia qualche lettera, ma non l’essenza dei piatti di carne e pesce, verdure e rakija, vero collante di uomini e donne che sono divisi dalla fede, però uniti dall’amore per la loro terra. L’esperienza on the road è un modo per riflettere sui temi della libertà e dell’identità, sui confini e sull’insensatezza delle guerre, sulla distruzione e sulla dignità della ricostruzione. Un libretto ben riuscito, narrativamente parlando anche banale, ma di quella “banalità del bene” che aiuta a capire quanto dobbiamo ancora capire dell’essere umano in un mondo a volte subumano.
La parola “confine” non indica soltanto una linea immaginaria che divide gli stati fra loro delimitandone le loro aree territoriali, ma contiene in sé anche un concetto psichico. Il confine, o meglio il bordo, è ciò che separa l’interno dall’esterno e che determina l’identità di una persona. Il bordo separa il nostro io da ciò che potrebbe destabilizzarlo. Tuttavia, l’io anela sempre ad andare oltre il bordo, ovvero da finito a diventare in-finito, e così facendo vuole correre il rischio di finire in un abisso da cui molto probabilmente non c’è via d’uscita.
È come se l’io fosse disposto a fare come Giona, a entrare dentro la balena perché non vuole essere relegato al mero ruolo affidatogli da Dio, ma a differenza di Giona l’io, però, è destinato a restare nel ventre del cetaceo. Cercare l’infinito per molti non è altro che un cadere in maniera sempre più precipitosa verso la propria fine. Di questa lotta contro il bordo ne parla lo scrittore e psicologo milanese Nicola Neri nel suo terzo romanzo Non commettere infinito (Miraggi Edizioni, 2025).
La trama di «Non commettere infinito»
Il protagonista di Non commettere infinito si chiama Morelli. È un uomo sulla trentina d’anni e lavora per una ditta. Troviamo il protagonista in macchina alle prese con una chiamata telefonica d’emergenza. Alle domande degli operatori risponde che ha fatto «indigestione di infinito» e che sta scappando dalla realtà in preda a «una dannazione speranzosa, in questo partire, in me/È ormai fatto solo di avanti, non di domani».
Ma dove è diretto esattamente Morelli? Da chi sta fuggendo di preciso? Nel corso di questo viaggio on the road – presunto o meno, ma ci arriveremo per gradi – l’uomo parla con i personaggi più disparati, fra cui operatori di call center, colleghi e vecchi amori. Passa in rassegna alla sua vita – l’abbandono della madre, l’essere cresciuto con un patrigno, problemi legali sorti a lavoro –, ma in questo viaggio sembra voler andare incontro alla morte, oppure sfiorarne il bordo per capire cosa vuole veramente da una vita che pare essere sull’orlo del fallimento.
Le possibili influenze di «Non commettere infinito»
Sono tanti i riferimenti letterari e non che Nicola Neri inserisce all’interno di Non commettere infinito. Il primo l’abbiamo citato a inizio articolo ed è la figura biblica di Giona, colui che, inghiottito dalla balena, ne uscirà esprimendo il desiderio di Dio di diffondere la sua parola nella città di Ninive. Nicola Neri cita esplicitamente il Giona di Moby Dick nei seguenti termini:
È colpa mia: mi sono inventato una storia, ma tutti hanno sbagliato a capire chi ero. Pensavate a Giona. Perché ero io a crederlo. Che io fossi Giona che entra nella balena, viene inghiottito e trova rifugio, calore, esce più ricco, nuovo. E invece sono sempre stato Achab. Colui che cerca di avvinghiarsi a chi lo porterà a fondo. Il suo tesoro è questo: una fine.
A differenza del racconto biblico, Morelli è un Giona che, invece di rispondere al desiderio di vita, cerca di andare incontro al desiderio di morte, una morte che dovrebbe proiettarlo al di fuori dei suoi confini, che dovrebbe portarlo verso una dimensione infinita dove poter essere tutto ciò che vuole e non un’etichetta delimitata dalla propria esperienza terrena.
Un altro richiamo è al film Locke di Steven Knight (2013) con protagonista Tom Hardy. Come Ivan Locke, anche Morelli lavora per una ditta e intraprende un viaggio in macchina dove compie diverse telefonate, ma a differenza di Knight Neri ci consegna, invece, un viaggio on the road più tetro, più cerebrale, e soprattutto più desolato, in quanto le chiamate che fa Morelli sono perlopiù a persone che non conosce e che viceversa non lo conoscono e non riescono a dare una soluzione al suo disagio.
Altro richiamo importante è anche a personaggi letterari come il dottor Moreau e Morel, che danno presumibilmente ispirazione al nome del protagonista. Questo collegamento ci viene immediato per la dedica che Neri scrive in esergo: «alla nostra invenzione». Come i personaggi di Wells e Bioy Casares, anche Morelli è una persona che a poco a poco impazzisce per le illusioni che si è creato, illusioni che vuole vivano con lui per sempre, e pertanto pensa che la morte sia l’unico modo per diventare infinito.
Distinzione fra bordo e bardo
Per comprendere ancora di più questo romanzo, è da tenere a mente come Nicola Neri nutra letterariamente parlando un certo debito verso suo padre Michele Neri, che cita nei ringraziamenti e fra le cui ultime pubblicazioni figura Come un mattino texano. Di solito le relazioni padre e figlio in letteratura sembrano essere abbastanza ingombranti – vedasi Alexandre Dumas padre e figlio, oppure Stephen King con i figli Joe Hill e Owen King –, ma in questo caso fra Michele e Nicola Neri c’è un rapporto molto forte di complicità che, oltre a essersi espresso esplicitamente nel memoir Scazzi, si ritrova anche in Non commettere infinito.
Il legame è da riscontrarsi in quest’ultimo e in Come un mattino texano e in due concetti che sono abbastanza simili: il bardo e il bordo. Nel primo caso, si tratta della situazione che vive Traven, il protagonista del romanzo di Michele Neri, in procinto di lasciare il mondo dei vivi per abbracciare quello dei morti, ma ancora brancolante come fantasma in un mondo che oscilla fra realtà e sogno. Nel secondo caso, invece, abbiamo Morelli, che invece dubita di vivere nella propria realtà e che cerca un modo per delimitarla andando incontro alla morte per fissarne in qualche modo i confini.
In ogni caso, sia Traven che Morelli sono fantasmi o presunti tali che si ritrovano a confrontarsi con la propria soglia, che vogliono passare allo stadio successivo per porsi come padroni della propria vita. Entrambi, infatti, vogliono delimitare la fine della propria vita, perché la fine è la casa che gli permette di stabilire una certezza per ciò che è ignoto, che sia la morte per Traven o l’infinito per Morelli.
Un disperato invito all’ascolto
Non commetere infinito gioca molto con questo confine fra reale e immaginazione, soprattutto a livello grafico. Allo stampatello delle conversazioni telefoniche, di fatti, si alternano parti in corsivo dove Morelli fa delle riflessioni su se stesso e quello che osserva. Il più delle volte queste parti si sovrappongono fra loro a rendere il confine fra la mente di Morelli e la sua realtà sempre più labile.
Sempre più labile è anche il confine fra vero e falso. Più volte, infatti, Morelli dice che quanto racconta potrebbe non corrispondere al vero, ma chiede allo stesso tempo alle persone che lo ascoltano di dargli retta:
Dev’essere imparziale e seguirmi. Perché io devo tornare indietro e farti vedere che cosa mi ha portato fino a quest’ora e a te. Così ti dirò quello che nessuno può sapere. Perché lo fanno, perché non ti hanno chiamata prima. Sono in quel breve tratto tra gli occhi ancora aperti e che si rivolgono ovunque e poi si chiudono.
Quello di Morelli diventa un soliloquio dal ritmo sempre più serrato, scandito da capitoli che si susseguono come fosse un conto alla rovescia verso la morte, dove il protagonista chiede a qualcuno che gli stia al suo fianco per far sì che lo possa scuotere e gli possa confermare che quanto sta vivendo sia la realtà, e che questa realtà la stia controllando lui e nessun altro.
Il protagonista ha bisogno che qualcuno gli creda, in quanto ha bisogno di dimostrare al mondo quanto possa essere in grado di andare oltre i limiti che la sua vita gli ha imposto, quanto sia possibile raggiungere l’infinito con le proprie mani. Chiede sempre ai suoi interlocutori se lui è reale, se è reale quanto sta provando, in quanto stabilire l’autenticità di quanto sta vivendo significa confermare le sue possibilità come padrone del proprio destino.
Una missione suicida per conto della vita
Per dimostrare quanto racconta, Morelli giustifica i suoi fallimenti, le sue esperienze con la droga come momenti che gli servivano per dimostrare come potesse essere in grado di controllare il confine fra la vita e la morte, come fosse possibile toccare l’abisso e poi riemergere e vedere la luce:
Sono in missione per conto della mia vita. Pit, vado a vedere. Scuola empirica. Che cosa c’è in fondo, al centro della corrente che sembra sul punto di esplodere? L’abisso? Una luce migliore e che aspettava di essere scoperta, sì, a caro prezzo, ma comunque una luce?
Morelli, quindi, si mette volontariamente all’interno di una corrente che è «l’unica cosa comprensibile di una vita incomprensibile», che lo porta a morire «per continuare a credere di avere vissuto». Un passaggio interessante, però, è quando il protagonista si chiede se «non ci siamo mai sentiti un po’ bovaristi». Morelli sceglie forse uno fra i personaggi più nichilisti della letteratura, Emma Bovary, una donna che insegue passioni autodistruttive per sentirsi viva, perché solo autodistruggendosi può prendere in mano la propria vita dalla monotonia coniugale a cui l’ha condannata il marito Charles.
Qual è, dunque, lo scopo di questo viaggio? Per Morelli è quello di provare a raggiungere il confine con la morte, provare forse a porre una volta per tutte fine alla propria vita per delimitarla, per dire al mondo intero che è stato lui a scrivere il suo finale, e nessun altro. Solo così, dunque, prova a non commettere infinito: cercando di annullare il flusso della vita, delle visioni e dei ricordi che gli fanno male e che sembrano decidere il finale per lui.
«Non commettere infinito»: un viaggio borderline
Se dobbiamo trovare una definizione al viaggio on the road che compie Morelli in Non commettere infinito(acquista), è quella di «viaggio borderline», un viaggio compiuto nel bordo fra finito e infinito, fra stabilità e instabilità. Il viaggio di Morelli è il viaggio disperato di un uomo che pensa che le cose gli succedano quando, invece, delle cose vorrebbe esserne il padrone, e l’unico modo che trova per appropriarsi definitivamente della propria vita è accarezzare il confine con la morte.
Allora chi sono? Sono una storia. Una storia che non esisterebbe senza di me come io senza di lei. E chi può crederci? Eppure per chi è una storia la vita comincia solo quando c’è uno che ci crede, che la rende, si può dire, vera? Amabile? Se no resta una fantasmagoria raccontata al buio, quando nemmeno gli uccelli ti danno retta. E invece ci vuole fede. E io non ho ancora trovato nessuno, che creda che questi mostri opachi che si agitano nella mia testa… Ma come credermi?
Un romanzo di idee di attualità stringente: Malapace (Miraggi edizioni, 2023) di Francesca Veltri. Tra la Prima guerra mondiale e gli ultimi giorni del regime di Vichy, il romanzo segue un gruppo di amici le cui vite s’intrecciano con le vicende più ampie della Francia di quegli anni. Dalla prigione alleata in cui si trova nel 1944, perché accusato di aver collaborato con il Ministero della Propaganda di Vichy, François – protagonista e voce narrante – ripercorre in flashback vent’anni di esperienze personali e collettive. La storia narra con dolorosa lucidità la decisione di assoluto pacifismo presa da François dopo la morte del padre al fronte nella I guerra mondiale, l’incontro con Martine – figlia di un maestro ebreo socialista –, il legame con Jean-Pierre e il sogno del comunismo, fino alle disillusioni del socialismo reale sovietico. François racconta la propria scelta consapevole ma alla fine sbagliata, l’adesione al Male nel tentativo di perseguire il Bene, mentre il volto di Antoine – recluso nella stessa prigione per crimini di guerra e amico d’infanzia diventato nazista convinto – diventa lo specchio crudele che gli rimanda l’eco di una colpa che partita da fronti opposti li ha portati allo stesso punto di arrivo.
Francesca Veltri (1976) si è diplomata in Studi Filosofici alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ha studiato presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales e l’École Normale Supérieure di Parigi ed è docente presso l’Università della Calabria. Autrice di saggi, studiosa di Simone Weil, Malapace è il suo secondo romanzo.
Domanda. La pace e il pacifismo attraversano in questi tempi ogni dibattito e ogni posizione lacerando i partiti, le organizzazioni, le amicizie come non mai. Il tuo romanzo Malapace fin dal titolo va al cuore del problema…
Risposta. ‘Malapace’ è quella pace che diventa il suo contrario, ossia un oggetto di conflitto; a parte i fanatici della ‘guerra sola igiene del mondo’, è difatti quasi scontato essere a favore della pace. Ciò che invece non è scontato – soprattutto in alcuni periodi – è a favore di quale pace essere. I pacifisti europei che spinsero i loro governi, tra cui quello socialista di Léon Blum, a negare l’aiuto militare alla Repubblica spagnola attaccata dai franchisti, speravano di evitare in questo modo l’insorgere di una nuova guerra mondiale. Scelta che li separò da molti dei loro compagni, e che segnò l’inizio di una serie di dilemmi culminanti nei Patti di Monaco del 1938. Sembra strano dirlo ora, ma quando ho finito il romanzo era il 2019. Prima della pandemia, prima dell’invasione dell’Ucraina. Praticamente in un altro mondo. L’ultima volta in cui questioni simili erano arrivate a scuotere l’Europa era stato in Bosnia, negli anni Novanta. Per certi versi, mi rendo conto che proprio questo mi ha permesso di scrivere il romanzo. Se non l’avessi fatto allora, oggi sarei stata troppo coinvolta emotivamente per riuscirci. Avevo bisogno di guardare dall’esterno a quel dilemma, un dilemma tragico perché le ragioni messe in campo da un lato e dall’altro partivano paradossalmente da valori comuni, condivisi. Entrare in conflitto con chi la pensa all’opposto è naturale; farlo con chi è stato tuo compagno ed amico è molto più duro e doloroso. E, una volta che la lotta è finita, è più semplice confrontarsi con chi è stato a tutti gli effetti il nemico, che non con le persone un tempo amate e poi perdute, come accade al protagonista di Malapace.
D. Quando oggi si parla di pace e si elogia la diserzione si pensa per lo più alla Prima guerra mondiale, mentre la Seconda guerra anche per i più convinti pacifisti è invece letta all’insegna della resistenza che va da sé è armata. Il protagonista del tuo romanzo François, la cui intera vita ruota attorno alla scelta del pacifismo è stato storicamente una eccezione?
R. No, non è stato un’eccezione. Come lui ce ne sono stati tanti, ed è proprio questo che mi ha colpito e mi ha fatto venire voglia di raccontarne la storia, che ho scoperto quasi per caso, mentre studiavo per la tesi di dottorato nelle biblioteche di Parigi. L’argomento della mia tesi era il rapporto tra la sinistra francese e l’Unione Sovietica tra gli anni Venti e Trenta. Al momento di predisporre le note biografiche, mi sorprese vedere come molti militanti comunisti o socialisti, nel dopoguerra, fossero stati condannati per aver collaborato con la Repubblica di Vichy. Avevo letto i loro articoli, i loro scambi epistolari, e sapevo che avevano dei valori opposti rispetto a quelli del nazismo; com’era stata possibile una cosa del genere? Sono arrivata così a immergermi nella profonda lacerazione del pacifismo francese, diviso tra chi collaborò con Pétain e chi si schierò con De Gaulle. Parliamo della generazione che aveva visto i propri padri morire nelle trincee della Grande Guerra o tornare sfigurati e invalidi, e per la quale non c’era male peggiore che tornare a combattere. Alcuni tuttavia fecero questa scelta, altri preferirono il compromesso con il nemico, nell’idea che ciò avrebbe preservato più vite umane. C’è anche chi, come Simone Weil, fu pacifista assoluta fino al 1939, per poi aderire al governo gollista in esilio a Londra, che combatteva insieme alle forze alleate.
D. “Il Satana del nostro tempo recita la parte dell’umanista e ha un unico desiderio: salvare il mondo.” Lo scrive I. B. Singer nella sua raccolta di saggi intitolata A che cosa serve la letteratura (Adelphi, 2024). Sei d’accordo?
R. Amo molto i romanzi di Singer, ma non avendo letto il saggio mi è difficile contestualizzare la frase. Se dovessi prenderla in senso del tutto astratto, mi verrebbe da dire che Satana, se esiste, compie il male convinto che sia appunto un male, mentre gli esseri umani generalmente commettono le azioni più atroci nell’idea che esse siano necessarie a un bene superiore, e questo non solo nel nostro tempo, ma da sempre. Che ciò nasconda spesso anche interessi personali è senz’altro vero, ma di fondo anche Hitler o Himmler probabilmente erano convinti di salvare il mondo. Alessandro Manzoni diceva che è più facile fermare l’arma di un nemico che il ferro di un chirurgo: quando gli esseri umani si vedono come chirurghi, è forse allora che sono più pericolosi.
D. Infatti, la cosa che più colpisce nel tuo romanzo è che i personaggi sono mossi dalle più sincere convinzioni e non da trasformismo o dall’interesse personale. Anche Antoine, il compagno di cella di François, nazista convinto e torturatore è onesto con se stesso in relazione alle proprie convinzioni e anzi mette François dolorosamente davanti all’ipocrisia delle sue scelte.
R. Vero. Volevo capire – non giustificare, ma piuttosto, spinozianamente, capire – il punto di vista ‘dell’altra parte’ quella di chi si era trovato a collaborare con i nazisti non perché era il minore dei mali, ma per una decisione ideologica precisa. Il confronto/scontro tra François e Antoine mette in scena due persone di cui una è lacerata dai dubbi, l’altra invece resta fanaticamente attaccata alle proprie convinzioni. Antoine – il nazista – non si pente di ciò che ha fatto, soffre solo per il fatto di essere stato sconfitto. François – il pacifista – rifiuta di trovarsi dalla stessa parte di qualcuno che aderisce a un ideale per lui abietto, eppure è proprio lì che le sue scelte lo hanno portato…
D. In Malapace l’amicizia mi pare molto più importante dell’amore, è così?
R. Direi che dipende dai personaggi. In generale, penso che l’amicizia possa avere un’intensità paragonabile all’amore, pur essendo un sentimento molto diverso. In particolare, il protagonista ha bisogno di sentirsi amato, che sia da un amico o da un amante, ma anche dai compagni di lotta, dalla sua famiglia, eppure li vede allontanarsi tutti, uno per uno, a causa di scelte che la sua morale lo spinge a fare, e che lo condurranno tragicamente a risultati opposti rispetto a quelli che avrebbe voluto ottenere.
D. Al tuo protagonista non risparmi nulla, deve fare i conti anche con il privilegio che non è cosa che ci si scrolla di dosso con un puro atto di volontà…
R. Questo è qualcosa che ho in comune con lui. Spesso mi sono percepita – ed effettivamente sono stata – privilegiata per il contesto in cui sono cresciuta, a livello materiale, culturale e anche morale; quindi capisco il senso di colpa che agita François per qualcosa che non ha commesso, ma che gli è toccato per sorte, e a cui cerca inutilmente di sottrarsi.
D. Malapace è un romanzo in cui la storia delle persone si confronta con la Storia eppure i personaggi non sono dei semplici ‘portatori’ di ideologie, ma, al contrario sono molto dolorosamente lacerati. E mi pare che tu da una parte con nettezza porti fino in fondo la critica alle ideologie e le scelte conseguenti ma dall’altra non infierisci sulle persone di per sé.
R. Non potrei e non vorrei farlo. Per le mie convinzioni morali mi è facile condannare determinati atti e stigmatizzarli insieme alle terribili conseguenze che hanno avuto, ma resta il fatto che non posso sapere che scelte avrei fatto io, se mi fossi trovata nelle stesse condizioni dei personaggi. Non posso saperlo, anche se con il senno del poi è molto evidente quale fosse la parte giusta e quella sbagliata; posso solo augurarmi che avrei scelto l’una piuttosto che l’altra, ma non ne ho la certezza. C’è un’immagine che spesso mi torna in mente, la foto di una manifestazione nazista dove in mezzo a una folla di gente con il braccio alzato ce n’è uno solo che tiene le braccia strette al petto. Tutti noi oggi vorremmo essere stati quell’uno, ma chi può garantircelo?
D. Prima di Malapace hai pubblicato Edipo a Berlino (Divergenze, 2019) in cui il protagonista durante la notte dei cristalli nel 1938 a Berlino, uccide brutalmente un ebreo salvo scoprire poi di essere lui stesso di origine ebraica. Ce ne parli un po’? Perché questo titolo quando nel romanzo non c’è traccia del ‘complesso di Edipo’ freudiano che tutti conoscono?
R. Per fare una battuta, si potrebbe dire che la colpa è di Freud… la cui teoria sul complesso edipico è diventata assai più celebre della tragedia greca cui quel complesso si è ispirato. Nella tragedia di Sofocle, Edipo uccide suo padre e sposa sua madre perché non sa chi sia l’uno e chi sia l’altra; l’intera opera verte sul tema dell’inconsapevolezza umana, che può rivelarsi la peggiore delle maledizioni. Basta infatti che cambi la prospettiva, e le stesse azioni che avevano reso Edipo un uomo rispettato e addirittura un sovrano, lo trasformano in un paria, un reietto, agli occhi propri prima che degli altri. Questo è un po’ il nocciolo sia del mio primo romanzo, Edipo a Berlino, sia di Malapace; l’idea che le stesse azioni considerate giuste agli occhi di chi le ha commesse, possano per un gioco del destino venir percepite come sbagliate e riprovevoli. Edipo a Berlino non narra solo il trauma di scoprire un’identità diversa da quella che si era creduta la propria (grazie al sistema nazista di identificazione, furono in molti a ritrovarsi ebrei senza essersi mai considerati tali), ma anche il progressivo staccarsi da un sistema di norme e valori che gradualmente assumono un aspetto diverso, e addirittura opposto a quello che all’inizio gli era stato attribuito. Un dilemma simile lo vive François, che si ritrova a venir condannato come collaborazionista dei nazisti pur avendo sempre avversato quel tipo di ideologia.
D. Infine, hai una formazione filosofica e storica, sei una docente di sociologia perché hai deciso di scrivere romanzi?
R. Da sempre mi appassiona leggere saggi di storia o di filosofia e sociologia, e ne ho anche scritti, a partire da studi e ricerche; quando invece leggo o scrivo di narrativa, a incuriosirmi è un punto di vista più individualizzato, più interno alle persone che quelle storie e quelle società le hanno vissute. Un punto di vista più microscopico, forse, e anche più libero nell’analizzare le tante sfaccettature dell’esperienza umana.
I cevapčići sono delle polpette di carne tipiche della cucina balcanica caratterizzate da un sapore speziato e deciso, ideali anche per una grigliata!
Così recita uno dei più importanti siti di cucina quando parla del famoso piatto a base di carne tipico della penisola balcanica che è l’ambientazione sullo sfondo delle Straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei cevapčići, primo romanzo dello storico Eric Gobetti. Con il suo libro (edito da Miraggi) Gobetti ritorna nel territorio Jugoslavo, da sempre suo terreno d’elezione per la produzione saggistica (che gli ha causato anche strumentalizzazioni politiche), usando l’ espediente culinario.
I palinsesti televisivi sono ormai invasi dai programmi di cucina, e il protagonista del libro, il Professor Toti, borsista dell’Università di Camerino in “storia dell’alimentazione” viene incaricato da uno di questi programmi di realizzare uno speciale proprio sulla penisola balcanica. Comincia così, in modo quasi inaspettato, un road book che da Bari porta il nostro eroe a risalire tutta la costa Balcanica attraversando mille peripezie e dovendo fronteggiare continui cambi di programma sulla tabella di marcia per assecondare l’instabilità morfologica del territorio e le insidie logistiche proprie dei diversi luoghi che si dipanano dal Montenegro fino a Sarajevo.
La cucina, il cibo, le ricette sono un linguaggio che permette di svelare agli occhi del lettore le mille peculiarità storiche e sociali del territorio martoriato dalla guerra civile degli anni ’90. A quella guerra, chi è sopravvissuto, sovrappone pensieri, idee, rimpianti e antichi dolori. Uno su tutti è quello che vede il protagonista somigliare incredibilmente al Maresciallo Tito, non a caso in copertina troviamo un’immagine del maresciallo con tanto di cappello da Chef.
Il viaggio del professor Toti, si ammanta anche di mistero dal momento che un suo mentore lo incarica di svelare una volta per tutte la leggenda legata al più antico ricettario di cui la letteratura abbia memoria, risalente addirittura ai tempi della scoperta dell’America. Il suo autore, infatti, Solomon Amerovic, sarebbe uno dei componenti della storica spedizione poi riparato nei Balcani.
Come se non bastasse, nel libro di Gobetti, condensato nelle sue novanta pagine, troviamo anche una storia d’amore che lega il sessantenne protagonista a una donna di Sarajevo che durante la fase più acuta del conflitto in Jugoslavia era venuta in Italia a studiare. Alma, infatti, è presente quasi dalla prima pagina nella mente del protagonista che punta a Sarajevo prima di tutto per provare a riallacciare i rapporti con la donna di cui si era innamorato, e mai dichiarato, ai tempi dell’università negli anni ’90.
La scrittura di Gobetti trova i suoi momenti migliori negli spassosi dialoghi tra il protagonista e la vasta fauna di personaggi per lo più improbabili che si incontrano lungo la strada. Il ritorno a Sarajevo, tramite il grimaldello della tradizione culinaria, ci svela una società multiculturale, attraversata da vettori storici e religiosi che affondano le loro radici in secoli lontanissimi. Il sincretismo con l’impero Ottomano contrapposto alle forze centrifughe del centro Europa creano una società in continuo movimento. Non si può tentare di fotografare la penisola Balcanica senza rischiare di averne un’immagine mossa.
Gobetti, da profondo conoscitore della storia dei nostri vicini di casa, riesce tramite una storia piccola a restituirci un quadro molto preciso di cos’è l’Ex Jugoslavia di oggi. Ed è questo che fa la letteratura, entra nella storia con la esse maiuscola grazie a piccoli personaggi, fondamentali a comporre il quadro generale. Degna di nota è anche l’appendice finale con un piccolo ma nutrito ricettario di molte delle pietanze nominate nelle pagine del libro.
Lo storico italiano Eric Gobetti si è cimentato l’anno scorso con la narrativa scrivendo il gustoso libretto Le straordinarie avventure del professor Toti nel mondo dei ćevapčići per le edizioni Miraggi. Il professor Toti, un sessantenne ancora aitante, compie un viaggio da Bari nelle terre della ex Jugoslavia per interessamento del programma tv «Il mondo in cucina». Dovrà scovare e parlare di alcune ricette tipiche del Paese una volta unito e ora suddiviso in sette parti. Il prof Toti, un esperto di cucina e cibo, compie il suo faticoso viaggio dal Montenegro, dove approda, fino a Sarajevo, città in cui spera pure di trovare un celebre ricettario. Là lo attende anche l’ex fiamma Alma, una profuga bosniaca che aveva conosciuto molti anni prima in Italia.
Allineati tutti gli ingredienti sul piatto, Gobetti ci presenta sia il cibo sia (velocemente) la storia recente della Jugoslavia. Il fatto curioso è che Toti assomiglia al maresciallo defunto e ciò provoca situazioni spassose ma anche incresciose. Passando da una mangiata all’altra, tutte condite da numerosi bicchieri di rakija, la forte grappa jugoslava, Toti saltabecca da una vecchina montenegrina che lo prende per un combattente della Seconda guerra mondiale agli ostili tifosi di una squadra di calcio di Mostar, fino a incontrare l’agognata Alma. Le elucubrazioni del professore sulla libertà lasciano adito a qualche perplessità, ma il suo talento per il quieto vivere e per la materialità delle cose permettono di completare il viaggio (senza ritorno) a mo’ di nostalgico rientro in una realtà che non c’è più e che al massimo può essere rintracciata nel bel mezzo di una scorpacciata di burek o baklava. In ogni caso, le ricette elencate sono interessanti e gustose e con una Kokta e un burek di carne nei dintorni il libro si digerisce bene.
In corsa sull’autostrada, una telefonata dopo l’altra, per darsi un’ultima chance
“Mi faccia capire, sta fuggendo da qualcosa?”, chiede all’improvviso una delle tante voci senza volto presenti in questo libro e, quasi, verrebbe da dire che sta tutto qui, il senso di Non commettere infinito (Miraggi Edizioni), quarto romanzo di Nicola Neri. “Dalla realtà” è la risposta che arriva dall’altro capo del telefono. A rispondere è un uomo che guida come un forsennato nella notte ma sarebbe troppo semplice, finanche riduttivo, liquidare questa storia con l’aneddoto che sta alla base di ogni seduta psicoanalitica. Certo, fuggiamo tutti da qualcosa ma la fuga di Morelli – questo il nome del protagonista – descritta da Neri che, di professione, fa (anche) lo psicologo, è ovviamente un escamotage per celare intrecci e ossessioni. La storia è pressappoco questa: Morelli è un uomo di trentacinque anni e, nonostante amici, colleghi, donne, si sente infinitamente solo. “Sai dove conducono le bugie. Le bugie conducono a incidenti”, si dice a un certo punto. Guida su un’autostrada che sembra infinita e, nel tragitto, fa e riceve una telefonata dopo l’altra. Nelle conversazioni si perde e si ritrova, si confessa, si lascia andare a un flusso ininterrotto di pensieri. Vorrebbe solo schiantar-si, andare a fondo, “al centro della corrente che sembra sul punto di esplodere” ma, prima di farlo, vuole una chance, l’ultima, perché – parole sue – “poi non ce ne sono altre”.
Se la struttura della telefonata-ossessione ha tanti esempi celebri (uno su tutti il Cocteau de La voce umana), l’ambientazione, forse perché lo abbiamo da poco visto al cinema, sembra uscita da Una notte a New York, l’ultimo di Sean Penn e Dakota Johnson, girato interamente in un taxi notturno. “Ho passato tutto il pomeriggio sdraiato a letto. E perché? Il tempo. Ero sdraiato e davanti a me c’era un vecchio orologio a muro, con i secondi. O almeno, io pensavo che fossero secondi”, fa dire Neri al suo io narrante e, senza voler scomodare Proust (che, a proposito, all’improvviso appare in un personaggio, “la proustiana con la madre lontana”) e il suo concetto di tempo cronologico e lineare versus tempo interiore e oggettivo, leggendo Non commettere infinito e analizzandolo in un rapporto spazio-tempo, viene in mente il gioioso caos mentale di Zeno Cosini, soprattutto laddove il protagonista sembra rielaborare il suo passato relazionandolo alla guida tormentata della sua autovettura. Così il Morelli che, come dicevamo, crede di scappare dalla realtà, diventa una metafora del tempo che passa e noi lettori, in fondo, non possiamo fare altro che arrenderci e seguirlo nella sua spericolata avventura alla ricerca di se stesso.
Nicola Neri (classe 1992) ha una scrittura già affilata e chiara e in questo suo romanzo, a proposito di linguaggio, ha deciso di usare una lingua puramente visionaria e cinematografica, evidentemente l’unica possibile a rendere questa lunga seduta psicoanalitica “on the road” lucida e spigolosa. “Le emozioni. Da quando ricordo, io le vivo come… fossero entità esterne. Forze esterne che mi afferra-no”, dice il protagonista, a dimostrazione che il tema cardine del libro è semplicemente l’incomunicabilità con noi stessi e, ovvia conseguenza, con tutto ciò che definisce i nostri confini e che consideriamo il mondo esterno.
Il mondo ha bisogno di colori. E il musicista-pittore Andy e l’artista-scrittore Lory Muratti hanno scelto un modo assai insolito per restituirglieli: L’ora delle distanze, astronave psycho-fantasy basata su un romanzo scritto da Muratti e illustrato con i quadri di Andy (pubblicato dalla casa editrice torinese Miraggi) e su due canzoni (L’ora delle distanze e La caduta), che stasera alle 21 atterra sotto forma di reading musicale a San Salvario, sulla libreria Luna’s Torta.
Articolato nei contenuti e nel mix tra linguaggi, il progetto ha richiesto anche una lunga genesi, a partire «da un giorno del 2009 in cui Lory venne a trovarmi nel mio capannone, racconta Andy. «Eravamo bloccati dalla neve. allora tirai fuori il vecchio soggetto per un corto che era rimasto in un cassetto. Lory ha ampliato l’idea, ispirandosi e dando senso alle mie opere».
Nel romanzo va in scena una sorta di battaglia esistenziale per la salvezza di un pianeta che non sa più sognare. «Di giorno il protagonista, che è una versione di Andy, distribuisce chiazze di colore a un mondo spento, privo di slancio, corrotto», dice Muratti. «Di notte rientra nella sua casa-laboratorio e viaggia nelle “distanze”, un non-luogo in cui incontrai personaggi delle sue opere.
Il colore entra nel corpo dell’eroe attraverso un rito che mescola suggestioni ospedaliere, cyberpunk e da assunzione di stupefacenti. con tubicini che collegano l’uomo a un dipinto e a un sintetizzato re. «L’obiettivo però non è alterarne lo stato di coscienza, ma aiutarlo a una presa di coscienza», precisa Muratti. «Farlo rientrare in contatto con se stesso attraverso una sostanza innocua come il colo-re». «In particolare il fluo, che da sempre è al centro del miei lavori», aggiunge Andy, «L’immagine è senza dubbio forte, con la durezza della flebo e dell’ago in vena, e il video di La caduta che mette in scena il rito è stato bloccato da YouTube. Abbiamo dovuto spiegare il significato dell’opera per sbloccarlo. Un altro segnale dell’ipocrisia in cui viviamo: va bene caricare filmati in cui si picchiano animali, ma non mostrare un colore che entra nel corpo. Per me L’ora delle distanze è un’opera sulla risorsa dell’introspezione. Può aiutare le persone a guardarsi dentro e ritrovare quella moltitudine di colori che oggi rimangono appiattiti».
Sono sbiaditi anche nella musica? In quel Festival di Sanremo che Andy ha conosciuto di persona (nel 2001 e nel 2016 con i Bluvertigo) e che è di nuovo alle porte, per esempio se ne trova ancora traccia? «lo vedo molte chiazze interessanti», risponde il musicista. «Cristicchi, Brunori. Willie Peyote. Giorgia, soprattutto Lucio Corsi per cui farò i tifo. Avrò anche un evento in città. Sanremo è la vetrina più importante ed è riuscita ad abbassare il suo target anagrafico, anche se ci propina i singoli che dovremo sorbirci tutto l’anno. Ma fa parte del gioco e chissenefrega se i Bluvertigo sono arrivati sempre ultimi. Il problema vero della musica è nel suo disfacimento quando ci si focalizza solo sui soldi e il discografico diventa un commercialista. Noi abbiamo avuto la fortuna di emergere in un’epoca in cui si faceva ancora scouting, venivi scoperto nei club, ti davano il tempo di registrare dischi. Oggi tutto è uniforme, la velocità di consumo è allucinante e gli algorit. mi chiudono la proposta in un enorme supermercato. Un’epoca di contraddizioni, perché offre anche un potenziale tecnologico meraviglioso, che ti permette di registrare un album a casa e farlo ascoltare autonomamente in Giappone.
Iper-autonomo e dal respiro indipendente è anche il progetto L’ora delle distanze, che 15 anni dopo la prima scintilla tra la neve della Brianza continua a crescere e mutare forma. «In questo mini-tour proponiamo un reading con sottofondi musicali». dice Murati. «Un’anteprima dello spettacolo teatrale che stiamo preparando per la primavera».
“Per passare meglio la notte, per non avere più paura del buio”. Immaginate di trovarvi in un’ambiente dominato da un grigiore opprimente, in cui le emozioni sono annichilite da un sentimento di rassegnazione angoscioso e angosciante: un luogo non così dissimile da molteplici realtà urbane in cui siamo calati. In questa dimensione, che un tempo sarebbe stata etichettata come distopica, si muove Fluon, uomo tra gli uomini e protagonista di L’ora delle distanze, il nuovo romanzo breve di Lory Muratti illustrato da Andy dei Bluvertigo e uscito a settembre 2024 tramite Miraggi Edizioni assieme a un 45 giri strettamente connesso alla storia raccontata.
Una dimensione distopica in realtà esiste e si rivela nel momento in cui il protagonista rientra a casa la sera ed assume un’identità completamente diversa, variopinta e glamour, proiettandosi proprio nelle Distanze, un luogo che ricorda da vicino il Paese delle Meraviglie in cui si muoveva l’Alice di Lewis Carroll, quanto a bizzarrie di luoghi e personaggi.
Maestro del colore a sua insaputa e creatore delle Distanze, Fluon si trova catapultato ogni notte in questo non luogo dalle tinte accese per ritrovare se stesso e un’umanità perduta che si fa carne in ogni pagina grazie alle illustrazioni vivide di Andy. Il protagonista esplora questo mondo nascosto, imparando a riconnettersi con i frutti della sua mente e con le sue emozioni, a tratti traumaticamente rimosse: saranno i personaggi che incontra lungo intricati corridoi e oltrepassando porte e stanze a guidarlo, e a dargli lezioni di vita da conservare, una volta tornato alla realtà.
In alcuni capitoli incontriamo personalità geniali, come il Killer del Phon, che ci permettono di trovare gli antidoti a una realtà tristemente spenta, sia tramite dialoghi accesi sia tramite passaggi necessariamente dolorosi come nell’Interludio Fucsia, capitolo particolarmente commovente in cui per la prima volta affiora il vissuto di Fluon.
Muratti adotta una prosa variegata e piacevole, mai scontata. Sa raccontare in modo leggero rimanendo denso, tanto che L’ora delle distanze si finisce in un giorno e vien voglia di rileggerlo per trovare al suo interno ulteriori significati. Gradevolissima la scelta editoriale della pagina su due colonne corredate dalle tavole di Andy, come tocco esteticamente accattivante e come invito a spogliarsi delle maschere di cinismo che ci circondano per riscoprirsi vivi.
Andando invece ad ascoltare l’EP che accompagna il romanzo, pubblicato da Riff Records anche in vinile colorato, il primo singolo estratto riprende il titolo del libro e ne descrive il contesto diurno, avvisandoci che verrà presa una nuova consapevolezza ed una nuova direzione. La notte sarà il momento in cui poter ancora sognare e piantare i semi di una ribellione possibile dal punto di vista umano. In La caduta invece i toni sono particolari, finanche pop nel ritornello, capace di imprimersi in testa sin dal primo ascolto. Il sax di Andy crea un’atmosfera noir estremamente piacevole accompagnandoci dentro la controrealtà delle Distanze, con un gusto per gli anni Ottanta riscontrabile anche dall’uso sapiente dei synth.
Lory Muratti, oltre che scrittore e musicista, è anche un visual artist e un attore: chi ha partecipato ai suoi monologhi – concerto sa che ci si può aspettare di essere attratti da tutte le sue declinazioni artistiche. Da qualche giorno, lui ed Andy stanno portando in giro il talk & sounds incentrato sul romanzo: per chi si accosta per la prima volta all’autore sarà una scoperta, per chi conosce già il suo modo di stare sul palco invece sarà un’ottima conferma.
Due romanzi pubblicati di recente – Un sogno cosi di Paolo Colombo (Feltrinelli) e Il cimitero delle macchine di Sergio La Chiusa (Miraggi, pagg. 392, € 26) – forniscono l’occasione per comprendere fino a che punto la città di Milano continui a trovarsi al centro del dibattito sulla modernità nella sue forme utopiche e distopiche. Sara certo un caso, ma in entrambi la vicenda narrata comincia dal Giambellino, un quartiere già raccontato dalla penna trasognata e dialettale di Giovanni Testori e dove negli anni 50 sarebbe stato facile incontrare il Cerutti Gino, l’inconsapevole eroe della canzone di Gaber, un po’ ganzo e un po’ tonto, sicuramente dentro il clima di un’epoca che faceva delle periferie il luogo di maggiore impatto antropologico.
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Ogni medaglia però ha sempre due facce e qualcosa ci dice che anche il romanzo di Sergio La Chiusa contiene una profonda verità, tanto più necessaria se si considera che con il suo libro siamo arrivati ai titoli di coda del Novecento e quelle stesse macchine, intorno alle quali era stata costruita la nuova, indistruttibile civiltà, adesso sono finite nel grande cimitero del postmoderno, corrose dalla ruggine, simili a oggetti di un sogno infranto perché maldestro. È questa l’impressione che si ricava seguendo l’itinerario allucinato di un personaggio che si fa chiamare Ulisse (mai nome poteva calzare meglio) strizzando l’occhio a quell’altro Ulisse che aveva inaugurato il precedente secolo percorrendo le strade di Dublino), sicché balza subito evidente che la corrosività con cui l’autore affronta la stagione del disincanto, diciamo anche l’approccio apocalittico della sua prosa labirintica e canzonatoria provoca un segnale di sfiducia nei confronti di quel modo d’essere occidentali senza regole e senza morale, il capitalismo darwiniano (e non quello vegetale, come invece scriverebbe Luigino Bruni), dove le società sono rimaste intrappolate da ciò che appariva sogno e invece si è poi tradotto in incubo. Siamo già nel post-occidente. Seguire le orme di questo
Ulisse nella città che si fregiava d’essere capitale del Paese, frenetica e produttiva ma pur sempre capitale morale, equivale a compiere una specie di via Crucis nella disperazione degli ultimi, degli invisibili, dei rimossi, quelli che sperimentano il risveglio senza futuro all’alba del day after, quando Milano ha perduto l’immagine scintillante della moda e, guardandosi allo specchio, si e scoperta somigliante a un immenso cantiere, dove però non si costruisce più niente. A un certo punto del suo vagare questo Ulisse si imbatte nella statua malridotta di un angelo e si chiede che senso ha il suo apparire in un angolo remoto del Cimitero Monumentale, tra le tombe delle grandi famiglie imprenditoriali, i Falck, i Pirelli, i Campari, quelle del boom. E si chiede: «L’angelo della storia, non più in volo, ma esautorato, chiuso in un ripostiglio e decollato, così che non registri nemmeno le rovine che produce e s’accumulano al suo passaggio?» Chissà quale commento avrebbe fatto Walter Benjamin sentendosi tirato in causa.
Con il nome che si ritrova, Ulisse Corsini non può che essere il degno erede di quella tradizione modernista che comprende il Leopold Bloom dello Ulysses joyciano e lo Zeno Cosini della Coscienza di Zeno di Italo Svevo. Nel Cimitero delle macchine di Sergio La Chiusa, tuttavia, si sente anche il peso del secolo che ormai ci separa da questi testi canonici del primo Novecento europeo, cui bisogna perlomeno aggiungere il riferimento kafkiano contenuto nel nome di un altro personaggio, il dottor Klammermann (dal Klamm del Castello). Nel frattempo sono intervenuti, tra gli altri, Buzzati e soprattutto Bianciardi – per la Vita agra, rispetto all’ambientazione milanese del romanzo, dove Milano non è “capitale morale” del Paese, bensì il luogo fantasmagorico e al tempo stesso crudo del titolo: un “cimitero delle macchine” –, come ha notato, tra gli altri Gianni Barone, parlando di un testo che, effettivamente, «gronda letterarietà da ogni pagina».
Questo non significa, d’altra parte, che la scrittura di Sergio La Chiusa manifesti strette affiliazioni epigoniche ai suoi modelli, risultando invece libera dagli stilemi più marcati del modernismo e risolvendosi, anzi, in una pagina che è spesso molto nitida, per quanto costantemente attraversata da potenti tensioni linguistiche. Si tratta, infatti, di una scrittura che tende verso l’orizzonte del nuovo Grande Romanzo Italiano, ma all’interno di una torsione della lingua che rifugge le banalità formali di molta altra prosa, per così dire, “mainstream”, per assestarsi in una zona superficialmente pacificata e in realtà foriera di continue deviazioni, trasgressioni, illuminazioni. Si sta dicendo, in altre parole, di un disegno e di un controllo autoriale già visibile nelle ultime pubblicazioni di La Chiusa – I Pellicani (Miraggi, 2020) e Madre nel cassetto (Industria & Letteratura, 2023) – e che di certo attiene a un progetto autoriale di lunga data, visto che l’ideazione dell’opera viene ricondotta, nelle note finali, al biennio 2003/2005.
Rispetto al precedente libro per Miraggi, Giorgio Mascitelli ha poi osservato, nella sua recensione apparsa su “Nazione Indiana”, che «se ne I Pellicani ci troviamo in una generica periferia urbana, in questo romanzo l’azione si svolge a Milano, che nell’immaginario mediatico nazionale è la città patinata e nuova di zecca per eccellenza». Anche di Milano, in realtà, sono esplorate zone periferiche e marginali – quasi mai rintracciabili con certezza a livello topografico, o sociologico, nella realtà della città lombarda – che finiscono per intaccare la patinatura di capitale “morale”, “degli affari” o “della moda”.
Una di queste è il cimitero delle macchine che dà il titolo al libro e che compare con espressionistica forza in apertura della seconda parte del romanzo come una corte dei miracoli anarcoide e incendiaria nella quale spicca il personaggio di Lazzaro Lanza – figura borderline (e dunque delirante e al tempo stesso umanissima, per nulla caricaturale) del militante rivoluzionario. È sul medesimo livello che resta una possibile interpretazione della politica rappresentata e agita nel testo, con implicazioni più vicine a una sorta di pessimismo umanista che a un vero e proprio nichilismo. Le traiettorie di Ulisse e Lazzaro si sovrappongono per buona parte della seconda sezione, con almeno una scena che si imprime vividamente nell’immaginazione, almeno nella nostra lettura, ovvero con la riproposizione milanese di un novello Cristo a dorso d’asino che replica l’Entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889 di James Ensor.
Capolavoro pre-espressionista, quest’ultimo, la cui presenza para-ecfrastica rinforza le torsioni espressionistiche del linguaggio che si agitano sotto la superficie della pagina, assai ripulita, di La Chiusa. Non è questa, tuttavia, la sola immagine che si può consegnare, in chiusura, del libro: di Ulisse Corsini restano memorabili le disavventure condominiali, sessuali e sanitarie, a completare la figura di un personaggio che a un certo punto, in un passaggio carico non solo di letterarietà ma anche di metaletteratura, viene definito “posticcio e inattendibile”, ma che mostra, proprio per questo, mille sfaccettature (spesso molto materiali, e anche triviali). Ulisse Corsini è senza dubbio un “fuggiasco assoluto”, come ha giustamente osservato Mascitelli, ma sempre umano, umanissimo, al punto da contagiare chi legge con l’insopprimibile desolazione che è tanto sua quanto del cimitero delle macchine che, oggi, si nasconde in ogni nostra città.
Il brano – il cui video è girato al celebre Plastic di Milano – è tratto da ‘L’ora delle distanze’ il libro e disco che vede la collaborazione tra i due artisti.
Un salto temporale. Seguito da un tuffo vertiginoso in un mondo elettrico e caleidoscopico. Sono le sensazioni che restituisce La caduta, il nuovo singolo che, a dirla tutta, nuovo non è ma inedito sì, di Lory Muratti e Andy dei Bluvertigo, mentre ci catapulta in un universo sospeso nel tempo e nello spazio. Un progetto visivo, nato due decenni fa e che ancora oggi pulsa con immutata potenza, viene ora arricchito da una nuova tappa con il videoclip “lungo vent’anni” dopo che era stato messo in letargo per così tanto tempo. Non per consunzione, ma perché è come se aspettasse il momento giusto per risorgere.
A dare il via al revival visionario L’ora delle distanze, il libro pubblicato dal duo lo scorso settembre (Miraggi Edizioni), che ha riportato in superficie quelle canzoni e quelle immagini che sembravano evaporate. Non era così. È bastato che tornassero a guardarsi dentro: «E lì, nelle nostre profondità – raccontano i due artisti – che si annidano le forze e la voglia di continuare controcorrente. Farlo tendendo una mano a chi ci è accanto, ascoltando e condividendo il percorso, è più facile e ha un senso ancora più profondo». Infatti il romanzo era una sorta di porta d’ingresso per una “contro-realtà” affollata di personaggi post-punk, glamour e rock’n’roll, anime ribelli e colorate che si muovono come ombre danzanti tra le opere fluo create dallo stesso Andy. In perfetto stile Muratti & Bluvertigo, L’ora delle distanze è anche un vinile 45 giri (Riff Records/the house of love), per chi vive di musica ancora in parte tattile e dalle distorsioni vintage, e poter «immaginare un presente dove i sogni e il colore resistono contro una realtà sempre più corrotta e in bianco e nero».
Per celebrare il ritorno, Muratti e Andy hanno scelto un luogo simbolo della notte milanese come il Plastic, in occasione della one-night Popstarz Memorabilia. Qui, in uno spazio-tempo che si avvolge su se stesso, vecchie e nuove immagini si mescolano, creando una realtà alternativa, e dialogano con i riverberi delle immagini di loro stessi nel passato, in un affascinante gioco di specchi. Nel videoclip li accompagnano la performer Xena Zupanic e il Principe Maurice, figure tanto enigmatiche quanto potenti. Presenze che, come spettri dall’aria nostalgica e abbacinante, popolano anche le pagine del libro. Il risultato? Una festa per gli occhi e la mente. Da usare con cautela, però, il rischio è di non riuscire più a tornare nella realtà. Non a caso, già il romanzo ci metteva in guardia: «Le voci arrivano sempre più chiare. Non sono più solo e proseguo verso nuovi incontri e nuove speranze che tengono impegnate la testa e le mani con le quali mi diverto a disegnare per aria. Adesso che ricordo di saperlo fare, non ho più alcuna intenzione di smettere. Ci sono notti in cui gli oggetti cadono e questa è decisamente una di quelle».
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